mercoledì 16 marzo 2016

Gli illusionisti teorici dell'economia nazionale

corazzata

La logica dell'impossibile
- Perché la trasformazione in economia di mercato non può funzionare -
di Robert Kurz

Le previsioni sbagliate, le false speranze e le assurde concezioni di controllo non si riferiscono solo all'economia di riunificazione tedesca, e neppure soltanto al cosiddetto problema della trasformazione delle ex società della pianificazione economica. Emergono "molto bene" (in questo caso, "molto male") nei dibattiti intorno ai problemi della crisi dello sviluppo de del debito del Terzo Mondo, e ultimamente perfino nelle aspettative e nelle riflessioni circa il futuro del capitalismo occidentale stesso. La tanto citata rottura di un'epoca viene sottostimata per quel che riguarda la sua portata reale. Se si prende come riferimento soltanto l'ordine bipolare del dopoguerra, allora, a prima vista, gli eventi appaiono superficialmente come una vittoria dell'economia di mercato e della democrazia dell'Occidente. Tuttavia, dovrebbe dar da pensare il fatto che il socialismo statale si sia puntualmente dissolto durante il giubileo dei duecento anni della Rivoluzione francese (1789-1989). La portata della rottura epocale forse è assai più grande di quanto appaia, ed investe globalmente quella "storia della modernizzazione" che include lo stesso Occidente.
Come tutto indica, il problema consiste nel fatto che sia la sinistra che la destra, tanto i marxisti quanto gli ideologhi del mercato (ed ovviamente, i keynesiani ed i monetaristi), pensano nell'ambito comune di un medesimo sistema categoriale di riferimento, e tutte le loro controversie rappresentano soltanto dei conflitti interni al sistema produttore di merci della modernità. "Valore" economico e merce, denaro e mercato, salario, prezzo e profitto costituiscono le categorie di base di tale sistema, così come caratterizzano ugualmente le economie burocratiche di pianificazione e le economie capitaliste di mercato in Occidente. In quest'ambito referenziale comune dell'economizzazione e della capitalizzazione astratta del mondo, le differenti ideologie concorrenti disputano circa la strada giusta da prendere. Un conflitto che diventa senza senso nel momento in cui lo stesso sistema di riferimento entra in crisi. Fino a che punto è possibile parlare di questo?
In riferimento alla forma sociale, la modernizzazione significherebbe semplicemente che il denaro retroagisce, per così dire, tautologicamente, rispetto a sé stesso (plusvalore, produzione astratta di profitto) e che tutte le azioni socio-economiche si relazionano direttamente o indirettamente con tale denaro (= capitale) convertito in sistema quasi autonomo. Da questo ne consegue la logica dell'economia imprenditoriale, cioè, l'utilizzo astratto degli uomini e della natura nei termini dell'imposizione della produzione del profitto monetario. Poco importa sotto quale involucro politico, sotto quale situazione di sviluppo, con quale rivestimento culturale e con quali strutture ideologiche di legittimazione: attualmente il mondo intero si trova ad essere riempito da tali unità o elementi microeconomici di utilizzo. Ma perché si possa realizzare il processo di utilizzo economico, i suoi due componenti devono essere relazionati fra loro: in primo luogo, la forza lavoro umana, e, in secondo luogo, i mezzi fissi (edifici, macchinari, strumenti, ecc.). Marx definiva la relazione fra questi componenti come "composizione organica del capitale". In questa composizione, o nel suo sviluppo storico, risiede il limite e la crisi di tale modo di produzione moderno - cioè, esso pone i suoi stessi limiti mediante il suo processo immanente di sviluppo.

Nella prima metà del 19° secolo la produzione era ancora centrata in maniera prioritaria sul "plusvalore assoluto", cioè, la produzione astratta di profitto in termini economici si basava principalmente sul basso costo della manodopera (salari di fame, al limite o al di sotto del minimo necessario alla sopravvivenza) e sulle giornate di lavoro estremamente lunghe. Tuttavia, a partire dalla metà del 19° secolo il processo di concorrenza capitalista modificò queste relazioni. Per prima cosa, i rappresentanti di una delle componenti vive del capitale, i salariati, entrarono in competizione sul mercato del lavoro con i rappresentanti dell'altra componente, ossia dei mezzi, che era costituita dai proprietari o amministratori del capitale; ne conseguirono aumenti salariali e diminuzione del tempo di lavoro. In secondo luogo, i rappresentanti del capitale fisso entrarono fra di loro in una competizione che si intensificò proprio con l'ampliamento del modo di produzione economica. Il risultato fu una "razionalizzazione" dell'impiego dei mezzi attraverso l'aumento della meccanizzazione e lo sdoppiamento del processo produttivo.
La doppia competizione da parte dei salariati e delle altre unità economiche si stimolarono reciprocamente, creando necessariamente un continuo aumento della produttività. Dal momento che i costi della manodopera subivano il sapore della situazione e si vedevano imposti dei limiti all'ampliamento della giornata lavorativa, il plusvalore assoluto, come priorità nella produzione astratta di profitto, veniva sostituito dal cosiddetto plusvalore relativo. Questo significa che nell'ambito di una giornata lavorativa limitata, da qui in avanti era soprattutto la parte "relativa" del profitto economico nella produzione globale di "valore" astratta che bisognava aumentare a decorrere dal fatto che con una maggiore produttività si sarebbe prodotta una massa maggiore di beni nel medesimo lasso di tempo, garantendosi così un maggior volume di vendite, una maggior quota di mercato e maggior profitto. Ma per un tale processo c'era necessariamente un rovescio della medaglia: insieme alla crescente produttività ed al crescente plusvalore relativo, cresceva inesorabilmente anche la relativa parte di capitale fisso nella composizione organica del capitale.
In generale, non c'è disaccordo riguardo a questo tema, almeno quando si considera il processo storico globale. Nella scienza economica, si parla di "intensità crescente del capitale", concetto che non coincide direttamente con  la concezione marxista, sebbene rifletta la stessa situazione del problema che Marx definiva "crescente composizione organica del capitale", cioè, l'aumento della parte relativa di capitale fisso rispetto alla forza lavoro umana. Marx vedeva in questo processo la barriera interna e, per molto tempo ancora, insuperabile del modo di produzione moderno dell'economia di impresa conformemente alla massimizzazione del profitto. Dacché quando il "valore" economico, che si "presenta" sotto la forma del denaro, non è né un fatto naturale né una mera "cosa", bensì una forma di relazionamento sociale ("feticista", nella terminologia di Marx), allora è solo attraverso il dispendio di forza lavoro umana che si crea "valore", mentre l'aggregato di capitale fisso si limita solo a "trasferire valore". In ultima analisi, il capitale, per così dire, si soffoca da sé solo: in termini assoluti, sempre più prodotti rappresentano sempre meno "valore". O, detto altrimenti: per ottenere lo stesso profitto bisogna mobilitare un aggregato di mezzi sempre più voluminoso, fino a che questa relazione sbagliata diventa troppo grande, soffocando con il peso del suo stesso apparato di mezzi la produzione di profitto per mezzo dell'economia, produzione in ultima analisi orientata  verso sé stessa ed irrazionale. Il capitale altamente produttivo libera selvaggiamente una massa immensa di prodotti, in gran parte assurdi, con i quali ricopre il pianeta, ma in fin dei conti questa danza infernale non basta a produrre una massa di profitto ("plusvalore") soddisfacente. Il modo di produzione basato sul "valore", cioè sul denaro diventato sistema, "implode" (Marx).

Com'è noto, difficilmente esiste un'asserzione teorica che sia stata respinta con maggior veemenza di questa, e ciò vale per i conservatori, per i liberali e per la sinistra. E proprio in questo si rivela il loro coinvolgimento comune al sistema di riferimento della modernità, cioè, dell'economizzazione e della capitalizzazione astratta del mondo. I marxisti hanno sempre avuto difficoltà proprio in rapporto alle proposizioni centrali di Marx. La teoria marxista del valore non è stata percepita come teoria di un limite sistemico interno del processo economico imprenditoriale, ma è sempre stata unicamente esposta nei termini di una "politica distributiva", con l'eterno e sorprendente riferimento al "plusvalore" che verrebbe "sottratto" ai lavoratori, anche se non è questo il problema. Nella misura in cui si sono preoccupati soprattutto dei problemi delle società ritardatarie di una "modernizzazione da recuperare" (Unione Sovietica, Terzo Mondo), i marxisti occidentali sono rimasti incapaci di una critica del modo di produzione basato sul "valore", le cui categorie "feticistiche" (salario, prezzo) hanno solo preteso di "allargare" in maniera alternativa. E' per questo che oggi sono particolarmente persi e sono portati ad una comprensione sbagliata del vero limite storico della produzione di profitto economico inteso come la "vittoria finale provvisoria del capitalismo" (Georg Fuelberth).
Difatti, questo limite assoluto oggi si mostra in un'intensità del capitale fisso talmente elevata globalmente che la capacità di riproduzione del sistema nella sua totalità comincia a sgretolarsi. Quest'aumento di solito viene espresso come "costo di un posto di lavoro". In un'economia di prima classe fino ad oggi trionfante sul mercato mondiale, come quella della Repubblica Federale Tedesca, un posto di lavoro costa attualmente circa 300mila marchi. Naturalmente l'ordine di grandezza varia secondo il settore, ma si può prendere questa cifra come valore di riferimento. E' molte volte più grande di quanto era il costo di un posto di lavoro venti o trent'anni fa. E questo significa che un solo lavoratore salariato ha bisogno di mobilitare mezzi di produzione del "valore" di 300mila marchi affinché la sua forza lavoro diventi economicamente redditizia. Ovvero, detto in altri termini: questa quantità massiccia di mezzi, con una simile massa morta di "valore", dev'essere presente come presupposto ancor prima che si permetta al lavoratore salariato di muovere un solo dito. A sua volta, questo significa, per un'unità di sfruttamento economico in qualità di capitale, che diminuisce enormemente la parte relativa ai costi salariali relativamente alla parte dei costi legati ai mezzi. Nell'industria siderurgica della Germania Occidentale questa parte è oggi solo del 30%, ed è ancora meno nei settori più moderni. Tuttavia, dal momento che, d'altra parte, è solo quella componente del capitale i cui costi appaiono come salario a produrre un "valore" nuovo (e di conseguenza anche il profitto), la relazione sbagliata entra nella sua fase decisiva, così come era stata prevista da Marx. Dal punto di vista sociale, questo significa che la forza lavoro si trova ad essere relativamente svalorizzata e che la capacità di riproduzione del sistema collassa. Ossia, in altre parole: la crescita (l'accumulazione del "valore" economico astratto) non è più sufficientemente grande perché la maggioranza degli uomini possa aspirare ad avere un reddito monetario sufficiente alla riproduzione della propria vita. Sebbene tutti i mezzi fisici di produzione esistano in quantità assai più che sufficiente, gli uomini devono impoverire, immiserire e possibilmente morire di fame, dal momento che non si può soddisfare a sufficienza il feticismo del denaro.

In realtà, è evidente che la teoria dell'impoverimento, tanto disprezzata negli ultimi decenni, non è mai stata così attuale. Chiaramente, nell'attuale fase di sviluppo dovrebbe essere fondata in modo diverso, in quanto il processo di impoverimento nel mondo odierno non avviene nel lavoro o per mezzo del lavoro astratto del sistema di produzione di merci, ma proprio al contrario, per il fatto che lo sfruttamento redditizio della forza lavoro umana comincia a sparire, sulla base dell'intensità elevata del capitale fisso. Sia i liberali che la sinistra chiudono gli occhi davanti a questa relazione, attribuendo al capitale una capacità di accumulazione di per sé eterna, indipendentemente dal processo globale di impoverimento (che quindi dev'essere spiegato a partire da fattori esterni). Questa conclusione deriva da un pensiero non relazionale, ossia, dalla lamentevole assenza proprio di quel tanto citato "pensare nei sistemi complessi" (cibernetici) con i suoi molteplici effetti retroattivi ecc..
Il più primitivo di questi equivoci consiste nella buona e vecchia illusione illuminista del "libero arbitrio", secondo cui il cosiddetto sfruttamento dipenderebbe in ultima analisi dall'intenzionalità soggettiva (o quanto meno dai mezzi esteriori del potere o dalla corrispondente coercizione). In questo modo si dimentica che il libero arbitrio dei soggetti-merce non si applica alla forma merce stessa, né quindi alle sue leggi strutturali o al suo sviluppo. Il padronato può trarre profitto dalla forza lavoro solamente nelle condizioni generali del processo storico del capitale stesso. Altrettanto ingenua e popolare, non solo fra gli autonomisti ed i vecchi radicali, è la confusione fra capitale individuale e capitale globale, fra riproduzione nell'ambito microeconomico e nell'ambito della società (ivi incluso il settore statale), fra ambito dell'economia nazionale ed ambito dell'economia mondiale. Ad esempio, la rappresentazione dei grandi profitti della Siemens nel maggio del 1992 non significa che in Germania per il capitale vada tutto bene. Quando i capitali individuali della Germania Occidentale traggono vantaggio dal vendere le loro merci nella Germania Est, grazie alle gigantesche somme lì trasferite dallo Stato tedesco ai fini del consumo, questo non implica l'assenza di un effetto negativo per la produzione globale dell'economia nazionale. E, sebbene il Giappone e la Germania appaiono ancora come economie trionfanti sul mercato mondiale, potrebbe essere già iniziata la fine del modo di produzione capitalista.
Tale percezione può forse essere offuscata dal fatto che per ora il processo di implosione pervade il mercato mondiale come una struttura del tipo vincitore-perdente. Ma, nel momento in cui l'accumulazione del "valore" raggiunge i suoi limiti assoluti come un tutto, ossia, in ambito mondiale, di modo che l'accumulazione dei capitali individuali ormai non si basa più sull'espansione del capitale in generale, ma risulta solo dal successo relativo nella disputa di una massa di valore che declina a livello globale, anche l'apparente successo dei vincitori si appoggia su dei piedi di argilla. In queste condizioni, ad ogni round nello scontro della concorrenza la capacità di accumulazione del capitale mondiale si restringe, fino al punto che lo stesso capitale di quelli che ora sono i vincitori finisce per soffocare proprio a causa del loro successo. La Germania Federale accelera tale "processo in direzione del collasso" proprio attraverso la gloriosa riunificazione con l'economia perdente della Germania Orientale.
La natura del processo in corso viene fraintesa soprattutto perché le economie fallite dell'Est non vengono percepite nel medesimo ambito della logica economica, ma come sistemi alieni esterni, il cui insuccesso non avrebbe niente a che fare con i limiti interni del capitale. Anzi, nell'estate del 1990 l'economista di sinistra Kurt Hübner fantasticava ancora a proposito dell'attesa di una "accumulazione primitiva nelle condizioni economiche degli anni 90" in Germania e nell'Europa dell'Est. Secondo la logica semplicistica di una simile affermazione, laddove apparentemente il capitale non esisteva ancora, ma che d'ora in avanti "può" esistere, si avrebbe una nuova "accumulazione primitiva". Ma, affinché i concetti non perdano il loro senso, l'accumulazione primitiva dovrebbe indicare la separazione dei produttori immediati dai mezzi di produzione, e la trasformazione delle economie agrarie di sussistenza in economie astratte. Processo che era già avvenuto sia nella Repubblica Democratica tedesca che in tutti gli altri paesi dell'Est. Questo, sul piano dei principi della logica economica, si è sempre identificato con l'Occidente. Identità che ora si rivela e si dimostra nella pratica, nella misura in cui il problema della crisi e del collasso non si modifica minimamente neppure con l'abbandono delle forme di regolazione burocratico-statale, rimanendo tale e quale. Il problema non risiede nella questione di come si convertono contadini e artigiani tradizionali in salariati moderni, ma nel suo contrario: nel fatto che i lavoratori salariati non possono più essere utilizzati in maniera redditizia nell'esistente potenziale produttivo.

Ancora una volta si ritorna alla questione dell'intensità del capitale fisso e dei "costi" di un posto di lavoro redditizio. Viste da vicino, sia le società del socialismo di Stato dell'Est che i paesi del Terzo Mondo somigliano parecchio alla produzione di "plusvalore assoluto" dell'economia iniziale del capitalismo. Il quadro è segnato dalle lunghe giornate lavorative e dai bassi salari che contrastano con l'Occidente. D'altra parte, però, questo significa ugualmente che la quota di capitale fisso è assai minore, cioè, che la "composizione organica del capitale" è bassa. Questa è una constatazione immediata èer la maggior parte delle società dell'Est e del Sud.
E' vero che per quanto riguarda la Repubblica Democratica tedesca, il paese più sviluppato del vecchio blocco orientale, i dati sono a prima vista contraddittori. Claus Noe, del Consiglio Statale di Economia di Amburgo, nella primavere del 1991 ha fatto la seguente comparazione con la Germania Occidentale: "La dotazione individuale di capitale dei lavoratori viene stimato nella ex-Repubblica Democratica in 150mila marchi e, nella vecchia Repubblica Federale, in 350mila marchi" (Die Zeit, 19.4.91). Il rapporto corrisponde a quel che ci si può aspettare a partire dall'argomentazione fin qui sviluppata. Un anno prima, la giornalista economica Marietta Kurm constatava una relazione apparentemente contraria: "Un esperto dovrebbe [...] arrivare alla conclusione che i lavoratori nella Repubblica Democratica sono assai meno provvisti di capitale, ossia, macchinari, strumenti di lavoro, installazioni e riserve. Il che rende ancora più sorprendente il risultato delle statistiche. La dotazione media di capitale per occupato nelle imprese produttive della Repubblica Democratica nel 1983 era di 158mila marchi" (Handelsblatt, supplemento del marzo 1990). Ma forse è possibile decifrare l'enigma. In primo luogo, al contrario di Noe, Kurm non include le attrezzature delle infrastrutture, arrivando in questo modo a cifre molto piccole per quel che riguarda la Germania Federale. In secondo luogo, cosa più importante, Kurn viene ingannata dai trucchi dei bilanci del socialismo reale. Si sa che in tutto il blocco orientale le stesse macchine abbandonate, antiquate ed inutili, continuavano ad essere nuovamente registrate nei bilanci delle imprese.

A fronte delle oscillazioni reali e sotto la pressione della concorrenza aperta, lo stock di capitale fittizio si riduce rapidamente. E, con una apertura, forzata in una situazione di piena crisi, al mercato mondiale - e successivamente mediante una comparazione diretta dello stock di capitale, per mezzo di un atto come quello della riunificazione tedesca - il "valore" di questi veri e propri rottami industriali può repentinamente crollare fino a zero ( o addirittura diventare negativo), ossia: a tutti gli effetti, qualsiasi intensità di capitale smetterebbe perfino di esistere. Il limite assoluto per lo sfruttamento economico, pertanto si va a situare nella forma dei costi esorbitanti del capitale (eventualmente, come assenza di redditività del capitale). Per un numero sempre maggiore di imprese, di settori e di economie nazionali nel loro complesso, i costi preliminari di una produzione redditizia non possono più essere gestiti nei termini produttivi esistenti. Lo stesso varrà anche per i conseguenti costi sociali o ecologici.
Diciamo che il costo di un posto di lavoro redditizio sia di 300mila marchi: questo significa che sarebbero necessari investimenti in capitale fisso dell'ordine di circa 300miliardi di marchi per la creazione di un milione di posti di lavoro. Questo porterebbe a 3miliardi di marchi per la Repubblica Democratica tedesca, o 30miliardi di marchi per 100milioni di posti di lavoro per l'Europa Orientale, ed altri 45miliardi di marchi per i 150milioni di posti di lavoro per la Comunità degli Stati Indipendenti (ex Unione Sovietica) e più di 150miliardi di marchi per i 500milioni di posti di lavoro cinesi. Sono abbastanza? E tutto questo considerando gli stock di capitale svalorizzati, antiquati, che valgono assai meno di quanto ci si aspetta, come è stato constatato in Germania Orientale. Nel novembre del 1991, anche i malati di ottimismo dell'Istituto di Monaco, Ifo, sono venuti fuori con uno studio in cui i costi annuali di investimento per la "riforma del sistema produttivo" nella CSI erano stimati in 235miliardi di dollari, e per l'Europa Orientale in più di 100miliardi di dollari. L'anno, chiaramente.
Dopo questa eccezionale passeggiata nella realtà, i cavalieri ritornano al loro rumore: secondo l'opinione del citato istituto, la maggior parte di questa orribile somma dovrebbe essere "finanziabile internamente" (!) nei loro paesi. Purtroppo, questo non sarebbe possibile nemmeno se, nelle economie in disgregazione, alcune centinaia di milioni di persone smettesse di mangiare e di bere per i prossimi dieci anni. E naturalmente sarà quello che accadrà, se le persone lo permetteranno. In fondo, si tratta anche della logica del famoso professore di economia Wolfram Engels, il quale pretende di prescrivere salari dell'Est e prezzi dell'Ovest per i cinque nuovi Stati tedeschi. E, anche se questo dovesse funzionare, cosa accadrebbe? Con barbari sacrifici, in dieci o vent'anni questi paesi si verrebbero a trovare nella situazione in cui si trova oggi la (ex)Germania Occidentale. E, quindi, in future sarebbero altrettanto inadatti alla produzione redditizia ed alla concorrenza di quanto lo sono oggi, poiché in questo frattempo, ovviamente, l'intensificazione del capitale avrà continuato la sua scalata.
Questo problema fondamentale dei costi preliminari esorbitanti del capitale fisso sul piano dello sviluppo storico raggiunto, è fatale per tutte le critiche delle precedenti argomentazioni, così come lo è per tutto le proposte più o meno benintenzionate a domare la crisi di disgregazione in corso all'interno del sistema di produzione di merci. Così, non ci porta lontano l'affermare che anche nazioni industriali di seconda o terza classe continuano a produrre merci per il mercato mondiale e che in nessun modo tutte le merci di tale mercato mondiale devono per forza essere prodotte secondo le tecnologie di ultima generazione. Evidentemente, nel caso della crisi di disgregazione non si tratta di qualcosa di cui è già stato rappresentato l'ultimo atto, bensì di un processo ancora in corso. L'argomentazione parla di una trasformazione di tutto il sistema di riferimento, si riferisce ad una nuova qualità presente nelle tendenze fondamentali. Mostrare come ci siano ancora ampi territori dove si possono constatare empiricamente i vecchi fenomeni, non costituisce un argomento contrario.
Si tratta, ancora una volta, di una documentazione del pensiero non-relazionale, che non si basa sull'insieme dei fenomeni che si contraddicono fra di loro, soppesandoli, secondo il loro potenziale di sviluppo, ma che invece rimane legato in maniera conservatrice al vecchio sistema di riferimento già in dissoluzione, utilizzando come contro-argomenti, in maniera arbitraria, eventi empirici isolati. Fino alla metà del 20° secolo si sarebbe potuto, con lo stesso diritto, mettere in discussione l'esistenza stessa del capitalismo, nella misura in cui anche nei paesi più sviluppati dell'Occidente c'erano ancora settori estesi di riproduzione, contadini o artigiani (soprattutto per quel che riguardava la produzione di alimenti), che non erano stati ancora soggiogati dalla logica dell'economia capitalista.

Lo stesso vale anche per il nuovo ed ampio parametro del capitale mondiale. Certo, esistono ancora molte imprese, regioni e paesi nei quali fino ad oggi predomina la produzione di "plusvalore assoluto", le cui merci, anche così, vengono vendute sul mercato mondiale. Nei cicli secondari, perfino le economie in liquidazione sono presenti, su scala estremamente ridotta, sul mercato mondiale. Perfino il lavoro degli schiavi svolge un ruolo sul mercato mondiale, e non solo in Africa ed in America Latina. La Repubblica Popolare cinese, ad esempio, oltre a produrre per il mercato mondiale, in zone spaziali di produzione, produce anche per mezzo di schiavi di Stato in campi di lavoro che sono allo stesso tempo anche imprese produttive che fabbricano merci a buon mercato per l'esportazione (giocattoli, per esempio). Ma questo non cambia niente nel fatto che, nelle condizioni della nuova rivoluzione tecnologica (microelettronica, computer, ecc.) e della conseguente globalizzazione del processo produttivo (solo ora il capitale diventa direttamente globale), la produzione sulla base del "plusvalore assoluto" si impone sempre meno. Ad ogni nuovo ciclo produttivo, imprese, settori, regioni e paesi interi, che competono principalmente dotati di manodopera a buon mercato e lunghe giornate di lavoro, soccombono alla pressione dell'intensità superiore del capitale. Così, i differenti livelli di produttività sul mercato mondiale vengono gradualmente appiattiti e vengono rapportati in maniera compulsiva al capitale più intensivo, cioè, prima o poi nella maggior parte dei casi la produttività viene interrotta a causa della sua mancanza di redditività. Questo processo è identico al processo di liquidazione. Tuttavia, la contro-argomentazione rimane del tutto insostenibile riguardo alla Germania Orientale. Dal momento che se l'equalizzazione compulsiva a livello mondiale dell'intensità del capitale si impone in maniera indiretta e attenuata (ad esempio, per mezzo di barriere commerciali, strutture interne specifiche, ecc.), e quindi con un certo ritardo, con la riunificazione tedesca lo stock di capitale dell'ex Repubblica Democratica avrebbe dovuto confrontarsi direttamente e senza attenuanti con il livello di produttività del capitale della Germania Occidentale, svalorizzandosi repentinamente. E non va meglio se si fa riferimento al cosiddetto "capitale culturale": la Germania Orientale e l'Est europeo avrebbero maggiori possibilità dell'Africa e dell'America Latina di assumere il capitalismo, in quanto le loro popolazioni avrebbero una formazione secondo i modelli del capitalismo industriale, ed in questi paesi si sarebbe accumulata la conoscenza culturale e tecnologica del mondo moderno. Nonostante i suoi calcoli erronei riguardo allo stock del capitale della Germania Orientale, Marietta Kurm, che difende l'economia di mercato, conosce la corretta risposta: "Sebbene la produttività del lavoro dipenda anche dall'impegno e dalla formazione delle persone, il fattore essenziale è l'equipaggiamento capitalista" (Handelsblatt, op. cit.). Effettivamente, le conoscenze incorporate nel "capitale umane" possono soltanto essere utilizzate per processi economicamente redditizi quando la loro applicazione si accompagna al corrispondente uso dei mezzi di produzione. Pertanto, il problema dei costi preliminari del capitale per l'apparato dei mezzi di produzione non viene sminuito in maniera sensibile dal cosiddetto "capitale umano". Se non esiste disponibilità di mezzi altamente produttivi, allora, dal punto di vista dell'economia di mercato, è come se ingegneri e scienziati fossero tutti analfabeti. In tal caso, la "forza lavoro tecnica altamente qualificata" può essere compensata dal fatto che le suore indiane dell'Ordine di santa Teresa servano loro una zuppa di carità. Questo nel caso che non si tratti di tecnici in armamento, che possono essere utilizzati dal grande promotore di assassinii Saddam Hussein o altre simili figure.
Un'argomentazione suggestiva ed altrettanto illusoria sarebbe quella presentata nel 1991 da Mancur Olson al congresso annuale degli economisti degli Stati Uniti: "Olson è arrivato alla conclusione per cui né l'equipaggiamento con fattori di produzione né l'accesso alla tecnologia costituiscono fattori determinanti. La differenza di benessere fra il Nord ed il Sud, fra Occidente ed Oriente, può essere spiegata a partire dalla diversa conformazione delle istituzioni. I paesi ricchi hanno avuto successo perché dispongono di altri presupposti giuridici o di organizzazioni per la formazione di società e per l'attuazione di una politica economica" (Neue Zürcher Zeitung, 11.1.91). Quest'argomentazione è talmente ingenua ed ovviamente così fuori dal problema della globalizzazione del capitale intensivo da ricordare in maniera sospetta la politica dei liberali tedeschi, la cui teoria, come quella di Olson, viene oggi crudelmente ridicolizzata in tutta l'Europa dell'Est.
In questa direttrice di illusionismo teorico rientra purtroppo anche la maggioranza delle proposte pratiche dei periti che cercano di deviare, in modo spaventosamente primitivo, dal problema del capitale fisso e dei suoi costi esorbitanti. E' questo, per esempio, il caso dell'economista Sinn, di Monaco, anche lui dell'opinione che l'attuale insuccesso economico della riunificazione tedesca va attribuito unicamente ad "errori politici istituzionali". Sarebbe stato sbagliato, soprattutto, insistere sul "ritorno oggettivo della proprietà (restituzione naturale) ai vecchi proprietari" (Gerlinde e Hans-Werner Sinn, Kaltstart, Tübingen, 1992, p. 17). Al suo posto, viene suggerito quello di cui sempre si ricorda la coscienza feticista della borghesia quando non sa che fare: un nuovo contratto sociale - come se a partire da Rousseau questo non fosse una costruzione ideologica, come se anche i contratti dei proprietari di merci potessero essere resi validi attraverso le leggi della loro produzione di merci.
Come tutto potrebbe essere semplice! "Il nucleo del patto risiede nel dislocare il problema della distribuzione dei prezzi dei fattori verso le attrezzature iniziali: fra le parti viene fatto un accordo di contenimento dei salari, ed in cambio i lavoratori diventano co-proprietari dell'ex proprietà del popolo" (Sinn, op.cit., p. VIII). La geniale proposta pretende di fare quello che anche gli economisti dilettanti dei verdi, dei socialdemocratici e dei democratici-cristiani avevano sostenuto sotto forma di "salario-investimento". Si tratta di un'idea, già ingiallita, della dottrina sociale della Chiesa cattolica, per raggiungere il benintenzionato obiettivo della "formazione della proprietà nelle mani del lavoratore". Ovviamente, a fronte della situazione del problema reale, una simile proposta è una pura e semplice presa in giro. In quanto queste briciole corrisposte dai lavoratori non potrebbero risolvere la questione dei costi del capitale. Tale formazione fittizia della proprietà sarebbe altrettanto poco seria della cosiddetta "privatizzazione attraverso i buoni" in Cecoslovacchia ed in parte della Polonia e della Russia, dove venivano messe a disposizione della popolazione titoli a buon mercato di partecipazione alla proprietà delle imprese non redditizie. Guidato dalle ingenue illusioni neoliberiste del presidente Havel e del ministro delle finanze Klaus, quel che il governo della Cecoslovacchia ha messo in moto è stata soprattutto una rischiosa privatizzazione di massa delle imprese statali non redditizie, laddove buoni del valore di due marchi potevano essere acquistati da qualsiasi persona negli uffici postali (!), che poi a loro volta davano diritto all'acquisto di "buoni di valore" per azioni che costavano circa il salario di una settimana. Nel frattempo, gran parte di questi bonus veniva amministrata per mezzo di fondi dubbi, i quali promettevano garanzie di guadagno e che sarebbero implosi non appena una piccola parte dei piccoli investitori avesse rivendicato il proprio denaro. Era come se "questa barzelletta del capitalismo popolare poteva finire soltanto in farsa", come ironizzava un banchiere occidentale. In fondo, si pretende che i salariati permettano che si comprima il loro salario a livello di fame nella forma richiesta dal professor Wolfram Engels, per essere, in cambio, indennizzati con la buona coscienza che ora sono co-proprietari di imprese in realtà fallite. La spudoratezza di questa farsa della proprietà supera perfino il fallito socialismo reale, in cui tutti erano formalmente "proprietari dei mezzi di produzione" attraverso lo Stato.
Si può girare e rigirare quanto si vuole intorno alla cosa: il limite oggettivo all'accumulazione del capitale, che si presenta nello stesso aggregato di capitale fisso ed emerge in quanto fattore indomabile dei costi, non può essere evitato con alcun trucco. Questo è quello che dovrebbero capire anche gli economisti di sinistra che pregano per l'economia di mercato e che attualmente sono preoccupati per le "possibilità di un processo di trasformazione che abbia successo" (Memorandum 92, p.13), dal momento che sono allievi modello del feticcio della redditività nella transizione apparente dell'Est verso il 'way of life' dell'Occidente e che, avendo in mente solo questo riferimento acritico, promuovono "una prospettiva critica" che porti a "proposte concrete" (Jan Priewe/Rudolf Hickel, Der Preis der Einheit, Frankfurt, 1991, p. 9). Ma non ci sarà alcuna trasformazione nell'economia di mercato. Quel che è necessario è una trasformazione del concetto di trasformazione, cioè, una critica che superi la modernità produttrice di merci nella sua totalità. Perciò questa è una mano che gli esperti dell'economia nazionale perderanno.

- Robert Kurz - (secondo capitolo del libro "O Retorno de Potemkin" - 1993)

fonte: EXIT!

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