Critica del Gattopardo
di Franco Fortini
La vicenda ha come protagonista il principe Fabrizio Corbara di Salina, probabile ritratto di un nonno dell'autore e comunque suo portavoce, gentiluomo mezzo tedesco e mezzo siciliano, colto, studioso di astronomia, orgoglioso, raffinato, sensuale, energico, scettico, intelligente, ateo e osservante, individualista: l'incarnazione dell'animale araldico della famiglia. La figura centrale, anzi l'unica compiuta e quasi sempre presente, è questa. Il libro si va concentrando sempre più su di lui, sino al lungo soliloquio sulla morte, diffuso per tutto il capitolo sesto e settimo. C'è anche chi ha detto (a cominciare dal Bassani) che, proprio per questa presenza continua del protagonista, abbiamo a che fare con un lirico e saggista più che con un narratore; altri ha recisamente relegato come semplice sfondo l'aspetto "storico" del libro. Si pone qui una prima domanda: perché questa apparenza di racconto a più personaggi? Perché questa apparenza di racconto storico? C'è chi risponde che i residui naturalistici e veristici corretti dall'ironia sono anch'essi sfondo volto a suggerire che il tema vero è quello dell'indifferenza del destino individuale alla storia, a qualunque storia. Troppo semplice: nella introduzione delle figure minori si sovrappongono e si elidono, per esempio, intenti diversi. Anzitutto è sensibile soprattutto nel primo capitolo - il più ornato e letterario di tutti - l'intento del pastiche, con figure e figurine convenzionali, da film storico, tutte venute dall'esterno, recensite: Fabrizio elegante e cinico, la moglie del Gattopardo bacchettona e gelosa, la figlia Concetta orgogliosa e fredda, gelosa e zitella predestinata, Angelica sensuale e calcolatrice, padre Pirrone prudente e ipocrita, il giovane ufficiale buonsensaio e aleardiano, il funzionario piemontese burocrate e pedante; un coretto di generici. Difficile distinguere dove cominci l'impotenza narrativa e poetica e dove finisca l'intento ironico di cincischiare una stampa ottocentesca. Ma la mancanza di dimensione dei personaggi, il loro appiattirsi, hanno un altro e più profondo motivo: nella misura in cui il centro di gravità e il punto di vista del libro è al livello del principe di Salina, il bisogno di appiattire gli altri non è dovuto solo al bisogno di rilevare quest'ultimo, ma alla necessità che i personaggi minori confermino l'ideologia, il modo di concepire il mondo del personaggio maggiore (e dell'autore). Ora l'orgoglio intellettuale, l'individualismo scettico e l'identificazione di moralità e di buone maniere, che sono del Principe di Salina, avevano assoluto bisogno, per non urtarsi a contrasti e conflitti che avrebbero imbarazzato il Narratore, di avere a che fare con delle larve, non con degli esseri umani. Non solo nel capitolo del ballo, quando i corpi dei danzatori muovono a pietà Salina come quelli di persone destinate a morire, ma in tutto il libro si suggerisce che negli altri il Salina, da buon sensuale e astronomo, vede solo oggetti, cose, animali. I personaggi minori non sono (come, in un momento di diminuito controllo, scrive Pampaloni) «le quinte vivide e fugaci entro le quali corre tumultuosa di affetti la vita di Don Fabrizio», ma la condizione perché la vita di Don Fabrizio sia priva di affetti. L'autore insomma, per esprimersi in quanto Salina, ha dovuto ridurre il mondo, evitargli antagonisti veri, evitarseli. Quali che siano insomma i motivi di questa convenzionalità dei personaggi minori (incapacità o estetismo), il loro fine è apologetico nei confronti di Salina e dell'autore, corrisponde, più che ad una inadempienza estetica, ad una inadempienza verso la verità. Che probabilmente sono una medesima cosa.
Altrettanto importante la scelta del tema storico. Che il Tomasi sia indifferente alle vicende storico-politiche è stato detto e ridetto. Gli eventi garibaldini vengono da lui ridotti e ridicolizzati e così le vicende dell'Italia umbertina. I conflitti sono, come in Gozzano, poco più che battaglie di formiche rosse e nere. Ma Tomasi aveva bisogno della prospettiva storica (nascita della borghesia siciliana, declino della aristocrazia) non tanto perché quegli eventi fossero - come dice ancora il Pampaloni -«esempi, conferme di una regola ricorrente, di un modulo storico quasi fatale», perché sempre si vive in un'epoca di transizione e «i conti dell'uomo con la storia non tornano mai» - ma perché quel che preme e brucia al Tomasi è il suo presente, il suo sentirsi biografico di nobile siciliano, di ufficiale effettivo, di marito di una baronessa baltica e quant'altro si può agevolmente immaginare, nel corso dell'ultimo cinquantennio. I conti con la storia, per il Tomasi, sono tutt'altro che chiusi: ecco perché ha bisogno di ridurre tutto alla sua misura, e di ideologizzare apologeticamente, sia con l'aiuto di alcune genericità sociologiche sul sorgere e scomparire delle élites sia con altre genericità geopolitiche sulla Sicilia e sulle sue vicende. Come sarebbero altrimenti possibili, proprio a metà del libro, le battute di discussione con il rappresentante piemontese? Vere di verità poetica, se descrivessero la fisionomia intellettuale del Salina; ma esse descrivono invece la fisionomia intellettuale dell'autore. L'interpretazione di «sinistra» tende a mettere in evidenza il realismo con cui è rappresentato il compromesso fra vecchie e nuove classi dirigenti, fra cavourriani ed ex borbonici ai danni della causa democratica, il «bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga lo stesso», come puro cinismo. Nessun dubbio che, fra cinquanta o sessant’anni, uno storico potrà trovare in quest'opera l'obiettivo riflesso dei conflitti di classe nella Sicilia fra il 1940 e il 1960 visti attraverso quelli di un secolo prima. Ma mi par difficile invocare a favore del Gattopardo il trionfo del realismo caro a Lukacs: non c'è in tutto il libro un solo momento nel quale sia obiettivamente superato il punto di vista ideologico dell'autore. Non abbiamo a che fare qui con il conservatore Verga che in Mastro don Gesualdo e nella sua storia di ambizioni sbagliate e sconfitte rappresenta ed esalta un ordine di valori inconciliabili con quelli della conservazione o che in un suo famoso racconto fa esplodere il conflitto fra l'abortita insurrezione antifeudale e l'ordine garibaldino-piemontese. Inutile sprecare l'aggettivo "reazionario", per Tomasi. Quel che c'è di meno reazionario in lui è, semmai, la difesa dei valori aristocratici quale viene pronunciata per bocca di Don Pirrone. Ciò non toglie che si possa sottovalutare l'importanza della cornice storica. Il giudizio negativo su quel momento centrale del nostro risorgimento nazionale è, sì, storicamente fondato; ma ha una funzione ideologica ben precisa: l'apologia del "sempre eguale" a partire dal sempre diverso.
Sarebbe assurdo e ingiusto negare certe qualità di quest'opera. L'allegria o la cupezza delle descrizioni - soprattutto quando non vogliono strafare - la sensibilità umoristica e urbana, come nella scena del bagno del Salina o dell'ingresso di Fabrizio avvolto nella mantella di ufficiale piemontese e in tanti altri passi, il gusto della transizione, ad esempio nel dialogo del principe di Salina con l'organista don Ciccio Tumeo; l'intelligente scelta delle situazioni, delle quali tre almeno esemplari, quella ora rammentata, quella fra il principe e Sedara per combinare il fidanzamento, e quella fra il principe e il colonnello Pallavicino. Esente dai vizi correnti di tragicismo, crudelismo, sciatteria o stravaganza, il libro ha una sua architettura rigorosa: basti pensare alla pausa rappresentata dal capitolo di Don Pirrone, che toglie di scena il principe Salina e aggiunge un elemento fondamentale al quadro, rappresentando l'identità sostanziale dei problemi al livello dell'aristocrazia e a quello dei cafoni (classi fra le quali è mediatore il sacerdote). Il meglio è forse nei rapidi affondi verso il futuro, che fanno intravvedere in un lampo i decenni a venire, Angelica tramutata in viperina Egeria di Montecitorio e della Consulta, Concetta risecchita pinzochera, gli affreschi palermitani distrutti nel '43. Persino le pagine false e stucchevoli dei due innamorati perduti nel labirinto di stanze del palazzo di Donnafugata, hanno qualche punto di pungente bellezza, come nell'episodio del carillon settecentesco e della "gaiezza disillusa" di quella musica, formula che si adatta benissimo ad un aspetto importante della poetica di Tomasi di Lampedusa. Ad una prima lettura, ad esempio, l'evocazione dell'appartamentino dei piaceri crudeli del sadico antenato settecentesco e quella delle stanze d'una più remota fustigazione cristiana potevano sembrare losche e un po' oziose variazioni letterarie. Ma poi si vede quanto siano invece importante elemento, per dir così, etimologico di Salina (e di Tomasi di Lampedusa). «Senz'altre riserve che quelle del gusto - dice qui bene il critico più volte citato - il Tomasi appartiene al mondo del decadentismo "classico", esistenziale e laico.» E non bisogna tacere del capitolo del ballo, con la sua accurata preparazione, progressione, partizione e soluzione che, sebbene preceduto e accompagnato da una quantità di esempi letterari, è una Totentanz esemplare. Una scrittura di livello medio-alto, alla quale si può perdonare l'aspetto compiaciuto, laccato, mantecato come certe torte siciliane, piene di uvette, pistacchi e canditi, dolce al limite della nausea. Ad esempio, e fin dalle prime pagine: «il continuo fluire delle sonagliere, che ormai non si percepiva più se non come manifestazione sonora dell'ambiente arroventato... paesi dipinti in azzurrino tenero, stralunati... ponti di magnificenza bizzarra... fiumare integralmente asciutte».
Continuamente, grazie all'intervento critico-ironico, la volontà espressionista si allea ad una intenzione sliricizzante («manifestazione», «magnificenza», «integralmente»). Alleanza perigliosa, quando si cade ad esempio in «quegli alberi assetati che si sbracciavano...» o, poche righe più sotto, nella grave ironia di «un enorme fabbricato abitato da braccianti, muli e altro bestiame». La contraddizione stilistica del libro mi pare insomma risieda in questo: la forma mentis ironico-epigrammatica, con la sua velocità e mobilità, mal si accorda alla densa materia delle descrizioni compiaciute, fastose e mortuarie. La gaiezza disillusa, fondata su scoscendimenti di livello linguistico, allusioni urbane, "esprit" insomma, funziona benissimo quando opera nel quadretto storico; ma quel passo, quell'andatura fra settecentesco e libertino o meglio fra Anatole France e Maupassant, mal si lega con le esigenze di una narrativa che abbia veramente come propria meta i modelli del decadentismo. Anche Proust è spesso agilissimo e scintillante di spirito; ma è la lenta avvolgente seta dei suoi periodi quella che (come, altrimenti, anche in Mann) finisce col dare straordinarie obiettive presenze fisiche e morali. Qui invece il paesaggio siciliano, col suo lutto e le sue stoppie, la bellezza di Angelica, o le dimensioni leonine del principe son più dette che rappresentate. Troppo asciutta razionalità aristocratica per quei brividi cadaverici. Questa prosa finisce col far pensare spesso a qualcosa di fabbricato. Tomasi non si è deciso fra un "tempo" veloce e un "tempo" lento.
Il libro sembra scritto per deliziare il villan rifatto che sonnecchia entro ciascuno di noi; sentirsi dentro "il gesto sempre elegante dell'intelligenza", nella "squisita discrezione". (La vera volgarità, ho sempre pensato, consiste nel credere di non poter esserne fuori se non definendo volgari altri, lontani e diversi.) Voglio dire che le continue lezioni di belle maniere che imperversano nel libro, il tatto, l'inespugnabile cortesia, la rapida adattabilità, la penetrazione mondana, l'arte innata della sfumatura, il saper vivere, il gusto gastronomico, eccetera, sono debolezze perdonabili in Salina-Tomasi ma assai meno nei critici che se ne deliziano; e tocchiamo qui una delle più vili ragioni di successo del libro.
Tomasi di Lampedusa, a dir vero, avverte per un attimo la povertà del suo personaggio nello splendido incontro col colonnello Pallavicino, quando i rappresentanti delle due dinastie comunicano nel culto delle buone maniere e della retenue. Solo che questa indulgenza dell'aristocratico intelligente nei confronti di un eguale di classe, indulgenza che egli, l'aristocratico, avverte come una necessaria debolezza (e di cui Proust ci ha così meravigliosamente parlato), e anche come una non vile solidarietà, nel libro di Tomasi non agisce solo a favore del Pallavicino e ad opera del Salina, bensì a favore del Salina e ad opera del Tomasi. L'autore difende insomma il personaggio e sé stesso. Ecco perché, si direbbe, i critici che per Salina e Lampedusa parlano di "gran signore" non sanno, alla lettera, quel che si dicono. Il "gran signore" è una nozione borghese, non occorre dirlo; è l'ideale borghese per eccellenza e si fonda, in chi lo coltiva, sul sogno di un distacco e di un disinteresse che non può (economicamente) realizzarsi. Probabilmente era necessaria l'esistenza della piccola nobiltà di provincia (e della noblesse de robe) nella Francia dell'età classica, perché nascesse la nozione moderna di "gran signore". E ci si vergogna di dover ricordare che non esistono davvero i grandi signori ma semmai i grandi uomini, che Manzoni non era un "gran signore" ma qualcosa di più, e che Tolstoj lo era solo quando si dimenticava di aver scritto i suoi libri, vale a dire quando passava superbamente a cavallo davanti ai granduchi Romanov (o forse quando allungava le mani sulle serve, nei corridoi degli alberghi svizzeri).
Bisogna a questo punto dire che un libro come questo è proprio caduto dal cielo, fatto a pennello per una situazione letteraria come quella italiana. Sorvoliamo su tutto il patetico e il drammatico del gentiluomo siciliano che muore dopo aver finito il capolavoro, che chiude gli occhi senza la gloria, riservato ed elegante: che tema per i rotocalchi! Questa straordinaria, misteriosa Italia che nel fondo della sua provincia... e la storia del cugino Lucio Piccolo che con la complicità di Eugenio Montale (al quale perdoniamo difficilmente le debolezze verso i "veri signori") è diventato il barocco poeta di Capo d'Orlando, che Bassani promuove a massimo lirico dei nostri anni; e altre baronesse, principesse e figlie di Benedetto Croce sullo sfondo. La manna pubblicitaria è raccolta accortamente, nulla di male, il Gattopardo non è Bonjour tristesse della Sagan, per sua fortuna, anche se la Weltanschauung della ragazza francese e quella del gentiluomo siciliano hanno un comune albero genealogico. Ma c'è qualcosa di più: il libro è, come si usa dire, "ben scritto", giuoca su di un tema eternamente caro (il rapporto nord-sud), è sensuale ma non azzardato, scettico ma mortuario, gentilomesco, lievemente libertino; dà l'impressione, anche a chi crede di non intendersene, dell'opera d'arte. Ed è, o sembra, di destra. Fa l'elogio del sempre eguale. È una Sicilia senza astratti furori, e senza sindacalisti. Ma, soprattutto, dà l'impressione del già letto, del già pensato, del già saputo. Tutta la neoborghesia italiana, figlia o nipote dell'Italia che aveva avuto fin verso il 1930 una letteratura borghese (da Beltramelli a Fanzini e magari da Pirandello a Bacchelli), interrotta dall'ermetismo prima e dal neorealismo poi, respira. Indipendentemente dai giudizi di valore, la letteratura italiana riproduce periodicamente questi casi di letteratura "accettata". Il libro capita poi in una particolare contingenza della cultura italiana: trionfo di una destra letteraria composta in gran parte di elementi della ex sinistra. Concorrono i più diversi elementi: la polemica contro l'avanguardia condotta da un critico come Cesare Cases in nome del realismo critico, quella in nome della fantasia e della finezza che risuonano, diversamente, nelle pagine di Calvino o dei recensori di «Paragone», la bandiera della filologia fisiologica e del clic magico alla Pietro Citati, la rivalutazione dello spiritualismo degli anni Trenta, le forme vulgate del religiosismo semisociale; tutta l'Italia culturale che, in un modo o in un altro, si è seduta, certa che la rivoluzione è stata proibita per ordine dei comunisti e della televisione, persuasa che nulla muterà, salvo alcune riforme di dettaglio o confirmatorie, l'Italia culturale che fra poco si chiederà "Gramsci, chi era costui?" e che già trova nel marxismo una vecchia favola, insomma l'Italia alla Elémire Zolla, che si angoscia orficamente sulla cultura di massa e si salva col più reazionario dei precetti, ossia sustine et abstine, tutta questa Italia ha creduto dapprima di rispecchiarsi nel Pasticciaccello di Gadda, ha sobbalzato di gioia e di rimorso leggendo Il dottor Zivago, ma si è riconosciuta solo nel Gattopardo; ha goduto di questo odore di dente cariato. Non che questi critici siano del tutto in buona fede; non escluderei anzi che alcuni segni di cafard après la fete comincino già a manifestarsi. Ma quel che preoccupa è il significato di politica culturale che il successo ha conferito a questo libro. E a chi ci obiettasse che dopotutto si tratta di un "ottimo libro" - cosa che ci guardiamo bene dal negare - e che capita molto di rado di leggerne così; e a chi ci dicesse che dopotutto non esisteva in Italia un libro di questo tipo che, eccetera, verrebbe voglia di chiedere se costui ha mai letto Italo Svevo.
Ma è tempo di prendere il Gattopardo per i baffi. Non si tratta più di discutere soltanto della qualità letteraria del libro.
Il critico Pampaloni ha una notazione estremamente acuta, l'unica che accetto intera di quel suo saggio «funereo e festoso, luttuoso e inebriante» com'egli dice sia il motivo della morte nelle pagine del ballo; anche se, come si vedrà, lo accetto solo col segno cambiato. Ed è quando, parlando della segreta irrequietezza che compare di tanto in tanto nel principe di Salina, lo dice «ansioso di un esito e istintivamente cosciente della sua inadempienza verso la verità» (a p. 104, ad esempio). Certo questa «inadempienza verso la verità», questa impossibilità, di Salina, di sentirsi pienamente d'accordo con sé stesso (anche nell'orgoglio e nella difesa dei propri valori) che balena qua e là e tende sempre ad esprimersi come desiderio di annullamento "pulito", nelle stelle; o che più spesso si limita al senso del disfacimento e della putredine: questo è il vero tocco geniale del libro. In Salina non compare mai la prospettiva del divino (che sarebbe la "verità" del nostro critico cattolico) né tantomeno quella di un superamento dell'individuale; come giustamente osserva il critico, non c'è in lui nemmeno la religione laica. Per questo il Gattopardo è il romanzo di un radicale di destra.
Ma così esigui sono questi attimi, così fuggevoli. E soprattutto sono a tal segno affidati piuttosto al tedio e fastidio o alla pietà dell'unico personaggio che non ad un rapporto fra personaggi o fra personaggi e cose, che è forza concludere che quella inadempienza verso la verità è anzitutto dell'autore. Né Salina né Lampedusa giungono mai (o appena nel dialogo con Chevalley) a presentire il rapporto degli uomini fra loro, quella interumanità, o interrelazione che dà un così solenne significato alla parola storia e che, mediata dal più alto romanticismo, nel pensiero rivoluzionario trasferisce verso la metà del secolo scorso l'eredità del maggior pensiero borghese e cristiano tanto da passare, in forme certo confuse o provinciali, perfino attraverso il generale Garibaldi. La pietà, in Salina-Lampedusa, è invece e appena l'armonico dell'accordo erotismo-morte. Non dimentichiamo che per tutti quei cattolici o semicattolici che oggi vanno tanto d'accordo con i liberali laici e gli scettici nell'elogiare questo libro è molto più agevole e facile l'ateismo di Salina-Lampedusa, visto, dalla parte della «Bella immortal benefica / Fede ai trionfi avvezza», attraverso la pietà e il gusto della cenere, che non passare dallo scetticismo alla persuasione (o fede, se così la si vuol chiamare) nella corresponsabilità degli uomini. Quanto sono più vicini il libertino razionalista scettico sensuale astronomo e feudale Salina e lo scettico irrazionalista e freudiano letterato Tomasi, con la loro difesa dell'individuo, alla Chiesa di Pio XII che non a qualsiasi altra posizione spirituale e pratica! Il rifiuto della storia che c'è in questo libro non è rifiuto di questa o quella storia ma rifiuto del mutamento in sé. Anzi quel che Salina e Tomasi rifiutano non è nemmeno il cambiamento, né tanto meno il loro cambiamento; Salina si adatta abbastanza bene, la propria decadenza fisiologica la sopporta benissimo, e non si capisce poi che cosa abbia da rimpiangere, se tutto seguita come prima, e quasi nulla ci viene detto dei primi quarant'anni di vita, del perché dei suoi studi, fuor di qualche accenno ad erotiche disposizioni favorite dal buon bere e dal buon mangiare. Quello che i nostri personaggi e il nostro autore rifiutano sono «gli altri», tutti presentati come meschini e ciechi, salvo forse quel figlio appena nominato, che se ne è andato a Londra a lavorare come impiegato in una azienda di carboni; e al quale va tutta la nostra simpatia. È vero che l'autore ha avuto il lampo di genio di presentarci come relativamente cieco o sordo anche il suo eroe. Ma per trarre tutta la edificazione possibile da questo exemplum, bisogna esser noi a introdurre un elemento di giudizio, estraneo al libro. Se la morale del libro è che la vita è un torbido male, bisogna ben dire che il sangue dell'avo sadico e quello dell'avo santo flagellante si sono ben uniti in quello del Salina (e dei Lampedusa). E a questo punto non si tratta nemmeno di opporre un'altra concezione della vita e del mondo a questa loro; ma di dire che non si deve far sopportare a questo libro più di quello che esso può; e che esso non può darci né saggezza né tragedia.
- Franco Fortini, in "Saggi ed epigrammi", Mondadori, 2003 -
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