martedì 23 dicembre 2014

Fotografando

lavoro

La "International Labor Organization", nel suo rapporto economico, “Working Time Around the World” (2007), ci racconta il tipico orario di lavoro prevalente nel mondo, affermando che più di 614 milioni di persone sono costrette a lavorare per più di 48 ore a settimana:
"Infine, quanto sono i lavoratori nel mondo a lavorare più di 48 ore, il massimo di ore previsto dalle Convenzioni m° 1 e 30 e che figura essere essenziale, come limite, ai fini del benessere del lavoratore? Facendo una stima globale, e prendendo in considerazione i redditi nazionali ed il volume totale di occupazione; si scopre che il nostro campione è ‘casuale’ ed è anche ragionevolmente ‘rappresentativo’. Il risultato indica che circa uno su cinque - il 22%, ovvero 614,2 milioni di lavoratori - in tutto il mondo stanno lavorando per più di 48 ore a settimana.”
Il peso del superlavoro viene avvertito ancora più severamente da quei lavoratori che operano nel settore informale, i cosiddetti lavoratori autonomi, dove le ore di lavoro arrivano all'incredibile cifra (e la oltrepassano) di 60 o più ore a settimana:
"I lavoratori domestici si trovano in una situazione piuttosto singolare a causa del fatto che lavorano come dipendenti di famiglie private, piuttosto che per le imprese: essi vengono spesso trattati come una categoria speciale, sotto specifiche (meno restrittive) leggi nazionali sul lavoro - con regole proprie sulle ore di lavoro e sui rapporti personali con le famiglie ospiti - che sono una componente essenziale della loro condizione lavorativa. Soprattutto per i lavoratori domestici che vivono presso le famiglie dove lavorano, la situazione può rendere difficoltoso, se non impossibile, separare il tempo di lavoro ed il tempo personale - una situazione che può facilmente portare ad eccessive lunghe ore di lavoro. In Cile, per esempio, questo tipo di lavoratori domestici - che virtualmente sono tutte donne - lavorano una media di 59,3 ore a settimana.
Uno studio recente sui lavoratori domestici negli Stati Arabi (Esim and Smith, 2004) getta in qualche modo una nuova luce sulle ore lavorative dei lavoratori domestici. Basandosi su inchieste nei confronti dei lavoratori migranti nel Kwait, dallo studio emerge che (a parte i giardinieri part-time) le ore di lavoro sono un'esagerazione, raggiungendo una media che va dalle 78 alle 100 ore a settimana. Per esempio, i cuochi lavorano una media di 88,4 ore a settimana, gli autisti 91 ore, le guardie di sicurezza 99,7 ore ed i collaboratori domestici raggiungono una media di 100 ore a settimana. Un'inchiesta analoga sui datori di lavoro di questi lavoratori domestici rileva, per i padroni, un orario più corto, ma tuttavia ancora lungo: in media 66 ore la settimana per le donne, e 60 ore per settimana gli uomini. Inoltre, normalmente lo straordinario non viene pagato a questi lavoratori.
Come ci si potrebbe aspettare, i bassi salari sono i responsabili nel forzare i lavoratori a lavorare per molto più tempo, con la paga degli straordinari che costituisce una parte considerevole del reddito lavorativo:
"Allo stesso tempo, e come accennato in precedenza, una bassa retribuzione oraria può indurre i lavoratori a lavorare più a lungo, e ancora una volta troviamo le prove di questo fenomeno in diversi paesi del mondo. Uno studio sulle Filippine, per esempio, ha mostrato che una bassa paga oraria e molte ore di lavoro sono correlate in maniera significativa, concludendo così che 'molte ore di lavoro sono un indicatore ragionevolmente buono di una bassa paga oraria in rapporto ai salari dei lavoratoti' (Meheran, 2005). E in Vietnam, dove è diffuso un lungo orario di lavoro, la paga dello straordinario costituisce una significativa porzione del salario, nella misura di circa il 14% del reddito salariale totale."
Allo stesso tempo, L'Organizzazione Internazionale per il Lavoro ha rilevato che la quantità di ore di lavoro è inversamente proporzionale alla produttività e all'efficienza lavorativa. Più è lunga la settimana lavorativa, meno valore d'uso produce, rispetto ad una settimana lavorativa più corta, mentre i capitalisti evitano gli investimenti per il miglioramento dei macchinari, per la tecnologia, la scienza, e per l'organizzazione razionale del lavoro, semplicemente facendo lavorare gli operai per un maggior numero di ore:
"E' riconosciuto da tempo che le politiche per il tempo lavorativo svolgono un ruolo nell'aumento della produttività. Infatti, questo è stato uno degli argomenti del dibattito nel corso delle delibere riguardo al primo standard internazionale, nel 1919 (Murray, 2001). Più recentemente, ha costituito l'obiettivo delle misure finalizzate a ridurre le ore in Europa Occidentale, forse in maniera più visibile in Germania (vedi oltre: Bosch and Lehndorff 2001). Nei paesi sviluppati in particolare, il rapporto fra tempo di lavoro e produttività è debole e l'incremento della produzione è spesso alimentato dal lavoro straordinario. In Messico, per esempio, l'incrementata produttività degli ultimi anni sembra che sia stata causata innanzitutto dalla lunga giornata di lavoro, piuttosto che da un utilizzo più efficiente del tempo di lavoro (Esponda, 2001). E rispetto al Chile, Echeverria suggerisce che una prestazione improduttiva, o scarsamente produttiva, a fronte del tempo, costituisce un elemento significativo della lunghezza della giornata lavorativa, ed è il risultato di una carente organizzazione del lavoro."
L'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha rilevato che la riduzione del tempo di lavoro è stata ignorata da tutti i paesi avanzati e da tutti i paesi in via di sviluppo, sebbene la correlazione fra la riduzione dell'orario lavorativo e l'aumento della produttività sia ormai un fatto fermamente stabilito:
"Il ruolo che la riduzione del tempo di lavoro (quando viene integrato con iniziative più ampie rivolte allo sviluppo delle competenze) può svolgere al fine di far crescere la produttività, incoraggiando parzialmente dei cambiamenti nell'organizzazione del lavoro, è argomento spesso assente dal dibattito, anche nei paesi industrializzati."
Nei paesi in via di sviluppo, sembra sia particolarmente difficile che possa prendere piede questa visione della riduzione dell'orario di lavoro e l'assunzione della relazione fra ore e produttività, soprattutto in assenza di misure nazionali che lo incoraggino. In Cina, per esempio, Frenkel e Kuruvilla (2002) hanno riscontrato un'enfasi sulla flessibilità numerica e salariale che si accompagna raramente al movimento verso la flessibilità funzionale. E Vaughan-Whitehead ha notato, riguardo i paesi dell'Europa centrale ed orientale, che le imprese private che operano in un'ambiente molto competitivo troppo spesso non riescono a mettere in atto misure per migliorare la qualità dell'occupazione o a fare investimenti sulle competenze della loro forza lavoro, con tutte le conseguenze negative per la produttività sul lungo periodo.

Così, 140 anni dopo la pubblicazione del Capitale, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro conferma essenzialmente l'argomentazione svolta da Marx nel Capitale, secondo cui ad un lungo orario di lavoro corrispondono bassi salari e bassa produttività. La differenza sta nel fatto che Marx aveva capito tutto questo già a metà del XIX secolo. Non male per un tipo che viene spesso dipinto come un ingenuo "vittoriano", le cui argomentazioni non poggiavano su nessun dato!

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