giovedì 18 dicembre 2014

Inferni, grandi e piccoli

inferni

TABULA RASA
- Fino a che punto è auspicabile, necessario o lecito criticare l'illuminismo -
di Robert Kurz

La necessità ontologica
Ora, il problema ontologico, allo stato attuale della riflessione, sembra consistere propriamente nel fatto che non si distingue fra negazione assoluta della forma e il libero riferimento, scevro da apriorismi, ai contenuti (anche a quelli che costituiscono un retaggio del passato). Dacché c'è, la forma del soggetto non costituisce un fenomeno esteriore, dal momento che è permeato dal riferimento al contenuto nella sua totalità. L'apologia e l'affermazione più o meno chiara di questa forma "falsa" dell'Io è accompagnata da una necessità ontologica che vuole in qualche modo scommettere sulla falsa continuità della coscienza la quale, però, potrebbe essere solo una continuazione della medesima forma con cui di deve rompere.
Sempre all'interno della critica, questa necessità ontologica si presenta come compulsiva verso la costruzione di una logica positiva dello sviluppo, di una galleria di antenati, di una sequenza generativa, in cui una persona possa in qualche modo inserirsi. Il pensiero illuminista approfitta di questa necessità per difendere la sua affermazione governata dalla logica del valore e della dissociazione. E anche da qui che proviene la grande paura di causare il collasso del pensiero illuminista. Si vuole avere sotto i piedi un terreno storico. Si scopre che l'ultima cosa che possa offrire la rottura ontologica con la "storia delle relazioni di feticcio" è la manutenzione di questo terreno.
I contenuti culturali in quanto artefatti della storia, anche positivi, non sono suscettibili di costituire un terreno simile a causa della loro definizione specifica. Nella loro specificità, separati e divenuti relativamente indipendenti dalla rispettiva coscienza sociale che li ha prodotti o che li recupera (dall'agricoltura fino alla forma lirica del sonetto), essi continuano a non essere altro che oggetti morti, oppure tecniche e ricette disconnesse. Solamente la coscienza, che non può essere altro che sociale, dà vita agli artefatti, inserendoli in un contesto storico-sociale. Tuttavia è a questo livello di coscienza che deve avvenire la rottura ontologica che non si riferisce primariamente agli artefatti, ma alla stessa forma di coscienza. Diversamente, tale rottura non può avvenire di per sé sulla base di un riferimento positivo a determinati artefatti della storia, dal momento che non riesce nemmeno a inserirsi in questo campo. Una società liberata dalle relazioni di feticcio può e deve recuperare artefatti sotto i più diversi aspetti, ma non è in questo che consiste la rottura.
Per questo mi sembra che si tratti di un mero malinteso se Anselm Jappe afferma, in riferimento a determinati artefatti della storia come se fossero "miglioramenti nell'ambito dell'agricoltura o della navigazione o del trasporto ..." e, per esempio, "progressi culturali, come il raffinarsi del senso ritmico nello sviluppo del lirismo europeo a partire dal 1100" oppure, da un'altra parte, la "architettura tradizionale": "L'Uomo che non obbedisce alla forma del valore non è, pertanto, una mera cosa del futuro, dal momento che esiste già, seppure sotto forma frammentaria". Questi frammenti dispersi, però, non hanno vita propria, non potendosi comporre a partire da un qualche Uomo posteriore alla forma del valore, se non come omuncolo degli artefatti, potenziali e realizzati.
Non mi costa ammettere che anche dalle società agrarie premoderne potrebbero essere recuperati molti momenti individuali per una "buona vita" che il capitalismo ha distrutto, a partire da una concezione del tempo dotata di riferimenti concreti invece che astratti e lineari, fino ad un'architettura corrispondente alle misure e alle necessità umane, invece di un'architettura diventata astratta al fine di un funzionalismo subordinato ai dettami del valore. Ma non è qui che risiede il problema. Gli è che questi frammenti dispersi non possono costituire un filo conduttore verso la rottura ontologica con la forma di feticcio, e neppure il terreno per un'altra forma di socializzazione. Né la positivizzazione, né la negazione di determinati artefatti e contenuti riesce ad avvicinarsi al vero problema. I movimenti che si limitano a protestare, qui contro l'energia nucleare, lì contro il traffico individuale e laggiù contro l'inquinamento dell'aria, senza affrontare la forma del soggetto e della riproduzione in quanto tali, hanno una portata troppo limitata, similmente a quanto avviene con l'impulso contrario che consiste nel migliorare le realizzazioni positive di una possibile buona vita, come passeggiare in campagna qui o le realizzazione estetiche laggiù.
Il problema della rottura con la forma di feticcio e di soggetto viene solo ritardato se Jappe, al posto dell'illuminismo, trasferisce alla società agraria premoderna la stessa necessità ontologica e si limita così a mettere con i piedi per aria la logica illuminista. In questo modo, si vuole evitare la rottura ontologica per mezzo della dislocazione, caratterizzata quasi da un romanticismo agrario, sul terreno ontologico di un passato anteriore. In quanto tale, Anselm Jappe formula la sua anti-critica della critica radicale dell'illuminismo, contrariamente agli apologeti della modernità, non tanto per l'illuminismo quanto per salvare la società agraria premoderna come ambito di riferimento in gran parte positivo, e quasi come modo di scartarsi dalla critica dell'illuminismo; quest'empito sembra prevalere nei gruppi post-situazionisti in Francia. Il rimprovero di voler fare tabula rasa viene rivolto, sotto questo punto di vista, soprattutto all'inclusione, nella critica radicale dell'illuminismo, di una critica non meno radicale di tutte le forme di feticcio pre-moderne; cosa che, però, è inevitabile.
Diventa qui evidente un deficit complementare dell'anti-critica della critica radicale dell'illuminismo, tanto nella versione apologetica dell'illuminismo, quanto nella sua controparte ispirata al romanticismo agrario. Per il pensiero che si schiera con l'ideologia dell'illuminismo e della modernizzazione, la rottura con la società agraria costituisce l'albeggiare positivo di un movimento di liberazione che, seppure possa contenere in sé rotture strutturali, nel corso del suo ulteriore sviluppo, in quanto tale, dev'essere perseguito sul terreno ontologico, una volta conquistato. Nella misura in cui si concede che è necessaria una rottura con l'illuminismo e con la forma del soggetto, tale attitudine rimane senza conseguenze, non essendo altro che un'affermazione irrilevante. Jappe semplicemente inverte questa logica e vede il peccato originale proprio in questa rottura illuminista e moderna, che basterebbe ora annullare per mezzo della rottura con la modernità per riuscire a recuperare il vero giardino ontologico del "progresso" situato nelle culture premoderne. La concessione per cui evidentemente bisognerà rompere "in qualche modo" anche con la forma premoderna del feticcio conserva anch'essa, ugualmente, lo statuto di affermazione senza conseguenze.
Tuttavia, con questo non ci si guadagna niente. Entrambe le opzioni passano a lato del vero problema della rottura e rimangono all'interno della continuità storica negativa. Ciò è dovuto al fatto che, in entrambi i casi, la logica necessaria della tabula rasa della rottura con la forma del feticcio e del soggetto viene oscurata e confusa con la questione del riferimento, molto meno inequivocabile, agli artefatti della storia.
La circostanza per cui l'ideologia della modernizzazione non dev'essere superata può essere riconosciuta anche nelle sue forme più riflesse, e ancora parzialmente critiche dell'illuminismo (per esempio di provenienza adorniana), dal fatto che non si riferisce a determinati artefatti, "potenziali" e realizzati dalla modernità, in quanto allo stesso tempo nascondono la negatività della forma del soggetto permeata dalla logica maschile della dissociazione, al fine di piegare e sovvertire la critica radicale di quella forma.
L'ideologia del romanticismo agrario, al contrario, può essere identificata, da parte sua, per il non riferirsi positivamente a determinati artefatti, "potenziali e realizzati dalla premodernità sopraffatta dal capitalismo (in che misura questo avvenga, tuttavia, in forma troppo ingenua, deve essere ancora chiarito in riferimento al contenuto) ma nel lasciarle, allo stesso tempo, in una maniera molto somigliante alla negatività delle forme del feticcio premoderne, nell'ambito dell'indefinito, di modo da poter sempre riprenderle con piacere per evitare, in ogni caso, la critica radicale.
Comunque, il rifiuto apparentemente evidente di una logica di tabula rasa non definita a sufficienza riguardo al suo riferimento, può in tal modo convertirsi, in maniera indiretta, in apologia della forma. E in quanto non può avvenire, in nessun modo, un regresso alle forme premoderne, il momento apologetico della forma, contenuto in questo tipo di argomentazioni, minaccia, in fin dei conti, di limitarsi ad aggirare in maniera involontaria il soggetto che obbedisce alla logica del valore e della dissociazione (nel campo della teoria: il soggetto oggettivista e maschile re dei filosofi).
La posta in gioco, in realtà, nell'anti-critica - contro la logica della tabula rasa della critica radicale dell'illuminismo - non sono questi o quegli altri artefatti (moderni o premoderni), le realizzazioni culturali, ecc., ma è, invece, la forma sociale della coscienza, cosa che diventa perfettamente evidente quando Jappe denomina come criterio positivo non solo qualche potenziale, conoscenza, ecc., individuale, ma, improvvisamente, un "essere" della storia (premoderna): "Non esiste una natura che possa essere invocata come punto di riferimento, e di fronte alla quale, la falsità della società delle merci si possa rivelare come tale, e molto meno esiste una natura che possa servire da insediamento normativo nel senso di un punto di partenza, rispetto al quale sarebbe un peccato qualsiasi allontanamento. Ma esiste una 'natura' nell'ambito dello sviluppo dell'umanità. Così come si può parlare di una 'ontologia negativa' (anche se una simile espressione, in fondo, costituisce un ossimoro) nell'ambito delle relazioni storiche di feticcio - ossia, di circostanze che, non essendo associate all'uomo in quanto tale, possono essere ritrovate più o meno in tutte le forme della 'preistoria' fino ad oggi - si può parlare anche di una 'natura' immanente alla storia. Quest'essere 'sociale e sensibile', che oggi si difende dagli oltraggi del capitalismo, rimane, per quanto riguarda l'essenziale, in una sorprendente costanza ed uniformità, dalla rivoluzione neolitica fino alla vigilia della rivoluzione industriale. E' questo contesto che può essere definito come 'naturale'..." (Jappe).
Qui, improvvisamente, non si parla più di determinati contenuti "buoni" e di artefatti in quanto frammenti dispersi, ma della continuità di un "esistere" che può essere concepito solo come continuità di una forma di coscienza pre-moderna ed agraria che, tuttavia, dev'essere negata come feticista rispetto alla sua controparte moderna. Se la "falsità" della società delle merci non può essere misurata per mezzo dei frammenti sparsi sotto forma di artefatti premoderni, assai meno lo si potrà fare per mezzo della forma di coscienza di un "essere naturale sociale" permoderno. Già la scelta delle parole rimanda a quella "seconda natura" della coercizione formale impossibile da essere positivizzata con intenti emancipatori e resa parametro. Senza dubbio il livello di forma costituisce, come tale, una caratteristica comune che non riunisce solo le diverse forme premoderne in quanto, insieme a loro, anche la forma moderna rientra in una tale costituzione; ma quest'ultima è unica ed è esclusivamente negativa.
Se Jappe si riferisce, a questo proposito, al momento di non concordanza degli individui con le relazioni di feticcio, soprattutto con la relazione moderna, a me pare che ci sia anche qui un malinteso. E' vero che questa non concordanza esiste, ma esiste unicamente in relazione alla rispettiva forma di feticcio e alle rispettive condizioni di sofferenza. Essa mostra come gli individui non si riassumano nelle condizioni della forma. Ma questo fatto non può, in alcun modo, essere separato come definizione positiva indipendente dalla sua mediazione con la negatività delle relazioni di feticcio, ed essere trasformato in un "essere ontologico" della premodernità, sopra il quale si possa edificare qualunque cosa. Anche se esiste la non concordanza, non esiste un simile essere.
La sofferenza non è un essere. Una sofferenza vissuta può diventare punto di partenza e parametro negativo della critica, ma non costituisce un essere proprio che possa venire invocato indipendentemente da quello di cui si soffre, come fondamento essenziale positivo. In questo caso ci troveremmo proprio davanti ad una costruzione ideologica di una "natura umana" che dovrebbe solo essere dissotterrata dal seppellimento abusivo fattone dagli illuministi e dai moderni, anche se questo substrato, nell'opinione di Jappe, dev'essere da parte sua un prodotto storico in un continuum che, però, sarebbe quasi a-storico, prolungandosi fin dal neolitico. Così torniamo evidentemente a mettere in atto la mera inversione della stessa ideologia illuminista che alla fine voleva anche dissotterrare la "natura umana", da sempre capitalista, dai seppellimenti premoderni.
Un altro malinteso in Jappe, relativo a questo contesto consiste nell'identificare il fatto che gli individui non riassumono la forma, e la loro sofferenza in questa condizione, con "l'area dissociata"; e per di più quest'ultima con il suo "essere" premoderno. Da un lato, però, la dissociazione è emersa solo nella modernità, insieme alla forma del soggetto, anche se determinati momenti a posteriori, e provenienti dalle società premoderne (relazioni patriarcali fra i sessi), possono essere riconosciuti come elementi che hanno contribuito a tale dissociazione. Dall'altro lato, la dissociazione costituisce, per la stessa ragione, solo il rovescio della costituzione capitalista. Perciò, il dissociato, nel suo stato ridotto, è altrettanto negativo della forma del soggetto, e a maggior ragione non può servire da fondamento e da parametro positivo. Il grande inferno del processo di valorizzazione capitalista non può essere criticato dal giardino del piccolo inferno familiare dissociato, e ancor meno a partire dal punto di vista immaginario di un essere agrario caratterizzato da laghi di sangue. Ed infine, ma non ultimo, il principio materno sarebbe, come fondamento ontologico della libertà, un fiasco altrettanto orrendo del principio del lavoro. Insieme alla "mascolinità", bisogna abolire anche la "femminilità". Specialmente da questo punto di vista, la parola d'ordine è, più che mai: Iconoclastia ora!
Tutto ciò evidentemente significa che la critica radicale non può avere un parametro positivo aprioristico - del quale non è mai sicura - non risultando mai "solo per sé" e non potendo necessariamente e in nessun modo essere "derivata" da un qualche fondamento ontologico. La necessità ontologica è impossibile da soddisfare. Solo attraverso la negazione, come possibile conseguenza (ma, né necessaria né garantita) della sofferenza può essere raggiunto uno stato positivo qualitativamente nuovo, nella conversione positiva della propria negazione (che non è riferita ovviamente ad un "tutto", ma alla forma del soggetto e alla forma della dissociazione); tuttavia, questo non può avvenire in virtù del fatto che la negazione possa, da parte sua, appoggiarsi già in uno stato positivo, ad un fondamento ontologico, ad una definizione essenziale.

- Robert Kurz -

- 7 – continua … -

fonte: EXIT!

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