TABULA RASA
- Fino a che punto è auspicabile, necessario o lecito criticare l'illuminismo -
di Robert Kurz
La critica radicale deve lottare contro l'inerzia apparentemente schiacciante dell'esistente che si è sedimentato nella coscienza generale e, di conseguenza, anche nella sfera teorica della società; e non solo sul piano della riflessione in quanto tale, ma anche su quello delle abitudini e dei preconcetti intellettuali, dell'immaginazione e degli ideali, così come delle limitazioni istituzionali, dei limiti imposti attraverso i tabù, ecc.. E' importante, quando si tratta di formulare una critica radicale della stessa critica radicale, rivoluzionarla, dotarla di un nuovo paradigma. In tale contesto si colloca il problema della resistenza di attrito al potere, poiché in questo caso la sedimentazione di qualcosa di esistente dev'essere doppiamente superata : da un lato, va superata nella coscienza generale della società ufficiale e, dall'altro, in seno alla coscienza generale della critica, esercitata fino a quel momento, che si pretende di trasformare.
La sociologia della conoscenza, di diversa provenienza, dimostra in che misura - nello sviluppo della scienza, e anche nello sviluppo della teoria critica, sia per quanto riguarda la sua relazione con la scienza ufficiale, sia sul suo stesso proprio terreno - siano in azione fattori e motivazioni del tutto divergenti dalla mera riflessione pura, dalla ricerca della verità e dall'onestà intellettuale. Il postulato di Weber, circa l'esenzione del giudizio di valore, e quello di Habermas, nel senso del discorso esente dal dominio, sono ugualmente illusori. Nelle condizioni della relazione di feticcio in generale e della soggettività concorrenziale capitalista in particolare, si presentano ostacoli alla riflessione, non solo sul piano del contenuto, ma anche a livello di riferimenti.
Qui si applicano leggi tacitamente presupposte per quel che riguarda la reputazione, si difendono identità, si sviluppano antipatie, si esprimono idiosincrasie e si risolvono rivalità. Esiste qualcosa di simile ad un'etichetta teorica che stabilisce ciò che è "serio" e "scientifico", "in conformità ai requisiti di metodo", ecc., e quello che non lo è. Così non si stabilisce solo una frontiera formale, ma tale frontiera viene estesa anche ai contenuti; non solo si coltiva una mera correttezza del tratto sociale, ma si difende anche un senso comune. Tanto la scienza ufficiale quanto la teoria critica, nel loro rispettivo status quo, serrano le fila contro intrusi ed arrivisti, in niente diverse, rispetto a questo, da qualsiasi altra istituzione borghese e società ermetica; ci si difende tanto dai dilettanti e dai ciarlatani quanto dai rinnovatori e dai rivoluzionari, visto che non si distingue necessariamente fra gli uni e gli altri. "L'errore di grammatica" incontra inizialmente, invariabilmente, un rifiuto veemente. Ma, ovviamente, esistono vari gradi di comportamenti difensivi. Si parte da quello che ancora viene considerato come appena sopportabile o che viene solo considerato marginale, eccentrico, ecc., e si arriva a tracciare una pura, e semplicemente insopportabile, grande parentesi.
Tuttavia, da parte sua, anche ogni movimento rinnovatore o rivoluzionario si presenta come discontinuo e frammentato. Un anticipo d'avanguardia non raggiunge la superficie della coscienza sociale come se fosse un nuovo paradigma, finalmente imposto nella sua versione e forma primitica. Ed il movimento avviene in modo non uniforme, non simultaneo: perché un trasformazione riesca a raggiungere il suo obiettivo, sono necessari numerosi tentativi. Questo conduce, sempre nuovamente, a conflitti, necessari ed inutili, spesso angoscianti. Anche la stessa critica trasformatrice non segue inevitabilmente solo punti di vista conoscitivi o un puro percorso verso la verità. E neppure tutti accompagnano ogni movimento, alcuni si mettono di lato, altri incontrano un confine dove forse non c'è confine alcuno. Quando è "abbastanza" e dov'è il punto in cui si arriva "troppo lontano", be' questa è cosa che ancora dev'essere rivelata.
Non è raro che un rifiuto si manifesti soprattutto come una critica formale e stilistica. Ogni diatriba che vada oltre i confini preesistenti si trova associata ad una sorta di allegria della scoperta e ad un certo gesto aggressivo, nel quale si riflette l'auto-affermazione del nuovo contro l'inerzia paralizzante del vecchio. E quasi tutte le battaglie di ritirata teorica cominciano con la comparsa dei portatori di dubbi che perdono il gusto per l'impeto dell'attacco, mentre gli altri si lasciano convincere dalla nuova teoria critica, arrivando ad identificarsi per mezzo delle loro stesse domande proprio con l'ulteriore sviluppo acutizzatosi. La coscienza deterrente, al contrario, che rifiuta la critica trasformatrice per principio, o che non desidera seguirla a partire da un determinato punto, preferendo restarne fuori, comincia ad infastidirsi, secondo il caso, "alla buona maniera borghese", con stile suppostamente "trionfalista", con impeto aggressivo, con la formulazione polemica, con l'esagerazione, con la "unilateralità", con i modi teorici di comportarsi a tavola, ecc..
Nello sviluppo della teoria critica del valore oltre il "marxismo" c'è stato, finora, soprattutto il passaggio attraverso la critica categoriale del lavoro che ha causato un blocco identitario ed una campagna formale di diffamazione da parte di quelli rimasti indietro: "Ora siamo arrivati troppo lontano", era il subtesto di un discorso al contrario il quale si serviva di argomenti in tutto e per tutto somiglianti a quelli abitualmente utilizzati dalle guardie accademiche locali e di distretto contro qualsiasi tesi rivoluzionaria. I critici del lavoro perciò dicevano agli ontologhi marxisti del lavoro: "non abbiamo letto" Marx (o, in ogni caso, non lo abbiamo letto in forma adeguata), che il procedimento sarebbe "impuro" in termini metodologici e filologici, che le contraddizioni interne alla teoria di Marx sarebbero solo "costruite", essendo la contestualizzazione storica, a ben vedere, "inammissibile", ecc.. La negazione pura e dura della categoria del "lavoro", tutto meno che relativizzante, provocò anche nei commentatori - ben intenzionati, ma in parte ancora fedeli al marxismo del movimento operaio - per così dire la furia della relatività. Quanto più poveri ed apologetici erano i contro-argomenti che si riferivano al contenuto, tanto maggiore era la veemenza con cui i loro autori si rifugiavano nell'arroganza delle note a piè di pagina, nello stile dei professori inveterati di liceo: "Così non si può lavorare con l'assunto". Come è stato dimostrato finora, nei punti focali dello sviluppo della teoria critica del valore possono insorgere difficoltà inaspettate, che possono assumere tanto la forma di smarrimento della critica, quanto la forma di blocchi identitari.
Il percorso di arresto sembra manifestarsi, innanzitutto, nella crescente tendenza ad un sorta di apatia e di equilibrio accademico, che potrebbe a sua volta innescare un'acutizzazione apodittica tanto più veemente, dall'altro lato. Ma, mentre le questioni non vengono formulate con sufficiente chiarezza e, perciò, i confini non vengono definiti con precisione, non si può formulare una delimitazione più definita ma, semmai, promuovere una controversia. L'impeto polemico non deve indurre in una persona - invertendo semplicemente il blocco identitario - il blocco a priori da parte sua di ogni anti-critica che si misura con la critica con pretese trasformatrici, e negare il carattere discorsivo dell'elaborazione teorica. Un mero progredire senza una qualsivoglia resistenza sarebbe fatale, perché la trasformazione della critica verrebbe così defraudata di un'istanza riflessiva imprescindibile. Non tutta la relativizzazione agisce come un freno, e neppure tutte le riparazioni che invocano la complessità sono reazionarie sul piano teorico. Anche l'esitazione può essere produttiva, anche sfidare l'ostinazione può portare alla luce del giorno nuove conoscenze. E anche il blocco identitario ha la sua importanza, sebbene infelice, che costringe la critica trasformatrice a dotarsi di acutezza e precisione terminologica. Infine influiscono anche sulla complessità dell'elaborazione teorica, le differenze di temperamento e relative ad un modo di procedere che non implichi a priori un'opposizione ostile (e che molte volte viene solo scambiata per un risentimento aperto, a causa di una mancanza di riflessione e di auto-riflessione a quel livello).
Col progredire della critica trasformatrice che va oltre le forme di pensiero e di attuazione della modernità produttrice di merci si pone, sempre nuovamente, la vecchia questione: Che cosa è cosa? Cos'è un blocco identitario e che cos'è una riparazione produttiva, oppure che cos'è una rottura in termini di contenuti e che cos'è solo uno stile differente, o ancora che cos'è un'apologetica e che cos'è una diversificazione necessaria della critica? Tali questioni non possono essere decise all'inizio, per decreto o per idiosincrasia, ma solamente "nelle cose in sé", ossia, mettendo in risalto il contenuto, sia attraverso il metodo discorsivo che in modo apodittico, sia in termini polemici che per mezzo della relativizzazione. Nella stessa misura in cui l'anti-critica diventa identitaria, e quindi apologetica, in quel che dice rispetto all'oggetto sociale della critica, può accadere che non possa essere raggiunta da nessun'argomentazione; ma è lecito avere sufficiente fiducia nella dinamica stessa del movimento trasformatore, che saprà superare tutti i tentativi di frenarlo e riuscirà a raggiungere la sua destinazione storica.
In questo senso, è facile vedere come il percorso della "distruzione creatrice" del vecchio paradigma della critica sociale, categorialmente legato al suo oggetto, non sia ancora in alcun modo terminato. Eppure c'è da uccidere molte vacche sacre. Soprattutto, riguardo ai temi essenziali del cosiddetto Illuminismo, di questo movimento filosofico del XVIII secolo, in cui la costituzione del mondo moderno e del suo sistema produttore di merci viene messa in scena come riflessione positiva, permeando e determinando fino ad oggi, implicitamente o esplicitamente, non solo l'apologetica ruminante ma anche la critica ugualmente inconsistente e ruminante. Specialmente sotto quest'aspetto, la distruzione radicale dei concetti non può essere moderata, e dev'essere portata in modo coerente fino in fondo.
Indubbiamente, nella critica dell'illuminismo in generale, ancor più di quanto avvenga rispetto alla critica del lavoro, in particolare, quello che è in causa è il patrimonio di famiglia della coscienza borghese, inclusi i suoi derivati, o appendici, "di sinistra" o "marxisti". Pertanto, quel che conta è, da una parte, il passare minuziosamente in rivista tutti i suoi angoli e le sue fessure, argomentando con estrema cautela, tenendo conto di tutti i suoi livelli e non lasciando aperta nemmeno una porticina di servizio per una qualche insidiosa apologetica. Questo, tuttavia, non può significare, in alcun modo, una rinuncia alle tesi esacerbatrici, anzi. Gli è che, dall'altra parte, la critica dell'illuminismo deve attuare in maniera particolarmente aggressiva, dal momento che solo in questo modo si arriva alla sorgente di ogni paralisi e cecità del pensiero emancipatore della modernità. La domanda decisiva è questa: Che cos'è che rimane del pensiero della modernità borghese, e che cosa dev'essere abolito senza pietà? In altre parole: Fino a dove può e deve arrivare, alla fine, la dura negazione? La questione centrale, in tale contesto, è il destino del pensiero illuminista. C'è o no qualcosa da salvare nel pensiero illuminista? In caso affermativo, che cosa, e in caso contrario, quali sono le implicazioni?
L'analisi che segue si riferisce ad argomentazioni in parte pubblicate (e debitamente segnalate), in parte orali ed interne, alcune esplicite, altre implicite o virtuali, in parte espresse nel circuito ristretto della stessa critica dell'illuminismo, in parte al di fuori di questo, oppure che, in modo generale, si trovano all'ordine del giorno nella sfera teorica, in relazione a questo problema della portata e della "ammissibilità" della critica radicale dell'illuminismo, con pretese di emancipazione. Si tratta di definire con maggior chiarezza la logica della negazione radicale, nella sua relazione fondamentale con le innegabili conquiste della storia, e scoprire le strategie difensive del "soggetto occidentale" maschile.
1 – continua … -
- Robert Kurz -
fonte: EXIT!
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