La crisi finale del capitalismo
di Armel Campagne
Il capitalismo non è l'eterno ritorno dello stesso, bensì un processo storico dinamico, spiega Robert Kurz, in "Vies et mort du capitalisme". Il capitalismo, come accumulazione del capitale, come "processo di valorizzazione" o "valore che si valorizza", sbatte oggi contro il suo limite interno. Vale a dire che l'accumulazione del capitale si fonda sull'utilizzo della forza lavoro astratta intesa come "spendimento di materia cerebrale, di muscoli, di nervi", in una totale indifferenza di quello che è il suo contenuto (che si tagli legna o ci si prostituisca o si fabbrichi automobili, quello che interessa tanto lo sfruttatore quanto lo sfruttato è il denaro che si trae da tali attività). La quantità di lavoro astratto appare come quantità sociale di valore(quantità rappresentata in modo imperfetto dal denaro) e come "oggettività del valore"(valore rappresentato imperfettamente dal prezzo) dei prodotti. Più c'è "spendimento di energia umana astratta" remunerata (sfruttamento contro salario) più c'è valore. La domanda di merci proviene solo dallo sfruttamento remunerato dei lavoratori (salario o profitto). Una merce che non viene comprata non ha "valore di scambio", non ha valore di mercato, non ha valore capitalistico, e dal momento che solo lo sfruttamento remunerato dei lavoratori crea una domanda per tale merce, senza sfruttamento remunerato dei lavoratori non c'è valore. Più lavoratori remunerati sfruttati ci sono, più c'è sfruttamento remunerato, quindi più valore, quindi più crescita.
Il capitalismo - osserva Kurz - non è altro che l'accumulazione del denaro come fine in sé. La sostanza di questo denaro si trova nell'utilizzo sempre crescente della forza lavoro umana.
Il capitalismo non avrebbe alcun limite interno alla sua valorizzazione se non fosse concorrenziale e se non ci fosse un costante aumento della produttività.
La competizione porta ad una maggiore produttività (più si è produttivi, più si è competitivi, quindi più si riesce a vendere merci) e rende questa forza lavoro (i lavoratori salariati sfruttati) sempre più superflua (rimpiazzati da macchine sempre più potenti e sofisticate). Tale contraddizione interna sembrava sempre superata per mezzo dell'assorbimento massivo di forza lavoro da parte delle nuove industrie. Il "miracolo economico" dopo il 1945 ha fatto di questa capacità del capitalismo, un credo. Una produttività che aumenta, significa che minori energie umane creano più prodotti materiali. La contraddizione interna al capitalismo concorrenziale, quella per cui un costante aumento della produttività porta ad una costante diminuzione dell'utilizzo di forza lavoro astratta, di sfruttamento e, dunque, rimanda all'espansione dei mercati, grazie a dei nuovi settori di sfruttamento (per esempio, l'industria automobilistica, all'inizio del 20° secolo), ecc..
La "terza rivoluzione industriale", "nuovo standard irreversibile di produttività" (cioè, è impossibile tornare ad una minor produttività in seno al sistema capitalista), porta al suo termine questa tendenza, nel corso degli anni '80. La creazione sempre nuova di capitale-denaro (debito, creazione massiva di denaro) sembra essere l'unica soluzione: in realtà, questa pseudo-accumulazione senza sostanza, fatta attraverso le bolle finanziarie, l'indebitamento massivo ed una creazione enorme di moneta, ha raggiunto attualmente i suoi limiti ed entrerà in crisi ad intervalli sempre più regolari. Il limite interno storico del capitalismo non verrà risolto negli anni 1980/90: una gestione repressiva delle crisi sociali, una crescita senza sostanza per mezzo dell'espansione sfrenata del credito, dell'indebitamento e delle bolle finanziarie ed un'apertura mondiale delle valvole monetarie, non cambieranno niente e non faranno altro che ritardare un processo che è diventato inevitabile in senso a questo sistema economico. Oggi, assistiamo ad una sorta di ultimo stadio del capitalismo di Stato, capace, tutt'al più, di ritardare il crollo: le munizioni del keynesismo si sono di già esaurite. Questo nuovo deficit pubblico (legato al salvataggio delle banche) non può più permettere i grandi investimenti che avrebbero potuto rilanciare un po' il sistema.
La dinamica oggettiva del sistema capitalista si accompagna ad una dinamica soggettiva che contribuisce a modificarne l'aspetto. Le multinazionali hanno rafforzato tale dinamica spingendola ad una mondializzazione imperialista (FMI, Banca Mondiale, intervento delle grandi potenze) e competitiva (risultante in un'eliminazione ancora più rapida e violenta delle imprese meno competitive - piccole e medie imprese ed imprese del terzo mondo - e di un certo numero di sfruttati) che si è rivelata molto redditizia (crescita dei mercati e riduzione del costo della mano d'opera) ma che ha portato alla diminuzione ancora più rapida della massa di valore che già era in calo (in seguito ai fallimenti, alle delocalizzazioni, ai licenziamenti e ai massicci tagli salariali a livello mondiale). La finanziarizzazione dell'economia (l'inflazione degli attivi fittizi legati al capitale finanziario), vero e proprio Keynesismo da casinò che non crea alcun valore reale, nondimeno ha permesso di ritardare (e quindi di aggravare ulteriormente) il crollo del sistema capitalistico e, soprattutto, di permettere ad una minoranza di investitori, di banchieri e di speculatori finanziari di accaparrarsi un'enorme parte del processo di valorizzazione del capitale in declino (accelerando il suo declino e spostando somme importanti, dal processo di valorizzazione reale del capitale, verso processi di valorizzazione fittizia). I grandi capitalisti hanno inoltre beneficiato di queste dinamiche imponendo un vero e proprio diktat ai salariati spaventati (distruzione del movimento operaio/aumento dei profitti in rapporto ai salari). I ricchi, alla fine, hanno sofferto assai meno di questa "desostanzializzazione reale del capitale", come viene indicato dall'aumento spettacolare delle ineguaglianze nel corso degli ultimi quarant'anni. Una concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione che, in virtù di una "propensione al consumo" più bassa, sia dei ricchi che dei poveri (e di un abbassamento dei salari assai decisivo), e di un accaparramento dei terreni agricoli, ha accelerato ulteriormente la crisi del capitale e quella del nostro livello di vita (meno salario/meno possibilità di soddisfare i nostri bisogni).
Il capitalismo ha oggettivamente raggiunto i suoi limiti storici assoluti, ma non è meno vero che, in assenza di una coscienza critica sufficiente,l'emancipazione non può essere raggiunta. Il risultato sarebbe allora un capitalismo senza valore, un capitalismo dove non si riuscirebbe più a vendere la propria forza lavoro (se non per impieghi servili e degradanti, come quelli legati alla prostituzione e al lavoro domestico) e dove si morirebbe in massa, dal momento che parallelamente si produrrebbe una concentrazione di mezzi di produzione (terreni agricoli, fabbriche), dacché non si riuscirebbe a produrre il proprio valore d'uso (a causa della confisca di quegli stessi mezzi di produzione a profitto di una minoranza) e non si riuscirebbe a vendere la propria forza lavoro (perché c'è sempre meno bisogno di forza lavoro). L'impossibilità di tornare indietro (e la mancanza di interesse a farlo: chi vorrebbe tornare oggi allo sfruttamento capitalista del 19° secolo?), di continuare a vivere in questo sistema di sfruttamento che crolla (chi vorrebbe seriamente rimanerci, quando è possibile un'emancipazione senza precedenti?), ci obbliga a prendere coscienza di un'opportunità storica inedita: quella di un socialismo senza valore, senza lavoro astratto, senza merci, senza concentrazione dei mezzi di produzione, dove ciascuno possa soddisfare i suoi bisogni fondamentali al di fuori di qualsiasi processo di sfruttamento e di qualsiasi processo di valorizzazione.
"La contraddizione è una contraddizione interna al capitale globale, e non già una contraddizione in grado di portarci al di là del capitalismo", ci avverte Kurz. Vogliamo un socialismo senza sfruttamento o un genocidio economico mondiale? Socialismo? O barbarie?
2 commenti:
Socialismo o Barbarie era il titolo di un buon libro pubblicato diversi anni or sono quando il comunismo non aveva ancora gettata la maschera del tutto ed il capitalismo occidentale era ancora molto rampante; poi il capitale ha scoperto i mercati orientali, Cina e Russia hanno "trapassato" l'Occidente, gli Imperi si stanno spartendo il mondo e non è restata altro che la Barbarie. Si può fare del sindacalismo in alcuni settori e gli anarchici possono fungere da catalizzatori positivi..... il capitalismo non sta godendo ottima salute, però noi abbiamo pochissima vitalità ed ancor meno speranze nel "sol dell'avvenire". Sarà semplicistica la mia valutazione socio-economica, ma in poche parole è come la vedo alla "fine della mia storia spicciola". Gianni Landi
Credo, Gianni, che il sindacalismo sia fatto dello stesso fumo delle ciminiere di cui è fatto il capitalismo. Senza togliere niente a nessuno, e ben consciente del fatto che in molti casi, e per molti, il sindacalismo e la difesa degli interessi operai, abbia fatto la differenza fra la vita e la morte, so bene anche che sempre, alla fine, l'interesse principale, se nom l'unico - a cui si sono sacrificati tutti gli altri interessi - è rimasto quello della sopravvivenza della struttura sindacale, a qualsiasi prezzo. Così, so anche bene che ad un capitalismo alla fine - se non addirittura già morto: anche ai morti per molto tempo dopo il decesso continuano a crescere unghie e capelli! - non corrisponde affatto un movimento rivoluzionario cosciente dei suoi obiettivi. Certo, sarebbe stato meglio se alla fine, il capitalismo ci fosse arrivato quarant'anni fa, come si sperava, ma tant'è. Hic Rhodus, hic salta (ti ho fatto anche la colta citazione in latino). Con questo bisogna misurarsi, noi o chi per noi.
Ti abbraccio
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