«Con queste parole di Amiel – “Noi ci serbiamo a un avvenire che non viene mai” – si chiude un curioso libretto autobiografico di Antonio Canepa, palermitano, professore di storia delle dottrine politiche nell’università di Catania, comandante dei gruppi armati del Movimento indipendentista nella zona etnea e in quella zona ucciso dai carabinieri. La breve autobiografia, pubblicata nel 1940, è presentata con ingenua e complicata mistificazione: ne è dato come autore un Jean Sorédan, chein una nota ringrazia un dottor Guido Colozza, segretario di Canepa, per i dati e le informazioni che gli aveva fornito; la traduzione dal francese è attribuita a un Federico Vitanza Scotti, al quale Canepa, in una lettera stampata su carta verde e allegata al libretto, blandamente rimprovera qualche inesattezza del Sorédan. Questo gioco mistificatorio, di mistificazioni che escono una dall’altra come scatole cinesi, è in parte frutto del temperamento di Canepa e in parte dettato dalla contingente necessità di dire e non dire, di dare ambiguità a certe affermazioni che nel 1940, diciottesimo dell’era fascista, potevano essere pericolose. Sotto le dichiarazioni di ortodossia fascista Canepa infatti velava l’affermazione di principi democratici: ‘Veramente grande è colui che sa ascoltare con paziente serenità le argomentazioni di un avversario…Sono tre le virtù, immensamente rare, che sole valgono a conciliare l’uomo con se stesso e col mondo: la tolleranza, la moderazione, la semplicità…Questa guerra, come tutte le guerre, è un giuoco temerario nel quale i veri interessi dei popoli non hanno parte…”; e quando il suo immaginario biografo gli domanda se crede che dalla guerra sorgerà l’ordine nuovo, sbandierato dai nazi-fascisti, recisamente risponde di no. Questa stessa ambiguità è nel suo voluminoso “Sistema di dottrina del fascismo” attraverso il quale riesce a far passare tanta dottrina allora proibita, tanto pensiero “eretico”.
Il ritratto che vien fuori dall’autobiografia è quello di un uomo fondamentalmente romantico ed anarchico, effettualmente autodidatta (e con tutta la confusione e presunzione dell’autodidatta, ma con pronunciate venature illuministiche. Parlando della sua formazione dice di aver esumato il “Dictionnaire philosophique” di Voltaire e persino gli scritti di Bayle: e veramente, in quegli anni, autori come Bayle e Voltaire erano così scarsamente frequentati che a buon diritto può dire di averli esumati.
Il suo gusto per l’avventura era straordinariamente vivo: aveva tentato, nel 1933, di occupare con le armi la Repubblica di San Marino e di resistervi per qualche tempo, per dire al mondo che in Italia l’antifascismo era vivo anche nella nuova generazione. Ma il complotto fu scoperto, e i congiurati furono arrestati parte in territorio italiano, parte a San Marino. In Italia, furono dati per pazzi; a San Marino si ebbero dure condanne. Di ciò Canepa tace nella sua autobiografia. Ma è chiaro che, finita l’avventura sammarinese, Canepa si diede a scalare la cattedra universitaria con uguale spirito di beffarda avventura: nel giro di tre mesi buttò giù il poderoso “Sistema di dottrina del fascismo”, suscitando la diffidenza del massimo organo di stampa dei fascisti, che vi notava la fede fascista ridotta a una aridissima categoria kantiana, e il consenso dei cattedratici, che invece vi riconoscevano esattezza metodologica.
Successivamente pubblicava uno studio sull’organizzazione del partito fascista che incontrava il consenso dei dottrinari e dello stesso “Popolo d’Italia” che lo aveva attaccato per il Sistema: per cui, giovanissimo, si trovò incaricato per la storia delle dottrine politiche prima nell’Università di Palermo e poi in quella di Catania. Aveva capito, come già i comunisti, che ai giovani antifascisti meglio conveniva operare da di dentro. Forse in questo periodo, intorno al 1940, egli ebbe modo di stabilire contatti col servizio segreto inglese: persone degne di fede, che gli furono vicine fin dal suo arrivo all’università di Catania e per tutto il periodo della guerra e dell’azione indipendentista, assicurano che questi contatti ci furono, e si concretarono in azioni di sabotaggio in Sicilia.
E crediamo che dalle stesse fonti provengano le informazioni che Filippo Gaja offre nel libro “L’esercito della lupara”. Gaja dice anzi che dopo un’azione di sabotaggio condotta contro l’aeroporto di Gerbini, Canepa passò nel nord d’Italia per svolgere una missione; e precisamente intorno a Firenze ebbe a partecipare, nei primi del ’44, ad azioni partigiane. Ma comandanti partigiani della Toscana, da noi interpellati, lo escludono; a meno che, come ci ha detto uno di loro, Canepa non sia stato uno di quegli elementi di collegamento dei servizi inglesi, i quali si muovevano da una formazione all’altra con assoluta autonomia e senza mai entrare in effettiva confidenza coi partigiani. Il che può essere appunto il caso. Certo è, comunque, che nell’estate del ’44 Canepa è di nuovo in Sicilia: indipendentista ma, afferma il Gaja, con la tessera del Partito Comunista in tasca. Affermazione questa, non comprovata da alcun documento o testimonianza, anche se sono indubitabili gli intendimenti effettivamente rivoluzionari, di rivoluzione sociale, che il Canepa portava dietro il Movimento Indipendentista. Prima la Sicilia indipendente, diceva Canepa, e poi le terre o le teste.
Ma a rimetterci la testa fu proprio Antonio Canepa, teorico e guerrigliero della rivoluzione indipendentista siciliana. Il 17 giugno 1945, alle porte di Randazzo, una pattuglia di carabinieri intimò l’alt a un motofurgoncino, proveniente da Cesarò, guidato da Giuseppe Amato (oggi consigliere comunale di Catania per il PSIUP) con a bordo Canepa, Nino Velis, Carmelo Rosano, Nando Romano e il giovanissimo Giuseppe Giudice. La sequenza del fatto, ansiosa e veloce, non risulta del tutto chiaro dal ricordo dei protagonisti: Amato ricorda di aver visto un carabiniere tirar giù dal furgoncino il ragazzo Giudice e di aver poi sentito il primo sparo; Velis ricorda invece prima lo sparo, forse da parte di Canepa contro i carabinieri. Discordanza abbastanza comprensibile, se si considera che Amato vide la scena voltandosi per un momento indietro e Velis l’aveva invece di fronte. La differenza dal punto di vista tra Canepa e Amato fu d’altra parte, con tutta probabilità, quella che segnò il tragico destino di Canepa, Rosano e Giudice; perché Amato sapeva di avere già guadagnato la curva, mentre Canepa vedeva ancora la pattuglia dei carabinieri. Sarebbero bastati un paio di metri ancora, e sarebbero stati fuori tiro: ma Canepa battè sulla spalla di Amato, che era il segnale stabilito perché si fermasse; Amato si fermò, sentì uno sparo e poi il grido di Canepa: “Perché sparate, che bisogno c’è di sparare?”; il che vuol dire che erano stati i carabinieri a sparare il primo colpo, forse per intimidazione. Poi seguirono altri scoppi, uno dei quali fu quello della bomba a mano che Canepa portava in tasca e che gli dilacerò la coscia (la bomba, evidentemente, fu colpita da una pallottola). A questo punto, Velis che scappava per i campi e Romano e Giudice a terra colpiti, Amato si lanciò col furgoncino nella discesa verso Randazzo, portando Rosano agonizzante e Canepa ferito. Alle prime case abbandonò il furgoncino, raccomandando alla gente di portare in ospedale i feriti. E così fu fatto: ma Rosano arrivò morto, e Canepa vi morì dissanguato. Pare che carabinieri e medici fossero convinti di avere tra le mani dei banditi. E che i carabinieri non si siano dati a preoccuparsi molto (o forse se ne preoccuparono anche troppo), lo dice il fatto che Romano, che era soltanto ferito, fu portato al cimitero di Giarre per essere seppellito: e soltanto la solerzia del becchino evitò la raccapricciante conseguenza.
Così, fortuitamente o deliberatamente, lo Stato italiano scese al primo compromesso con la destra indipendentista.»
- Leonardo Sciascia - “Quaderno”, su L'Ora di Palermo del 19 giugno 1965 -
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