lunedì 28 dicembre 2015

Il pessimismo ed il divertimento

cultura1

L'Industria Culturale nel 21° Secolo (1 di 3)
- Sull'attualità della concezione di Adorno ed Horkheimer -
di Robert Kurz

* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatrice? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza * Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale * La virtualizzazione del mondo della vita * Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione * Una cultura gratuita a caro prezzo * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale * Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *

Nota preliminare: questo saggio è la versione scritta ed ampliata di una comunicazione presentata il 21 novembre 2010 presso l'Alliance Française a San Paulo nell'ambito di una serie di conferenza sul tema "L'Industria Culturale nel 21° Secolo".

Ci sono testi che sono diventati vecchi già nel momento stesso in cui vedono la luce. E vi sono testi che pur avendo cento anni di età appaiono freschi ed emozionanti. Il libro "La dialettica dell'Illuminismo" di Adorno ed Horkheimer, che include il celebre capitolo sull'industria culturale, ebbe la sua prima edizione nel 1944. Dopo tanto tempo si può ancora parlare di attualutà delle idee in esso formulate?
Per il pensiero postmoderno in senso lato, la risposta è chiaramente no. Un tale punto di vista diventato dominante negli ultimi decenni ama accusare il concetto di industria culturale di essere portatore di un "pessimismo culturale" conservatore. Che male può esserci nell'industrializzazione della cultura? Non si trova forse lì quel potenziale di libertà e progresso che può essere utilizzato per tutti gli esseri umani? La sinistra culturale e pop postmoderna, nella sua esperienza mediatica, per non dire snobismo mediatico, ritiene di essere oltre il pensiero "fuori moda" della teoria critica. In questo modo, però, ha dimostrato solamente il suo stesso carattere di semplice fenomeno di moda. Comunque l'impresa pop postmoderna ormai si trova ad essere avanti negli anni ed i suoi vecchi protagonisti hanno un'aura di nonni. All'improvviso, essi stessi corrono il rischio di diventare conservatori in relazione al loro stesso mestiere di gioventù culturale professionale. Ed è proprio in questa situazione che diventa interessante tornare a guardare con altri occhi al concetto critico di industria culturale ed alle accuse postmoderne contro tale concetto lanciate.

* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità *
Per cominciare si rende necessario chiarire cosa si deve intendere per "pessimismo culturale". Nella modalità dell'espressione postmoderna, che preferisce procedere sempre in maniera associativa, la semplice classificazione denunciatoria appare come pronunciata di per sé, senza ulteriori spiegazioni. Nell'argomentazione dispregiativa, che rimane ugualmente associativa ed indeterminata, si infiltra in qualche modo il riferimento peggiorativo all'atteggiamento di "borghesia culturale". In realtà la "borghesia culturale", cui corrisponde la rigorosa differenza fra cultura di intrattenimento e cultura seria, è un fenomeno specificamente tedesco. La letteratura, la musica ecc. "serie" o di "alto livello culturale" non devono essere macchiate da un "intrattenimento" inteso come fondamentalmente basso, allo stesso modo in cui l'insegnamento e la ricerca accademica non devono essere macchiate da una "scienza popolare" che si misura sulla comprensione comune.
Se la borghesia culturale classica, soprattutto in Germania, storce il naso riguardo alla superficialità della moderna cultura commerciale, questo rimane un gesto vuoto. Dal momento che tale critica rimane essa stessa superficiale, in quanto la sua preoccupazione è tutta rivolta ai modi esteriori di esposizione, mentre il contenuto sociale ed il nucleo politico-economico di tali produzioni devono essere occultati e rimangono ampiamente irriflessi. Questa sorta di "pessimismo culturale" è una forma di reazione puramente intracapitalista. Quanto più si invoca astrattamente una "essenza interna" indeterminata e mistificata dell'alta cultura illuminista borghese, tanto più si presenta come irrilevante la crociata della borghesia culturale contro l'industria culturale. Dietro tutto questo si nasconde un pietoso stato di cose. L'intrattenimento frivolo e la semplificazione popolare sono solo il rovescio della medaglia del carattere, ideologicamente caricato ad alto grado, delle stesse scienze ed arti borghesi "serie" che in questo modo vengono rese riconoscibili. Il fatto che queste non vengano comprate solo perché sono già state comprate dallo Stato ai fini della rappresentazione, dimostra l'origine comune per cui il denaro si valida nello Stato e lo Stato si valida nel denaro. E' proprio l'involontaria rivelazione di questo contesto a non piacere ai critici della cultura appartenenti alla borghesia culturale, quando criticano l'industrializzazione della cultura, in quanto è la loro vita stessa ad esserne coinvolta. Viene completamente annullata la distanza rispetto alla superficialità culturale per quelli che sono i resti miserabili, e precari dal punto di vista capitalista, dei tirapiedi borghesi dell'alta cultura, ragion per cui il loro atteggiamento può essere considerato solamente come una satira reale.
E' senz'altro vero che Adorno ed Horkheimer non possono essere assolti dall'accusa di patriottismo riguardo all'ambiente della "borghesia culturale". Questo, tuttavia, ha più a che fare con le modalità di esposizione che con il contenuto critico. Se la postmoderna "critica della critica" insiste soprattutto sul primo aspetto, allora essa ancora una volta parla più di sé stessa di quanto dica dell'oggetto che affronta. Di fatto per il culturalismo postmoderno sono sempre più importanti gli stracci, gli accessori, lo "styling" e l'atteggiamento, rispetto a quello che in tutto questo si esprime. La critica non vera, ed essa stessa superficiale, che la borghesia culturale rivolge alla superficialità diventa un culto postmoderno affermativo della superficialità. L'apparenza immediata viene emancipata dalla sua essenza. Il che corrisponde al modo positivista di pensare che sottomette i contenuti ad un metodo formale vuoto e li condanna all'indifferenza.
La scelta esplicita dell'esteriorità, rispetto alla quale la critica culturale conservatrice, e la nebulosa invocazione di una "interiorità", costituisce una mera inversione, naturalmente non costituisce niente di nuovo. Ritorna periodicamente, anche se nella postmodernità  è stata sperimentata, per così dire, la sua apoteosi nel capitalismo tardivo e nel capitalismo di crisi. Heinrich Heine, nel suo saggio critico su La Scuola Romantica (1833), ha in mente in un certo qual modo un atteggiamento ed un modo di procedere simile, al fine di caratterizzare il processo di autodissoluzione del romanticismo: "Fra gli imitatori di Foqué così come fra gli imitatori di Walter Scott si è tristemente presa l'abitudine di descrivere soltanto la manifestazione esteriore e l'abbigliamento anziché la natura interiore delle persone e delle cose. Questo genere insinuante e leggero ha preso piede attualmente sia in Germania che in Inghilterra ed in Francia. Anche se le descrizioni non esaltano più i tempi della cavalleria, ma ci parlano della nostra condizione moderna, pure così permane il vecchio stile del vedere solo il lato accidentale del fenomeno invece della sua essenza. I nosti nuovi romanzieri, anziché la conoscenza delle persone esprimono soltanto la conoscenza dell'abbigliamento, forse basandosi sul motto per cui: è l'abito che fa il monaco."
E' stato detto molte volte, e non solo dal lato conservatore, che la riduzione degli oggetti alla loro fenomenologia, e decisamente alla loro facciata, così come il formalismo sia estetico che epistemico, costituiscono segnali ineludibili della decomposizione culturale e sociale e del processo di dissoluzione; sia di una formazione sociale, di un'epoca, di un modello culturale o di una determinata scuola. Per quel che riguarda il nostro oggeto, si tratta non solo del modello giunto al termine della postmodernità, ma del fatto che questa ha già costituito come tale e nel suo insieme il modello giunto al termine della modernità capitalista sotto tutti i punti di vista. Il ballo postmoderno delle maschere non rappresenta altro che una festa della classe media al tempo della peste, neanche particolarmente frivola, ma piuttosto noiosa. Una metafora, del resto, con cui già negli anni novanta Roswitha Scholz ha caratterizzato il carnevale storico della postmodernità vista come fuga, condannata al fallimento, verso il palazzo di cristallo del capitalismo da casinò. Fino ad oggi, questo ha cambiato ben poco nella coscienza ideologica del carattere sociale postmoderno nonostante gli scoppi violenti della crisi. Quanto più si invoca la "creatività", tanto più ha luogo ininterrottamente la rappresentazione dell'accidentale e dell'esteriore. Non è la creazione di qualcosa di nuovo che si esprime con emozione contro la determinazione dell'essenza, ma è semmai la fuga di fronte all'essenza negativa e del tutto miserabile della realtà della propria esistenza.
L'ipotesi di uno strato esteriore culturale e metodologico nasconde proprio la causa centrale dell'indifferenziazione, ossia, la forma sociale generale e sovrapposta come contenuto sostanziale, cui anche l'industria culturale appartiene da sempre. Ciò che è "borghese" in senso proprio nella sfera culturale dominante, non è un movimento conservatore della "cultura" tipo associazione di filologi, ma è piuttosto il carattere di merce dei suoi prodotti, che integra questi prodotti nel regno del "lavoro astratto" e degrada sé stessa ad elemento astratto nella metamorfosi del capitale, come un mobile da design o un cibo da design. In questa situazione, i protagonisti possono reciprocamente ignorare il carattere di intrattenimento o la serietà.
Ironicamente, la borghesia culturale classica e le sue attuali figure decadenti non si illudono in maniera diversa da come si illude il postmodernismo che cavalca l'onda dei media per quel che riguarda l'essenza negativa della cultura capitalista. Entrambi riflettono solo differenti stadi dello sviluppo capitalista nel medesimo modo affermativo. Il pessimismo culturale è conservatore e la formazione positiva postmoderna dell'industria culturale è soltanto pseudo-"progressista" nello stesso continuum capitalista che non viene trasceso da nessuno dei due lati. Per questo la differenza attiene solo alle confezioni o alle acconciature, mentre l'identica determinazione categoriale rimane nascosta e non avverte il comune ridicolo. Quando uno ride dell'altro, egli ride solamente di sé stesso.

* Critica culturale elitaria o emancipatrice? *
Il pessimismo culturale conservatore è elitario fino all'osso e solo a partire da questo punto di vista è pseudo-critico della produzione intellettuale in serie. La cultura, presumibilmente, deve morire insieme all'Occidente affinché non sia più riservata alle classi superiori "colte" ma assuma il carattere di una cultura di massa. La critica della frivolezza, della superficialità e della volgarità dell'industria culturale in questo modo rimanda direttamente al fatto di essere prodotta per la grande maggioranza, ivi inclusi gli strati sociali inferiori considerati come "per natura" intellettualmente minori. Si deve loro concedere, con gusto, una sorta di divertimento ingenuo, in modo da rendere inoffensivo il loro piacere ed evitare cattivi pensieri, cosicché la cultura elitaria mantenga il suo catattere esclusivo e la cosa rimanga fra noi.
L'industria culturale, al contrario, viene percepita come una minaccia che può livellare le pretese, superare le frontiere sociali e smascherare come una sciocchezza l'aura di ardore culturale della vecchia borghesia, dal momento che essa ha perso da tempo la sua base storica che nel presente permane solo ideologicamente. Non è per caso che Adorno ed Horkheimr prendono in giro gli "amici dell'educazione" che "idealizzano come organico il passato pre-capitalista" patriarcale in maniera imponente. Per questo la cultura di massa industriale e commercializzata non è soggetta al verdetto conservatore di essere "l'Illuminismo come mistificazione di massa" (come recita il sottotitolo del capitolo sull'industria culturale), ma piuttosto perché rende riconoscibile la falsità reazionaria dell'auto-incensamento bucolico ed imitatore dei classici della coscienza del professore di ruolo che amerebbe rinfrescare la propria stupidità sociale nella canonizzata "nobile semplicità e silenziosa grandezza" (Winckelmann) di eredità culturali irreali.
Viceversa, i profeti pop postmoderni esultano proprio per quella stessa massificazione industriale, come se essa fosse di per sé preziosamente emancipatrice. La cultura di massa sarebbe sempre buona, indipendentemente dal contenuto e dalla forma, e sarebbe un cultura autonoma delle masse stesse o una cultura che obbedisce ad imperativi eteronomi e perfettamente indipendenti destinati alla coscienza alterata delle masse. Un'affermazione più o meno dello stesso genere di quella fatta dall'ideologia di movimento di sinistra (del resto completamente segnata in termini postmoderni) per cui qualsiasi movimento di massa dev'essere in sé essenzialmente "autentico", a prescindere da quale sia il senso in cui si movimenta. L'industria culturale, indipendentemente dalla sua forma di merce e di capitale, in quanto accessibilità generale ed affermazione delle masse, viene considerata come momento di liberazione di fatto nel capitalismo che non è stato molto tematizzato. Quest'atteggiamento indica tuttavia solo il brutale interesse di una determinata figura per la commercializzazione, segnatamente come designer accademico e pubblicista. E' questa la vera ragione per cui si vorrebbe appiccicare alla teoria critica, come qualità determinante, il pessimismo culturale elitario e conservatore.
Ora, il concetto negativo di industria culturale in Adorno ed Horkheimer vuol dire esattamente il contrario: non è l'accessibilità per tutti ad essere oggetto della critica, ma il fatto che l'industria culturale, come essi dicono, "rappresenta il più delicato strumento di controllo sociale".
Si tratta quindi del contenuto strutturalmente alienato ed oggettivamente autoritario della cultura capitalista di massa e non del suo superamento dell'élite. Questo contenuto secondo Adorno ed Horkheimer è "barbarie estetica" poiché elabora la "morale degradata dei libri per bambini di ieri" al fine di rendere disponibili alla sottomissione sociale gli individui sempre più infantilizzati.
L'antitesi dell'industria culturale sarebbe una cultura per tutti che si oppone alla coercizione della mera ripetizione ed interiorizzazione del principio dominante; pertanto né una cultura per pochi, che rimane come semplice ornamento di questo principio dominante, né una cultura compensatoria della terapia occupzionale democratica, che rimane un meccanismo ibrido di controllo. E' proprio questo carattere essenziale dell'industria culturale della sua forma di merce che gli ideologhi pop postmoderni non vogliono riconoscere, al contrario, ubriacandosene. La critica, se c'è ancora, si riduce ad una mera differenziazione interna che conferisce arbitrariamente uno statuto di culto pseudo-emacipatorio a determinate tendenze di massa dell'industria culturale, quali l'acquisto ed il consumo di prodotti che contraddicono il controllo sociale in maniera puramente immanente, mentre altre produzioni vengono respinte su una base altrettanto superficiale.

* Riduzionismo tecnologico *
Un altro aspetto della critica culturale genuinamente conservatrice consiste nel suo riduzionismo tecnologico, che corrisponde all'attitudine elitaria della borghesia culturale. Anche la cultura sarebbe condannata alla decadenza, presumibilmente perché la sua massificazione esigerebbe simultaneamente una meccanizzazione tecnologica. E' proprio contro questa interpretazione che protestano Adorno ed Horkheimer all'inizio del capitolo sull'industria culturale. Dove si dice: "I soggetti interessati adorano spiegare l'industria culturale in termini tecnologici. La partecipazione di milioni ad una tale industria imporrebbe metodi di riproduzione che, a loro volta, fanno sì che inevitabilmente, in numerosi luoghi, necessità uguali vengano soddisfarre per mezzo di prodotti standardizzati... Ora questo non dev'essere attribuito ad una legge di sviluppo della tecnica in quanto tale, ma piuttosto alla sua funzione nell'economia contemporanea".
Per i due autori questa funzione è duplice: il controllo sociale è efficace come effetto collaterale proprio perché la cultura è stata trasformata in un oggetto immediato della produzione per il puro profitto. Ovvero, espresso in termini di filosofia sociale nelle parole di Adorno ed Horkheimer: "Tutto ha valore solo nella misura in cui può essere scambiato, non nella misura in cui è qualcosa in sé". Sotto il totalitarismo dell'economia questo è valido tanto per il più semplice oggetto d'uso materiale quanto per i beni della produzione culturale capitalizzata. Così come socialmente un cappotto non è un cappotto ed il latte non è latte, ma entrambi appaiono ugualmente come oggettivazione di "lavor astratto" e pertanto come quantità astratta di prezzo, così anche la qualità sensibile ed estetica dei beni culturali musicali o letterari e teorici è degradata per mezzo della sua forma astratta del valore, ed in un certo qual modo morta, in quanto solo questa misura nel prodotto l'accesso alla "validità" e la partecipazione alla massa della sostanza sociale del valore, mentre il contenuto specifico rimane di per sé indifferente. In ogni caso rispetto alla formulazione di Adorno ed Horkheimer si può osservare che qui non si tratta di un mero "scambio". Poiché la circolazione rappresenta solo la sfera della "realizzazione" della "ricchezza astratta" come fine in sé (Marx), ossia, il ritorno della sostanza del valore, rappresentata nel corpo delle merci, alla forma denaro che le è "propria".
E' innanzitutto da quest'oggettività economica feticistica, con la sua mutazione permanente dela forma interna, rispetto alla quale l'oggetto reale rimane esterno, che deriva la standardizzazione meccanica ed il livellamento dei contenuti, e non da un'esigenza puramente tecnologica. La critica culturale conservatrice insiste sul processo tecnologico di produzione di massa proprio perché vorrebbe far restare fuori dalla linea di fuoco l'essenza negativa della forma sociale della merce. Il postmodernismo acuisce tale ignoranza, dal momento che non solo rifiuta la critica della determinazione sociale della forma, ma la dichiara da subito impossibile epistemicamente e logicamente. L'opposizione alla retorica della decadenza da parte dei conservatori consiste quindi di nuovo in una mera inversione della sua riduzione tecnologica. Sarebbe proprio la tecnologia come tale a sviluppare effetti benefici indipendentemente dalla sua forma capitalista (o perfino a renderli gentilmente possibili grazie ad essa). La credenza postmoderna invertita nella liberazione culturale attraverso la tecnologia soccombe al medesimo malinteso. Pessimismo culturale conservatore e ottimismo culturale postmoderno costituiscono nella loro limitazione tecnologica le due facce della stessa medaglia. Entrambi nascondono ugualmente il dominio della "ricchezza astratta" capitalista sui contenuti e sulle forme di esposizione dei beni culturali.
In ogni caso la tecnologia dell'industria culturale non rimane immune dalla forma economica del feticcio del capitale né alla funzione di controllo sociale ad essa associata. Essa non è in alcun modo neutra, nella sua forma di manifestazione concreta, similmente ai mezzi tecnici di produzione nelle altre industrie capitaliste. Ma non si deve confondere causa ed effetto. E' la forma e la struttura della tecnologia ad obbedire agli imperativi della relazione sociale e non il contrario. I dispositivi sono geneticamente impregnati dalla forma sociale. Lo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo è sempre simultaneamente uno sviluppo di forze distruttive. Ciò è valido non solo in un senso superficiale e particolare, ad esempio per l'industria di guerra, con la bomba atomica come punto culminante della tecnica ed ultima ratio dei progressi democratici. Anche la catena di montaggio non rappresenta un puro e neutro aumento della produttività. ma al contrario, nella sua determinazione concreta appartiene ugualmente alla miseria del lavoro astratto cui sono soggiogati i produttori. L'industria culturale non fa eccezione in quest'identità fra produttività astratta e distruzione.
Il momento distruttivo del fine in sé economico feticista raggiunge, modella e violenta in molteplici modi, oltre il corrispondente orientamento delle tecniche di produzione, anche i contenuti culturali. Come avviene nel caso delle merci destinate alle necessità quotidiane, non si tratta del contenuto della necessità, ma piuttosto del suo adattamento, anche tecnico, al contenuto della valorizzazione. L'inversione capitalista fra mezzo e fine, fra concreto ed astratto, nella produzione culturale si presenta in maniera specifica. Di fatto, può essere intesa anche come inversione fra tecnica di produzione e contenuto o fra innovazione tecnica e contenuto; non si tratta di un (nuovo) contenuto che è in cerca di una tecnica adeguata, ma al contrario, qualsiasi contenuto viene adattato ad una tecnica redditizia e la "creatività" si riduce esattamente a questo. Ma anche questa relazione non deriva da una qualche relazione indipendente fra la tecnica ed il contenuto, ma dal fatto che entrambi vengono costretti nel letto di Procuste dell'imperativo del valore. Adorno ed Horkheimer scrivono a tal proposito: "L'industria culturale si è sviluppata insieme al primato degli effetti... dei dettagli tecnici sull'opera che un tempo era la portatrice dell'idea ed è stata liquidata insieme con essa".
Si inverte, in questo modo, il rapporto fra contenuto e modalità di rappresentazione. Nell'industria culturale quest'ultimo sembra rendersi autonomo, come viene illustrato in seguito: "Il fatto che le sue innovazioni non sono altro che perfezionamenti della produzione di massa, non è esterno al sistema. E' a ragione che l'interesse di numerosi consumatori si concentra sulla tecnica, e non sui contenuti ostinatamente ripetuti, vuoti e per la più parte abbandonati". Così come nella produzione quello che è in causa è soltanto l'aumento delle vendite, anche nel consumo di conseguenza quello che è in causa è soltanto la funzione tecnica del giocattolo, ugualmente indifferente al contenuto. Ma se i "dettagli tecnici" non sono più espressione dell'idea di contenuto, dominando, al contrario, sul contenuto e "liquidando" l'idea, questa tendenza irresistibile è essa stessa dovuta alla forma generale della merce, sia dentro il mezzo di produzione che dentro i prodotti. La formulazione indica proprio il fatto che la tecnica dei meri effetti non esiste per caso, ma che essa è espressione di quel totalitarismo economico che nei tempi postmoderni si è enormemente aggravato rispetto alla media del secolo passato.

* La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé *
L'effetto tecnologico ha il suo modello nell'onnipresente pubblicità, nell'estetica delle merci del mercato mondiale. L'idea di contenuto qui non possiede alcuna esistenza propria; essa parte già al servizio di una cosa che è esterna e perciò è anche casuale, resa irreale in maniera formale e soffocata dal mero effetto. E' proprio a partire da questa dimensione dell'estetica delle merci che Adorno ed Horkheimer, già nel 1944, nella fase finale della totalizzazione del design pubblicitario nel mondo della vita, scrivono: "La cultura è una merce paradossale. Essa è talmente del tutto assoggettata alla legge dello scambio, da non essere più scambiata. Essa si confonde così ciecamente con l'uso da non poter essere più usata. E' per questo che si fonde con la pubblicità... La pubblicità è il suo elisir di lunga vita. (Il suo) prodotto... finisce per coincidere con la pubblicità di cui ha bisogno per essere infruibile".
Va qui notata, come si è già detto, la famigerata riduzione, che ha luogo in Adorno ed Horkheimer, al cosiddetto "scambio" che rappresenta un troncamento economico, in quanto nel sistema del "lavoro astratto" riassociato a sé stesso non si può parlare di "scambio" in senso proprio. Solo ad un'osservazione superficiale, la forma denaro corrisponde ad una "relazione di scambio" esterna, dal momento che essenzialmente fa parte del fine in sé resosi autonomo della "ricchezza astratta" come auto-relazione interna del capitale. Inoltre, è proprio avendo questo come sfondo che quell'autonomizzazione secondaria della pubblicità diventa possibile e finisce per diventare una necessità  che imprime il suo marchio su tutta la produzione culturale, come si dice nel capitolo sull'industria culturale: "La pubblicità diventa quell'arte pura e semplice che Goebbels aveva fià identificato in maniera premonitrice". In questo modo "un'occhiata veloce non riesce a distinguere testo ed immagini pubblicitarie dalla parte redazionale".
L'attività artistica è altrettanto poco libera di quanto lo era nel Medioevo cristiano in quanto, così come allora qualsiasi rappresentazione deve ripetere sempre la stessa costituzione religiosa, anche ora essa si trasforma sempre nella stessa pubblicità, proprio nella sua apparentemente fortuita "molteplicità" e contingenza, pubblicità che si raccomanda e si apprezza da sé sola per mezzo di immagini di automobili, bevande energetiche, telefoni cellulari o cappelli da baseball. Rappresentare il mondo nella forma autonomizzata della pubblicità significa soltanto riuscire a percepirlo sotto la forma autonomizzata della merce. Questo influenza anche l'auto-percezione e le relazioni sociali degli individui. Anche nell'intimità, che non esiste più, nasce una distanza mediatizzata che ha come presupposto una completa assenza della distanza relativa agli imperativi sociali. Non esiste più alcuno spazio di tranquillità sociale che non sia sovraccaricato con le esigenze del dominio. Il modello di identità mobilitato deve rappresentare sempre e dovunque le sentenze dei "questionari di opinione" nell'eterno carnevale della soggettività, come una marca di birra o di profumo. Il capitale umano ambulante necessita dei prodotti dell'industria culturale in senso lato non solo per l'uso, ma più come soggetto per un'ostinata "auto-rappresentazione" nella quale i portatori di costume sono segretamente convinti della mancanza di valore di tali prodotti. Gli attori, di per sé stessi, non riescono ad abbandonare il loro ruolo neanche quando sono da soli. La maschera di carattere secondaria dell'industria culturale dell'autovenditore precario gli si è incollata alla pelle.
Dà quasi un'impressione di fastidio che anche sotto quest'aspetto si possa percorrere la complementarità polare del pessimismo culturale conservatore e dell'ottimismo culturale postmoderno credente nel progresso. Ancora una volta i sostenitori della riflessione della borghesia culturale si prendono gioco della pubblicità solo perché vorrebbero innalzare una barriera ideologica contro l'infiltrazione della volgarità economica nella sfera elitaria dell'arte. Essi chiudono la strada all'effetto senza contenuto solo per poter fermare la commercializzazione dei presunti "beni più sacri" senza voler minimamente toccare il capitalismo. Così, la pubblicità volgare non deve poter essere riconosciuta come il volto che sorride nello specchio della raffinata arte borghese. Sotto quest'aspetto, così come in qualsiasi altro, la forma sociale della relazione feticista ha divorato il contenuto. Quel che resta anche nell'arte ufficiale  per i circoli superiori, che ormai riesce ad essere elitaria soltanto riguardo al prezzo in denaro, è la comune autovendita da parte di artisti da salotto che sono "avanguardia" al massimo grado quando girano con vergogna i quadri verso la parete e anneriscono i testi.
E ancora una volta il postmodernismo si volge solo alla critica apparente del pessimismo culturale e proclama la pubblicità come liberazione dell'arte dalle grinfie del museo di un classicismo da maestro di scuola. Il carattere auto-repressivo delle monadi dell'auto-rappresentazione modellate dal complesso totalitario dell'industria culturale viene qui altrettanto nascosto di quanto lo sia nel caso della controparte conservatrice. La distanza, ipocritamente assunta dalla coscienza della borghesia culturale, in relazione alla comunità letterale della pubblicità universale e dell'auto-pubblicità, si trasforma tuttavia nel motto postmodernista per cui "stare nel presente è tutto". Non solo la vicinanza formale, ma anche la connessione interna fra propaganda populista e pubblicità, o non devono essere menzionate oppure vengono considerate suscettibili di avere una carica positiva. Il postmodernismo si trova così d'accordo con Goebbels senza voler rendersene conto. Ciascuno è soddisfatto degli effetti senza contenuto per poter così rinnovare la propria maschera di carattere e lasciare da parte ogni critica nei confronti della partita senza oggetto. La coscienza dello stile di vita postmoderno è ormai solo un ideale cappello da baseball collettivo che promuove sé stesso.

* Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza *
L'apologia postmoderna del predominio dell'effetto e del dettaglio tecnico sul contenuto ama affermare che tutto questo è associato ad un conforto culturale che garantisce il "godere senza remore". Che male ci sarebbe? Una volta che si è dissolto qualsiasi criterio di contenuto e la critica è stata dichiarata impossibile, ora si vorrebbe procedere come se la merce dell'industria culturale cadesse dal cielo come una sorta di manna o come se volasse in bocca come i colombi arrosto del paese della cuccagna. Viceversa, la borghesia culturale conservatrice, nella misura in cui continua ancora ad esistere e non dev'essere considerata estinta, vede l'industria culturale come una sciatta occasione culturale e ritiene che il consumo dei suoi prodotti avvenga senza sforzo solo perché si tratta di pattume senza alcuna pretesa che avvelena la mente e l'anima. In opposizione a tutto questo, vengono indicate le "opere con alta pretesa" che sono stare prodotte, le uniche a dover essere considerate valide tanto dai "veri artisti" quanto dai "veri estimatori dell'arte", visti come una piccola ma raffinata comunità di una "conoscenza" senza prezzo.
Anche riguardo quest'aspetto gli ottimisti postmoderni della cultura ed i pessimisti conservatori della cultura si trovano abbastanza d'accordo: entrambi affermano ugualmente la facilità ed il godimento senza sforzo che attiene al consumo dell'industria culturale, solo che questo godimento presumibilmente comodo viene valutato in maniera opposta. Adorno ed Horkheimer affrontano la questione in modo del tutto diverso. Infatti, in base alla loro origine, non sono immuni da un auto-incensamento che si fonda su una canonizzazione ed una restrizione all'alta cultura borghese piuttosto che sul primato del contenuto. Ma, indipendentemente da questo condizionamento socio-storico, essi non smettono di vedere il contesto della mediazione interna fra industria culturale e pressione all'efficienza nel lavoro capitalistico, fra "lavoro astratto" e "godimento del tempo libero" preteso come senza remore. Qui, non si tratta semplicemente della critica ad un semplice efetto compensatorio, come se una cosa fosse estranea all'altra.
In realtà, la dialettica del consumo pop completamente capitalizzato consiste proprio nel fatto per cui la coercizione sociale e la libertà di scelta dell'oggetto, l'esaurimento perturbato dell'energia del lavoro protestante e l'autocompiacimento in mostra, non solo corrispondono ma si trasformano l'uno nell'altro ed ciascuno si manifesta nell'altro. Il pesante lavoro della miseria non solo è il presupposto indispensabile, che si vorrebbe mantenere riservato, ma è sempre il presupposto cosciente del potere di acquisto. Adorno ed Horkheimer non parlano del pericolo di una fruizione troppo facile per la capacità del lavoro, che tuttavia bisognerebbe esigere, ma mostrano come quel facile conforto sia in sé stesso illusorio. Ciò che viene dato, in quanto tale non solo non può essere separato dal suo opposto nel processo del guadagnare denaro, come mettono in chiaro: "Sotto il capitalismo tardivo il divertimento è il proseguimento del lavoro. Esso viene ricercato da coloro che vogliono sottrarsi al processo del lavoro meccanizzato, di modo che si trovino di nuovo nelle condizioni di poterlo affrontare. Ma, allo stesso tempo, la meccanizzazione ha acquisito talmente tanto potere sull'uomo nel suo tempo libero e sulla sua felicità, determinati interamente dalla fabbricazione di prodotti di divertimento, che egli può solo misurarsi con le copie e con le riproduzioni del processo lavorativo stesso".
Ancora una volta non è l'esigenza della tecnica di riproduzione in sé che realizza questa fatale inversione, ma semmai è il totalitarismo feticista della forma generale della merce che trasforma tendenzialmente in "lavoro astratto" tutte le espressioni vitali, o quanto meno le equipara ad esso; anche quando non sono legate ad alcun processo di valorizzazione reale. Non vi è alcun vero relax nella falsa concentrazione e nella fissazione sul lavoro da parte del soggetto. Anche il lassismo dev'essere organizzato strumentalmente e dev'essere professionalizzato affinché si trasformi nel suo esatto contrario. E'a questo che si riferisce uno dei passaggi più citati del capitolo sull'industria culturale: "Il divertimento (in inglese, nell'originale: Fun) è un bagno ritemprante. L’industria dei divertimenti lo prescrive continuamente."
Nel consumo di merci dell'industria culturale non si riproducono solo la coercizione al lavoro ed il delirio dello sforzo, ma anche la monadologia oggettiva della sfera della circolazione capitalista, o, come osservano Adorno ed Horkheimer, "la durezza della società della concorrenza". Il divertimento diventa un bagno ritemprante anche perché il "godimento" non è né innocente né comodo, e nemmeno intelligente, ma diventa, nonostante la convivialità delle feste, un'ispezione sul design dei corpi, degli abiti e delle personalità, dove ogni simulacro dell'Io può divertirsi solamente contro tutti gli altri e deve far continuamente credere a sé stesso che il piacere consiste in questo. Perfino la maschera del tempo libero forzatamente allegro, come viene detto nella sintesi del capitolo dell'industria culturale "attesta il tentativo di fare di sé stesso un dispositivo efficiente...".  Da nessun'altra parte questo si mostra più chiaramente di come avviene nelle micro-imprese postmoderne dell'Hi-tech e della pubblicità. Il "lavoro astratto" e la concorrenza divrentano un gioco ed una festa solo perché sia la festa che il gioco si sono da tempo trasformate in "lavoro astratto" e concorrenza.
Così l'industria culturale si rivela anche come un'organizzazione con connotazione sessuale. Donne ed uomini si collocano in maniera differente nonostante tutte le modificazioni culturali, proprio perché si tratta di modelli, di simulazioni e forme di riproduzione del "lavoro astratto". In quanto la forma del soggetto così determinata, ivi inclusa la concorrenza universale, ha connotazione strutturalmente maschile - come ha dimostrato Roswitha Scholz nella sua teoria della dissociazione sessuale in cui per la prima volta ha tematizzato la relazione di genere al livello concettuale delle categorie capitaliste fondamentali. Anche se le donne sono sempre più integrate nella sfera del "lavoro astratto" e nella sfera pubblica capitalista, esse continuano ad essere le meno apprezzate perché su di loro continua a ricadere la responsabilità, nel senso più ampio, per la casa (N.d.T: nell'originale, in greco, "oikos"), dissociata da quella sfera nella misura in cui non può essere espressa in denaro (gestione della casa, prendersi cura dei bambini e degli anziani, ecc.). Questa relazione capitalista fra i sessi, profondamente radicata nell'inconscio collettivo, attraversa tutti i settori sociali. E quindi a maggior ragione si riproduce nel "bagno ritemprante" della convulsa impresa del divertimento. Le donne però competono con altri corpi che sono diversi dai corpi sessuali apparentemente autodeterminati che appaiono come "donne" in ogni autonomia individualizzata. In quanto "capaci di fare tutto", e in quanto devono essere ugualmente responsabili sia della famiglia che della professione, esse non perdono la specifica accentuazione sessuale - seppure in forma modificata - e il loro "esser madre" continua a perseguitarle. Questo si ripercuote nella loro auto-immagine co-prodotta dall'industria culturale; di conseguenza non vengono realmente prese sul serio come soggetti del divertimento.

- Robert Kurz - Pubblicato su EXIT! n° 9 del marzo 2012(1 di 3 – continua…)

fonte: EXIT!

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