giovedì 3 dicembre 2015

Che cos'è la critica del valore

scalaachiocciola

Che cos'è la critica del valore
- Intervista della Rivista Marburg-Virus a Robert Kurz ed Ernst Lohoff - 1998 -

Domanda: Una caratteristica centrale del Gruppo Krisis, è il suo approccio della critica del valore. Potreste descrivermi succintamente che cosa significa per voi la critica del valore, e in che cosa consiste la differenza decisiva di quest'approccio rispetto alle altre teorie tradizionali della sinistra? La "critica della società della merce" è, come recita il sottotitolo della rivista Krisis, la stessa cosa che è la critica dell'economia politica? Cosa significa "valore" e "socializzazione per mezzo del valore?

Risposta: Che cos'è il valore, la sinistra lo sa per mezzo di mille corsi di formazione su "Il Capitale" - e tuttavia ancora non lo sa. Vale perciò la pena ricordare alcuni concetti fondamentali al fine di rendere intellegibile la nuova lettura della critica del valore. E' necessario tornare alle basi logiche della forma-merce. Dal momento che i membri di un sistema produttore di merci sono socializzati soltanto in forma indiretta (attraverso il mercato), essi non si relazionano attraverso una comprensione cosciente dell'utilizzo delle loro risorse comuni, ma soltanto attraverso il dispendio isolato di quantità di forza lavoro umana - che, socialmente allucinato, diventa "lavoro coagulato" (valore), e quindi viene trasformato in merci. Nella misura in cui le quantità di lavoro passato, fittiziamente contenute in queste merci, vengono messe in una determinata relazione di grandezza, esse appaiono come valori di scambio, la cui misura interviene solo a posteriori, attraverso la mediazione del mercato.
Per poter dare un comune denominatore a delle merci qualitativamente diverse, bisogna che esse vengano astratte dalla qualità concreta della loro produzione; nella loro relazione sociale, si tratta solamente di un dispendio astratto di energia umana. Il valore si determina così per mezzo dello sforzo, cioè, della quantità di lavoro astratto che viene spesa per unità di tempo al livello di un determinato quadro di produttività. La forma sociale generale di manifestazione del valore, è il denaro: in quanto merce generale separata, esso serve come mezzo di scambio universale e, sotto la sua forma, tutti i valori vengono espressi come prezzi. Le relazioni sociali indirette delle persone, in questo modo, appaiono, paradossalmente, come universalità astratta del denaro. Ecco quello che Marx chiama il carattere feticista della forma-merce.
Fino a questo punto, i corsi di sinistra di formazione su "Il Capitale" hanno in un certo qual modo inteso criticamente (a quanto pare) questa relazione assurda e feticista, senza tuttavia trarne le conclusioni, e così ogni approccio all'essenza di tale feticismo, da parte di questa critica implicita, ha finito per dimenticarlo prontamente oppure per deportarlo nel "regno delle nebbie filosofiche". In quanto si tratterebbe meramente della "semplice" forma-merce, mentre in realtà si tratta di fare la critica del capitalismo!. In che rapporto si trovano la produzione di merci e la relazione-capitale (ossia, il capitale in quanto relazione sociale)? Come relazione fra produttori indipendenti, nella quale il denaro rappresenta semplicemente un'istanza di mediazione, la produzione di merci non può diventare un sistema sociale che copre tutto il territorio, ed è per questo che nelle società pre-moderna di "economia naturale" rimaneva una semplice forma di nicchia. Soltanto il capitale, in quanto rapporto di produzione, universalizza e totalizza la produzione di merci - vale a dire, il valore (e quindi il denaro, come sua forma di manifestazione universale) - si retro-alimenta e da mezzo diventa un fine in sé stesso (plusvalore).
Si genera, quindi, una macchina sociale, un sistema cibernetico di valorizzazione del valore, ovvero un "soggetto automatico" (Marx), nel quale non c'è più nessun produttore indipendente, ma ci sono soltanto differenti categorie sociali funzionali al processo, sistematicamente chiuso, della valorizzazione, che trasforma, continuamente ed incessantemente, su una scala ingrandita, energia umana astratta ("lavoro") in denaro. Il mercato, di conseguenza non è più in alcun modo un luogo di mediazione fra produttori indipendenti, ma il luogo della "realizzazione" del plusvalore sociale e, di conseguenza, dell'auto-mediazione feticista del "lavoro" astratto che deve riconvertirsi in denaro. Riassumendo, i concetti di capitalismo (della relazione-capitale, o modo di produzione capitalista), di socializzazion per mezzo del valore, di sistema produttore di merci, di economia di mercato, di società del lavoro e di società competitiva, designano soltanto aspetti diversi di una sola costituzione feticista della forma moderna della società.
Per la critica radicale, la conseguenza logica di queste relazioni sociali sarebbe, allora, quella di attaccare e superare allo stesso tempo tutti questi aspetti ed in tal senso - è chiaro - proprio la categoria centrale del valore, al fine di sostituire il feticcio del "lavoro", della merce, del denaro, del capitale e del salario, con l'auto-comprensione cosciente della società nei confronti dell'utilizzo collettivo delle proprie risorse (d'ora in poi connessa in rete e dipendente da dispositivi sociali diretti), al di là delle relazioni di mercato e di denaro. Se il concetto di critica del valore, tuttavia, suona del tutto estraneo alle orecchie della volgare sinistra provinciale, questo è perché essa ha di nuovo rimosso la critica fondamentale del feticismo, e la sua pretesa critica dell'economia non ha mai abbandonato il piano della forma-valore.
Il marxismo del movimento operaio, nella sua epoca storica, dal 1848 al 1989, si è sempre riferito solamente ad una critica sociologista, ridotta e limitata alla "appropriazione del plusvalore" da parte dei "capitalisti", senza toccare il carattere sistemico feticista della socializzazione per mezzo del valore. La categoria di valore, e l'economia politica basata su tale categoria, non veniva intesa negativamente, bensì positivamente, nel senso di eliminare l'appropriazione del "lavoro non pagato" e di appropriarsi del pieno valore di per sé, inteso come un oggetto che si presumeva neutro. Il "lavoro astratto" non appariva, anche conseguentemente, come una categoria reale storica del capitalismo, ma era inteso come condizione umana ontologica eterna; valore, merce, denaro e mercato non venivano compresi come forme sociali superabili della relazione-capitale, ma come oggetti positivi della modernità, che dovevano solamente essere occupati in maniera alternativa per mezzo della "lotta di classe" della "classe operaia".
Dal punto di vista della critica del valore, questo è il paradosso di una critica del capitalismo fatta a partire dalla base e dalle forme incomprese del capitalismo stesso. La ragione di una tale comprensione ridotta ed immanente del valore, si trova nel carattere storico del movimento operaio, il quale fa ancora parte della storia dell'ascesa e dell'imposizione del moderno sistema produttore di merci (alias, il capitalismo). Dopo aver represso in maniera sanguinosa le rivolte sociali - avvenute a partire dal 16° secolo e fino all'inizio del 19° secolo - nelle quali i rivoltosi si rifiutavano di venire trasformati in "classe operaia", sotto i dettami della valorizzazione del valore, la relazione-capitale ha raggiunto (dalla metà del 19° secolo in poi) un grado irreversibile di socializzazione. Solo da quel momento ha avuto inizio il cosiddetto movimento operaio, che poteva pensare il suo ideario di emancipazione solamente dentro le categorie capitaliste, diventando esso stesso, ironicamente, motore di socializzazione attraverso il valore (contro i meschini rappresentanti ufficiali del capitale, ad un certo grado di sviluppo).
La libertà di associazione, la riduzione della giornata lavorativa, l'aumento del livello salariale, il miglioramento delle condizioni di lavoro, l'intervento sociale ed economico dello Stato, ecc., sono state tutte conquiste essenziali ed immanenti al sistema, da parte del marxismo del movimento operaio, che allo stesso tempo sono diventate condizioni per la valorizzazione completa del mondo attraverso la produzione capitalista di massa, e che si sono legate alla capacità di assorbimento di quantità sempre maggiori di "lavoro astratto". Nell'Est e nel Sud del pianeta, il marxismo ed i suoi derivati hanno guidato, sotto forma di sistemi di Stati socialisti, i processi di "modernizzazione tardiva", addirittura sotto il loro controllo diretto.
La terza rivoluzione industriale della microelettronica, il collasso della "modernizzazione ritardataria" e la crisi mondiale del "lavoro astratto" marchiano la fine del 20° secolo con una situazione nuova, nella quale le categorie reali reificate del sistema produttore di merci collidono con una barriera storica assoluta ed esauriscono la loro dinamica. Mentre i vecchi movimenti sociali non volevano essere costretti al sistema del lavoro "astratto", oggi si tratta di uscire da questo sistema. Tuttavia, questo non è possibile con i mezzi prevalenti della critica al capitalismo, che sono immanenti al valore - ma si richiede una rottura dolorosa con un'identità di "sinistra" che prendeva ciecamente la forma-valore e tutte le categorie sociali borghesi essenziali come dei presupposti a priori; e così la necessaria critica radicale ed il "superamento", oggi provocano inevitabilmente incomprensione, ripulsa e frustrazione. In quanto in questo modo, tutto il "capitale" teorico, più che centenario, del marxismo del movimento operaio viene anch'esso svalorizzato.
Per quel che riguarda la teoria marxiana, la critica del valore rappresenta, al tempo stesso, una svolta radicale ed un continuazione conseguente insieme ad un esaurimento. In quanto in Marx si trovano entrambi i fili argomentativi (in un certo senso, intrecciati): da un lato, il punto di vista classista, dell'ontologia del lavoro, immanente al valore, che teorizza la modernizzazione, così come si trova, dall'altro lato, la critica radicale del valore e del lavoro, in quanto critica del feticismo sociale moderno. In questo senso, parliamo di un "duplice Marx". Oggi, questi due momenti, o elementi, abbisognano di essere distinti. Mentre il movimento operaio e la sinistra tradizionale si sono collocati sotto il punto di vista dell'interesse condizionato dalla forma merce ed immanente al sistema, e di conseguenza l'altro Marx della critica del valore e del feticcio è stato trascurato (reso inoffensivo fino a non poter più essere riconosciuto), adesso è l'ora di risvegliare quest'ultimo elemento della teoria di Marx dal suo sonno di bella addormentata, nel momento in cui declina il momento riduttore sociologico-classista.
Questo non significa che la lotta degli interessi immanenti al valore dev'essere semplicemente abbandonata; ma significa che il riferimento enfatico al preteso carattere trascendente della "lotta di classe" è irrecuperabile. L'interesse immanente costituito dal modo feticista non può essere trasformato linearmente in critica del valore (a differenza del concetto di un "socialismo produttore di merci", cioè, sotto la forma del valore), ma fra i due c'è la rottura radicale con la forma stessa dell'interesse borghese, che dev'essere formulata e realizzata praticamente. Nella misura in cui l'aspetto positivo ed apparentemente ontologico del "lavoro" diviene obsoleto, non esiste più alcuna leva oggettiva, né un qualche soggetto metafisico di emancipazione a priori: i venditori di merce forza lavoro sono "in sé" nient'altro che portatori funzionali del sistema produttore di merci, maschere di carattere del capitale variabile. La presa di coscienza emancipatrice non è la trasformazione di una "classe sociale" oggettivata, di carattere capitalistico, in soggetto "per sé", che svolge la sua "missione storica" oggettivata, ma è ciò in cui le persone - proprio nella distanza del loro luogo sociale funzionale costituito dal sistema - scoprono le esecrabili esigenze capitaliste e si pongono contro tutto questo, senza avere alcuna forza storica positiva e senza la volontà indipendente alle loro costole. Pertanto, questo non è positivo, ma essenzialmente negatorio; non è determinato in precedenza a causa delle "qualità positive" del sistema e delle sue diverse funzioni o categorie sociali, ma è provocato negativamente attraverso delle contraddizioni, delle rotture, dall'impossibilità di vivere e dalle offese insopportabili di un capitalismo che ora non ha più alcun orizzonte di sviluppo davanti a sé.
L'enorme forza esplosiva, tanto teorica quanto pratica, che attiene alla parte storicamente non realizzata dell'opera marxiana, riguarda la critica ed il superamento della logica di un portatore sociale dell'emancipazione aprioristicamente già definito, del tipo di quelli che le nuove sinistre, al di là del marxismo classico del movimento operaio, nominano continuamente per mezzo di tutti i tipi di sostituti: dai movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, passando per i cosiddetti gruppi marginali, alle donne, ai malati mentali fino ai gay ed alle lesbiche, o più recentemente ad una sorta di classe di lavoratori dei media e della cultura. Questa logica fondamentalmente non superata, altresì, diventa percettibile proprio grazie a coloro i quali disperavano del gioco per poter dedurre dal fatto che nessun "soggetto rivoluzionario" a priori è identificabile in generale, oggettivamente e sociologicamente, l'impossibilità di una trasformazione radicale della società (pensiamo qui agli adepti della "Teoria critica"). Così, storicamente si è arrivati all'auto-costituzione di un movimento di superamento cosciente contro il sistema produttore di merci, il quale non ha alle costole alcuna determinazione ontologica positiva, ma solamente la crisi del sistema feticista moderno. Il suo compito è quello di abbattere la forma valore interiorizzata, apparentemente naturale. Ogni critica sociale che non si pone esplicitamente questo problema, e non tenta di concretizzarlo, può anche essere immediatamente dimenticata.

Domanda 2: Nell'editoriale dell'ultimo numero della rivista Krisis (n°20, 1998), avete scritto che il vostro approccio alla critica del valore col passare del tempo dev'essere radicalizzato. Avete sempre più decostruito concetti per mezzo della critica delle categorie reali del sistema produttore di merci, con i quali, in alcuni numeri precedenti della rivista, vi relazionavate ancora positivamente. Il lavoro, inizialmente, doveva essere superato solamente nella sua forma astratta, poi doveva esserlo completamente. La critica all'enfasi della politica si è gradualmente trasformata in "anti-politica". La critica del soggetto classista è stata radicalizzata nella critica del soggetto. Potete spiegare cosa sta dietro parole-chiave come: "superamento del lavoro", "antipolitica" e "critica del soggetto"?

Risposta 2: E' chiaro che la critica del valore del gruppo Krisis non è caduta dal cielo come un'intuizione improvvisa. Dapprima, abbiamo dovuto, per così dire, deglutire ed attraversare l'ideologia marxista esistente, cosa che è durata approssimativamente venti lunghi anni. Quando abbiamo cominciato a tirare i fili giusti, abbiamo trovato tutta la matassa, o per dirla in maniera diversa: i pezzi del domino cadevano uno dopo l'altro. Siamo stati accusati, molte volte, di negare poco a poco anche concetti che prima avevamo adottato positivamente. Semplicemente non si capisce che non si tratta di inconsistenze o di contraddizioni inconsce, ma di un processo non concluso di critica e superamento di un vecchio paradigma che viene sostituito da uno nuovo. Le tappe precedenti sono relativamente ben identificabili, almeno da tutti quelli che prendono tutto questo sul serio. E' chiaro anche che sono sempre esistite persone che assumono solo una delle tappe, non riuscendo ad attuare completamente l'uscita  dal vecchio marxismo immanente al valore; questi sono quelli che ci odiano più di tutti. Tutto questo continuerà ancora per un po' di tempo, ma probabilmente non c’è altro da fare. La cosa dev'essere portata fino in fondo. Noi intendiamo la critica del valore come un nuovo punto di vista della critica radicale, che va al di là dell'opposizione superficiale fra vecchi lemmings del radicalismo di sinistra e vari maiali realisti pragmatici.
Originariamente, il nostro approccio è stato una critica del vecchio marxismo di partito, così come dei "movimenti", i quali tramavano una sorta di teoria utilitaristica di legittimazione, sia per le linee politico-partitarie di potere che per le rispettive situazioni dei movimenti sociali. In opposizione, noi enfatizzavamo la completa autonomia della teoria, e soprattutto fuori dall'imprenditoriato accademico, come un'iniziativa indipendente, cosa che ci ha portato ad un rapido isolamento all'inizio degli anni 80. Così, gradualmente, la critica del valore, riguardo al contenuto, si è andata affinando a partire dall'analisi dell'economia sovietica e della sua storia, senza che, tuttavia, le categorie a tutto questo collegate venissero decifrate in quanto tali. Siamo andati abbastanza vicini alla critica delle forme economiche - però ancora relativamente, in maniera ingenua - e ai concetti di "soggetto" del valore. Il valore non è, in alcun modo, come viene frequentemente sottinteso, una mera categoria economica interna; esso è, innanzitutto, il principio formale generale che domina la società come un tutto e dà fondamento alla scissione in sfere separate ("lavoro/tempo libero", "Mascolinità/femminilità, "sfera privata/sfera pubblica", "funzionalità/cultura"), ecc.). La critica del valore problematizza questo processo universale di astrazione che riduce la socialità ad un'interazione di monadi isolate in  quanto supporti funzionali di un mezzo feticizzato, autonomizzato, che è diventato un potere esteriorizzato. Un tale approccio inoltre non possiede solamente una dimensione "teorica della cultura" e del "soggetto" di per sé, ma apre anche un accesso alla critica della moderna relazione con la natura e ad altre problematiche, che sono escluse dall'area di competenza della critica dell'economia politica.
La "critica del soggetto" per noi è cominciata con la critica del "lavoro", la quale rappresenta la categoria-del-soggetto centrale alla socializzazione per mezzo del lavoro. Marx criticava certamente il "lavoro astratto" della produzione di merci (che, ciò nonostante, nel socialismo mercantile divenne dottrina di Stato), ma voleva salvare la presunta "astrazione razionale" - il "lavoro" - come determinazione ontologica. Qui si manifesta di nuovo il "duplice Marx", in quanto l'astrazione "lavoro" è pur sempre "lavoro astratto" ed è presente come determinazione, sia generale che positiva, solamente nel moderno sistema produttore di merci (in precedenza, quest'astrazione non esisteva, o quanto meno, non era ancora positiva, e non era un'universalità sociale).
Ovviamente, il "superamento del lavoro" non significa che nelle società future non verrà più prodotto niente o che non ci sarà più "processo di metabolizzazione con la natura" (Marx). Tanto meno si tratta del fatto che le attività riproduttive umane verranno ridotte solo al minimo o addirittura verranno eliminate completamente e sostituite da un aggregato automatico. Al contrario, questo superamento implica soprattutto due momenti, che si pongono su un altro livello. Vale a dire, in primo luogo, il superamento della relazione astratta col mondo, così come viene rappresentata dall'astrazione "lavoro" (valore), in cui lo sforzo diventa indifferente relativamente agli oggetti sensibili. Il "lavoro" deve sparire perché non è altro che la forma di attività specifica della sfera del fine in sé economico moderno. E' necessario, pertanto, liberare l'attività umana dalla sottomissione alla catena dell'astrazione sociale - "lavoro", valore e forma-merce (e solo allora dalla relazione-capitale) - e non costringere più i diversi contesti di vita e di riproduzione sotto la forma dittatoriale di una universalità astratta, bensì trattarli per mezzo dei criteri di una "ragione sensibile", secondo le loro questioni specifiche. In questo modo, le forze produttive moderne certamente non dovranno essere scartate, ma neanche semplicemente appropriate nella loro forma trafitta dall'astrazione del valore. Si tratta invece di rimodellarle, di selezionarle ed applicarle attraverso dei fini liberi, sulla base di un auto-intendimento sociale cosciente, e non devono più dipendere dalla pseudo-oggettività del "lavoro astratto" e dalla macchina della valorizzazione sociale originata a partire da esso. Ma anche, in secondo luogo, il "superamento del lavoro" significa superare la moderna separazione delle sfere della società all'interno di una relazione mondiale astratta, e pertanto distruttiva, nella quale gli individui non sono altro che meri punti di intersezione dei settori funzionali separati. E' stato il funzionalismo dell'astrazione del valore che ha disintegrato i contesti di vita ed ha ridotto la sfera del "lavoro" a sfera funzionale astratta, cioè separata, rendendolo un dominio di puro dispendio di energia astratta - il che è apparso agli uomini per lungo tempo qualcosa di intollerabile, contro il quale si sono disperatamente ribellati. Oggi, sullo sfondo dell'esaurimento della logica della valorizzazione, è necessario ancora una volta prendere coscienza dell'insopportabilità e della sfrontatezza di queste esigenze eterogenee che sono state interiorizzate in un lungo processo di disciplinamento. "Superare il lavoro" significa quindi anche reintegrare la riproduzione sociale ad un livello più alto (passando per il moderno sviluppo delle forze produttive ed oltre le strutture familiari limitate), come processo vitale integrale di produzione e di residenza, di gioco, di cultura, ecc.. Le forze produttive liberate dall'astrazione del valore rendono possibile, in questo senso, una quantità molto maggiore di "tempo disponibile", così come avveniva in passato.
Il secondo passo della critica del soggetto si riferisce al livello della cosiddetta politica. Giacché le merci, come dice Marx, non possono andarsene da sole al mercato, i proprietari di merci (incluse quelli che possiedono solamente la forza lavoro) devono stringere relazioni nell'inversione assurda della loro propria relazione sociale in quanto qualcosa di incorporata nelle cose, ed anche come persone giuridiche contraenti. In quanto tali, essi sono, però, sempre già presupposti a priori come soggetti-merce e come soggetti del "lavoro"; cosa che, al di là di questo, li relaziona fra loro attraverso la concorrenza sul mercato. Pertanto, necessitano della sfera del diritto e di altre condizioni generali di base del sistema produttore di merci, le quali si trovano riunite sotto la forma di Stato.
Tuttavia, relativamente a questo, non si tratta esattamente di un'istanza di auto-comprensione sociale cosciente. Poiché la socializzazione attraverso il valore, disintegrata in interessi privati antagonistici, non può relazionarsi direttamente con sé stessa. Per questo, abbisogna di una sfera che rimanga a lato dell'imprenditoria sociale e nella quale ci si occupi delle condizioni e delle forme del percorso della "guerra di tutti contro tutti". In questo modo, il soggetto-merce astratto si separa in una persona del "lavoro" ed in una persona giuridica, in un essere privato ed in un cittadino o in una cittadina, nel "homo economicus" e nel "homo politicus". Così, insieme all'universalità astratta del denaro arriva l'universalità astratta dello Stato, che si contrappone alla stessa maniera esterna ed estranea agli individui, come manifestazione della loro stessa schizofrenia sociale. E la relativa sfera particolare della attività, o delle dispute relative al diritto ed allo Stato, è proprio quella della famigerata politica in quanto momento di socializzazione attraverso il valore. Si percepisce allora che il valore non è in alcun modo limitato all'economia, ma rappresenta piuttosto una categoria usurpatrice, da cui decorre sia l'economia che la politica in quanto necessità logica.
Il pensiero moderno, fra cui il marxismo, ha ontologizzato erroneamente nella stessa forma lo Stato e la politica, così come ha fatto con il "lavoro". Per il marxismo del movimento operaio, immanente al valore, il mezzo politico è addirittura diventato il campo centrale di azione. Così la lotta per la libertà di associazione e per il miglioramento delle condizioni di vita, sulla base del sistema produttore di merci, include la trasformazione dei salariati in soggetti di diritto e in cittadini uguali. Anche sotto questa prospettiva, il movimento operaio e la sinistra si sono trasformati in pacemaker della socializzazione per mezzo del valore. In tale contesto, si è dato origine all'illusione che si potesse regolare politicamente la forma valore insuperata nel senso dell'emancipazione sociale, cosa che anche oggi appare in maniera fantasmagorica in varie versioni. Questo paradigma ha acquisito una certa razionalità immanente nello Stato sociale keynesiano, da una parte e, dall'altra, nei sistemi orientali "socialisti di Stato" della modernizzazione in ritardo, dove lo Stato funzionava addirittura come un imprenditore generale.
Questi diversi politicismi, però, rimangono molto al di sotto della soglia dell'emancipazione sociale, in quanto vogliono solo correggere i guasti per mezzo di una sfera funzionale interna alla forma valore (questo vale anche, a sua volta, per l'anarchismo, che, al contrario, ha messo al centro della critica lo Stato e la politica, cadendo così solo nell'illusione inversa di una pretesa produzione autonoma di merci, senza chiarire il nesso interno delle due sfere del valore). Fino ad oggi, la sinistra rimane aggrappata all'illusione della politica, estendendo il concetto di politica a casaccio e quasi ignorando il concetto di critica o di movimento sociale in generale. E' perciò centrale l'uso enfatico del concetto di democrazia o di "democratizzazione", in cui si riassume l'illusione politica. Democrazia, tuttavia, non è niente di più della forma statale sviluppata sul piano del valore, in cui pertanto anche le contraddizioni specifiche del sistema produttore di merci esprimono la loro forma più pura. I suoi concetti, così come la sua semantica immediata, sono essenzialmente quelli della forma del dominio e, in realtà, in termini tipico-ideali, quelli dell'auto-dominio e dell'auto-sottomissione dei portatori funzionali, sotto la forma collettiva del feticcio, o macchina mondiale del capitale.
Di conseguenza, la critica del valore implica, come necessità logica, la critica della soggettività politica ed una critica radicale della democrazia. Anche in questa prospettiva, si incontra di nuovo il "duplice Marx": cioè, da un lato, il teorico della modernizzazione, che auspica la politica e la democrazia; e dall'altro lato, il Marx critico radicale della politica e della democrazia, per il quale il superamento del feticismo moderno include il superamento dello Stato. Nella misura in cui il movimento operaio e la sinistra hanno rinviato quest'obiettivo ad un futuro immaginario - e praticamente non lo hanno preso sul serio - critica del valore significa anche il riscatto di questo momento non realizzato. Su questo punto, siamo abbastanza "dogmatici", cioè, non siamo disposti ad accettare, in forma indefinita e screditata, la relazione del valore feticista e le categorie della politica e della democrazia ad essa inesorabilmente legate. La critica del valore o è antipolitica, o non esiste.
Questo significa che c'è bisogno di sviluppare un movimento sociale che operi già immediatamente al di là del politicismo e dell'illusione democratica, pur non rinunciando, è pacifico, alla prospettiva dei "diritti" immanenti. Ma, l'autocoscienza e gli obiettivi di emancipazione di un futuro movimento di superamento, non possono più essere pensati secondo le categorie politico-democratiche. Questa prospettiva, tuttavia, ci riporta all'attuale "crisi della politica" - invocata e temuta (sebbene rimanga non concettualizzata) in tutto il mondo - che è una componente integrale della crisi assoluta della socializzazione attraverso il valore. I sintomi possono essere facilmente compresi. Ma qui non si tratta del fallimento dei politici, bensì della politica stessa in quanto sfera funzionale. Il concetto di "antipolitica" riflette esattamente tale situazione. Allo stesso tempo, quello che in questo modo viene espresso è che non si tratta di inventare una "altra politica", indipendentemente da quale sia la sua colorazione; senza partecipare, d'altra parte, alla corsa generale alla privatizzazione. Inoltre, è necessario un intervento sociale diretto che smantelli il dualismo schizofrenico della socializzazione attraverso il valore.
Infine, il terzo passo, ancora incompleto della critica del soggetto, ha come obiettivo il concetto stesso di soggetto. Non solo il soggetto del "lavoro" e la soggettività politica diventano superati, dal punto di vista della critica del valore, ma anche il soggetto stesso in generale. Nella misura in cui la forma valore fa della relazione sociale degli uomini una forza oggettiva separata, allora questa costellazione è già inscritta nella nozione stessa di soggetto. Logicamente, un soggetto può esistere soltanto in opposizione ad un non-soggetto, quindi, un oggetto. Laddove l'uomo si relaziona come soggetto con la natura e con la società, egli le tratta, e quindi tratta il suo proprio contesto, come oggetto. La soggettività, in questo senso, include già sempre l'auto-oggettivazione di questo soggetto, il quale si sottomette inconsciamente alle oggettivazioni del sistema produttore di merci, che formano il "soggetto automatico", al di là delle azioni volontarie astratte individuali. In rapporto alla macchina mondiale capitalista in quanto tale, il soggetto è, quindi, per definizione inesistente [gegenstandslos: senza oggetto]. Detto in altre parole: la soggettività può significare sempre e solo un soggetto inerente alla forma feticcio, che si occupa delle opzioni preconfezionate dalla logica del valore.
Così sintetizzato, tutto questo può forse sembrare un linguaggio arbitrario ed irritante, dal momento che si pone in contraddizione con abitudini profondamente radicate, trattando l'azione irriflessa e la soggettività come sinonimi. Se si tiene conto della genesi storica del soggetto moderno, allora, ci sono di fatto abbastanza ragioni che suggeriscono di non pensare la liberazione della moderna socializzazione attraverso il valore per mezzo degli stessi concetti fondamentali di azione e di coscienza e che provengono dalla formazione di questa socializzazione stessa. La genesi del cosiddetto soggetto non solo è aggrovigliata con il moderno processo di oggettivazione, ma è semplicemente identico ad esso, come mostra anche la storia del concetto di soggetto. Nella filosofia premoderna, il termine "soggetto" (Subjekt) significa quasi esattamente quello che oggi chiamiamo "oggetto" (Objekt). Questo significato del termine, si trova ancora presente, ad esempio, nel francese (e nella teoria della letteratura) dove, come si sa, "soggetto" significa "oggetto" (Gegenstand). Originariamente il "soggetto" è il sottomesso, perfino il suddito; e questo corrisponde meravigliosamente agli attuali servi incoscienti dell'economia di mercato e della follia concorrenziale della "posizione produttiva".
Quello che è nato insieme e che si appartiene reciprocamente, deve anche sparire insieme. L'enfasi della sinistra sul soggetto, sull'essere soggetto ecc., si riferisce solamente al concetto generale del proprio inconscio feticizzato, così come viene espresso nell'enfasi sul "lavoro" e sulla "politica". Lasciandosi alle spalle la forma sociale feticista, un movimento di emancipazione deve piuttosto superare, insieme alla relazione generale di valore, anche la forma-soggetto in quanto tale.

Domanda 3: Veniamo ora alle questione dei mezzi teorici. In altre riviste, come ad esempio "17 Grad", per la quale la decostruzione è anche una preoccupazione, viene sostenuta la tesi secondo la quale in relazione alla discussione sulle categorie come nazione, razza, genere, l'approccio teorico ispirato a Judith Butler offre più di quanto offra, ad esempio, la tradizione teorica marxista. Anche voi ritenete che tali approcci potrebbero diventare fertili anche rispetto alla critica del valore?

Risposta 3: Il cosiddetto post-strutturalismo o decostruzionismo è, a nostro avviso, una semplice teoria di moda nel contesto della postmodernità e non porta in alcun modo lontano, ma oscura soltanto il compito specifico della critica del valore. La decostruzione postmoderna e l'elaborazione concettuale della critica del valore rappresentano orientamenti del tutto contrarie. La decostruzione tenta di decifrare alcune categorie come "prodotti del discorso" e, attraverso questo, le relativizza. Inversamente, rispetto alla relativizzazione simbolica, non si tratta della storicizzazione e del superamento reale. Noi tentiamo di ridefinire quale ruolo abbiano determinate astrazioni nella socializzazione del valore, e come questo si sia prodotto storicamente. Per esempio, il fatto che l'astrazione "lavoro" non sia per noi sovra-storica, non cambia il fatto che essa continui ad essere, nella società fondata sul valore, nella realtà, un momento sostanziale. Questo non è semplicemente frutto di un discorso nebuloso, ma è il prodotto di 500 anni di storia dello sviluppo capitalista assassino e rappresenta, in quanto astrazione reale, il paradosso di una relazione sociale reificata convertita in una sostanza. Una simile astrazione non può essere eliminata dal mondo per mezzo di alcuni cambiamenti discorsivi superficiali, ma soltanto attraverso delle trasformazioni sociali di fondo che avvengano ad un livello del tutto diverso degli scherzetti decostruttivisti, fatti per hobby, circa il carattere sociale capitalista postmoderno, sul quale tutta questa pseudo-teoria è regolata.
Il postmodernismo/decostruttivismo non ha alcun concetto del valore e del feticismo nel senso della costituzione della società (quando è il caso, il concetto di feticcio appare ad altri livelli). Lungi dal portare a termine il programma della sua anti-ontologia superficiale, gira solo intorno ad una "ontologia del potere" diffusa da  sistemi di codici discorsivi, nei quali possono esistere solamente dislocamenti simbolici e ricodifiche, ma dove non può esistere alcun superamento reale. Il preteso anti-ontologismo della decostruzione in realtà concorre solamente ad una destoricizzazione della società e delle sue strutture, cosa che è anche la tendenza reale della stessa forma valore, sempre ripristinata. L'anti-essenzialismo, così posizionato, non è per niente dissolvente e liberatore, ma, al contrario, cementa la struttura feticistica del "discorso" su di esso basato - struttura che "non può" neppure essere nominata. Col pretesto dell'anti-essenzialismo, il problema sostanziale reale della costituzione feticista del valore diventa quasi un tabù. Per questo serve anche una teoria superficiale della conoscenza, che non vuole nemmeno più essere tale, e che rende uguale ogni differenza fra realtà e simulazione, fra essenza e apparenza, ecc.. Qualsiasi critica alla superficialità senza concetto viene sistematicamente gettata nei rifiuti, giacché per il postmodernismo/decostruzionismo quello che esiste, alla fine, è soltanto "superficie". La relatività storica delle formazioni sociali viene tradotta senza mediazioni nelle relazioni e nelle storie interne della moderna socializzazione per mezzo del valore, e, quindi non solo il capitalismo viene destoricizzato ma, in quanto struttura totale, viene semplicemente reso invisibile.
Pertanto non esiste più relazione fondamentale e sostanziale feticista in un senso relativo, storico, ma esistono unicamente relazioni superficiali, puramente "relazionali". In altre parole: la "critica" è possibile solamente nel contesto delle relazioni capitaliste interne, nel contesto dei loro eventi e delle loro condizioni, mentre il sistema referenziale costitutivo viene magicamente eliminato, reso inaccessibile. Questo "relazionismo" si basa sulla teoria linguistica di Ferdinand Saussure, il quale vaga come un fantasma per tutte le teorie strutturaliste, postmoderne e decostruzioniste. Saussure, da parte sua, ha relazionato il suo livellamento teorico-linguistico della differenza fra significato e significante - già formulato all'inizio del 20° secolo (e che i postmoderni trasportano ad altri livelli, e generalizzano per mezzo della teoria della conoscenza) - direttamente all'economia politica borghese del suo tempo. E' questa la teoria utilitarista che, in un redirezionamento polemico contro la critica del capitalismo di Marx, ha dissolto il concetto sostanziale del valore in una relazione puramente "relazionale" di valutazioni utilitarie soggettive. Non esiste più valore, ma solo prezzi e relazioni di scambio; la relazione del valore e la sua relativa forma-soggetto sono pertanto presupposte a priori, e qualsiasi tematizzazione, e così anche qualsiasi critica, viene elusa.
Dopo le variazioni fatte rispetto a Saussure, questo "relazionismo", in origine economico ed ora universalizzato, diventa il metodo generale postmoderno. A questo si accompagna anche il rifiuto delle "grandi teorie", o "grandi narrazioni". Si assume in questo modo che il momento violentatore e sfrontato dell'universalità astratta non si incontra nella forma sociale reale, ma soltanto nella sua riflessione teorica. In questo modo, il disarmo della riflessione critica viene trasfigurato in condotta "francamente emancipatrice", mentre la grande sfrontatezza sociale reale della violenta astrazione del valore esce dalla linea di tiro, in quanto le "grandi strutture" non "possono" più essere comprese dalle "grandi teorie". Tutto questo è talmente semplicistico che dovrebbero quasi vergognarsi di discutere seriamente una cosa del genere. Dalla prospettiva della critica del valore, è vero che nel marxismo dev'essere criticato il fatto che esso si sia inteso come una "grande teoria" positiva, poiché esso stesso si relazionava positivamente con la forma valore e voleva recuperarne positivamente la totalità. Ma la conseguenza di questo è che la "grande teoria" può essere cambiata negativamente (cioè, cambiare segno alla comprensione concettuale della totalità feticista e alla sua pretesa reale), più o meno nel senso dell'aforisma di Adorno per cui "il tutto è il non-vero"; senza che semplicemente si desista, bandendo il sistema di riferimenti sociali reali dallo sforzo teorico concettuale della teoria.
La critica sociale e teorica disarmata del postmodernismo corrisponde alla fine della storia dello sviluppo capitalista; non rappresenta alcuna riflessione, ma è solamente un riflesso di tale fine. Dopo che la socializzazione per mezzo del valore si è trasformata in un sistema planetario che copre il territorio, non essendoci più alcun luogo per uno sviluppo storico, nello stesso momento in cui si esaurisce la sua dinamica, si perde necessariamente anche interesse per la legittimazione teorica e per l'auto-riflessione. La teoria critica del tutto, che nella sua forma positiva è stata parte della storia dell'imposizione capitalista, non viene connotata negativamente e, a sua volta, superata criticamente, ma viene solo gettata nella spazzatura come superflua. La forma feticista dominante vuole eternizzarsi nella misura in cui rimuove il concetto teorico di sé stessa e della storia; d'ora in poi devono esistere solo eventi e dislocamenti all'interno della totalità della forma-merce, non più identificabili in quanto tali.
Questo obiettivo di eliminazione della spazzatura teorico-concettuale serve anche al culturalismo postmoderno, ossia, in senso duplice. In primo luogo, la dialettica fra natura e cultura, o natura e società, viene eliminata a favore di una "culturizzazione totale" delle relazioni naturali. Il problema posto dal valore e dalle relazioni naturali astratte, e pertanto distruttive, il problema del "processo del metabolismo sociale con la natura" sparisce, senza lasciare traccia, nella culturizzazione relativistica di tutti gli oggetti. In secondo luogo, anche l'economia del sistema feticista come fine in sé viene reinterpretata e cancellata culturalisticamente.
In questo modo, anche le contraddizioni sociali spariscono in una "culturalizzazione totale" del sociale; povertà e crisi vengono disattivate dall'estetizzazione. Culturalizzazioni ed estetizzazioni, nel postmodernismo, si uniscono al "relazionismo" in una sindrome totale di riduzione della teoria della società ad un gioco superficiale di sistemi simbolici che lascia in pace la macchina mondiale del valore  ed il suo processo catastrofico: la totalità negativa realmente esistente viene "de-realizzata" in una metafisica "discorsiva" culturalisticamente ridotta.
In quanto teoria, il postmodernismo/decostruzionismo in sé non dovrebbe essere preso troppo sul serio. Tutt'al più, può essere letto come satira reale, tanto nella forma della coscienza capitalista alla fine della sua storia dell'imposizione, quanto come critica immanente del sistema finora esistente. Questa teoria acquista importanza a causa del suo carattere funzionale alla persistenza cieca della costituzione feticista, nonostante la sua crisi. Il postmoderno rappresenta un breve interregno storico in cui la socializzazione attraverso il valore, per così dire, superando le rapide lungo i bordi del canyon, "prosegue la sua corsa verso la cascata", prima di cadere, alla fine, nell'inferno. Questa "cascata" si stabilisce economicamente come capitalismo da casinò, cioè come creazione di "capitale fittizio" (Marx) nelle condizioni di una sovraccumulazione di capitale strutturale irreversibile. A questo corrisponde un carattere sociale coercitivamente flessibilizzato, con un enorme potenziale di allucinazione, che estetizza la sua propria miseria, insieme ad una cultura di apparenza e di simulazione, di messinscena mediatica e di auto-messinscena - in una parola: di ignoranza che tutto pervade.
Per la sinistra, un simile postmodernismo/decostruzionismo è attraente, in quanto ha apparentemente permesso di schivare le sgradevoli esigenze di un cambiamento fondamentale di paradigmi - critica del valore - riguardo alla teoria. Col pretesto di una critica dello "economicismo", tutta la vecchia ed insuperata critica sociale immanente al valore si maschera culturalmente, rinnovata ed abbellita esteticamente. In questo travestimento, il sociologismo ridotto può presumibilmente continuare a strisciare, e anche la partecipazione animata alla cultura postmoderna della simulazione e della messinscena è assicurata.
Al posto di categorie come nazione, razza, genere, ecc. vengono messi in moto, attraverso la mediazione critica, dei principi formali e appartenenti alla storia della socializzazione attraverso il valore, che vengono riferiti "relazionalmente" alle "rispettive forme destoricizzate del processo del discorso. In altre parole: antinazionalismo ed antirazzismo diventano culturalizzati superficialmente e svincolati sistematicamente da qualsiasi critica fondamentale del capitalismo, il quale vaga ancora al secondo piano, nella sua forma insuperata, sussurrando parole alla moda. Così, in un certo senso, anche il marxismo sociologistico del movimento operaio, simultaneamente, "prosegue la sua corsa verso la cascata". Le sue aporie teoriche non vengono risolte, ma riappaiono in forma culturalista, trasformate in un "linguaggio", ed i suoi codici discorsivi, o sistemi simbolici, in forme irriconoscibili.
Mentre il marxismo del movimento operaio e la sinistra politicista, nella sua forma classica di manifestazione immanente al valore, sono difficilmente capaci di rispondere e abbandonano senza pianti e lamenti l'ideologia pseudo-raffinata di smaltimento rifiuti e di deviazione del postmodernismo/decostruzionismo sinistrorso entra in competizione diretta con la critica del valore. Nella lotta per l'evoluzione e la trasformazione adeguata della critica sociale, dopo un'epoca di rottura, arriverà, in un futuro prossimo, per così dire, la prova finale di questi due approcci diametralmente opposti. Il fatto che l'ideologia decostruzionista sia di moda, oggi appare innegabile, dacché ogni impettito damerino accademico, ogni carrierista ed ogni DJ la persegue, e questo non ci spaventa, in quanto questa futilità teorica inflazionata non resisterà a lungo.

Domanda 4: Come vedete l'integrazione alla critica del valore dell'approccio femminista? Cosa vuol dire concretamente: "Il valore è l'uomo" (Roswitha Scholz)?

Risposta 4: Come la maggioranza dei gruppi teorici, anche il Gruppo Krisis è, in maniera niente affatto accidentale, dominato maschilmente; la sfera teorica moderna in quanto tale ha già, di fatto, connotazione maschile ed è il momento di una determinata relazione di genere. In tal senso, anche noi sviluppiamo la critica del valore principalmente a grandi linee senza assimilare, sistematicamente, il problema "perturbante" e in un certo qual modo imbarazzate della relazione fra i generi, che potrebbe essere percepito, na non mediato, dalla critica del valore.
Fondamentalmente, sembrava trattarsi, più o meno come nel caso della politica, di una fra le tante sfere sociali, esposta e dedotta a partire dalla forma valore, puramente in modo teorico e sottomettente (così come si dice che Eva sia nata dalla costola di Adamo). Questa comprensione della relazione di genere, che ha solamente "tradotto" la relativa posizione del marxismo del movimento operaio in termini di critica del valore, è stata spezzata, però, dall'intervento femminista di Roswitha Scholz, la quale è una delle poche femministe teoricamente attive che si relazionano positivamente, seppure in forma distanziata, con la critica del valore del Gruppo Krisis. Questo rapporto alla fine ha generato un approccio teorico indipendente, che sembra sia riuscito nell'impresa, da un lato, di non sottomettere la questione del genere ad un preteso concetto generale di società, di genere neutro e, dall'altro lato, a non collocare tale questione semplicemente in maniera parallela e non mediata (in nessun altra questione, il sociologismo è ridicolizzato, come lo è in questa).
Quest'argomentazione - che è stata resa pubblica per la prima volta in un articolo dal titolo mordace e pungente, "Il valore è l'uomo" - nel suo nucleo va a contestare il carattere della totalità reale del valore; ma non da un punto di vista sociologistico e culturalista che tenti di giocare la varietà delle apparenze contro l'essenza (come fa, per esempio, il decostruzionismo), ma nel senso per cui la pretesa inerente all'astrazione del valore, di sottomettere totalmente il mondo intero degli esseri umani e della natura, è  di fatto irrealizzabile. La storia dell'imposizione del valore non può, in alcun modo, realizzare un fine assoluto, così come l'astrazione del valore non potrà mai diventare il suo proprio contenuto senza materia naturale e senza dispendio reale della sostanza lavoro (anche se, nel capitalismo da casinò, viene suggerito questo).
Pertanto esistono sempre momenti, settori ed attività, che per loro propria natura si oppongono all'astrazione del valore e che non possono essere sottomessi, o possono esserlo solo al costo di grandi attriti. A questo proposito, si annoverano, fra gli altri, il settore identificato nella modernità come "lavoro domestico", educazione dei figli, assistenza agli anziani, relazioni immateriali ed in sé non economiche, quali "amore", dedizione, ecc.. La socializzazione attraverso il valore ha reagito a questo problema nella misura in cui tutti questi momenti e settori, dal momento che non possono essere sottomessi alla "valorizzazione", sono stati "scissi" dalla totalità formale, ed allo stesso tempo sono stati, storicamente e socialmente, delegati, come compito, alle "donne" (simultaneamente poste come "inferiori").
Pertanto, la totalità del valore non è in alcun modo la totalità effettiva, ma esiste un rovescio o un'ombra che, per questo, non viene colta direttamente e che, ciò nonostante, di essa fa parte. Dal momento che questi momenti e settori non rappresentano un oltre indipendente dal valore, sono in questo modo legati ad esso dialetticamente. La totalità realmente effettiva sarebbe perciò quella del valore, e di quello che da essa è stato scisso, in quanto unità dialettica. A questo proposito, si deve parlare di relazione/scissione del valore, anziché di semplice relazione-di-valore; e la socializzazione attraverso il valore, in questo senso, include sempre il pensiero della scissione. Nel contesto della critica del valore, tutta quest'approccio è stato chiamato, alla fine, "teorema della scissione".
Il teorema della scissione, chiaramente, non significa che le donne fanno parte esclusivamente del settore scisso, e gli uomini si trovano per principio fuori dai momenti scissi. Ma la relazione fra i generi, in quanto relazione strutturale, è centrata, nella modernità, per così dire, in maniera logica-essenziale sul problema della scissione; il che può essere dimostrato sia storicamente che empiricamente. In principio e fino ad oggi (ivi inclusa la postmodernità), le attività domestiche, la cura dei neonati, ecc. sono socialmente concentrate nelle donne. Mentre oggi, più di quanto avvenisse anticamente, le donne hanno un lavoro, che le rende differenti dagli uomini, "doppiamente socializzate" (Regina Becker-Schimdt). Dentro il "lavoro" produttore di merci, esse sono sistematicamente danneggiate, collocate professionalmente in "barche bucate" oppure concentrate in professioni cosiddette "femminili", sottorappresentate nei posti di comando, ecc.. Tutto quello che deve realizzarsi fuori o al di sotto del livello del denaro, come sempre, viene ancora automaticamente delegato alle donne, che vivono in case precarie con strutture familiari completamente disintegrate. Anche le connotazioni feticiste e le "caratteristiche" di genere che vengono loro attribuite, continuano sotto forma di desiderio sessuale, attraverso tutte le rotture e le trasformazioni della socializzazione attraverso il valore.
In sintesi, si può dire che, a partire dal teorema della scissione, ne consegue un'integrazione teorica che risolve il problema finora non chiarito della relazione logico-storica fra struttura sociale fondamentale (valore) e relazione di genere, che evita tanto un parallelismo immediato quanto una mera logica di sussunzione. Pertanto, è ovvio che l'approccio femminista è ancora lontano dall'essere integrato, senza rotture, nella critica del valore. Per poter posizionare teoricamente, storicamente e socialmente con maggior esattezza il teorema della scissione è necessario un passaggio dalla critica del valore e dalla teoria della scissione attraverso la teoria femminista. D'altra parte, fin qui la discussione e la formazione teorica della critica del valore non sono state direttamente relazionate alla questione del genere, in quanto non sono state in alcun modo mediate in maniera soddisfacente con questo nuovo approccio, e bisogna fare ancora una lunga strada per sondarne le conseguenze.
L'evoluzione, ancora non conclusa, della critica del valore per mezzo del teorema femminista della scissione viene oggi sovrapposto dalla disputa polemica attinente al decostruzionismo. Mentre il teorema della scissione fra i dieci ed i quindici anni fa avrebbe forse suscitato scalpore nel dibattito femminista, oggi incontra un femminismo a sua volta disarmato che fa pace con il sistema produttore di merci. Nella teoria femminista, le relazioni marxiste del concetto feticista di "lavoro" ed il problema dell'astrazione del valore sono stati superati criticamente ancora meno di quanto lo siano stati nella teoria "maschilista".
Invece, anche nel movimento femminista, il postmodernismo ed il decostruzionismo sono diventate le ideologie di disarmo e di eliminazione dei rifiuti della critica sociale radicale. Proprio per questo, donne ed uomini si dilettano con la "ispirazione" del decostruzionismo femminista di Judith Butler, in quanto così, in netto contrasto con il teorema della scissione di Roswitha Scholz, la relazione di valore e la struttura profondamente radicata della scissione non vengono per niente toccate. Il sistematico oscuramento della forma-valore, e quindi del capitalismo, permette una riduzione "discorsiva sociologistica, disistoricizzata, delle relazioni di genere, ed una strategia superficiale che si riduce ad una sorta di carnevale performativo dei generi, senza che possa essere messa in discussione la questione delle strutture sociali e storiche fondamentali della totalità negativa della scissione del valore.
Quindi, bisogna ancora vedere, riguardo la critica delle relazioni di genere capitaliste, la resa dei conti fra la critica del valore ed il postmodernismo ed il decostruzionismo.

Domanda 5: Negli ultimi due numeri assai controversi della Rivista Krisis [n°18, 1996; n°19, 1997], sono stati tentati dei suggerimenti pratici di come il sistema produttore di merci potrebbe essere superato. Nella critica degli orientamenti e della prassi, così come appare sulla Rivista Bahamas, vengono considerati soprattutto tre argomenti. Primo, riguardo alla ricerca di gruppi potenziali che possano assumere la vostra proposta, vi giudicano insufficientemente critici, soprattutto in rapporto al movimento ecologico. Secondo, nella misura in cui indicate ora delle alternative concrete, soprattutto riguardo al movimento ecologico, potete riprodurre solamente in qualche modo l'esistente e, in fin dei conti, affermarlo. E terzo, una teoria critica può avere solamente la funzione di mettere in discussione l'esistente, ma non indicare alternative, in quanto soltanto un movimento rivoluzionario, nella situazione, potrebbe farlo. Cosa rispondete a queste obiezioni?

Risposta 5: Non abbiamo alcuna mucca di sussistenza nel garage, dal momento che non abbiamo alcun garage. Parimenti, non apriamo neanche una cooperativa, né facciamo saltare qualche ponte sull'autostrada (purtroppo), né stiamo facendo qualche richiesta allo Stato. In altre parole: non c'è nessun "orientamento alla prassi" nella Rivista Krisis, poiché una tale prassi sarebbe possibile soltanto nel contesto di un movimento sociale emancipatore, che, per il momento, non è in vista. Invece, tentiamo di concretizzare teoricamente, in alcuni punti, la questione di come superare le forme sociali ed economiche della socializzazione attraverso il valore. Dal momento che evidentemente questo è anche un problema teorico.
Logicamente, la critica teorica implica anche le caratteristiche teoriche principali di un superamento positivo, come conseguenza della negatività (diversamente, la critica stessa non sarebbe possibile), sebbene la sua pratica concreta e il suo sviluppo possono prendere forma, evidentemente, solo per mezzo di un grande movimento sociale. A partire dalla critica del "lavoro", della forma-valore e della relazione-capitale, possono venire specificate alcune determinazioni di metodo e di obiettivi per un movimento di superamento. Quindi, questo non avviene solo quando la critica stessa del valore è inconseguente ed incompleta.
Gli autonominatisi gestori del saccheggio della Teoria Critica "a la Bahamas" oppure "ISF" di Friburgo, che si portano dietro una serie di gusci d'uovo del comunismo di sinistra (ontologico del lavoro, sociologista-classista, democratico), si trovano ancora, nonostante i loro elementi propri della critica del valore, molto impigliati nelle aporie del marxismo del movimento operaio per poter pensare concretamente al superamento della forma-valore. Per questo, si proibiscono questa problematizzazione, proprio in quanto semplicemente teorica, e dichiarano una critica senza strada e senza destinazione, fino al punto che la discussione sul superamento diventa un mormorio diffuso.
Il superamento della forma-valore viene bandito a favore di un mondo puramente e semplicemente oltre, un "totalmente altro" indeterminato ed indeterminabile, verso il quale, a partire dallo stato attuale, non si getta alcun ponte né si traccia alcuna strada definibile. Il carattere inconseguente e quindi astratto, in parte realmente sgradevole, di questa stessa teoria è segnato da una postura quasi esistenzialista riguardo alle relazioni fra teoria e movimento sociale, nella misura in cui quest'ultimo rimane concettualmente nello stato di un soggetto metafisico. La cosa più ridicola è che questa insufficienza teorica viene diffusa come se fosse una radicalità peculiare ed una negatività particolarmente elegante, al fine di rifiutare la critica del valore, molto più avanzata, di Krisis.
A partire da questo atteggiamento - che ha molto a che fare con l'autoaffermazione ed il chiudersi a riccio in uno stadio di transizione fra marxismo del movimento operaio, Teoria Critica ortodossa degli anni '40 e critica del valore - il Gruppo Krisis viene visto principalmente sotto forma peggiorativa, e sempre più viene perseguito con accuse denunciatorie; in quanto noi ci facciamo beffe della proibizione di pensare e  non intendiamo realizzare quello stato diventato "infelice" della vecchia Teoria Critica (questo, però, oggi è solamente un "campo di guerra laterale" nella disputa per il rinnovamento della critica radicale).
Un caso speciale di questo rifiuto denunciatore è la strumentalizzazione della questione ecologica. Noi non abbiamo mai equivocato riguardo al movimento ecologico nel suo stato attuale (e ancor meno riguardo alle sue varianti biologistiche) in quanto movimento di superamento potenziale, ma, al contrario, abbiamo identificato la distruzione mondiale, per mezzo del "lavoro astratto", come un principio di base per la mediazione della critica del valore. Per la Rivista Bahamas e per ISF, al contrario, la critica alla distruzione delle basi naturali di per sé non è nient'altro che un problema neofascista, cosa con la quale dimostrano soltanto la loro incapacità di pensare fino in fondo la critica della "astrazione reale" capitalista. A questo punto, tra l'altro, danno una mano ai postmoderni di "sinistra", i quali, ugualmente, considerano la "natura" come un'invenzione fascista e preferiscono, con grande animosità, le feci preparate dai designer-food della Nestlé o di Maffi, dal momento che in qualche modo i generi alimentari sono solamente oggetti culturali relativistici. Almeno a questo livello, tuttavia, riteniamo di dover concordare con Adorno, contro i custodi della sua Teoria Critica.

Domanda 6: Robert Kurz nel suo ultimo articolo sulla Rivista Krisis ["Antieconomia ed antipolitica", Krisis, n°19, 1997] ha identificato due problemi centrali che un movimento che vuole superare il sistema produttore di merci deve risolvere: quello della pianificazione e quello di una strategia di trasformazione appropriata. La parola chiave è la configurazione di una "forma embrionale". Rispetto al problema della pianificazione, sulla Rivista Krisis è stato ricordato correttamente che la mediazione delle attività attraverso il mercato dovrebbe essere sostituita da una pianificazione completamente sociale; oltre al superamento della divisione del lavoro, originata dal capitalismo, e dell'utilizzo di un'altra tecnica, cosa che richiede in parte un'altra tecnica. Ma questo è per l'appunto solo il lato tecnico del problema. Tuttavia, c'è ancora un lato legato alla teoria della democrazia, che viene solo insinuato nella Rivista Krisis. Di fatto, si enfatizza più volte il fatto che una società liberata dal terrore del valore non è libera da conflitti, che le differenze fra le persone non spariscono, ma trovano piuttosto la loro giusta espressione. Ma le conclusioni teoriche di questa comprensione non sono state ancora tratte, mancando nell'identità del discorso di Krisis considerazioni teorico-democratiche: come può essere stabilito in una società abbastanza pluralista il necessario consenso, se d'ora in avanti non servono più i meccanismi repressivi del mercato e dello Stato.

Risposta 6: E' chiaro che Krisis non ha risposto a tutte le domande sul superamento della forma-valore. Perché allora rivendicare un'onniscienza, dal momento che la continua concretizzazione non è oggetto di un dibattito continuo in un campo sociale ampliato? Però non ci occupiamo dei problemi dei "teorico-democratici" non ancora risolti, semplicemente perché la democrazia, che secondo il suo stesso concetto è in accordo con la forma di dominio in quanto momento di socializzazione attraverso il valore, è superata. Al posto dello Stato democratico e del mercato, bisogna inserire le istanze  di una socializzazione diretta, ad esempio "consigli" con partecipazione di tutti i membri della società, che decidano sui flussi di risorse senza l'interferenza dell'astrazione del valore.
Una simile società avrà certamente i suoi propri conflitti, e su questo si riflette consapevolmente. Dubitiamo, tuttavia, che tali conflitti si riferiscano in primo luogo alla riproduzione materiale. A questo livello, molto è il risultato di per sé della realtà materiale-sensibile (ad esempio, l'insensatezza della circolazione individuale); a parte questo, le alternative di consumo probabilmente diventano, con una produzione liberata dalla ricchezza, abbastanza differenti, il pluralismo, ed anche il dissenso, si stabiliscono così ad un livello del tutto differente. La fissazione consumistica dell'attuale postmodernismo culturale quotidiano è essa stessa solamente il rovescio delle restrizioni capitaliste, e probabilmente provocherebbe solo disprezzo in una "associazione di uomini liberi".

Domanda 7: Per tornare alla domanda precedente: come dovrebbero essere organizzate le discussioni sui cambiamenti nella divisioni del lavoro e sulle tecnologie? Si può realmente dedurre dalla natura stessa della tecnica la possibilità di una soluzione dei problemi esistenti, oppure un simile determinismo tecnologico non può diventare esso stesso una norma repressiva? Il concetto di "economia naturale microelettronica" suscita, ad esempio, quest'impressione. In qualche modo, tutte le persone sono obbligate ad avere la cattiva coscienza di dover vivere in una casa che non hanno costruito essi stessi. Avevamo immaginato il superamento della scissione fra produttori e consumatori in maniera realmente più piacevole.

Risposta 7: Il termine "economia naturale microelettronica" non implica alcun determinismo tecnologico, ma prende ironicamente di mira un pensiero taccagno che vuole identificare la relazione "naturale" (materiale-sensibile) della riproduzione sociale solo con qualcosa di "antidiluviano", equiparando automaticamente le forze produttive avanzate con la forma-valore. Quel che ha inizio con le forze produttive microelettroniche, al di là del valore, non è il risultato di un impulso della tecnica (un topos dell'ideologia borghese, fin dall'inizio del 19° secolo, che maschera la dinamica distruttiva della forma capitalista), bensì degli obiettivi liberi di una società autocosciente.
Non si tratta di un moralismo per cui tutti dovrebbero fare tutto in una falsa immediatezza, ma si tratta della prospettiva di un terreno socio-economico nel quale possano essere sviluppati elementi (e relazioni sociali) di una riproduzione indipendente dalla legge coercitiva del sistema produttore di merci. Perciò, nessuno ha bisogno di auto-costruire la propria casa direttamente, ma ci sarà una riflessione cosciente su questi poteri materiali nei settori della riproduzione, mediati ed immediati secondo modelli pratico-sensibili. Così un'altra teoria critica non guiderà carri o mescolerà la malta.
La tipica utopia postmoderna di un'automazione totale irresponsabile - dove il robot al bar, la mattina, ci domanda solo cosa desideriamo, ed i problemi della riproduzione sociale dei cretini "idioti del consumo" vengono delegati ad un pseudo-cervello elettromeccanico - è certamente ridicola. Questo farebbe la "gioia" del bel nano stupido della "Macchina del tempo" di H.G. Wells. Non ci sorprende, però, che tutte le utopie negative e tutte le visioni horror della modernità, sostenute dall'ingenuità postmoderna, vengano sempre più assunte in maniera positiva.

Domanda 8: Il concetto di "economia naturale microelettronica" è una posizione nuova? C'è un testo, di dieci anni fa, di Robert Kurz ("L'immediatezza del feticcio") che dice esattamente il contrario. A quel tempo, il modello era una figura del romanzo “Die Unfähigkeit erwachsen zu werden” che non aveva alcuna nozione di computer, o di cui gliene importava poco, ma che tuttavia incontrava qualcuno che poteva interagire con essi. Però, in questo nuovo saggio ("Antieconomia ed antipolitica"), al contrario, viene offerta educazione politecnica a tutti. Allo stesso tempo, il relazionamento consumistico con nuove tecnologie viene criticato, e si afferma che il CD player è un'innovazione insignificante. Come consumatori, non siamo d'accordo.

Risposta 8: "Economia naturale" è un concetto di supporto che principalmente non consiste in nient'altro che nell'assenza di produzione di merci, mercato, denaro, ecc.. Che questo non possa essere un'economia retrograda o di "sussistenza" (nel senso di una produzione brutale di sopravvivenza, senza "fonti di ricchezza"), ma che dev'essere collegata alle forze produttive più avanzate, è stata una posizione del Gruppo Krisis fin dal principio. Nel confronto con le categorie dominanti c'è bisogno di incontrare nuovi concetti, anche se all'inizio sono stati, nella maggior parte dei casi, "concetti di guerra", immunizzazioni o determinazioni negative. Non vi è ancora alcun apparato concettuale critico-del-valore maturato, perché la relativa teoria critica, in quanto superamento del marxismo sociologista riduttore ed immanente al valore, è ancora agli inizi (questo anche per quanto riguarda lo stato dei concetti teorici in quanto tali).
Riguardo la domanda sulla conoscenza politecnica, noi assegniamo importanza alla ripresa di questo pensiero del marxismo del movimento operaio sotto un nuovo spettro critico-del-valore, per poi discuterlo al livello delle forme produttive microelettroniche. Si tratta della mediazione di un'ampia conoscenza produttiva e tecno-culturale di base. Il che non significa che tutti ora dovrebbero diventare esperti di computer. Quel che importa è proprio la spinta contro una specializzazione ristretta e, soprattutto, contro la monopolizzazione della conoscenza tecnologica, così come si può osservare oggi in tutti i paesi con tecnologia chiave microlettronica.
Se il potenziale di queste nuove forze produttive non viene generalizzato almeno nella sua applicabilità, allora esse non possono nemmeno essere mobilitate in maniera soddisfacente da un movimento di superamento contro il sistema produttore di merci, e che ha bisogno di includere, ad esempio, anziani, ragazze madre, adolescenti, ecc.. Attualmente, nel contesto postmoderno, minaccia già di formarsi un campo di interesse immanente al sistema di una sorta di "classe lavoratrice informatica", elitaria predominantemente "maschile", che viene immaginata come "meglio pagata" e "meglio assicurata" (anche se la maggioranza di queste persone in realtà ha un'esistenza flessibile e temporaneamente precaria).
Di un relazionamento critico con il potenziale della microelettronica, fa sicuramente parte anche il non definirsi come mero "consumatore", e il non lasciarsi programmare come un cane, da un campanello, ad afferrare salsicce, permanentemente, davanti a tutte le mode ed innovazioni inventate dal marketing capitalista. Che il CD non sia stato un grosso miglioramento in relazione all'LP (forse più gustoso), si deduce da quel che dicono molti amanti della musica. Se un simile esempio abbastanza fortuito si possa o no applicare - ci fa quanto meno sospettare che non sia stato ammesso a caso per un'eventuale osservazione, ma è stato causato da lamentele verbali e scritte provenienti da diverse parti, e realizzato come una dichiarazione teorica centrale. Il che significa, conseguentemente, che qui il problema non è la ragionevolezza tecnologica del CD, ma che si incontra una coscienza che viene resa prigioniera, a priori, "identitariamente", dei cicli e delle mode tecnologiche del consumo capitalista.

Domanda 9: Sarà perché gli ultimi numeri della Rivista Krisis non contengono una critica erronea a determinate forme di edonismo, che non sviluppano degli aspetti limitati - come fa Günther Jacob in alcuni suoi articoli - ma criticano le apparenze di un punto di vista conservatore? Günther Jacob sbaglia riguardo alla critica che fa dell'approccio del Gruppo Krisis su questo punto?

Risposta 9: A partire dagli anni '80, il cosiddetto edonismo, che si diffonde come una piaga, è altrettanto astratto del "lavoro" capitalista, e ne è solamente il suo rovescio. Quest'edonismo è irriflesso, superficiale e si auto-inganna sistematicamente per quanto riguarda le forme capitaliste di mediazione del consumo. Fare festa, ubriacarsi e godersi la musica pop ha fatto parte della cosiddetta generazione 89 e anche prima di essa, senza che queste persone avessero la minima idea di dotare i loro piaceri banali di grandi concetti "teorico-sociali", o addirittura di ampliarsi secondo una qualche sorta di strategia. La sinistra pop, a quanto pare, amerebbe ancora trasformare selvaggiamente il proprio shopping in un atto critico. Quello che vorrebbe - di imporre la "festa" con un gesto quasi "rivoluzionario" in una "società dell'avventura" casinò-capitalista postmoderna - in realtà gioca solamente un ruolo ridicolo.
Si può avere l'impressione che alcuni degli ideologhi del carnevale socializzato negli anni '80 immaginassero, come oggetto della loro critica, lo spauracchio di un capitalismo anni '50 demodé e triste - già decaduto da tempo - solo per non aver bisogno di riflettere criticamente sul proprio universo di vita capitalista, globalizzato e postmoderno. Il giochetto di una simile pseudo-critica per mezzo di un'ultra-affermazione era già finito da molto tempo e venne spinto all'assurdo. Corrispondeva all'ideologia positivista del consumo del "Gruppo Marxista", del '68 dei tempi andati, cercare di mobilitare in maniera acritica le necessità capitaliste che lo stesso capitalismo non era in grado di soddisfare. Se oggi questa primitiva "teoria della rivoluzione" si riproduce in maniera ampliata nel suo travestimento pop-culturale postmoderno, possiamo soltanto dire che i suoi seguaci, in qualche modo, si troverebbero meglio nel ramo pubblicitario, piuttosto che nel contesto della critica del valore.
Ogni studente del primo anno di facoltà ed ogni redattore di una rivista culturale che entra un po' nella scia del pop culturalismo e del decostruzionismo, oggi ritiene di poter lanciare l'accusa di "conservatorismo culturale" o di "pessimismo culturale", per riuscire a contribuire, con la sua partecipazione all'industria culturale all'apparenza gloriosa di una critica particolarmente affascinante. Di fatto, è altamente conservatore invocare la cosiddetta cultura alta contro la cultura pop e/o voler rianimare la cultura borghese del 19° secolo, oramai passata e morta con la prima guerra mondiale, contro la cultura di massa del capitalismo tardivo. Oggi, tali atteggiamenti difficilmente vengono ancora adottati, tanto nella sinistra quanto nella stessa impresa capitalista. Ormai l'università, secondo il grande programma d'insegnamento tedesco, si dedica alla produzione pop dell'industria culturale. L'asserito conservatorismo culturale è, a sua volta, soltanto uno spaventapasseri anacronistico dei postmoderni, i quali coltivano essi stessi un positivismo culturale ordinario ed affermativo. E' soltanto l'altra faccia della moneta del pessimismo culturale.
Al contrario di tutto questo, la critica del valore è potenzialmente anche critica radicale della cultura e, di fatto, critica di tutta la storia e della struttura dello sviluppo culturale capitalista (sia la cosiddetta alta cultura che la cultura di massa). Che Adorno, nella sua critica culturale o sociale in generale, contenga elementi conservatori, e che in parte abbia idealizzato un soggetto (culturale borghese) della circolazione, apparentemente sovrano in un passato immaginato, è cosa che viene criticata in dettaglio sulla Rivista Krisis, per il dispiacere di "ISF" e della Rivista Bahamas. Adorno non si esaurisce, però, in questi momenti culturali conservatori, e molti dei suoi commenti critici culturali non hanno niente a che vedere con il futile postmodernismo della "sinistra" attuale. Dal nostro punto di vista, la critica culturale dev'essere sviluppata come momento della critica del valore e dev'essere estesa all'attuale cultura di massa postmoderna. Di questo fa parte anche l'analisi storica della "valorizzazione" della cultura in quanto oggetto industriale della produzione capitalista, la critica dell'estetica della merce, la critica di un consumismo estetizzato nel contesto della medializzazione capitalista, ecc..
Per quel che riguarda Günther Jacob, nonostante egli fornisca alcune buone analisi di alcune sciocchezze pop culturali, tuttavia è sempre rimasto alla superficie empirico-sociologica. Gli è che non è mai riuscito a raggiungere la critica della forma-valore sociale e quella del suo "soggetto automatico", ma è stato piuttosto uno di quelli che ha solamente "completato" il vecchio sociologismo classista immanente al valore, attraverso ampliamenti culturali decostruzionisti. Concetti come "estetica della merce" o "mistificazioni economiche", ecc., appaiono in tali testi come corpi estranei e non sono mediati sistematicamente con l'argomento stesso, specialmente se si considera che, nello spettro dell'ideologia postmoderna in voga, il problema del feticismo, per noi centrale, è stato esplicitamente gettato nella spazzatura.
Tutta la chiacchiera circa un presunto "incremento della ricchezza e delle abilità e necessità dei soggetti" ben all'interno dell'industria culturale, è puramente e scandalosamente falso. Una critica superficiale a livello delle apparenze si svalorizza nel lungo periodo se tralascia la questione essenziale della costituzione capitalista, e finisce per galleggiare sull'assunto principale in maniera affermativa e positivista, relativamente alla cultura. In opposizione a questo, la nostra posizione considera e mobilita il concetto di rifiuto. Anche lo sviluppo cosciente di un'anti-cultura che si discosti dall'industria culturale e la saboti, anziché depositare falsamente in essa dei potenziali di emancipazione.

Domanda 10: Ci sono due progetti concreti che sono stati proposti nell'articolo di Robert Kurz [Antieconomia ed antipolitica]. Qui, soprattutto, vengono indicati tre punti: la fondazione delle cooperative di consumo, delle cooperative di costruzione di alloggi, e dei bar autogestiti. Potete spiegare meglio perché tutti questi progetti, che sono già stati sperimentati prima, non sono solo progetti sociali di nicchia, ma questa volta possono avere un impatto sociale maggiore? Inoltre, tali progetti finora hanno sempre fallito, a causa dei loro stessi obiettivi troppo esigenti. Perché ora invece dovrebbero funzionare?

Risposta 10: Ugualmente, si potrebbe chiedere a Krisis delle elezioni dell'Unione cristiano-democratica o sull'appartenenza al sindacato delle microimprese. Il fatto è che queste cose si trovano nel citato articolo della rivista sulla questione del superamento, altrettanto poco del suggerimento di aprire dei "bar autogestiti". Sembra che abbiate letto un altro testo. Un bar, come si sa, è un negozio che sta sul mercato dei servizi per vendere qualcosa. Quasi la metà dell'articolo di Robert Kurz sulla "Antieconomia e l'antipolitica" critica esattamente la fondazione di piccole imprese o cooperative ai fini della partecipazione alternativa al mercato, in quanto fondamentalmente è un vicolo cieco. Per poter avere una prospettiva di trasformazione per il superamento del sistema produttore di merci, è decisivo superare la forma di mediazione sociale (valore, merce, denaro), cosa di cui nella storia del movimento operaio non si è mai seriamente dibattuto, né nella variante del socialismo di Stato né in quella del socialismo cooperativista.
La prospettiva di "svincolamento" dalla forma-merce, da noi discussa, è rivolta all'esatto opposto di una partecipazione alternativa nel mercato, cioè, all'organizzazione di un ritiro di certe aree della riproduzione dalla mediazione del mercato. Pertanto, le "cooperative" per così dire (se si vuole dare ad esse un nome del genere) non comprano cose per poi in seguito rivenderle con un accrescimento per mezzo del lavoro, ma piuttosto, al contrario, comprano, o perfino si appropriano di, qualcosa rielaborandolo per il proprio consumo, senza ritornare così al mercato. Si tratta pertanto di appropriarsi di determinati elementi (in primo luogo direttamente raggiungibili) della riproduzione profondamente differenziata che il mercato ha assunto sotto la pressione della valorizzazione capitalista e di strapparli al mercato al fine di produrre in territori socio-economici in un certo qual modo autonomi, dove un'istanza di auto-comprensione diretta sostituisca la forma-valore. Il riferimento alle cooperative di consumo e di abitazione, non rappresenta un qualche suggerimento pratico immediato, ma serve piuttosto soltanto ad illustrare l'argomento teorico (ed anche a mostrare che tali forme "inverse" dei settori non di mercato esistevano già storicamente, con puntualità, nel movimento operaio socialista collegato alla politica di Stato, senza che questo, tuttavia, divenisse cosciente e venisse sviluppato teoricamente e praticamente).
Al di là di questo, basicamente, non trattiamo il tema dello "svincolo" a livello di progetti individuali "qui ed ora", ma unicamente come una prospettiva parziale per un movimento sociale futuro che possa allo stesso tempo proseguire la lotta degli interessi immanenti al sistema (salario, riduzione del tempo di lavoro, trasferimenti sociale, ecc.) con maggior durezza, qualora siano mediati da un obiettivo di svincolamento e di superamento; questo vale anche rispetto all'integrazione di altri momenti ed obiettivi di più ampia portata che si riferiscono alla relazione di genere, all'antirazzismo e all'antinazionalismo, alle reti transnazionali, alla critica delle relazioni capitaliste con la natura, alla lotta per le risorse naturali e alle forme di "appropriazione selvaggia", ecc.. Quindi, non si tratta di presunti "progetti di nicchia", bensì di un aspetto importante del movimento di superamento, che superi il vecchio dualismo (strutturalmente borghese) fra "politica" ed "economia" condizionato dalla forma-merce, di partito e sindacato, ecc..
Evidentemente, da parte di un movimento di superamento, è necessaria una discussione critica su tali questioni. Non vogliamo affermare in alcun modo che abbiamo definito e risolto il problema, per così dire ex cathedra, con il mero lancio del concetto di "svincolamento". Non vogliamo, però, metterci a combattere permanentemente contro le interpretazioni meramente denunciatorie dei nostri saggi teorici, che dal punto di vista postmodernista non discutono mai seriamente il superamento della forma-merce. Il fatto di essere percepiti, negli ambienti pop culturalisti e nei discorsi decostruttivisti di moda, solo in maniera peggiorativa, è nella natura dello stesso assunto. Dacché per il modo di intendere apparentemente critico, nei media, nelle mode e nei mondi simbolici capitalisti, la critica del valore in fondo non offre nulla. E' quando invece la sinistra "dell'estetica della vita" si interessa alla critica del valore, che dobbiamo chiederci che cosa abbiamo fatto di sbagliato.

Domanda 11: La strategia di superamento da parte del gruppo si basa sulla sua teoria della crisi. Quali effetti hanno i suoi suggerimenti, però, nel caso che il collasso non avvenga?

Risposta 11: E' chiaro che le forme reali di "svincolo" dalla forma-merce e/o gli attacchi diretti alle coercizioni del sistema produttore di merci possono fallire, ma esse non possono essere integrate, per definizione, nella forma dominante. Tale integrazione è possibile solamente se la critica del "lavoro" e della forma-merce viene abbandonata oppure (come è avvenuto con tutte le sinistre finora esistenti) se questa critica non è mai esistita fin dall'inizio o non ha determinato i modi di procedere teorici e pratici.
Tuttavia questo problema non è né arbitrario né accidentale, ma dipende da decisioni meramente morali, e pertanto esterni al problema della crisi; in maniera più o meno conforme al punto di vista agnostico, tutto è possibile, ma è meglio non volerlo sapere con esattezza. Fondamentalmente, questo vuol dire che la critica radicale del valore è formulabile solamente come teoria della crisi. Dal momento che, mentre la socializzazione del valore poteva superare le sue crisi temporanee dell'imposizione, per mezzo di nuovi impulsi di accumulazione su vasto raggio, nel mentre che essa non era ancora del tutto sviluppata strutturalmente, le questioni circa l'emancipazione venivano obbligatoriamente formulate in maniera immanente al valore. Nella misura in cui la formulazione di una critica del valore si trova oltre il marxismo del movimento operaio, essa stessa è di per sé un fenomeno di crisi.
Al di fuori di questo, e al di fuori delle evidenti apparenze del superamento strutturale globale, una seria posizione anticrisi dovrebbe argomentare teoricamente anche sulla crisi dell'accumulazione. Il ragionamento nudo e crudo su "che cosa avverrebbe se non ci fosse nessuna crisi?", ci appare come un'illusione, come il desiderio padre del pensiero. Detto in poche parole, significa che non ci deve o non ci può essere nessuna "crisi finale" perché allora anche tutto il meraviglioso mondo nuovo del culturalismo postmoderno finirebbe giù nello sciacquone. Certamente, una simile ideologia dello struzzo, all'inizio riesce a sopravvivere completamente senza un'argomentazione teorica circa l'accumulazione, e, a partire da quest'attitudine, probabilmente si chiede ancora dove sia il collasso e se potrà mai avvenire un giorno, nello stesso momento in cui le schegge delle distruzioni hanno già cominciato a volare sulle teste di questi signori.
Nella misura in cui i postmoderni se ne escono ancora con un'argomentazione anti-teoria della crisi, questo non solo è disgustoso, ma è anche eccezionalmente debole: reca in sé, in accordo col Ministero della Scienza e della Tecnologia, l'allucinazione di una sorta di capitalismo software, che in tal modo può riuscire a sostituire il dispendio industriale di "nervi, muscoli e cervello" per mezzo di una riduzione post-industriale al solo "cervello", attraverso la quale tutto il processo di mediazione e di creazione del plusvalore verrebbe ad essere eliminato (una simile illusione venne formulata da Habermas negli anni '70). Una posizione anti-crisi di questo genere potrebbe essere pensabile come una posizione di interesse, immanente al valore, di quella già menzionata "classe di lavoratori informatici" precarizzati.
O il problema della sostanza del valore viene gettato nella spazzatura immediatamente, in nome dell'anti-essenzialismo decostruzionista, per poi (come più o meno avviene nell'argomentazione di Baudrillard) ritornare positivamente all'illusione capitalista per cui si rende reale una forma del suo contenuto e postulare la possibilità della perpetuazione del capitalismo da casinò. In entrambi i casi non solo ci si deve separare definitivamente ed esplicitamente dalla teoria di Marx, ma anche dalla realtà (che per fortuna nel postmodernismo già nemmeno esiste più).

Domanda 12: Consideriamo i possibili oppositori di una strategia del superamento. A leggere l'ultimo saggio di Robert Kurz, su Krisis, si ha l'impressione che il problema centrale sia la sinistra dogmatica ed i burocrati delle amministrazioni dominate dal partito socialdemocratico. Non ci sono forze più potenti e più influenti che impediscono un cambiamento sociale?

Risposta 12: Tutte le istanze della socializzazione attraverso il valore sono, naturalmente, degli oppositori istituzionali al superamento: il management, gli apparati di Stato e l'industria culturale, così come il lavoro salariato che rimane nella sua maschera di carattere e spera irrazionalmente in nuovi impulsi di prosperità (mentre gli stranieri prendono fuoco). Il riferimento fatto ad un'amministrazione municipale (che, com'è noto, nelle grandi città sono ancora dominate nella maggioranza delle volte dai "potenti pezzi grossi" della retroguardia del partito socialdemocratico) che si oppone ad un movimento di superamento, era collocato in un contesto che parlava di un determinato livello. Quindi, non si è detto assolutamente che le istanze delle autorità capitaliste di ordine superiore non sarebbero degli opponenti; ciò sarebbe del tutto ridicolo. Il fatto che le stesse persone, i gruppi, gli apparati ed i livelli istituzionali agiscono individualmente, con contraddizioni e conflitti che irrompono anche dentro gli apparati, questo dipende, in fin dei conti, dalle forme del percorso della crisi e dei movimenti sociali. Tali rotture e conflitti oggi possono già essere constatati, ma dal momento che non c'è alcun contro-movimento emancipatore, marciscono e continuano dentro l'amministrazione della crisi capitalista. Qualcosa di completamente diverso, è il confronto dento la stessa teoria critica, a proposito di una nuova formulazione della critica sociale. Noi non possiamo farla con Helmut Kohl, Blüm, Schröder o Cromme e Stihl (un presidente della Confederazione dell'Industria e del Commercio). Si tratta di livelli completamente differenti di "opposizione", e sarebbe imbarazzante confonderli. Il fatto per cui l'opposizione sociale reale non si realizzi perché la critica radicale è tornata nella sfera teorica, non può essere preso argomentativamente sul serio al fine di non sviluppare un confronto necessario internamente alla teoria.
Al contrario, è esattamente questa la condizione per renderla in gran parte socialmente attiva, dopo il cambio di paradigma, in quanto la paralisi della critica ha casualmente a che vedere con il fatto che il superamento di questa forma vecchia, inadeguata, non è stata generalizzata e realizzata in maniera sufficiente. Quando dentro la sinistra, ci sono posizioni che si combattono, di modo che visto da fuori sono posizioni difficilmente distinguibili, è chiaro che la cosa sia dolorosa e che ferisce personalmente. Nella dinamica dei gruppi, questo ha qualcosa dei noti litigi degli intellettuali in esilio. Per quanto possibile, andrebbero evitate forme di confronto che portano solo a lavare la biancheria sporca. Ma, in ultima analisi, si tratta di chiarimento dei contenuti, il che non può essere ottenuto per mezzo di "coesistenze semantiche". Per una determinata situazione storica, una determinata questione, un determinato contesto, non esistono molte verità tante quante sono le stelle in cielo. Il relativismo postmoderno, che non vuole arrivare da nessuna parte, è presente anche in ciò che concerne la questione dell'opposizione, e momentaneamente è l'opponente principale interno al pensiero critico.

- Pubblicata su: Joelton Nascimento - "Introdução à Nova Crítica do Valor" - São Paulo 2014

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