Così la Supercazzola ha anticipato la Postverità
- di Maurizio Ferraris -
La post-verità è l’etere della nostra epoca ma, ovviamente, nulla nasce dal nulla, e – come molti hanno notato – l’ albero della post-verità affonda le sue radici in età lontane, riconducendoci forse agli albori della civiltà. Senza risalire tanto indietro, vorrei svolgere qualche riflessione sulla via italiana alla post-verità, la supercazzola, cioè (leggiamo nello Zingarelli) «parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’ interlocutore», che sembra non solo anticipare le strategie della post-verità, ma condividerne aspetti profondi. In entrambi i casi, accade come in Totò d’ Arabia (1964), quando un istruttore approva le comunicazioni cifrate dell’ agente 008, ossia di Totò: «Meglio così: l’ interlocutore lasciamolo nel dubbio». Si arguisce sin da qui la rilevanza filosofica della supercazzola, ma di questo più avanti.
La sua prima occorrenza pubblica è in Amici miei diretto da Mario Monicelli nel 1975 in cui Ugo Tognazzi, alias Conte Mascetti, proferisce l’ ur-Supercazzola a beneficio di un vigile: «Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?» Il battesimo della supercazzola ha luogo più avanti, quando Mascetti si arrabbia con Guido Necchi (Duilio Del Prete) perché lo interrompe: «Senti, Necchi, tu non ti devi permettere di intervenire quando io faccio la supercazzola!».
Ma l’ invenzione della supercazzola è antecedente, ed è attribuita secondo alcuni a Corrado Lojacono (1924 - 2012) cantante, attore e compositore italiano, secondo altri (tra cui, pare, lo stesso Monicelli) a Marcello Casco (1936 - 1999), scrittore, attore e regista italiano. Si noti questo: ho detto sin qui (e dirò in seguito) “supercazzola”, con la elle, come appare nello Zingarelli.
Eppure la dizione corretta (difficile da distinguere nei film per la velocità con cui la pronuncia Tognazzi) è “supercazzora”, con la erre. Così infatti appare nel libro Amici miei (1976) scritto dagli sceneggiatori del film, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli. Si noti tuttavia che abbiamo a stampa – ma è testimonianza ben più tardiva e apocrifa – anche un Ugo Tognazzi (a cura di Roberto Buffagni). La supercazzola. Istruzioni per l’ Ugo (2006). La supercazzola, dicevo, è una parola o frase senza senso che riceve una qualche luce (ma anche no) dal contesto come ne Il fascino discreto della borghesia (1972) di Luis Buñuel, in cui un diplomatico per restare solo con l’ amante allontanandone il marito dice di doverle mostrare i “colcini”. Ma in altri casi, come le catchphrase di Totò “e io pago!” oppure “ma mi faccia il piacere!”, non abbiamo a che fare con supercazzole in senso stretto, ma con frasi divenute proverbiali, nello stile di “o’ famo strano” di Verdone. Così “ho visto cose che voi umani” e in Moretti “faccio cose, vedo gente”, “facciamoci del male”, “di’ qualcosa di sinistra”, “ve lo meritate Alberto Sordi”: il quale Sordi è passato alla storia con frasi come “io so’ io e voi nun siete un cazzo”. O con antonomasie: “Armata Brancaleone”, “Paparazzo”, “Amarcord”, “Dolcevita”, “Fantozzi” (e più avanti il televisivo “Tafazzi”).
Venendo alla radio e alla televisione Alto gradimento, non è stata soltanto la fucina di infiniti personaggi diventati proverbiali, ai loro tempi, e in parte ancora nei nostri, ma anche di perfette supercazzole. Tale è il grido dell’ambulante sulla spiaggia: «Lumache calde, sanguinacci caldi, sugna lardo sapone fangata schiumata calda, aranciata calda, bibite calde, canottiere calde…». Fra la radio e la televisione abbiamo Scarpantibus, l’ uccello preistorico calzato di anfibi catturato in Nicaragua. Il Sarchiapone (di Campanini e Walter Chiari, affrontato nella sua giusta dimensione concettuale da Umberto Eco in Kant e l’ ornitorinco). «Sta senza penzier » nella serie tv Gomorra, anticipato nel real world da Matteo Renzi con il suo “#Enricostaisereno” rivolto al suo predecessore alla presidenza del consiglio Enrico Letta. Ma, sempre per la mia generazione, la supercazzola televisiva è essenzialmente legata a Quelli della notte. Dalla sigla «Lo diceva Neruda che di giorno si suda – Ma la notte no!» sino al “Leopardo da Vinci” di Frassica, passando per Roberto D’ Agostino che, citando i maggiori trend della moda e della società, evocava Il Pensiero debole curato da Vattimo e Rovatti cui ebbi l’onore di contribuire.
Cambiamo registro: “riverrun, past Eve and Adam’s, from swerve of shore to bend of bay, brings us by a commodius vicus of recirculation back to Howth Castle and Environs.” È l’ incipit del Finnegans Wake. È una supercazzola? Penso di sì, qualcuno si indignerà, ma non ne vedo il motivo. La letteratura, grande e piccola, rigurgita di supercazzole, dal «papè satan aleppe» di Dante e dal «millanta, che tutta notte canta» sino al «Madama… veramente… in questo mondo / Conciòssiacosaquandofosseché… / Il quadro non è tondo…» del Don Giovanni di Da Ponte, alle stralunate riflessioni di Achille Campanile sull’età del cucco, ai nonsense, ai cadavre exquis dei surrealisti. Quella del surrealismo è una pista importante anche fuori della letteratura. L’ intera opera di Lacan (che dal surrealismo è stato molto influenzato), e in particolare i suoi seminari, può essere considerata una ininterrotta successione di supercazzole dotate di valore terapeutico. Se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, sembra troppo ottimistico pensare che l’ inconscio abbia un senso qualsiasi e non sia, invece, una supercazzola, come suggerisce in teoria e in pratica Lacan.
Questo ovviamente vale anche per la filosofia, che non solo ha stigmatizzato la supercazzola fuori di sé (in Bullshit di Frankfurt, del 1986), ma l’ ha praticata in prima persona, come nei casi segnalati da Sokal e Bricmont in Imposture intellettuali (1997), e nei casi migliori l’ha teorizzata: che cosa sono il “blitris” di Tommaso d’ Aquino, il “buf baff” di Giovanni Buridano se non delle supercazzole metafisiche? Un’ altra celebre supercazzola filosofica è poi stata coniata nel secolo scorso da Quine: fremono le foglie, passa un coniglio, e un indigeno che parla una lingua a noi ignota dice “Gavagai”. Sarebbe ingannevole concluderne che significa “coniglio”, perché potrebbe significare una parte di coniglio, il passaggio del coniglio, o la coniglità. Come stabilire il significato? Quine sollevava un gran problema. Che però ne nasconde uno ancora più grande, un dubbio iperbolico che non potremo mai risolvere: e se l’indigeno, proferendo “Gavagai”, altro non avesse fatto che esprimere, in forma sintetica e nel suo idioma, “Tarapia tapioco, come se fosse antani, blinda la supercazzola”?.
- Maurizio Ferraris -Pubblicato su Repubblica, 21 Ottobre 2017 -
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