I cambiamenti climatici e le estinzioni biologiche sono solo alcuni dei parametri che oggi stanno andando fuori scala, mettendo in scacco l'umanità e determinando una proliferazione discorsiva senza precedenti intorno all'idea della "fine": dal pensiero all'espressione artistica, una fioritura disforica di mitologie dell'Apocalisse infrange ogni ottimismo umanista e prometeismo dello sviluppo. Ma, nonostante illustri il punto definitivamente critico della storia della Terra cui siamo arrivati, questo non è un libro apocalittico: a ispirarlo è piuttosto la spinta alla rifondazione di un futuro "altro" per tutta la catena delle esistenze che compongono il pianeta. Che cosa si può opporre a questa virata verso il declino, per non restare "senza mondo"? Evocando la cosmopolitica degli indios amazzonici, basata su un'inesauribile diplomazia dei rapporti con l"arena internazionale" dell'ambiente in cui vivono, gli autori rovesciano la questione in vista di una possibile resistenza: "Parlare della fine del mondo non significa parlare della necessità di immaginare un nuovo mondo al posto di quello presente, ma un nuovo popolo; il popolo che manca. Un popolo che crede nel mondo e che lo dovrà creare con ciò che gli lasciamo di esso".
“Il libro inizia dall’unico punto in cui è possibile iniziare – la fine.” Bruno Latour
(dal risvolto di copertina di: "Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine". di Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro. Nottetempo)
Intervista a Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro
- di Alessandra Pigliaru -
«O ci liberiamo dall’idea occidentale di umano o non sopravviveremo a lungo». Sono piuttosto netti Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros De Castro, entrambi ricercatori presso il Conselho Nacional de Desenvolvimento Cientifico e Tecnologico, in Brasile. L’intenzione non è quella di fare dell’allarmismo o di alimentare un orizzonte squisitamente teorico post-umano, già tanto frequentato. Hanno un’aria pacifica e la voce di entrambi si fonde in un’articolazione filosofico-antropologica che precisano da diversi anni.
Hanno scritto Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (Nottetempo, pp. 320, euro 17, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). Le formazioni sono diverse (Danowski insegna filosofia alla Pontificia Universidade Catolica di Rio de Janeiro, mentre Eduardo Viveiros De Castro antropologia sociale presso il Museo Nacional dell’Universidad Federale) eppure, nella strana alchimia della relazione, in questi anni si sono esercitati a pensare insieme in un confronto serrato proprio con quella domanda che dà il titolo al libro, pubblicato in Brasile tre anni fa e che, nell’edizione italiana, ha una introduzione aggiornata.
Il titolo che avete scelto per il vostro denso volume è una domanda che preferite mantenere «radicalmente aperta». A parte quello a venire, viviamo o no nel migliore dei mondi possibili?
"Questo è l’unico mondo che abbiamo, non ne esistono di infiniti. Detto questo, è impossibile essere ottimisti al modo in cui lo era Leibniz, del resto lui aveva come garante Dio e non poteva certo immaginare ci saremo trovati in questo stato di cose: la crisi climatica e più in generale ecologica, per esempio. A Leibniz dedichiamo una nota del libro ma la prospettiva non può più essere orientata verso un perfezionamento storico, quel migliore dei mondi possibili ipotizzato dal filosofo è come se fosse all’apice di un’immagine piramidale, non sappiamo quale sia il peggiore ma esiste un collasso che non possiamo più ignorare.
Ci troviamo in un momento descritto con maggiore efficacia dalla visione termodinamica, o forse – ancora più precisamente – dall’entropia, a livello sociale, politico, economico e della stessa condizione del pianeta."
Vi concentrate sull’idea di «fine». Conclusione singolare, biologica, e al contempo di tutte le cose. In che modo l’avete declinata?
"Esistono molti tipi di «fine» e una costellazione di autori che ne danno interpretazioni diverse. Per esempio c’è la fine assoluta di cui abbiamo rappresentazione visiva nel film Melancholia di Lars Von Trier. Poi c’è quella metafisica alla Nihil Unbound di Ray Brassier (che viene collocato insieme a Iain H. Grant, Graham Harman, Levy Bryan sotto l’etichetta di «realismo speculativo»); quindi dal momento che tra circa tre miliardi di anni il nostro mondo finirà, tanto vale considerarci già morti da un punto di vista metafisico. In questa tesi la morte è considerata una verità ontologica. La posizione tanatologica prevede una forma di nichilismo attivo perché la consapevolezza della ineluttabilità della morte come destino universale è una acquisizione della intellegibilità delle cose. Non c’è un Dio. Nulla di esterno ci salverà e dobbiamo accettarlo.
Non siamo profeti dell’Apocalisse, ci sono molti modi diversi di intendere la parola «mondo» e la parola «fine». Fine della specie, fine del cosmo, della civiltà, del capitalismo. Ci sono molti mondi che possono finire e alcuni di essi sarebbe bene che finissero. A un certo punto sarà importante che anche la nostra specie scompaia, i tempi medi di sopravvivenza di ogni specie sono di 2 milioni di anni, la nostra esiste da 200mila anni ma niente ci garantisce l’ulteriore tempo che potremmo avere a disposizione."
Il problema risiede nel dispositivo escludente di una specie che vorrebbe dettare le regole anche per le altre?
"Ciò che ci preoccupa è la fine di questo mondo, forse la nostra specie continuerà ma non i nostri modi di vita. Non dimentichiamo che i nostri corpi, per il 90%, sono costituiti da altre specie. Dobbiamo imparare a stare al mondo in una modalità non essenzialista, abbandonando l’eccezionalismo. Siamo aperti al flusso della materia e della vita, in questo senso siamo integrati all’esistente restando una configurazione momentanea di questo flusso."
Anche l’arroganza antropocentrica ha un suo posto nel ragionamento che avanzate…
"La domanda infatti non è se esista o meno un mondo a venire ma se esista vivibile per tutti i viventi, umani e non umani, compresa la parte migliore dell’umanità che certo non siamo noi considerato quel che abbiamo fatto al pianeta."
L’umano che arriverà verosimilmente non sarà maschio, né bianco, forse sarà una donna o chissà. Convocate anche l’impegnativa categoria di «popolo a venire». Da chi si compone?
"Per noi non è un insieme di individui e non è neppure un concetto che riguarda solo gli esseri umani, l’espressione è più complessa ed estesa.
È qualcosa di collettivo che non esclude le altre specie. Come ci sono diversi tipi di popolo ci sono numerose pluralità di popolazioni. Spesso c’è un popolo indicato sommariamente come specie umana oppure come categoria politica, pensiamo alla classe operaia, intesa – nella sua universalità – come tratto caratteristico dell’immaginario di sinistra. Per noi invece il popolo non può che nominarsi al plurale, come molteplicità di umani e non umani.
Ogni popolo è connotato da orientamenti che rispondono alle parzialità di ciascuno di essi, pensiamo alle comunità lgbqt, ma anche alle battaglie come per esempio quelle delle donne, alle comunità nere, ma gli esempi sono molti."
«Il nostro presente – scrivete – è l’Antropocene; questo è il nostro tempo. Ma tale tempo presente si rivela essere un presente senza avvenire, un presente passivo». Un tempo fuori sesto che è oltre la distopia e che ha superato la fantascienza. Oltre a descrivere uno scenario di profonda angoscia, quale è il dato di esperienza quotidiana che può aiutarci a non rimanere schiacciati dalle gabbie teoriche?
"Ci sono molti popoli che ci restituiscono esperienze dirette di modi di vivere diversi; cioè non c’è qualcosa da inventare ma qualcosa da osservare, questi popoli vivono fuori della società industrializzata e portano da anni esperienze importanti. Per esempio nelle zone semi-aride nella parte nord-est del Brasile ci sono popolazioni che vivendo in un clima ostile si sono ingegnate con tecnologie. La loro esistenza è già una forma di resistenza all’invasione che prevedrebbe la cosiddetta civilizzazione. I popoli sono molti e le forme di vita escogitate sono altrettante.
Non possiamo aspettarci soluzioni istituzionali anche se la grandezza dei problemi è tale che in certi casi dobbiamo di necessità fare riferimento a questo genere di mediazioni. Non è però questo il punto di leva: le forme istituzionali, i grandi organismi internazionali hanno dei limiti che non possiamo ignorare.
Dobbiamo osservare meglio e volgerci verso chi ha già sperimentato quella che sarà l’esperienza universale del «mondo diminuito» in cui sopravvivere sarà un compito difficile."
- intervista di Alessandra Pigliaru - Pubblicata sul Manifesto -
Che ne sarà di noi?
Lo scioglimento dei ghiacci, l’estinzione di specie animali e vegetali, l’esaurimento dei suoli, l’aumento della temperatura sono solo alcuni dei parametri che in questo momento stanno letteralmente andando fuori scala, mettendo in scacco l’umanità intera. Il processo è irreversibile, tutto ciò che può essere fatto è troppo poco e troppo tardi. E allora si interpellano la filosofia e la politica alla ricerca di una via di uscita impossibile.
Dopo aver passato in rassegna tutta una serie di mitologie occidentali sulla fine del mondo, che vanno dal cinema alla letteratura, dal giornalismo alla teoria politica, dalla religione alla filosofia, Danowski e De Castro cercano di mettere in evidenza i pericoli che dobbiamo affrontare in questo momento storico e le possibili soluzioni.
E giungono alla conclusione che i popoli amerindi possano fornirci modelli di organizzazione, concezioni filosofiche, tecniche a basso impatto tecnologico in grado di permetterci una possibile resistenza.
«Questo testo è un tentativo di prendere sul serio gli attuali discorsi sulla “fine del mondo”, considerandoli come esperienze di pensiero sulla virata dell’avventura antropologica occidentale verso il declino, ovvero come sforzi, non necessariamente consapevoli, di inventare una mitologia adeguata al presente. La “fine del mondo” è uno di quei famosi problemi che, secondo Kant, la ragione non può risolvere, ma che non può fare a meno di porre. E il modo in cui lo fa passa necessariamente attraverso la forma di una fabulazione mitica o, come oggi piace dire, di “narrazioni” che ci orientano e motivano. Il regime semiotico del mito, indifferente alla verità o falsità empirica dei suoi contenuti, si instaura ogni volta che la relazione tra gli umani in quanto tali e le loro condizioni generali di esistenza si impone come problema della ragione. E se ogni mitologia può essere descritta come una schematizzazione delle condizioni trascendentali in termini empirici – cioè, una retroproiezione che convalida determinate ragioni sufficienti immaginate (“narrativizzate”) come cause efficienti – allora l’impasse attuale si rivela tanto piú tragica, o ironica, quanto piú vediamo il problema di una Ragione che ha ricevuto l’avallo dell’Intelletto. Siamo qui di fronte a un problema essenzialmente metafisico, la fine del mondo, formulato nei termini rigorosi di scienze sommamente empiriche come la climatologia, la geofisica, l’oceanografia, la biochimica e l’ecologia. Forse, come Lévi-Strauss ha osservato piú volte, la scienza, che ha iniziato a separarsi dal mito circa tremila anni fa, finirà pe rincontrarlo al termine di una di quelle doppie torsioni che intrecciano la ragione analitica con la ragione dialettica, la combinatoria anagrammatica del significante con le vicissitudini storiche del significato.
Ancora una parola sulla nozione di “mito”. Uno stimolo importante, sebbene contingente, per il presente saggio è stata l’ormai celebre opera filosofica di Quentin Meillassoux, "Dopo la finitudine"(2012a). Insieme agli scritti di altri pensatori contemporanei legati al cosiddetto “realismo speculativo”, il progetto di Meillassoux ci sembrava riattivare, nolens volens, i legami tra la speculazione metafisica e le matrici mitologiche (il criticismo kantiano direbbe “dogmatiche”) del pensiero. Alla fine della lettura di "Dopo la finitudine" (e, piú tardi, di "Nihil Unbound" di Ray Brassier [2007], altra influente opera del movimento), abbiamo avuto l’impressione che questo stile di riflessione si inserisse non solo nella serie che va, diciamo, da Platone a Badiou, ma anche in un vasto universo discorsivo che si estende da quel tesoro di idee accumulate dai popoli indigeni del mondo intero in millenni di speculazione cosmologica fino al film "Melancholia" (2011) di Lars von Trier e al romanzo "La strada" di Cormac McCarthy (2014), passando per la lunga tradizione mitico-letteraria occidentale sul tema del pays gaste, la “terra desolata” (Weston 1920); senza dimenticare la persistente, se non addirittura crescente, vitalità di quel genere “minore” che è la fantascienza. La nota formula di Borges sulla metafisica come branca della letteratura fantastica non solo esigeva la reciprocità – la letteratura fantastica e la fantascienza sono le metafisiche pop, le “mitofisiche” della nostra epoca – ma anticipava l’interdigitazione che si può constatare oggi tra alcuni esperimenti del versante più creativo della filosofia contemporanea e autori come Howard P. Lovecraft, Philip K. Dick, William Gibson, David Brin e China Miéville. Il nostro obiettivo è dunque quello di fare un bilancio preliminare di alcune delle principali varianti del tema della “fine del mondo”, così come si presentano oggi nell’immaginario della cultura mondializzata. Ma iniziamo evocando brevemente i termini oggettivi, per così dire, del problema.»
("Metafisica e mitofisica", pagine 29-32 del libro)
Nessun commento:
Posta un commento