Il lavoro ai tempi del capitale fittizio
- di Norbert Trenkle -
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Che la produzione sociale, nella società capitalista, prenda la forma della produzione di merci, è opinione largamente condivisa. E' questo il motivo per cui Marx considera la merce come la "forma elementare" della ricchezza capitalista, e la sceglie come punto di partenza analitico per la sua critica dell'economia politica. La teoria economica non ha alcuna idea di cosa farsene di un tale approccio teorico. Essa tratta il concetto per cui le persone mediano la loro socialità attraverso la produzione e lo scambio di merci come se fosse un truismo antropologico. Non considera mai un essere umano come qualcosa di diverso da un potenziale produttore privato che fabbrica cose per poi poterle scambiare con altri produttori privati, avendo sempre ben presente in mente i propri particolari interessi.La differenza fra produzione di ricchezza nella società capitalista moderna e produzione di ricchezza nelle comunità tradizionali viene quindi considerata come una mera differenza di grado, con la puntualizzazione per cui sotto il capitalismo la divisione sociale del lavoro è di gran lunga più sviluppata, a causa dei progressi tecnologici e che le persone diventano più produttive nella misura in cui divengono più specializzate.
Questa opinione è una semplice proiezione che legittima intrinsecamente le relazioni capitaliste come trans-storiche. Mentre le merci e la moneta sono esistite in molte società pre-capitalistiche, la loro importanza sociale è stata del tutto diversa da quella assunta sotto il capitalismo. Le interazioni con le merci e la moneta erano sempre incorporate in altre forme di dominio, e di configurazione sociale, al tempo esistenti (dipendenza feudale, norme tradizionali, strutture patriarcali, sistemi di credenze religiose, ecc.), come ha dimostrato Karl Polanyi. Al contrario, nella società capitalista, merci e denaro rappresentano la forma universale di ricchezza, nel mentre che, simultaneamente, giocano il ruolo di mediatori sociali. Vale a dire che gli individui stabiliscono le loro relazioni reciproche, e con la ricchezza che producono, per mezzo delle merci e del denaro.
Ma quando le cose vengono prodotte in forma di merce, le corrispondenti attività produttive assumono una forma assai specifica. Esse vengono svolte in una sfera a parte rispetto alle altre diverse attività sociali e sono soggette ad una specifica logica strumentale, razionalità, e disciplina temporale. Questa forma comune non ha niente a che fare con il contenuto particolare delle diverse attività. Essa può essere attribuita soltanto al fatto che queste attività vengono tutte svolte al fine di produrre merci. Sulla base di questa struttura sociale, tutte queste attività ricadono sotto un'unica categoria: il lavoro.
Come la merce, il lavoro ha un duplice carattere. E' suddiviso in una parte concreta, che produce valore d'uso, ed una parte astratta, che produce valore. Il lavoro concreto è rilevante per il produttore di merci nella misura in cui egli può vendere la merce prodotta soltanto se questa è di qualche utilità per l'acquirente. Per il produttore, il valore d'uso è solamente un mezzo per un fine estrinseco: la trasformazione di lavoro astratto, incorporato dalla merce, in denaro. E' questo il motivo per cui il denaro è la merce universale o, come la definiva Marx, la regina delle merci, o la merce cui tutte le altre merci si riferiscono. In altre parole, il denaro rappresenta la ricchezza astratta della società capitalista, ovvero la sua ricchezza universalmente riconosciuta.
A tal proposito, solo il lato astratto del lavoro viene, universalmente, socialmente accettato, in quanto esso è il solo che entra, come valore (rappresentato dalla moneta), nella circolazione sociale, e rimane tale. Il lato concreto del lavoro, al contrario, termina con ogni vendita, dal momento che il valore d'uso svanisce dalla circolazione sociale: l'utilità di un oggetto diventa un affare privato di chi l'ha comprato. La ricchezza materiale che prende la forma del valore d'uso, sotto forma di produzione di merce, è perciò sempre particolare.
Quindi, possiamo dire non solo che il lavoro è una forma di attività in cui la ricchezza capitalista viene prodotta in una forma specificamente duale; ma anche che esso, il lavoro, svolge la funzione centrale di mediazione sociale. O, per dirla in maniera più precisa, è il lato astratto del lavoro che svolge questa funzione, mentre il lato concreto rimane subordinato.
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Questa forma di mediazione da parte del lavoro astratto esprime una contraddizione fondamentale fra quello che ciascuno produce, come produttore privato, secondo i propri particolari interessi, ed il suo essere socialmente attivo in quel preciso momento. La natura di questa struttura è tale che questa mediazione non può essere conscia. Al contrario, essa assume inevitabilmente una forma reificata di dominio. Come scrive Marx, nel suo famoso passaggio nel capitolo sul feticismo della merce:
"Gli oggetti d'uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l'uno dall'altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all'interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose." (Karl Marx, Il Capitale, Volume I)
Parlare di produttori privati non dev'essere inteso come riferimento a piccole imprese o a persone singole che producono vari prodotti per poi scambiarli con altri prodotti sul mercato. La maggior parte dei produttori di merce, sotto il capitalismo, sono certamente imprese che considerano la valorizzazione del capitale in cui investono come obiettivo della vendita della produzione. Le merci che producono sono semplicemente un trampolino per arrivare a questo fine.
Queste imprese si trovano davanti a grandi masse di persone che hanno solo una merce da vendere: la loro forza lavoro, che devono vendere in maniera permanente per poter sopravvivere. E come possessori di merci, essi sono anche socialmente impegnati in quanto produttori sociali che perseguono il loro particolare scopo di vendere la propria forza lavoro al prezzo più alto possibile, e di prevalere nella concorrenza con gli altri venditori di forza lavoro. Ad ogni modo, dal punto di vista del venditore di forza lavoro, la mediazione svolta dal lavoro non appare propriamente la stessa cosa che viene vista dalla prospettiva dell'impresa capitalista. Mentre la vendita della propria merce è anche semplicemente un mezzo per raggiungere un fine esterno, per il venditore di forza lavoro quel fine non consiste nel valorizzare una particolare somma di denaro, ma nel garantirsi la propria sussistenza.
La mediazione sociale svolta dal lavoro ha quindi una diversa apparenza per ciascuno di questi punti di vista. Mentre per il capitale essa appare direttamente nella forma del movimento auto-referenziale del capitale, che Marx riassume nella ben nota formula D-M-D', dal punto di vista del venditore di forza lavoro essa appare come un movimento di scambio M-D-M. La merce forza lavoro è un oggetto di scambio che ciascuno scarica sul mercato per poter ottenere in cambio altre merci. In questo processo, il denaro è solo un mezzo per questo fine, mentre nel primo caso esso è un fine in sé stesso. A prima vista, questo secondo movimento corrisponde a quello che Marx descrive come semplice scambio di merce, ma c'è tuttavia un'importante differenza. Anche se il venditore individuale di forza lavoro usa la propria merce soltanto allo scopo di scambiarla con articoli di consumo, ed anche se non avviene alcuna valorizzazione del valore iniziale, quest'atto di scambio è nondimeno componente integrante del movimento globale di valorizzazione del capitale, il quale comincia e finisce sempre con il valore nella sua forma tangibile: il denaro. Solo nelle condizioni di un ciclo infinito che continua ad alimentare sé stesso, può esserci domanda di forza lavoro, la quale è la sola merce che può creare più valore di quanto ne abbia bisogno per la sua propria (ri)produzione.
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Allo stesso tempo, questa diversa posizione dentro il processo di mediazione sociale svolto dal lavoro costituisce il conflitto di interessi fra capitale e quelli che vendono la propria forza lavoro. Questo conflitto non è, come ha sempre sostenuto il marxismo tradizionale, intrinsecamente antagonistico in quanto è basato su un processo di mediazione sociale condiviso. Tuttavia, è stato spesso combattuto ferocemente dal momento che, in definitiva, la sopravvivenza stessa dei possessori di forza lavoro dipende dalle condizioni in cui, e dal prezzo a cui, possono vendere la loro merce, mentre, dall'altra parte, meno capitale si deve spendere per la merce forza lavoro, tanto meglio si può raggiungere il fine in sé della valorizzazione.
Fino agli anni 1970, questo conflitto di interessi (e di conseguenza la mediazione sociale svolta dal lavoro) era caratterizzato da una mutua dipendenza irrisolvibile: il capitale aveva bisogno del lavoro per poter essere in grado di valorizzare sé stesso ed i venditori di forza lavoro avevano bisogno che la valorizzazione del capitale funzionasse per poter vendere la loro merce.
Questo tipo di rapporto è cambiato con la fine del boom fordista del dopoguerra e con l'inizio della terza rivoluzione industriale. Un massiccio dislocamento del lavoro dai settori centrali industriali, in seguito alla travolgente automazione, si è accompagnato ad una riorganizzazione trans-nazionale dei processi di produzione e dei flussi di merce, indebolendo fondamentalmente ed irreversibilmente la posizione di negoziazione dei venditori di forza lavoro. In altre parole, con l'implementazione e l'universalizzazione delle nuove tecnologie basate sulla microelettronica, la principale forza produttiva è diventata l'applicazione della conoscenza alla produzione, dando al capitale più mano libera di prima rispetto al lavoro salariato. Ma aver reso superflui un grande numero di venditori di forza lavoro, ha avuto delle conseguenze anche per il capitale. Dato che la valorizzazione del capitale è basata solamente sullo sfruttamento della forza lavoro nella produzione di merce su vasta scala, l'inizio della terza rivoluzione industriale ha segnato anche l'inizio di una crisi fondamentale.
Questa crisi si distingue da tutte le precedenti crisi capitaliste su grande scala per il fatto che non può più essere superata accelerando l'espansione della base industriale. All'attuale, e continuamente crescente, livello di produttività, anche sviluppando nuovi settori di produzione (televisori a schermo piatto o smartphone, ad esempio) non si crea alcun bisogno addizionale di nuova forza lavoro. Tutt'al più si può rallentare l'espulsione di massa di lavoro vivente dalla produzione.
Ma tutte le volte che le dinamiche capitalistiche hanno saputo riguadagnare slancio, questo è avvenuto solamente creando nuove basi per l'accumulazione del capitale. La produzione di valore per mezzo dello sfruttamento del lavoro è stata sostituita dal sistematico anticipo di valore futuro sotto forma di capitale fittizio. Il capitale ha avuto un'altra enorme espansione su tali basi - un'espansione che ora si sta ancora incrementando, raggiungendo i suoi limiti, e che soprattutto è collegata a costi significativi per la società e per i venditori di forza lavoro.
Per comprendere questa connessione, dobbiamo. per prima cosa, guardare più da vicino la logica interna del capitale fittizio.
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Come detto in precedenza, il capitale fittizio è un anticipazione di valore futuro. Ma cosa significa esattamente? E quali sono le conseguenze per l'accumulazione di capitale? Cominciamo dalla prima domanda.
In sostanza, il capitale fittizio emerge ogni volta che qualcuno dà dei soldi a qualcun altro in cambio di un titolo di proprietà (un'azione, la quota di una società, ecc.) che rappresenta un diritto a quei soldi ed al loro aumento (sotto forma di interessi o di dividendi, ad esempio). Questo processo raddoppia la somma originale. Adesso essa esiste due volte e può essere usata da entrambe le parti. Il beneficiario può usare il denaro per comprare cose, per fare investimenti, o per acquisire attività finanziarie, e allo stesso tempo la somma è diventata capitale monetario che produce un regolare profitto per chi tale somma l'ha pagata.
Ma questo capitale monetario consiste di nient'altro che di un diritto documentato che rappresenta l'anticipazione di valore futuro. A prescindere dal fatto che l'anticipazione sia coperta, o che non lo sia, la cosa diventa chiaro solo col senno di poi. Se la somma in questione viene investita in un impianto di produzione, e se un tale investimento ha successo, il suo valore si realizzerà sotto forma di capitale funzionante e crescerà per mezzo dell'utilizzo della forza lavoro nel processo di produzione di merci. Ma se l'investimento fallisse, o se il denaro prestato venisse speso per il consumo privato o per il consumo di Stato, allora il diritto al valore iniziale rimarrà (ad esempio sotto forma di titolo) anche se il valore stesso è stato dissipato. In questo caso, il capitale fittizio non è coperto e dev'essere rimpiazzato creando nuovi diritti ad un valore futuro (emettendo nuovi titoli, per esempio) cosicché il diritto monetario possa essere rimborsato.
Anticipazione di valore futuro sotto forma di capitale fittizio, è una caratteristica standard del capitalismo. Ma nel corso della crisi conseguente alla terza rivoluzione industriale, ha assunto un significato del tutto differente. Se la creazione di capitale fittizio una volta serviva ad affiancare e sostenere il processo della valorizzazione del capitale (ad esempio, finanziando grossi investimenti), ora quei ruoli si sono invertiti, in quanto le basi di questo processo sono crollate. L'accumulazione di capitale non si basa più in maniera significativa sullo sfruttamento del lavoro nella produzione di merci quali automobili, hamburger e smartphone, ma sull'emissione massiccia di titoli di proprietà come obbligazioni, azioni, e derivati finanziari che rappresentano diritti a valori futuri. Come risultato, il capitale fittizio stesso è diventato il motore dell'accumulazione di capitale, mentre la produzione di merci si è ridotta ad una variabile dipendente.
Naturalmente, c'è da fare una distinzione critica fra questa forma di accumulazione di capitale e la precedente forma di movimento capitalista. Dal momento che si basa sull'anticipazione di valore che dev'essere creato in futuro, è un processo di accumulazione di capitale senza valorizzazione del capitale. Non si basa sullo sfruttamento presente di forza lavoro nel processo di produzione di valore, ma sulle aspettative di profitti futuri, che, in ultima analisi, dovrebbero derivare da uno sfruttamento aggiuntivo di lavoro. Ma poiché quest'anticipazione, alla luce dello sviluppo della forza produttiva, non può essere rimborsata, questi diritti devono essere rinnovati di nuovo e ancora di nuovo, e l'anticipazione di valore futuro dev'essere rimandata sempre più nel tempo. Come risultato, la maggior parte dei titoli finanziari sono soggetti all'imperativo di una crescita esponenziale. Ciò perché il valore del capitale costituito dagli asset finanziari ha sorpassato quello delle merci prodotte e scambiate già da molto tempo. Questi "mercati finanziari in fuga" vengono spesso criticati, per l'opinione pubblica, in quanto avrebbero presumibilmente causato la crisi, ma in realtà, una volte che sono andate perdute le basi per la valorizzazione, questa era la sola via rimasta per continuare l'accumulazione di capitale.
Tuttavia, l'imperativo della crescita esponenziale segna un limite logico all'accumulazione di capitale fittizio: le attività economiche cui si riferiscono le aspettative di futuri profitti non possono essere moltiplicate in maniera arbitraria e, l'una dopo l'altra, si sono dimostrate una chimera (la new economy, il boom immobiliare, ecc.). Questo limite non può esser differito in maniera significativa, come dimostra uno sguardo retrospettivo agli ultimi 35 anni di capitale fittizio, anche perché questa rinvio si accompagna ad una costante crescita dei costi sociali che aumentano in maniera sempre più insopportabile. Guadagni e ricchezza si concentrano in sempre meno mani, le condizioni di lavoro e di vita diventano sempre più precarie in tutto il mondo, e le risorse naturali che rimangono vengono sperperate senza alcuna pietà - soltanto per mantenere in moto l'accumulazione di capitale.
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A prima vista, questo potrebbe sembrare come niente di nuovo per il capitalismo. In effetti, un atteggiamento incurante delle condizioni materiali di vita e del mondo fisico è una caratteristica essenziale di un modo di produzione che è orientato a valorizzare il valore, cioè ad aumentare la ricchezza astratta. Ma anche in tal senso la transizione verso l'epoca del capitale fittizio è un salto di qualità (in senso negativo).
Per una migliore comprensione delle ragioni di tutto questo, per prima cosa dobbiamo guardare alle conseguenze, dovute allo spostamento dell'accumulazione del capitale verso la sfera del capitale fittizio, sulla soggiacente forma di relazioni sociali: mediazione per mezzo del lavoro. In relazione a questo, dobbiamo chiederci come il rapporto fra le due forme di ricchezza capitalista - ricchezza astratta e ricchezza materiale - siano cambiate nel corso del medesimo processo.
In precedenza, ho sostenuto che fino agli anni 1970 la mediazione sociale per mezzo del lavoro era caratterizzata da una reciproca dipendenza di capitale e lavoro. Questo perché il capitale, nella sua compulsione alla valorizzazione, era dipendente dal lavoro vivo mentre i possessori della merce forza lavoro dipendevano dal riuscire a vendere con successo quella stessa merce ai fini della loro sopravvivenza. Ma questo rapporto è cambiato drasticamente nell'epoca del capitale fittizio. Non solo la terza rivoluzione industriale ha reso ridondante il lavoro vivo su larga scala, ma quello che è ancora più decisivo è il fatto che l'enfasi dell'accumulazione del capitale si è spostata dallo sfruttamento del lavoro nel processo di produzione di merci all'anticipazione di valore futuro. Di conseguenza, il movimento fine a sé stesso del capitale è diventato auto-referenziale in un modo del tutto nuovo. L'anticipazione del valore futuro che viene capitalizzato ed accumulato nel presente, rimane immanente alla logica ed alla forma della produzione di merci; essa viene ottenuta per mezzo della vendita di una merce, vale a dire di un titolo di proprietà che certifica il diritto ad una specifica somma di denaro ed al suo aumento. Comunque, i venditori di questi titoli di proprietà non sono lavoratori che vendono la promessa di restituire il lavoro fra dieci o vent'anni. Si tratta invece di strutture del capitale stesso (principalmente banche ed altre istituzioni finanziarie) che si vendono l'un l'altro questi diritti certificati ad un valore futuro, e quindi generano ed accumulano capitale fittizio. In questo senso, perciò, il capitale è diventato del tutto auto-referenziale; la merce che aveva la qualità magica di aumentare il capitale ora avviene dentro la sfera del capitale stesso.
Di converso, questo però significa che i venditori di forza lavoro stano perdendo in larga misura la loro capacità contrattuale. A fronte dei progressi nella produttività e nella globalizzazione, non solo possono essere rimpiazzati in qualsiasi momento da delle macchine o da una competizione più a buon mercato. dappertutto nel mondo, ma assai più criticamente la loro merce non è più la merce base dell'accumulazione capitalista. Questo ci lascia con uno squilibrio strutturale. Per la grande maggioranza delle popolazioni del mondo, la mediazione sociale svolta dal lavoro rimane di cruciale importanza dal momento che essi debbono vendere la loro forza lavoro o i prodotti del loro lavoro come una merce, qui ed ora, per essere in grado di partecipare alla ricchezza della società - ossia per poter comprare gli articoli di consumo di cui necessitano. Anche il capitale continua ad essere basato sulla mediazione sociale svolta dal lavoro in quanto esso non abbandonato in alcun modo il mondo della produzione di merci. Tuttavia, nella misura in cui i capitali accumulati per mezzo dell'anticipazione di produzione di valore futuro (come a dire che essi usano i risultati di potenziale lavoro futuro in eccesso), essi si liberano dalla dipendenza dallo sfruttamento di lavoro presente e dalla dipendenza dai venditori di forza lavoro.
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Naturalmente, questo non significa che il capitale non viene più valorizzato nel processo di produzione di merci. Assumerlo, sarebbe ovviamente falso, alla luce dell'enorme volume di beni che scorre nei supermercati e nei grandi magazzini. Nondimeno, il rapporto fra il settore della produzione di merci ed il processo globale di accumulazione del capitale è cambiato. Dove, in passato, la produzione di beni materiali sotto forma di merci era il mezzo decisivo per aumentare il capitale, ora essa si è trasformata in una variabile dipendente dentro la dinamica del capitale fittizio. E' dipendente in quanto una dinamica autosufficiente della valorizzazione del capitale non può più essere incrementata nei settori della produzione di valore per mezzo di un sempre crescente movimento del lavoro. Piuttosto, la produzione di merci (nel senso di beni materiali per la vendita) può continuare solamente se il valore equivalente alla realizzazione del valore rappresentato da queste merci viene in larga misura creato altrove, cioè, nella sfera del capitale fittizio. Questo meccanismo è alla base di tutto il boom industriale in Cina ed in altri "paesi in via di sviluppo", così come della corrispondente attività di esportazione della Germania. Potremmo quindi definirlo "produzione di valore indotto". In effetti, questo ha indotto la produzione di valore a svolgere un'importante funzione sistemica. Ma questa funzione non consiste nel valorizzare il capitale, ma piuttosto nel fornire il materiale immaginario che sostiene le future aspettative dei mercati finanziari. Ciò perché, anche se l'anticipazione del valore futuro non dipende dallo sfruttamento del lavoro presente, essa è nondimeno basata sulla generazione costante di aspettative di produzione materiale redditizia, in un secondo momento. Per poter supportare tale aspettativa. l'attività nella presente economia reale è indispensabile. Se dovesse fermarsi, le promesse di un profitto futuro diverrebbero non plausibili e la vendita dei titoli di proprietà si bloccherebbe. Possiamo vedere questo abbastanza chiaramente nelle cadute che ricorrono continuamente durante i periodi di crisi, quando gli Stati e le loro banche centrali devono intervenire per ripristinare la fiducia nel futuro (ad un costo sempre più alto).
Per inciso, non fa alcuna differenza che l'attività indotta nell'economia reale produca o no valore in senso stretto - che è come dire che non fa alcuna differenza, sia che l'attuale applicazione di forza lavoro crei plusvalore (come nella produzione industriale, ad esempio) o che il valore che è già stato prodotto venga semplicemente riallocato o riciclato (come in gran parte del settore dei servizi). In quanto questa distinzione non esiste affatto nell'attuale, superficiale percezione della circolazione economica, questo non è un fattore nella generazione, o meno, di aspettative. L'unico fattore decisivo è il fatto che la promessa di successivi profitti ha bisogno di avere qualche punto di riferimento nell'economia reale. Ciò spiega come un settore dei servizi così grande sia stato capace di emergere in tutto il mondo senza generare alcun plusvalore, rendendolo del tutto inadatto a formare una base per la valorizzazione capitalista. Ma per la produzione di "fantasie di mercato", come le chiama candidamente il gergo borsistico, la crescita dei ricavi pubblicitari per Google o per Facebook non è meglio della fabbricazione di automobili elettriche o di turbine eoliche. La capitalizzazione del suolo o dei diritti di proprietà sulla conoscenza (sotto forma di brevetti e di licenze) su vasta scala è possibile solo grazie al continuo afflusso di capitale fittizio, e rappresenta simultaneamente il punto centrale di riferimento per l'anticipazione di profitti perpetuamente effervescenti.
In ogni caso, i mezzi per "fare soldi" sono irrilevanti visti dalla prospettiva dei capitali individuali. Ecco perché ci sono sempre in giro abbastanza investitori che dirigono il loro denaro verso l'economia reale, alla sola condizione che i rendimenti si accumulino. Tuttavia, questa clausola esprime la dipendenza diretta dalle dinamiche del capitale fittizio perché un investimento può essere redditizio solo se produce più o meno lo stesso profitto che produrrebbe un corrispondente investimento sui mercati finanziari con i loro target enormemente elevati. Gli investimenti nell'economia reale sono quindi soggetti al dominio del capitale fittizio e, naturalmente, la pressione che ne risulta si trasmette in maniera massiccia verso il basso, il che significa innanzi tutto su coloro che vendono la loro forza lavora e sulle molte piccole imprese indipendenti, ma anche sugli attori statali che competono per ridurre le tasse per attrarre investimenti.
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Siamo ora in una posizione migliore per capire perché la sconsideratezza per le condizioni di lavoro e di vita nell'epoca del capitale fittizio sta assumendo una nuova (negativa) qualità. Mentre la produzione di ricchezza materiale fino alla fine del fordismo era meramente un mezzo intrinseco all'aumento della ricchezza astratta, esso implicava quanto meno un rapporto diretto (strumentale). Le merci sul mercato rappresentavano inevitabilmente lavoro astratto passato e quindi valore e plusvalore. Ma quando la funzione sistemica della ricchezza materiale viene ridotta a fornire materiale immaginario per l'anticipazione di valore futuro, subentra indifferenza verso il contenuto, le condizioni, e le conseguenze di quello che tale produzione intensifica fino all'estremo. L'accumulazione di ricchezza astratta viene slegata dal suo lato materiale quanto più possibile.
La continua distruzione sia delle basi naturali della vita che delle condizioni sociali e culturali della coesistenza sociale, non è più semplicemente un genere di danno collaterale nel movimento fine a sé stesso del capitalismo. Ne diventa, piuttosto, il suo contenuto essenziale. Nella sua più visibile espressione di tale dinamica, paesi in crisi come la Grecia, la Spagna ed il Portogallo sono stati costretti a chiudere ampi segmenti dei loro sistemi sociali e sanitari insieme ad altri servizi pubblici, nel nome della (notoriamente illusoria) aspettativa che lo Stato sia capace, ad un certo punto, di pagare i suoi debiti. In questi casi, la completa distruzione della ricchezza materiale diventa il punto di riferimento per un'ulteriore accumulazione di capitale fittizio. Similmente, il boom attuale delle materie prime si basa fondamentalmente sull'anticipazione di una scarsità futura. L'aspettativa dell'aumento dei prezzi permette che un'enorme quantità di capitale fittizio scorra verso quei settori che fanno occasionalmente utilizzo di tecnologie molto costose (ed estremamente pericolose), in quanto redditizi.
La distribuzione degli utili e della ricchezza è sempre più polarizzata su scala globale peri medesimi motivi strutturali. Poiché la forza lavoro ha perso il suo significato centrale in quanto merce fondamentale nel movimento fine in sé stesso del capitale, le condizioni della sua vendita si stanno sempre più deteriorando. Nel frattempo, il capitale si trova nella confortevole posizione di essere in grado di "produrre" in maniera indipendente, sotto forma di diritti al valore futuro, la merce necessaria all'accumulazione di capitale. In questo processo, può contare solamente sul supporto attivo dei governi e delle banche centrali.
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Queste ed altre insopportabili conseguenze delle dinamiche della crisi capitalista hanno reso di nuovo alla moda la critica del capitalismo. Ma molto di questa critica inverte il problema, di solito insistendo che la moneta dovrebbe "ancora una volta" servire il popolo come semplice mezzo di scambio invece di essere un fine in sé stesso. Da tale prospettiva, il movimento fine a sé stesso del capitalismo appare come un semplice vezzo di un mondo autonomo ed auto-alimentato di mercati finanziari che si impadronisce della società e che dovrebbe quindi essere abolito o al quale quanto meno andrebbero imposte delle severe restrizioni.
Questa "critica" si basa su un'inversione del concetto del modo capitalista di produzione menzionato all'inizio. Essa sostiene che, "per sua natura", questo modo di produzione è un modo altamente differenziato di produrre beni a beneficio dell'umanità, nel quale il denaro in realtà non è altro che uno strumento per facilitare innumerevoli scambi. Questo concetto, che fa parte dell'hardware ideologico di base della visione del mondo moderno, non solo viene presentato nei capitoli di apertura dei libri di testo di economia, i quali pretendono sempre che l'economia moderna non sia niente di più che una variante globalizzata di un idilliaca comunità di un villaggio, dove macellai, fornai e sarti scambiano i loro prodotti l'uno con l'altro. Inoltre attua anche una svolta pericolosa, sotto forma di delusione antisemita nei confronti del capitale monetario. Ed è il leitmotiv di una presunta critica del capitalismo" che sogna un ritorno ad un idealizzato, regolato mercato economico del dopoguerra che in primo luogo non è mai esistito. Ignora deliberatamente il fatto che una tale regressione è assolutamente impossibile dal momento che le basi strutturali per la valorizzazione del capitale non esistono più. Questo punto di vista pretende anche che il capitalismo fordista non era basato sul principi della valorizzazione del capitale, ma che fosse invece regolato dallo Stato, e basato su un mercato regolamentato per rifornire la società di prodotti utili.
Un altro motivo per cui questa pseudo-critica ha così tanta risonanza oggi è perché la mediazione sociale svolta dal lavoro si è diffusa ovunque, in tutto il mondo, e, come ho già spiegato, dalla prospettiva del venditore di forza lavoro, appare come nient'altro che una relazione di scambio in cui una merce viene data via per poter procurarsene un'altra. In una maniera o nell'altra, il fatto che questo modo di esistenza presupponga il movimento fine a sé stesso del capitale viene sempre omesso. Perciò, la sinistra tradizionale ha sempre predicato la liberazione del lavoro invece che la liberazione dal lavoro. Ma dal momento che il capitale è essenzialmente diventato più preoccupato per il lavoro futuro e si è in gran parte scollegato dai venditori di forza lavoro e dalla produzione materiale di ricchezza, l'utopia di un'economia di scambio universale o di un'economia di mercato regolata senza il peso del capitale sembra essere diventata più che mai un modello di liberazione sociale.
Tuttavia, il perseguimento di un simile modello non solo significa restare intrappolato in una chimera ideologica ma anche sbattere inevitabilmente contro un muro, in termini di pratica politica. "La mera negazione della dipendenza dal movimento fine in sé stesso del capitale significa garantire che esso risorgerà con tutta la forza della sua soppressione."
Così, invece di romanticizzare in maniera regressiva la mediazione sociale esistente, bisognerebbe contestarla categoricamente. Fino a quando gli esseri umani si relazioneranno gli uni agli altri attraverso le merci ed il lavoro astratto, essi non potranno padroneggiare liberamente le loro condizioni sociali. Al contrario, saranno governati in forma reificata da quelle condizioni. Ciò ha sempre significato violenza, miseria e dominio, ma nel bel mezzo della crisi del capitale fittizio questo significa che il mondo diverrà un deserto nel prossimo futuro.
La sola prospettiva per l'emancipazione sociale è allora l'abolizione di questa forma di mediazione. Il primo passo verso quest'obiettivo può e deve essere fatto oggi. Nel momento in cui si affronta la gestione della crisi e la furia folle del capitale, le conquiste sociali devono essere preservate e, ove possibile, la produzione di ricchezza materiale deve essere liberata dalla sua dipendenza dall'accumulazione del capitale. L'obiettivo dev'essere costruire un nuovo ampio settore di auto-organizzazione sociale che attinga a tutta la forza produttiva potenziale disponibile (ovvero, tecnologia) per stabilire strutture decentralizzate, messe in rete a livello globale. Ma soprattutto, devono essere sviluppate tutte le nuove forme di mediazione sociale in cui individui liberamente associati decidono coscientemente i loro affari
- Norbert Trenkle - Never Work Conference - Cardiff, 10 Luglio 2015 -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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