Esseri umani non redditizi
- Saggio sulla relazione fra storia della modernizzazione, crisi e darwinismo sociale neoliberista -
di Robert Kurz
E' incontestabile: le divisioni nella società si approfondiscono ed assumono proporzioni drammatiche; simultaneamente, le istituzioni che devono amministrare e gestire il sociale languiscono e sono paralizzate dalle restrizioni finanziarie. Attualmente, il problema può avere aspetti differenti in ciascun paese, secondo la situazione sul mercato mondiale, le tradizioni nazionali e le relazioni strutturali; ma la tendenza di fondo è dovunque la medesima. Se un ordinamento sociale vede peggiorare in maniera permanente il catalogo delle sue esigenze ed esclude un numero sempre maggiore di essere umani, questo costituisce un indizio del fatto che ha raggiunto i limiti immanenti alla sua costituzione fondamentale, in quanto modo di produzione e di vita. Si tratta, quindi, di una crisi strutturale delle forme, ciecamente presupposte come norma, che costituiscono la base della sua riproduzione. Perciò questa crisi, in quanto problema sociale totale, non può essere spiegata, né vinta, in virtù di un qualche punto di vista relativo ad un'attività specifica, ad un interesse particolare o ad un'istituzione particolare. Si rende necessario, per così dire, un punto di vista aereo panoramico di critica sociale, che trovi un orientamento in quella che è una nuova mancanza di trasparenza [Unübersichtlichkeit]" (Habermas).
In primo luogo, dopo il collasso del socialismo, ci troviamo in una situazione di grande confusione. La fine del conflitto dei sistemi e della Guerra Fredda è stato interpretato come vittoria definitiva del capitalismo occidentale; veniva promessa una nuova età dell'oro e di prosperità, per mezzo dell'apertura del mercato a tutto il mondo, in un sistema mondiale universale unificato. Tuttavia, la disillusione - con tagli sociali sempre nuovi, con crisi economiche, guerre civili dappertutto e barbarie crescente - è stata così violenta che si è resa necessaria una spiegazione diversa. Non sono i punti differenti, ma semmai quelli comuni ad entrambe le società del dopoguerra, ad essere essenziali per arrivare a comprendere questo sviluppo.
Tutte le società moderne sono sistemi produttori di merci, indipendentemente dal fatto che siano regolati dallo Stato (socialismo di Stato, keynesismo) oppure da una forma di mercato più sfrenato (capitalismo di concorrenza neoliberista); il loro sistema di riferimento comune è il mercato mondiale. Il mercato universale, però, non esiste di per sé, ma è la sfera funzionale di un fine in sé irrazionale, che consiste nel far diventare il valore un valore maggiore attraverso il far diventare il denaro più denaro (valorizzazione del capitale o accumulazione del capitale). E' solo attraverso questo fine in sé, che sta alla base, soggiacente, che il mercato è diventato universale; mentre nella società pre-moderna la produzione di merci aveva solamente carattere marginale e la vita si riproduceva, per lo più, sotto altre forme. Karl Marx aveva colto questa differenza con due semplici formule della relazione fra la merce (M) ed il denaro (D). La relazione, nella società agraria - nei pori della quale la merce era una semplice forma di nicchia - funzionava secondo la formula M-D-M. Il denaro qui si limitava al ruolo di mediazione, e gli oggetti in forma di merce si trovavano al principio ed alla fine della transazione. Nella modernità, la relazione si inverte, e funziona secondo la formula D-M-D'. Gli oggetti concreti sono solo il "mezzo" per la valorizzazione del capitale-denaro, ossia, per la trasformazione del valore (D) in più valore (D'). Questo significa che la soddisfazione delle necessità viene ridotta ad un semplice sottoprodotto della valorizzazione e diventa dipendente da questa. La produzione si slega dai lacci sociali della vita, come "economia imprenditoriale", e si autonomizza come processo sistemico anonimo nei confronti degli esseri umani, che smettono di avere qualsiasi controllo sulla riproduzione della loro propria vita.
Il meccanismo interno di questa "economia svincolata" [herausgelösten]" (Karl Polanyi) si basa sullo sfruttamento dell'energia umana ("lavoro"). Nelle società pre-moderne, l'astrazione lavoro era connotata negativamente, come nome collettivo riservato originariamente alle attività dei dipendenti (schiavi). Solo nella modernità il lavoro viene positivizzato ed universalizzato. Qui, il lavoro funziona come "sostanza" (Marx) del valore e della valorizzazione. Il denaro non è altro che la rappresentazione di un quantum di lavoro. Tuttavia, l'attività sotto questa forma corrispondente all'auto-finalità sistemica è anche svincolata dai contenuti di necessità ed è pertanto indifferente nei loro confronti; per questo si tratta di "lavoro astratto" (Marx). Non ha nessuna importanza che si fabbrichino barrette di cioccolato o bombe a mano, quel che importa è che l'energia umana astratta", in quanto "dispendio di nervi, muscoli e cervello" (Marx), possa essere trasformata in denaro (plusvalore). L'auto-finalità della valorizzazione corrisponde all'auto-finalità del "lavoro astratto"; l'infinita accumulazione di valore non è altro che infinita accumulazione di lavoro morto (passato). Dal lavoro deve sempre provenire nuovo lavoro. In queste condizioni, il mercato non rappresenta nessuno scambio fra produttori indipendenti. E' solo la sfera della realizzazione del plusvalore, ossia, della ri-traformazione del "pluslavoro" in "plusdenaro". Per questo la "libertà di mercato" è illusoria; tale libertà ha come base la relazione coercitiva del "lavoro astratto". Qui, la coercizione non è personale (come ad esempio nella relazione fra padrone e servo), ma è una coercizione, sistemica e anonima, a vendersi come "macchina di dispendio" dell'energia umana astratta (fora lavoro) nella "economia svincolata".
Tutte le attività, "attitudini" e comportamenti che sono necessari per la riproduzione della vita, ma che non possono, o possono difficilmente, essere inclusi nel sistema del "lavoro astratto" e dell'economia della valorizzazione svincolata, sono stati storicamente dissociati da questa, e sono stati delegati alle donne, come "lavor d'amore" senza costi (il cosiddetto lavoro domestico, l'assistenza, l'accompagnamento, la dedizione, lo svolgimento di funzioni di ammortizzazione socio-psichica, ecc.). Il sistema dell'economia svincolata è, pertanto, immediatamente e simultaneamente, un sistema di "dissociazione sessuale" [geschlechtlichen Abspaltung]" (Roswitha Scholz). Da qui, la dissociazione è una categoria della totalità, insieme alla valorizzazione ed al "lavoro astratto"; la relazione sociale totale si presenta così come una relazione sociale complessa, intrinsecamente frammentata. La relazione di dissociazione non si limita ad una determinata sfera (per esempio, la famiglia) ma si presenta come trasversale a tutte le aree della riproduzione, incluso lo stesso "lavoro astratto". La "economia della valorizzazione" è definita come "strutturalmente maschile". Tuttavia, nel processo di modernizzazione, anche le donne vengono sempre più usate come riserva di forza lavoro. Ma non, però, nel senso di una liberazione, bensì come doppia subordinazione, al "lavoro astratto" ed ai momenti dissociati considerati in buona misura come di minor valore e secondari ("doppio fardello"). Fino ad oggi le donne sono state generalmente peggio pagate nell'economia della valorizzazione, continuano ad essere poco rappresentate nelle funzioni di gestione e, simultaneamente, tutto il "lavoro d'amore" continua ad essere considerato di loro competenza in tutti i settori.
Questo rapido schizzo della connessione sistemica che si trova alla base di tutte le varianti del moderno patriarcato produttore di merci (dal momento che è questa, includendo la relazione di dissociazione, la definizione più precisa della società della valorizzazione) mette sotto gli occhi di tutti una mostruosa vergogna. Tuttavia, questo, nel corso di un lungo processo storico, è stato interiorizzato e trasformato in normalità indiscutibile. Gli esseri umani devono essere "redditizi nel senso del fine in sé del sistema; solo così l'esistenza può essere garantita. Queste esigenze sono state imposte durante i primordi della modernità, a partire dal 16° secolo e poi nel capitalismo primordiale del 18° e del 19° secolo, come coercizione sanguinosa e contro una lunga resistenza da parte dei movimenti sociali. Nella prima metà del 20° secolo, nell'epoca delle guerre mondiali industrializzate e delle crisi dell'economia mondiale, il moderno patriarcato produttore di merci sembrava già fallire a causa delle sue contraddizioni interne e sembrava dissolversi nel caos e nella barbarie - fino alla sua manifestazione estrema del sistema di annichilimento degli esseri umani, il sistema specificamente tedesco dell'antisemitismo sterminatore, o nazionalsocialismo.
Ma dopo la seconda guerra mondiale si verificò la "breve estate" del miracolo economico. Lo sviluppo delle forze produttive, forzato dalla concorrenza, liberò potenziali mai sognati prima, che dovevano rendere possibile una "civiltà del capitalismo". Nonostante la razionalizzazione, la necessità di "lavoro astratto" cresceva come mai prima, in quanto i beni industriali di lusso, prima limitati ad una stretta cerchia (automobile, elettronica di uso domestico e di intrattenimento, ecc.), entravano nel consumo di massa ed i mercati si ampliavano bruscamente. Fu solo allora che le donne vennero integrate, su grande scala sociale, nel lavoro professionale dell'economia di valorizzazione. Il consumo di massa, ivi incluso il turismo di massa, ecc., si trasformò in una sorta di quasi religione. Il fine in sé irrazionale del sistema apparve riconciliarsi con le necessità, anche se in una forma adattata, e sotto molti aspetti distruttiva (trasporto individuale, distruzione dell'ambiente, ecc.). Un altro sottoprodotto del boom del dopoguerra fu l'inarrestabile costruzione dello Stato sociale e delle infrastrutture pubbliche, che si accompagnava ad un elevato grado di istruzione, al lavoro sociale ed all'assistenza sanitaria per tutti. E' vero che la realtà di questa "epoca dorata" della società della valorizzazione del valore e della dissociazione, chiamata "fordismo", dal nome del produttore americano di automobili Henry Ford, si limitava soltanto ai paesi del nucleo industriale occidentale, ma in questo modo faceva brillare ancora una prospettiva di "sviluppo" anche per il resto de mondo.
Sebbene lo sviluppo delle forze produttive sotto la pressione della concorrenza del mercato universale seguisse, come faceva prima, i dettami di trasformare il lavoro in più lavoro, e sebbene lo splendore del "miracolo economico" cominciasse a svanire già a partire dagli anni settanta, il potenziale di produttività era stato celebrato come "macchina di civiltà". Ormai risalivano al passato le tante generazioni bruciate nelle terribili condizioni del "lavoro astratto". Perfino la liberazione della donna dai suoi ruoli tradizionali, sembrava in gran misura raggiunta, dal momento che anche lei poteva sempre più "guadagnare il suo denaro", e nonostante il "doppio fardello", i compiti domestici venivano considerati suscettibili di robotizzazione grazie all'elettronica, e molte di quelle che erano aree dissociate ora si risolvevano nel settore commerciale, o in istituzioni pubbliche finanziate dallo Stato.
Ma, fu a partire dagli anni ottanta che la terza rivoluzione industriale della microelettronica trasformò gravemente i progetti di tutte queste speranze positive. In primo luogo, era lo sviluppo stesso della produttività - che aveva avuto così tanto successo nella storia del fordismo del dopoguerra - che costituiva, simultaneamente, la condizione della crisi. Poiché, quanto maggiore era la produttività, tanto minore era la "sostanza del lavoro" per la merce, e tanto minore il valore raggiunto nel processo di valorizzazione. La contraddizione risiede nel fatto per cui ogni impresa individuale non "realizza" immediatamente sul mercato il plusvalore che ha creato dentro le sue quattro mura, ma realizza solo una parte del plusvalore sociale totale. Questa parte si definisce per mezzo della concorrenza, per cui un'impresa ottiene tanto maggior successo quanto più a buon mercato è la sua offerta. Ora, il mezzo per arrivare a questo è l'aumento della produttività. In tal modo, tuttavia, il mezzo entra in contraddizione col fine sociale: un'impresa riesce ad appropriarsi di una massa tanto più grande di plusvalore totale, quanto più contribuisce - aumentando la forza produttiva - a svuotare e ad indebolire la produzione di valore in quanto tale. Questa contraddizione ha portato alle tante manifestazioni esplosive delle crisi storiche. Tuttavia, tale contraddizione, ha potuto sempre essere superata in quanto la caduta di valore, insieme a quella di plusvalore, per la merce - dovuta alla riduzione della sostanza del lavoro - veniva più cvhe compensata dalla simultanea espansione della quantità totale di lavoro, per mezzo dell'ampliamento dei mercati, come avvenne nell'era fordista del dopoguerra, come abbiamo visto.
Con la rivoluzione della microelettronica, però, questa compensazione ormai non funziona. Il potenziale di razionalizzazione, ora è talmente grande che rende superfluo, in maniera continuativa, più lavoro di quello che può essere assorbito, addizionalmente, nella valorizzazione, grazie all'aumento della produzione di merci. Nonostante l'aumento della quantità di merci, la sostanza "valida" di lavoro sociale - secondo gli standard della produttività microelettronica - diminuisce rapidamente, e conseguentemente la crisi assume carattere strutturale. Nelle regioni periferiche del mercato mondiale, nella zona del socialismo di Stato dell'Est e nella zone dello "sviluppo ritardato" del Sud, tale situazione ha già portato al collasso sociale, proprio perché la microelettronica, a causa della mancanza di forza del capitale, non può essere applicata con successo, e perciò la produzione è caduta sotto gli standard della produttività mondiale (diventando, pertanto, "non redditizia" e smettendo di avere capacità di concorrenza). Questa situazione è stata interpretata come fallimento proprio delle varianti del socialismo di Stato, anziché come parte di una crisi mondiale della terza rivoluzione industriale, nonostante lo stesso problema si sia fatto molto notare anche in Occidente, come disoccupazione strutturale di massa; e proprio a causa dell'applicazione forzata della microelettronica.
Da allora, la crisi ha raggiunto profondamente i centri occidentali. Sempre più esseri umani diventano "non redditizi" e vengono esclusi; dappertutto intere zone di paesi vengono abbandonate, in quanto l'economia imprenditoriale si globalizza su un terreno di redditività che si riduce. In mancanza di produzione di plusvalore reale, il capitale denaro si rifugia simultaneamente in un'economia di bolle finanziarie. Non è più la vendita di merci ad essere decisiva, ma i guadagni differenziati nella circolazione di titoli finanziari che supportano una valorizzazione diventata fittizia. Imprese, e parti di impresa, vengono trattate come pezzi di carne tritata (fusioni e battaglie per l'acquisizione, senza investimenti reali). Nell'interpretazione popolare, la maggior parte delle volte, il complesso causale viene messo con i piedi per aria, a testa in giù, responsabilizzando per la miseria, in maniera errata, in tono antisemita, una sorta di "invasione delle cavallette" degli speculatori, come se il problema non risiedesse nelle contraddizioni stesse del sistema produttore di merci. L'espansione dei mercati, nel contesto di un potere di acquisto in caduta libera a causa della mancanza di capacità di utilizzare con successo il "lavoro astratto" redditizio, si trasforma in capacità globali in eccesso, che vengono poi disattivate. E' assurdo: a causa della produttività diventata "troppo elevata" e del fatto che si possono fabbricare molte più merci con molto meno lavoro, sempre più esseri umani vengono ridotti ad un livello di povertà fino a poco tempo fa inimmaginabile. La divisione della società si approfondisce sempre più; anche la classe media precipita nel turbine della crisi.
Non si tratta, però, solo dello smantellamento della capacità produttive non redditizie ma, sulla strada di questa tendenza negativa, anche lo Stato si trasforma sempre più in una semplice amministrazione dello stato di emergenza, dal momento che non riesce a regolare l'economia imprenditoriale globalizzata e perché manca di risorse. In quasi tutti i paesi, c'è un consenso neoliberista trasversale ai partiti, che esegue e legittima ideologicamente la crisi di sistema, solo e soltanto contro gli esseri umani. Ora si scopre che le "acquisizioni civilizzatrici" del periodo del dopoguerra non sono auto-sostenibili, ma devono essere alimentate per mezzo di una valorizzazione ottenuta dal "lavoro astratto". Nella misura in cui questa regredisce, anche la civiltà sociale è obbligata a rinculare. E' proprio nelle condizioni di disoccupazione di massa, e della nuova povertà, che lo Stato sociale viene smantellato ed abbandona i propri figli. Intere strutture languiscono e vengono ridotte a poche "aree metropolitane". Lo Stato si libera dei servizi pubblici, come un nobile rovinato si libera dell'argenteria. La privatizzazione generalmente significa riduzione della capacità di pagamento privata, e quindi fine delle strutture universali. Le ferrovie lasciano nell'abbandono intere linee, gli uffici postali chiudono. Nel sistema di insegnamento cresce l'insegnamento riferito a due classi sociali (sistema di élite), nei servizi sanitari si vede la medicina di seconda classe. Ora si dice di nuovo, e senza cerimonie: devono morire presto perché sono poveri. Nella maggior parte dei casi, sono gli strati più bassi della piramide sociale ad essere più duramente colpiti dalle restrizioni finanziarie nei servizi pubblici, come nel caso delle istituzioni di lavoro sociale, di assistenza ai disavili, ai senzatetto e agli anziani, visto che dispongono di lobby più deboli.
Dopo i licenziamenti in massa nei settori commerciali ed industriali, la crisi dello Stato sociale e dei servizi pubblici risultante dalla crisi della valorizzazione porta, anche nei settori prima gestiti dallo Stato, ad una simile "messa a disposizione" dei dipendenti, che vanno ad ingrossare l'esercito dei caduti. Un numero sempre maggiore di esseri umani, si vede obbligato a prestazioni di servizi a basso costo ed alla vendita ambulante, all'imprenditoria della miseria, ecc., nella sfera della circolazione. Particolarmente colpite sono le donne. Il discorso sulla fine del patriarcato viene smentito. Da una parte, lo Stato e l'economia delegano nuovamente i compiti finanziariamente esausti di trattamento e cura al grande "lavoro d'amore" volontario femminile. Dall'altro lato, anche le donne vengono colpite in maniera sproporzionata dallo smantellamento dei servizi pubblici. Dal momento che le donne, nei paesi occidentali, hanno eguagliato gli uomini per quel che riguarda i titoli accademici, la loro occupazione, tuttavia, si concentra in gran misura nei servizi pubblici, proprio quelli che ora vengono ridotti. Soffrono in maniera massiccia la svalorizzazione dello loro qualifiche. In parte, i loro posti vengono occupati da madri single, trattate con particolare durezza dall'amministrazione sociale, che vengono obbligate a lavorare senza qualifiche o con qualifiche diverse. Queste, a loro volta, devono lasciare i figli nei centri di accoglienza, nei quali per la maggior parte dei casi lavorano migranti dell'est europeo, ancora peggio pagate. Anche la povertà pubblica è soprattutto una povertà femminile. La crisi dell'economia della valorizzazione e del "lavoro astratto" è, simultaneamente, una crisi dell'identità maschile; nel quotidiano di crisi, cresce drammaticamente la violenza (familiare) maschile contro le donne, mentre che si fanno centri di accoglienza e case di sostegno per le donne.
Quali sono le conseguenze del peggioramento delle condizioni di crisi? In generale, si può dire che prima o poi saremo tutti non redditizi. Ciò è vero, ma in quest'astrazione si nasconde un trappola argomentativa, dal momento che in questo modo non vengono considerate le differenziazioni interne. Quanto più la crisi si aggrava, tanto più si aggrava anche la concorrenza universale, che viene strumentalizzata dalla amministrazione di crisi al fine di mettere gli uni contro gli altri i diversi gruppi dei non redditizi. La divisione sociale non c'è soltanto fra i vincitori, in numero sempre minore, ed i perdenti, in numero sempre maggiore. ma anche tra gli stessi perdenti. Perfino occupati e disoccupati, donne e uomini, giovani e vecchi, eredi in prospettiva e figli di indigenti, sani e malati, abili e disabili, nazionali e stranieri, si affrontano reciprocamente a livello di povertà; si tratta di vedere "chi si può ancora salvare". Abbiamo da confrontarci con una gerarchia di non redditizi attraversata da lotte di precari per la spartizione. Nella parte più bassa di questa gerarchia troviamo gli assolutamente abbandonati, che possono anche non essere criminali: malati mentali, disabili psichici e fisici, dipendenti dall'assistenza e malati terminali. Vediamo ripetersi in serie scandali relativi a case di cura e ad ospedali, anche a causa della mancanza di qualifica delle persone, in numero sempre più ridotto e sotto la pressione dei costi e del servizio.
Anche nei centri della democrazia, è in atto una decivilizzazione ed una disumanizzazione strutturale, che finora si pensava ben lontana, nella periferia del mercato mondiale, che in ogni caso è già stata copiata in gran parte. Non si tratta di alcun pessimismo, ma di una realtà sociale in espansione. In tali condizioni, le classiche reazioni di crisi, e le ideologie di crisi del sessismo, del razzismo e dell'antisemitismo sono all'offensiva in tutto il mondo, trasversali a tutti gli strati sociali. I demoni del 19° secolo e dell'inizio del 20° secolo tornano sotto forma modificata; non da ultimo, nella forma di una mentalità social-darwinista, che ha le sue ragioni nel liberalismo classico, e che perciò può ottenere oggi la benedizione neoliberista in maniera dilagante: "La sopravvivenza del più forte" è la parola d'ordine ripetuta nuovamente, e non più discretamente. La logica di base soggiacente recita che non è il patriarcato produttore di merci dichiarato legge naturale ad aver raggiunto la sua fine, ma che è invece l'interesse vitale ed il diritto alla vita degli esseri umani non redditizi ad essere alla fine. Ritorna, con nuovi onori, la teoria della "sovrappopolazione" del liberale hardcore Thomas Malthus dell'inizio del 19° secolo.
Non sono stati solo i nazisti ad aver inventato il motto assassino della "vita che non merita di essere vissuta" e a portarlo alle estreme conseguenze; al contrario, tale motto ha guadagnato forza a partire da una larga corrente di pensiero social-darwinista, nella quale, fino alla prima guerra mondiale, e anche dopo, è inclusa, oltre ai liberali, gran parte della sinistra e della socialdemocrazia (cosa che oggi viene completamente ignorata). E' per questo che il consenso neoliberista trasversale ai partiti oggi può saldarsi nuovamente al vecchio consenso social-darwinista nel centro sociale, e perfino dentro la sinistra parlamentare: una base di legittimazione tacita nei confronti della decivilizzazione dell'amministrazione di crisi e delle forze che insieme ad essa co-amministrano. Elementi di questo pensiero si trovano non solo fra le bande della destra radicale, che in Germania ormai insultano i disabili come "divoratori di risorse" e li sbattono giù dalle sedie a rotelle, ma anche nell'apparato di amministrazione sociale e fra i quadri della classe politica democratica. Fra gli antenati si include, per esempio, il socialdemocratico austriaco Rudolf Goldscheid, che prima della prima guerra mondiale ha inventato il concetto di "economia degli esseri umani" e che raccomandava allo Stato una "creazione redditizia di esseri umani", secondo la quale non doveva essere nutrito il materiale umano disabile. Proprio nell'epoca di una crisi del "lavoro astratto" de della sovraccapacità dell'iper-produzione, viene oggi di nuovo mobilitata l'illusione di questo vigore fisico. L'apparente superamento del darwinismo sociale appartiene alla filosofia del bel tempo del passato miracolo economico, che ora viene sepolta in silenzio.
Quali sono le possibilità di resistenza, di fronte a questa grande tendenza della decivilizzazione schiacciante? Ovviamente, non basta una limitata politica delle lobby dei servizi sociali indeboliti. E' un fatto che non esista un puro determinismo oggettivo della crisi e che in ogni situazione data possono essere utilizzati margini di manovra immanenti per "ottenere qualcosa". Ma questo ormai funziona solo in combinazione con un ampio movimento sociale, che sia capace di cominciare a soppiantare la concorrenza universale e ad imporre un insieme di esigenze, anche se con con questo non si supera la crisi, che ha radici nelle contraddizioni sistemiche del "lavoro astratto" e della sua struttura di dissociazione sessuale. Affinché un tale movimento sia possibile in generale, è necessaria un piccola guerra tenace anche nel quotidiano, contro il pensiero social-darwinista, sessista, razzista e antisemita, in tutte le sue varianti. Quando la resistenza immanente incontra la prospettiva di un altro modo di produzione e di vita, al di là del patriarcato produttore di merci, e quindi anche al di là del vecchio socialismo di Stato, le forme di sviluppo della crisi possono aprirsi, al là di questo, verso una società nuova. Quest'apertura è possibile solamente attraverso la simultanea apertura dell'orizzonte mentale verso una nuova critica sociale radicale - invece di lasciarsi consumare completamente dal quotidiano della crisi.
- Robert Kurz - 19 Gennaio 2006 -
Nota: Questo testo costituisce la versione scritta di una presentazione, fatta il 15 novembre 2005 a Brunnen, Svizzera, nel corso delle Giornate Annuali di INTEGRAS (Associazione Svizzera di Pedagogia terapeutica e sociale).
fonte: EXIT!
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