Gli dei, la donna, il sacrificio
di Lidia Storoni
Mentre dipingeva bisonti e puledri nelle grotte, o li graffiava su pareti rocciose, l'uomo incominciava a fabbricare le sue prime armi e gli attrezzi; conficcando pali nella terra, costruiva capanne e le disponeva attorno a uno spazio circolare. Nella sua mente si profilavano pochi concetti rudimentali: il possesso, la famiglia, il gruppo; e una nozione fondamentale, la presa di coscienza della propria identità, la consapevolezza d'esser diverso non solo dagli animali, ma anche da quelle potenze inconoscibili che a intervalli regolari accendono il sole e la luna, scatenano tempeste, scagliano fulmini, ogni sera fanno calare l'oscurità e ogni mattina rischiarano il ciclo; forze arcane, temibili, di cui l'umanità sin dai suoi primi passi ha avuto una nozione reverente e impaurita.
Di questo lavorio lentissimo, insondabile, non abbiamo altra registrazione se non quella del mito. Figure mostruose o leggiadre, dotate di attributi spesso ambigui, coinvolte in vicende complicate, rappresentano categorie elementari del pensiero (spazio, tempo), conciliano antitesi sensoriali (crudo-cotto, caldo-freddo), legittimano un ordine sociale, compongono conflitti come quello tra l'istinto e la norma, il contrasto che Lévi-Strauss indica nel binomio natura-cultura; alla stessa stregua dei sogni, i miti trasformano simbolicamente fatti rimossi dal ricordo cosciente o perduti nel tempo.
Il consenso della vittima
Il mito è un linguaggio figurato; e dove esprime la consapevolezza di appartenere alla specie umana implica la necessità di attenersi alla regola fondamentale che essa ha istituito nelle prime forme di vita associata, vale a dire il rifiuto della violenza, della sfrenata lussuria, del furto, dell'assassinio: azioni improntate a quella dismisura che la comunità condanna, se vuoi sopravvivere. Dai miti greci traspare la segreta apprensione d'un ritorno all'esistenza sregolata del passato. Consapevole di ciò che è («Conosci te stesso», è il motto inciso sul tempio di Apollo a Delfi), l'uomo non dovrà sconfinare né verso l'alto, e cioè verso la sfera riservata agli dèi, né verso il basso, degradandosi ad agire come le bestie. Dovrà restare nel «giusto mezzo». Questo principio basilare viene formulato specialmente nelle due forme fondamentali del comportamento umano: l'alimentazione e il sesso.
Per lanciare una sonda e ispezionare la voragine buia delle età arcaiche, due studiosi francesi, Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant hanno esaminato il rito più noto delle religioni antiche, deplorato, perché durava ancora, dai padri della Chiesa: il sacrificio. Hanno raccolto in un volume (La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri) insieme ai loro, i contributi di altri autori. Si tratta dunque d'un'opera collettiva ma omogenea, perché i fatti sono osservati attraverso la stessa filigrana, che è l'antropologia strutturale e la psicoanalisi.
Filo conduttore dell'opera è il rapporto tra rito e società; il sacrificio, che precede il pasto comune, è visto come suggello della parità tra i membri della comunità, più che come devota offerta agli dèi. Esso infatti precedeva ogni atto pubblico — dichiarazione di guerra o trattato di alleanza, insediamento di magistrati, apertura di assemblee —; un animale domestico (poiché quelli selvaggi riguardano la caccia, che è antitetica alla cultura civile), inghirlandato di fiori, veniva condotto all'altare in processione, al suono di flauti. Il sacrificatore (termine che in greco significa anche macellaio e cuoco, il che rivela l'aspetto alimentare della cerimonia) gli gettava addosso dell'acqua fredda, lo colpiva con una manciata di grano preso dal paniere dov'era nascosto il coltello; la reazione dell'animale, che rabbrividiva e scoteva la testa, era interpretata come il suo assenso all'olocausto imminente — è così recente il tempo in cui l'uomo non si distingueva dalle bestie, che non ha il coraggio di sopprimere quello che fino a ieri era il suo simile, senza averne il consenso.
Abbattuto con un colpo alla testa, mentre le donne ululano, il toro, o giovenca, o agnello che sia, viene sgozzato; il suo sangue e raccolto in un vaso; il corpo, sezionato secondo un procedimento rigoroso, viene arrostito e distribuito ai presenti con relativa imparzialità (è ovvio che il filetto spetta ai notabili). Le ossa e altre parti immangiabili, cosparse di aromi, vengono bruciate sull'ara: il fumo che ne sprigiona è destinato agli dei, illusoriamente invitati al convito, ma paghi d'un alimento immateriale perché immuni da fame, e nutriti di nettare e ambrosia.
Calandosi al fondo dell'anima primitiva, e quindi di noi stessi, gli autori del volume hanno esaminato il rito, le sue origini, le modalità, la scelta degli animali, la procedura del taglio, le armi usate. Il sacrificio incomincia con Prometeo, che era un immortale, uno dei Titani; non ribelle, come loro, a Zeus, ma astuto mediatore tra i numi e gli uomini. In quella favolosa atemporalità in cui si svolgono i miti e i sogni, Prometeo uccide il bue destinato al banchetto comune degli dei e degli uomini; ma a questi ultimi consegna le parti migliori, agli dèi le ossa nascoste sotto la pelle e il grasso. Zeus si risente con lui; ma, mentre non aveva esitato a scagliare nel Tartaro i ribelli e condannare Atlante a sostenere sulle spalle il cielo, con Prometeo si comporta con una inspiegabile cautela, lo tratta con ironica deferenza, ma gli gioca, a sua volta, un tiro mancino: nasconde il fuoco e sotterra il grano. Da allora l'uomo dovrà arare e vangare la terra per estrarlo, e poi macinarlo e, senza fuoco, non potrà procedere alla cottura degli alimenti, la pratica che lo distingue dalle fiere.
Prometeo allora gli ruba il fuoco; Zeus lo vede brillare sulla terra e ne pensa un'altra. Ordina ai suoi colleghi dell'Olimpo di foggiare con acqua e fango una creatura maliosa e infida, la donna; affida alle dèe il compito di agghindarla e donarle tutti i fascini possibili, soprattutto la parola suadente; poi manda in dono questa prima donna al fratello di Prometeo, uno sprovveduto, il quale, benché avvertito da Prometeo di non accettare mai un dono da Zeus, accoglie quello che Esiodo chiama il «kalòn kakòn», il soave malanno. Subito dopo, Zeus invia un altro regalo insidioso, il famoso vaso che la donna. Pandora (e cioè adorna di tutti i doni) subito apre: ne escono tutti i mali, guerra, malattie, vecchiaia, morte, tradimento.
Accettando la donna, l'uomo ha accettato la condizione umana, già suggellata nell'atto del sacrificio, che a lui riserba la carne — appetitosa ma putrescibile — e agli dei l'aroma; avrà in sorte generazione, vecchiaia e morte. E se rifiuterà di unirsi alla donna, i suoi ultimi anni saranno desolati, poiché non avrà figli ad assisterlo. Prometeo dunque — e sarà duramente punito — con l'atto di dare agli uomini la carne arrostita ha tracciato in modo indelebile il confine tra uomini e dei, nonché tra uomini e belve.
Nel vaso di Pandora
Arrostendo le carni dell'animale domestico ucciso ritualmente, arando i campi e contraendo nozze, l'uomo si è collocato entro le frontiere della sua specie, con il che ha rinunciato all'antica convivenza con gli dei. Una lacerazione penosa, che lo consegna a una sorte ambigua, nella quale ogni bene è compensato da un male.
La separazione, lo statuto della situazione umana, è reso ancor più evidente dai dinieghi che la contestano: coloro che si oppongono alle regole della comunità sottraendosi al suo costume osservano, come gli orfici e i pitagorici, un regime vegetariano, si astengono dall'uccidere qualsiasi animale vivente e persino dell'indossare vesti di lana. Non accettano che vi sia una separazione tra il loro essere e quello divino, presumono di cancellare il peccato originale e di poter recuperare il loro posto in ciclo a prezzo d'una diuturna ascesi. Mentre i dionisiaci, abbandonandosi all'ebbrezza e all'estasi, inseguono nelle foreste l'animale che verrà sbranato e divorato ancor sanguinante, e, quindi, evadono in un regresso allo stato ferino, i mistici, assimilandosi agli dei, sperano di tornare a raggiungerli. Perché, avevo dimenticato di dirlo, nel vaso incautamente aperto da Pandora, c'era rimasta una cosa ambigua e indefinibile: la Speranza.
- Lidia Storoni -
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