Teorizzando il mondo moderno
- di Moishe Postone -
E' ampiamente riconosciuto che gli ultimi trent'anni hanno segnato una rottura significativa con l'ordine sociale, politico, economico e culturale che aveva caratterizzato i decenni precedenti seguiti alla seconda guerra mondiale. Si verificano mutazioni fondamentali, quali l'indebolimento e la trasformazione degli Stati del benessere sociale del capitalismo occidentale, il collasso o la metamorfosi fondamentale degli Stati burocratici dell'Est europeo e l'erosione degli Stati sviluppisti in quello che convenzionalmente venivano chiamati del Terzo Mondo. In generale, gli ultimi decenni hanno visto l'indebolimento della sovranità economica statale nazionale e l'emergere ed il consolidarsi dell'ordine globale neoliberista. Da una parte, la vita sociale, politica e culturale è diventata sempre più globale; dall'altra, è diventata sempre più decentrata e frammentata.
Questi cambiamenti si sono verificati nel contesto di un lungo periodo di stagnazione e crisi: a partire dall'inizio degli anni 1970, il tasso di crescita dei salari reali è diminuito drammaticamente - in generale sono rimasti inalterati laddove i tassi di lucro ristagnavano ed i tassi di produttività del lavoro si abbassavano. Tuttavia, questi fenomeni di crisi non hanno portato alla rinascita dei movimenti della classe operaia. Al contrario, nei passati decenni abbiamo assistito al declino dei movimenti classici dei lavoratori e all'emergere di nuovi movimenti sociali, frequentemente caratterizzati da politiche di identità, ivi incluso movimenti nazionalisti, movimenti politici relativi al libero orientamento sessuale e varie forme di "fondamentalismo" religioso. Un'analisi delle trasformazioni su larga scala, avvenuti negli ultimi trent'anni, quindi richiede che si prenda in considerazione non solo il declino economico sul lungo periodo, ma anche gli importanti cambiamenti avvenuti nella vita sociale e culturale.
E' sullo sfondo di questa problematica che intendo discutere tre saggi molto importanti - di Robert Brenner, Giovanni Arrighi e di David Harvey - che trattano le trasformazioni in corso. Quest'articolo vuole solo essere generale. Non pretende di fornire un'analisi critica definitiva delle opere di questi tre autori, ma affrontare a livello metaforico i loro libri specifici, focalizzandosi sui presupposti teorici in modo da problematizzare la natura e le caratteristiche di una teoria critica che possa essere adeguata al capitalismo attuale.
Perché una teoria del capitalismo, o meglio, una teoria del capitale? Lasciatemi cominciare con un'osservazione che Harvey ed altri hanno fatto in relazione al periodo di prosperità del dopoguerra, fra il 1949 ed il 1973: gli Stati occidentali producevano in maniera simile crescita economica stabile ed innalzamento del tenore di vita - attraverso una combinazione di Stato del benessere sociale, politica-economica keynesiana e controllo delle relazioni salariali - di modo che partiti politici molto differenti fossero al potere. Si potrebbe aggiungere che in tutti gli Stati occidentali, tale sintesi dello Stato del benessere sociale viene meno negli anni 1970 e 1980, indipendentemente da quale partita fosse al potere.
Questi sviluppi storici su larga scala possono essere compresi in riferimento ad un quadro storico più ampio: l'ascesa e la caduta dell'organizzazione centrata su uno Stato di vita economica e sociale caratterizzato dall'apparente predominio del politico sull'economico. L'inizio di questo periodo può essere collocato, grosso modo, nella prima guerra mondiale e nella rivoluzione russa; la sua fine può essere osservata nella crici degli anni 1970 e nel susseguente emergere dell'ordine globale neoliberista. Questa traiettoria generale è stata una traiettoria globale. Essa ha compreso paesi capitalisti occidentali ed Unione Sovietica, così come territori colonizzati e paesi decolonizzati. Rispetto a tale traiettoria generale, i diversi sviluppi appaiono più come differenti inflessioni di un modello comune piuttosto che come sviluppi fondamentalmente differenti. Il carattere generale del modello storico che ha strutturato su larga scala gran parte del XX secolo, suggerisce l'esistenza di imperativi strutturali e di restrizioni generali che non possono essere adeguatamente spiegati in termini locali e contingenti.
Quindi, la considerazione del modello storico generale che caratterizza il XX secolo mette in discussione le comprensioni post-strutturaliste della storia intesa come un modello essenzialmente contingente. Questo, tuttavia, non implica necessariamente che si ignori la constatazione critica che sta alla base dei tentativi di affrontare la storia in maniera contingente - in altre parole, che la storia, intesa come il dispiegarsi di una necessità immanente, possa essere vista come espressione di una forma di oppressione.
Questa forma di oppressione è l'oggetto della teoria critica del capitalismo di Marx, che si preoccupa, in primo luogo, di delineare e fondare gli imperativi e le restrizioni che generano la dinamica storica ed i cambiamenti strutturali del mondo moderno. La critica del capitale non nega l'esistenza dell'oppressione storica per focalizzarsi sulla contingenza. Al contrario, cerca di analizzare storicamente questa oppressione sociale, svelandone le basi, e indicando la possibilità del suo superamento. In altre parole, una teoria critica adeguata del capitale mira a chiarire la dinamica del mondo moderno, e lo fa a partire dal punto di vista immanente della possibilità della sua trasformazione. Questa teoria critica del capitalismo, della dinamica storica della modernità, a mio avviso, può fornire una base migliore per un approccio rigoroso alle trasformazioni degli ultimi trent'anni. Solo essa può realizzare tutto questo, però nella misura in cui è in grado di affrontare adeguatamente le profonde alterazioni sociali e culturali, così come quelle economiche, degli ultimi decenni.
I tre autori di cui tratto, cercano di comprendere queste trasformazioni recenti sulla base di una teoria critica del capitalismo. In "“The economics of global turbulence”, Robert Brenner raccoglie molte prove (dati sui salari reali, tassi di profitto, tassi di produttività del lavoro e tassi di crescita) al fine di dimostrare che l'economia mondiale si trova da trent'anni praticamente in ristagno. Scrivendo alla fine degli anni 1990, Brenner argomenta contro l'illusione, diffusa in quel periodo (in realtà, un'illusione capitalista ricorrente), che il problema dei cicli economici sia stato risolto, che ci siamo lasciati i cicli alle spalle. La sua preoccupazione principale non è solo quella di spiegare il declino economico dell'inizio degli anni 1970, ma anche quella di spiegare che esso si è protratto per molto tempo. La caduta della redditività, che annuncia la fine del boom del dopoguerra, è cominciata a metà degli anni 1960, secondo Brenner, e non, come molti sostengono, fra il 1969 ed il 1972. Questo, sempre secondo Brenner, contraddice quella che egli chiama "teorie delle offerte" [“supply-side” theories], le quali attribuiscono il declino, così come la sua durata, alla crescente pressione esercitata dai lavoratori sui profitti, dal momento che egli indica come questo declino sia precedente a tale pressione. Inoltre, gli approcci che si focalizzano sul lavoro osservano necessariamente la situazione specifica di ciascun paese. Non riescono a spiegare le caratteristiche più salienti del declino della fine del XX secolo: che il suo inizio e le sue diverse fasi sono state universali e simultanee - comprendendo economie deboli con forti movimenti di lavoratori (Inghilterra) ed economie forti con deboli movimenti di lavoratori (Giappone) - e che il declino è durato così tanto tempo. Sulla base di queste considerazioni, Brenner sostiene che la spiegazione del declino e del conseguente fallimento delle economie ad adattarsi, va situata a livello di sistema internazionale, inteso come un tutto. La caduta del tasso di profitto non è stato il risultato di fattori tecnologici, di pressioni operaie o di controlli politici, secondo Brenner, ma è stato fondamentalmente il risultato della concorrenza sul mercato internazionale e dello sviluppo diseguale.
Al centro dell'analisi di Brenner, sta l'argomento generale per cui il capitale, in un settore particolare, non può essere facilmente dirottato verso un altro settore, dal momento che gran parte di esso si trova nella forma di capitale fisso. Di conseguenza, in tale situazione, la concorrenza crescente, risultando in minori tassi di profitto, non porta al dirottamento del capitale in altre aree, come prevede la teoria economica predominante, ma porta alla sovrapproduzione sistemica. Pertanto, il declino derivante dalla sovrapproduzione non ha come risultato la prevista eliminazione dei concorrenti meno efficienti [shakeout], che dovrebbe in seguito dar luogo ad una ripresa, ma, sul lungo periodo, ha come risultato una caduta del tasso di profitto.
In particolare, Brenner sostiene che, come risultato della devastazione causata dalla seconda guerra mondiale, fondamentalmente c'è stata una sola fabbrica nel mondo dell'immediato dopoguerra - gli Stati Uniti. Negli anni 1960, tuttavia, gli Stati Uniti sono stati sfidati dalle economie della Germania e del Giappone. Grazie agli investimenti americani in capitale fisso - ad esempio, nell'industria automobilistica, laddove ha continuato a produrre ai suoi livelli precedenti, nonostante i tedeschi ed i giapponesi stessero espandendo la loro produzione (automobilistica). Il risultato è stata una sovrapproduzione endemica globale.
L'analisi di Brenner riferisce la crisi di sovrapproduzione nel capitalismo alla contingenza della concorrenza. Se non fosse per tale contingenza, le imprese saprebbero quando investire in capitale fisso. Ma esse non hanno e non possono avere una simile conoscenza; pertanto, sono soggette a pressioni imprevedibili. A causa del loro investimento in capitale fisso, però esse non possono permettersi di ritirarsi ed investire in un altro settore. Conseguentemente, i profitti precipitano. Le imprese tentano di controbilanciare questa tendenza alla caduta dei profitti facendo pressione sul lavoro, distruggendo sindacati e tagliando benefici sociali e previdenziali.
L'interpretazione, fatta da Brenner, del boom e della caduta del profitto chiarisce correttamente elementi importanti del lungo declino, specialmente il loro carattere globale. Mostra chiaramente che il capitalismo costituisce un ordine globale - un ordine, tuttavia, che è disfunzionale. La sua interpretazione è un'utile correzione del discorso economico predominante. Dimostra l'inadeguatezza della comprensione dei flussi di capitale risultanti dalla concorrenza ed il carattere illusorio della ricorrente nozione per cui i cicli economici sarebbero una cosa del passato. L'approccio di Brenner contraddice anche l'idea diffusa per cui il grande declino della fine del XX secolo sia stato il risultato della - e la risposta alla - vittoria della classe operaia fra il 1968 ed il 1972, e fornisce una base per criticare l'analisi della Scuola della Regolazione a proposito del declino del fordismo e dell'emergere del regime post-fordista.
Nonostante l'esame approfondito del lungo declino alla fine del XX secolo, fatto da Brenner, egli non affronta adeguatamente altre dimensioni, importanti, delle trasformazioni dei recenti decenni. In tal senso, il suo approccio non fornisce un'interpretazione adeguata del cambiamento storico. La sua analisi del lungo declino, con il suo riferimento alla concorrenza internazionale ed alla sovrapproduzione sistemica, mette in luce dimensioni importanti di questa crisi. Tuttavia, non vi è indicazione, nell'interpretazione di Brenner, di un'alterazione nelle dimensioni sociali, culturali e politiche della vita che possano essere messe in relazione ai processi economici che egli discute. Il focus di Brenner sull'economia, è tale che non viene evidenziato il fatto che il contesto storico generale della fine del XX secolo è in una qualche misura differente dai periodi precedenti al declino e alla rivalità inter-capitalista. Cioè, Brenner non tematizza la questione dei cambiamenti storici qualitativi nella società capitalista. Per cui, quando egli critica la Scuola della Regolazione, non fornisce un approccio alternativo rispetto alla dimensione centrale di questa prospettiva teorica - la preoccupazione per i cambiamenti sociali e culturali fondamentali che avvengono con l'emergere di quello che i teorici regolazionisti chiamano del nuovo modo di regolazione.
Tuttavia, se una teoria critica del capitalismo deve confrontarsi in forma adeguata con le trasformazioni storiche degli ultimi trent'anni, essa non può chiarire soltanto gli sviluppi economici, compresi in maniera ristretta, ma dev'essere capace di illuminare i mutamenti nella natura della vita sociale e culturale dentro la struttura del capitalismo. Solo così una teoria critica del capitalismo può essere rivendicata come teoria critica del mondo moderno, vale a dire, di una forma oggettiva/soggettiva della vita sociale storicamente specifica, e non una teoria di una determinata organizzazione economica che viene compresa in maniera restrittiva - della società moderna. Allo stesso modo (e questo è cruciale), una teoria critica del capitalismo dev'essere capace di chiarire i mutamenti qualitativi interdipendenti dall'oggettività e dalla soggettività sociale, se pretende di affrontare i cambiamenti culturali su grande scala ed i movimenti sociali. Solo così può essere, almeno potenzialmente, una teoria della possibilità di superamento del capitalismo.
La questione non è se Brenner, o qualsiasi altro teorico, si confronti in maniera esplicita con questi assunti, ma se il suo approccio sia sostanzialmente capace di chiarire trasformazioni storiche della politica, della cultura e della società. Indipendentemente dalle sue forze, l'approccio di Brenner non si confronta adeguatamente con lo sviluppo storico e con la struttura del capitalismo in quanto forma di vita sociale. Mutamenti nella cultura e nella soggettività, appaiono esterni alla sua prospettiva.
Questi limiti dell'approccio di Brenner sono relativi alla sua comprensione di base del capitalismo. La questione, qui, non riguarda semplicemente lo sforzo analitico - se un approccio critico al capitalismo debba solo affrontare processi economici, anziché trattare anche altre dimensioni della vita sociale. La questione è se le categorie di base di questa prospettiva possono riguardare intrinsecamente differenti dimensioni della vita, in quanto aspetti interdipendenti di una forma determinata di vita sociale. Il punto di partenza analitico di Brenner è un'enfasi marxista tradizionale sulla natura non pianificata, non coordinata e competitiva della produzione capitalista. Vale a dire, al centro della sua analisi del lungo declino si trovano i concetti dello sviluppo diseguale e della concorrenza. Nell'approccio di Brenner, queste nozioni definiscono il capitalismo, ed implicitamente indicano la pianificazione razionale come caratteristica più saliente del mondo post-capitalista. Il focus di tale critica del capitalismo, in altre parole, è essenzialmente il modo di distribuzione. Temi, come la forma di produzione, del lavoro e, più fondamentalmente, della mediazione sociale, sono estranei alla sua struttura teorica. Nozioni come la concorrenza e lo sviluppo diseguale, insieme alle categorie centrali per l'analisi di Brenner, come profitto, capitale fisso e circolante, tuttavia, sono categorie economiche; cioè, sono categorie di superficie che non catturano in forma adeguata la natura fondamentale e la dinamica storica del capitalismo in quanto forma di vita sociale storicamente specifica.
In questo saggio, posso menzionare soltanto il significato teorico della distinzione fra superficie e struttura profonda (che segna la distinzione fra economia politica critica e critica dell'economia politica) e perché avrebbe senso ridiscutere la categoria valore. Su questo punto, voglio solo sottolineare che qualificare un concetto quale lo sviluppo diseguale come una nozione di superficie non significa che essa sia illusoria, ma significa, invece, che essa non quel che è essenziale per il capitalismo.
Caratterizzare concetti, quali concorrenza e sviluppo diseguale, e categorie, quali il profitto, come fenomeni superficiali, esprime una posizione che considera le categorie come la merce, il valore ed il capitale come quelle che fanno parte della struttura profonda. Brenner, tuttavia, respinge queste ultime categorie, definendo gli approcci che si basano su di esse come "marxismo fondamentalista". Differenze in relazione alla teoria del valore, spesso esprimono comprensioni differenti delle categorie. Ad esempio, il valore è stato solitamente interpretato come una categoria economica, una categoria della distribuzione che fonda i prezzi, che dimostra lo sfruttamento (categoria del plusvalore) e che spiega il carattere incline alla crisi del capitalismo (come risultato della crescente composizione organica del capitale). Il significato del valore, compreso in questa maniera, è stato spesso messo in discussione a partire da argomentazioni che affermano che i prezzi, lo sfruttamento e le crisi possono essere spiegati senza riferirsi a questa categoria.
Propongo un'altra comprensione della categoria del valore di Marx. Essa non è semplicemente un perfezionamento di questa categoria così come è stata sviluppata da Smith e da Ricardo. Invece, è una categoria che pretende di cogliere le forme astratte determinate dalla mediazione sociale, dalla ricchezza sociale e dalla temporalità, le quali strutturano la produzione, la distribuzione, il consumo e, in maniera generale, la vita sociale nella società capitalistica. Sulla dimensione temporale delle categorie della struttura profonda, si fonda la dinamica del capitalismo; ciò aiuta a spiegare, in termini storicamente specifici, l'esistenza di di una dinamica storica che caratterizza il capitalismo. Quelle categorie, quindi, cercano di cogliere i contorni generali di questa dinamica in quanto indicano che una dinamica storica immanente di per sé non caratterizza la storia e le società umane. Inoltre, le categorie valore e capitale non sono meramente economiche e non sono neppure unicamente categorie dell'oggettività sociale - ma categorie che sono, allo stesso tempo, sociali e culturali. Infine, la dinamica basata sul valore è tale che il valore diventa progressivamente sempre meno adeguato alla realtà che produce. Vale a dire, la dinamica crea le condizioni di possibilità oggettive e soggettive di un ordine sociale al di là del capitalismo. (Comincerò ad approfondire l'elaborazione di queste affermazioni per discutere più avanti la nozione della caduta del tasso di profitto, come viene intesa da Brenner e da Arrighi.) Lungi dall'essere categorie della vita economica e sociale in generale, quelle che si trovano alla base della critica dell'economia politica pretendono di cogliere il nucleo essenziale di una forma della vita sociale storicamente determinata - il capitalismo - in modo da sottolinearne il suo carattere storicamente specifico e possibilmente transitorio. L'abolizione di quello che le categorie pretendono di cogliere porterebbe all'abolizione del capitalismo.
Farsi carico di questa problematica fondamentale richiede che si metta in discussione la natura della temporalità nel capitalismo, un assunto che non posso elaborare in maniera più ampia in questo saggio. Desidero, tuttavia, proseguire in queste considerazioni prendendo come riferimento "Il lungo XX secolo", di Giovanni Arrighi. Arrighi fa parte dei teorici che concettualizzano il periodo che parte dal 1973 come quello del cambiamento qualitativo, il cui tratto predominante egli caratterizza in termini di "finanziarizzazione" del capitale. Polemizzando con le posizioni come quella di Hilferding, per cui l'aumentata importanza del capitale finanziario segna uno stadio del tutto nuovo dello sviluppo capitalista, Arrighi afferma che la supremazia della finanziarizzazione è un fenomeno ricorrente, una fase dei cicli maggiori di sviluppo capitalista che sono cominciati nell'Europa fra la fine del Medioevo e l'inizio dell'era Moderna.
Lo studio di Arrighi sulla crisi della fine del XX secolo, si inscrive in una struttura teorica più ampia - un'analisi delle "strutture e processi del sistema capitalista mondiale inteso come un tutto, in tappe diverse del suo sviluppo". Quest'analisi, da parte sua, è profondamente influenzata dal tentativo ambizioso di Arrighi di pensare secondo quel che Charles Tilly ha definito come "i due grandi processi interdipendenti dell'era [moderna]: la creazione di un sistema di Stati nazionali e la formazione di un sistema capitalista mondiale". Per potere relazionare questi due sistemi internazionali, Arrighi ricorre alle teorie di Fernand Braudel e Karl Polanyi. Egli adotta la comprensione di Braudel del capitalismo inteso come una parte di una struttura intesa su tre livelli. Ci sarebbe un livello inferiore, che Braudel chiama della "vita materiale" - lo strato della non-economia che non potrà mai essere influenzato dal capitalismi, poi uno strato intermediario di economia di mercato e infine uno strato superiore di "anti-mercato", la zona dei predatori giganti. Per Braudel, questo ultimo livello superiore è il vero locus del capitalismo. Sulla base dell'analisi di Braudel, Arrighi sostiene che, storicamente, lo sviluppo capitalista non è stato soltanto il risultato non-intenzionale delle innumerevoli azioni realizzare dagli individui e dalle molteplici comunità dell'economia mondiale, ma che le "espansioni e ristrutturazioni dell'economia capitalista mondiale hanno avuto luogo sotto la guida di determinate comunità e blocchi di agenti governativi ed imprenditoriali". Vale a dire, Arrighi cerca di mettere in relazione il sistema statale ed il capitalismo sulla base del disallineamento, postulato da Braudel, fra l'attività economica quotidiana e lo strato superiore dei gruppi economicamente potenti.
Arrighi rafforza quest'approccio, appropriandosi della critica di Karl Polanyi all'idea, relativa al XIX secolo, di un'economia auto-regolata. Per Polanyi, questa auto-regolamentazione dipendeva dalla trasformazione in merci di tutti gli elementi dell'industria, ivi inclusi la terra, il lavoro ed il denaro. La natura mercantile degli ultimi tre, tuttavia, è completamente fittizia, secondo Polanyi. Un sistema basato su una simile finzione, è tremendamente disaggregativo per la società. Esso genera, come conseguenza, un contro-movimento che cerca di limitare le sue operazioni. Ciò implica che, per far funzionare il capitalismo sul lungo periodo, i meccanismi di mercato devono essere sociali e controllati politicamente.
Sulla base della sua appropriazione di Braudel e Polanyi, Arrighi descrive lo sviluppo del sistema capitalista mondiale in termini di quattro cicli sistemici di accumulazione, ciascuno di essi dominato da uno Stato capitalista egemonico - un ciclo genovese, dal XV secolo e fino all'inizio del XVII; un ciclo olandese, che si estende dalla fine del XVI secolo alla maggior parte del XVIII; un ciclo britannico che va dalla fine del XVIII secolo fino all'inizio del XX; ed un ciclo americano, che è cominciato alla fine del XIX secolo. Ciascuno di questi cicli si riferisce ai processi del sistema capitalista mondiale visto come un tutto, secondo Arrighi. Egli si concentra sulle strategie e sulle strutture degli agenti governativi ed imprenditoriali di ognuno di questi Stati, dal momento che sostiene che essi hanno giocato una centralità che ha avuto successo nella formazione di questi stadi.
Ciascun ciclo, secondo Arrighi, è caratterizzato dalle medesime fasi, una fase iniziale di espansione finanziaria, passando per una fase di espansione materiale, seguita da un'altra di espansione finanziaria. La finanziarizzazione svolge un ruolo cruciale nella successione di un'egemonia all'altra, secondo Arrighi. Come egli la descrive, la traiettoria ascendente di ciascuna egemonia si basa sull'espansione della produzione e del commercio. Ad un certo punto di ogni ciclo, tuttavia, avviene una "crisi di avvertimento", come risultato della sovraccumulazione del capitale. Allora, un altro Stato fornisce un mezzo per dare sfogo a tale capitale accumulato. In questo schema, la crescente finanziarizzazione richiede il trasferimento del capitale dell'egemone attuale verso il nuovo egemone. Questo modello di sviluppo non è, tuttavia, completamente ciclico. Ma ha una direzionalità. Ciascun nuovo ciclo è più breve del precedente; ciascun nuovo egemone è più grande, più complesso e più potente. Ogni egemone è in grado di internalizzare i costi che il suo predecessore non internalizzava. L'Olanda internalizzava i costi di produzione, anche il Regno Unito internalizzava i costi di produzione e gli Stati Uniti hanno aggiunto l'internalizzazione dei costi di transazione. Stabilendo questo quadro, Arrighi sostiene quindi che la fase attuale di finanziarizzazione è il segnale del declino dell'egemonia americana, l'inizio della fine del quarto ciclo.
Il quadro di sviluppo descritto da Arrighi è molto elegante e spesso illuminante. Tuttavia, ha degli aspetti problematici legati alla sua interpretazione che, a mio avviso, indicano i suoi limiti. Così, ad esempio, quando Arrighi si rivolge agli sviluppi più contemporanei, la sua interpretazione dell'ascesa e caduta dell'egemonia degli Stati Uniti a partire dal 1939 è molto più eclettica di quanto si poteva sperare a partire dalla sua descrizione dei cicli più lunghi dello sviluppo capitalista. Nel discutere la crisi del decennio 1970, egli si riferisce ad una concorrenza crescente, su scala internazionale, alla crescita dei salari reali, fra il 1968 ed il 1972, che ha oltrepassato l'aumento della produttività, così come alla decisione dei politici americani, alla fine degli anni 1970, di formare un'alleanza con l'alta finanza privata al fine di disciplinare quella che era considerata come una minaccia del Terzo Mondo, dopo la decolonizzazione.
E' molto difficile capire come quest'interpretazione si incastri nella struttura teorica dello sviluppo ciclico che Arrighi presenta. Sebbene egli caratterizzi come anomalo il ciclo americano, non spiega il suo carattere anomalo. Di conseguenza, esiste una lacuna fra la sua interpretazione eclettica riguardo il decennio 1970 e la sua struttura teorica più ampia, cosa che suggerisce che il modello di sviluppo che egli delinea è essenzialmente descrittivo. Non c'è, infatti, un'analisi riguardo a quel che muove il quadro di sviluppo che egli descrive.
Lo stesso tema emerge anche, implicitamente, quando Arrighi discute il declino dell'egemonia americana. Egli sostiene che un tale declino può portare all'ascesa di un impero veramente globale, basato sulla superiorità della forza dell'Occidente, ad un'economia mondiale di mercato senza un egemone, centrata sull'Est asiatico, oppure può portare al caos sistemico. Le due prime possibilità, secondo Arrighi, sono post-capitalistiche. Segnalerebbero la fine del capitalismo.
Questa è un'affermazione notevole, in quanto chiarisce come Arrighi consideri l'essenza del capitalismo: un sistema mondiale organizzato da un capitalista egemone. Questa posizione problematica ha le sue radici nell'appropriazione che Arrighi realizza della distinzione di Braudel fra economia di mercato e capitalismo. Quest'ultimo, secondo Braudel, non può essere spiegato sulla base delle relazioni continue di mercato, nella misura in cui un'economia mondiale di mercato ha preceduto il capitalismo. Quello che ciò ha causato, è stata la fusione del capitale con lo Stato, la quale è stata un'esclusiva dell'Occidente. I limiti di un simile tentativo di distinguere i mercati dal capitalismo, collocando gli Stati al centro dell'analisi, si manifestano, tuttavia, nelle riflessioni di Arrighi sulla fase corrente del declino dell'egemonia americana. Indipendentemente da quanto possano essere stati gli Stati per lo sviluppo del capitalismo, definire il capitalismo essenzialmente in riferimento allo Stato diventa una camicia di forza concettuale quando Arrighi tenta di analizzare il mondo contemporaneo.
Né Braudel né Arrighi sembrano avere conoscenza del modo assai differente secondo cui Marx e Weber distinguono il capitalismo moderno dai mercati e dal commercio, come essi possono essere esistiti all'interno di altre forme di società. Nonostante tutte le loro differenze, Marx e Weber vedono il capitalismo moderno come specifico in quanto basato su un processo continuo ed infinito di accumulazione, un processo che non può essere fondato sul commercio o sullo Stato e che, in realtà, trasforma entrambi. Nell'opera di Marx, la dinamica storica del capitalismo è la sua caratteristica più saliente. Essa ricorre a continue trasformazioni della vita sociale, che sono guidate, a loro volta, dal nucleo essenziale del capitalismo, un nucleo che è tanto immutabile quanto, comunque, produttore di mutazioni. La categoria capitale, in Marx, tenta di cogliere questo nucleo e la dinamica che esso genera.
Nella trattazione fatta da Arrighi dei cicli del capitalismo, la categoria capitale rimane fondamentalmente sotto-teorizzata. Di conseguenza, il suo approccio esclude qualsiasi analisi circa quello che costituisce il carattere specifico del capitalismo, la sua dinamica storica. Invece, come indica la sua concezione della fine del capitalismo, Arrighi fonde questa dinamica con l'ascesa e la caduta degli egemoni. Il suo approccio sostituisce all'analisi di quello che sta alla base della dinamica, una descrizione di un modello e lo fa anche in modo da escludere considerazioni sulle continue strutturazione e ristrutturazioni del lavoro e, in maniera generale, della vita sociale sotto il capitalismo.
Quindi, anche se le teorie di Braudel e Polanyi forniscono ad Arrighi una struttura teorica per pensare nel suo insieme lo sviluppo del sistema statale e del capitalismo mondiale, creano anche dei seri problemi teorici. La triplica divisione, realizzata da Braudel, della società moderna in strati di vita materiale, economia di mercato e capitalismo, non permette di considerate la relazione delle forme quotidiane di vita sociale come Il Capitalismo, mentre l'insistenza di Polanyi sul carattere fittizio del lavoro, della terra e del denaro come merci, oscura l'analisi di Marx della merce in quanto forma delle relazioni sociali. In questa struttura teorica, niente è "naturalmente" una merce. Di converso, non esiste ragione ontologica che possa servire come base per distinguere merci "reali" e merci "fittizi". Né Braudel né Polanyi permettono una concezione adeguata di capitale e, quindi, della natura della dinamica intrinseca alla società capitalista, così come della possibilità del suo superamento.
Queste considerazioni critiche vengono rafforzate quando osserviamo più da vicino la trattazione fatta da Arrighi della crisi degli anni 1970. Nell'affrontare questa crisi, fa ricorso alla concezione per cui, nel capitalismo, vi è una tendenza alla caduta del tasso di profitto. Come Brenner, Arrighi basa tale tendenza sulla concorrenza.
Il teorema della caduta tendenziale del tasso di profitto è stato varie volte identificato con Marx. E' stato comunemente inteso come il tentativo di Marx di dimostrare la natura propensa alla crisi ed i limiti del capitalismo. Questo teorema, tuttavia, non è stato originariamente sviluppato da Marx, ma da economisti politici come Adam Smith, Thomas Malthus e David Ricardo. Infatti, Marx affronta questo teorema dell'economia politica classica. Lungi dal prevedere una caduta inesorabile del tasso di profitto, tuttavia, egli tratta questo teorema cone una tendenza superficiale, la quale, pertanto è soggetta a molti fattori e a tendenze compensatorie. Nella misura in cui il tasso di profitto effettivamente cade, secondo Marx, ciò avviene come una manifestazione economica superficiale di uno sviluppo storico più fondamentale, la tendenza della composizione organica del capitale - vale a dire, il rapporto fra capitale costante (macchine, materie prime, ecc.) e capitale variabile (lavoro salariato) - a crescere.
L'idea di una diminuzione del capitale variabile in relazione al capitale costante è centrale per poter comprendere la forza della teoria del valore in Marx. Marx sostiene, com'è noto, che il valore è costituito soltanto dalla spesa socialmente necessaria di tempo di lavoro umano diretto. Al contrario di Adam Smith, tuttavia, Marx non considera il valore una forma trans-storica della ricchezza, ma una forma di ricchezza storicamente specifica al capitalismo. La distinzione che egli fa fra produzione di valore e di valore d'uso non va compresa trans-storicamente ed ontologicamente, ma come costitutiva della crescente contraddizione del capitalismo fra produzione di valore come elemento strutturale che definisce il capitalismo e l'enorme capacità di produzione di valore d'uso generata dal capitalismo. Il potenziale inscritto in questa contraddizione del capitalismo indica una possibile trasformazione fondamentale della natura e della distribuzione sociale del lavoro. La realizzazione di tale possibilità, tuttavia, viene costantemente limitata dalla riproduzione sistemica del lavoro determinato dal valore, a prescindere dal fatto che questo lavoro diventa sempre più anacronistico nei termini di potenziale produttivo del tutto.
Il cambiamento nella composizione del capitale, pertanto, non è importante nella critica di Marx tanto perché fornisce una spiegazione migliore rispetto alla caduta tendenziale del saggio di profitto, fondando in tal modo in forma più solida un teorema dell'economi politica classica. Piuttosto, è importante in primo luogo perché, sotto il livello superficiale dei prezzi e dei profitti, esprime la trasformazione del lavoro e della produzione che indica eventualmente la possibilità di una società post-capitalista. Lungi dall'essere un modo primordiale di spiegare le crisi, quindi, il teorema della caduta tendenziale del saggio di profitto, come rielaborato da Marx, esprime, in maniera indiretta, un processo di continua strutturazione e ristrutturazione della vita sociale, un processo segnato da una distanza crescente fra la strutturazione attuale del lavoro e della vita sociale, e la maniera in cui essi potrebbero venire strutturati in assenza del capitale. Marx trasforma un teorema di economia politica - che molti hanno preso come un'indicazione dei limiti economici del capitale laddove si tratta di un'espressione superficiale di una dinamica storica più fondamentale. La forza della sua critica non risiede tanto nel "provare" l'inevitabile collasso economico del capitalismo, quanto nel disvelare una crescente disparità fra quello che è e quello che potrebbe essere, una disparità che costituisce le condizioni della possibilità oggettiva/soggettiva di un diverso ordinamento della vita sociale. L'idea per cui tale disparità, in quanto disparità evidente, permetterebbe un'indagine sulla genesi storica delle sensibilità, delle necessità e degli immaginari che vanno al di là delle considerazioni della distribuzione o degli interessi materiali diretti. In altre parole, la contraddizione crescente del capitalismo compresa in questa maniera (in forma non economicista) generà la possibilità di un futuro qualitativamente diverso, come dimensione immanente del presente.
Tuttavia, questo livello di considerazione è assente in Arrighi, così come in Brenner. Quindi, anche le categorie che sono essenziali per la critica di Marx - valore, merce, capitale - sono fondamentalmente assenti oppure comprese in forma implicita in restrittivi termini economici. Così, per esempio, quando Brenner prende in esame la trattazione fatta da Marx della caduta tendenziale del tasso di profitto, egli afferma che, secondo Marx, la crescita della composizione organica del capitale porta ad un aumento del rapporto prodotto/lavoro, che è insufficiente a controbilanciare la caduta parallela nel rapporto prodotto/capitale, che essa stessa produce. Pertanto, il tasso di profitto cade perché la produttività globale dovrebbe cadere. Quest'interpretazione fonde completamente valore e valore d'uso in Marx, oscurando l'affermazione di Marx per cui un aumento nella produttività può portare ad una diminuzione nel plusvalore. Questo, però, significa, più fondamentalmente, che essa non riconosce l'analisi del valore fatta da Marx come l'analisi di una forma di ricchezza e di vita sociale storicamente specifica, possibilmente transitoria. Di conseguenza, la traiettoria storica del capitalismo in direzione di una possibile trasformazione qualitativa, come viene analizzata da Marx, si riduce ad una analisi economica delle crisi.
Arrighi, da parte sua, sostiene che ciò che egli chiama la "la versione di Marx della 'legge' di caduta tendenziale del saggio di profitto" era identica alla tesi di Adam Smith riguardo al tasso di profitto. Secondo Arrighi, sia Ricardo che Marx hanno accettato integralmente la tesi di Smith. L'unica differenza è quella per cui Marx ha criticato la versione di Smith, della "legge", come troppo pessimista riguardo al potenziale di lungo periodo del capitalismo al fine di promuovere lo sviluppo delle forze produttive della società. Tuttavia, quest'equiparazione di Smith e Marx significa che Arrighi fonde anche l'economia politica e la sua critica, vale a dire, una comprensione trans-storica del valore in quanto ricchezza con la comprensione del valore in quanto forma di ricchezza storicamente specifica al capitalismo.
L'approccio di Arrighi introduce effettivamente una dimensione molto importante nell'analisi del capitalismo - quella dello Stato, o meglio, del sistema statale. Lo fa, tuttavia, a detrimento delle dimensioni centrali di una teoria critica del capitalismo che punti verso la possibilità di un'altra forma di vita. Lo stesso Arrighi nota che il suo libro ha un focus ristretto, escludendo la considerazione di questioni come la lotta di classe. Ma la limitazione a cui si riferisce non è meramente empirica. Data la struttura teorica del libro, anche se Arrighi introducesse tali questioni, non potrebbe trattarle in forma coerentemente relazionata al suo approccio.
Non è in discussione il fatto se Arrighi o Brenner siano fedeli ad un dogma rivelato ("fondamentalista"), ma se i loro approcci siano interamente adeguati all'oggetto delle loro indagini - la dinamica del capitalismo contemporaneo. Le considerazioni che ho delineato cercano di chiarire la differenza fra tali prospettive di economia politica critica, focalizzata su temi economici, ed il progetto di critica dell'economia politica.
Anche David Harvey, ne "La crisi della modernità", enfatizza il predominio della finanziarizzazione discutendo del periodo a partire dal 1973. La trattazione che fa Harvey della finanziarizzazione, tuttavia, è meno centrata sullo Stato rispetto a quella di Arrighi, il quale rimane legato alla questione degli egemoni in ascesa ed in declino. Infatti, Harvey enfatizza il fatto che, nel mondo contemporaneo, il capitale non ha un locus o una posizione determinata, ma è diffuso e globale. Come risultato della concorrenza universale fra i capitali, differenze marginali nei tassi d profitto diventano sempre meno importanti, con significative conseguenze per i livelli salariali nei paesi metropolitani, a causa di un'estensione globale diseguale del lavoro salariato e della direzione e del volume dei flussi di capitali globali. Tali flussi, secondo Harvey, pongono in atto una forma di disciplina che è molto più diffusa ed efficace di quanto possa essere qualsiasi istituzione governativa.
Diversamente da Arrighi e Brenner, Harvey fa ricorso ad una teoria del capitale al fine di chiarire ciò che egli considera come un cambiamento epocale nella cultura così come nelle pratiche politico-economiche. Tenta di affrontare il periodo a partire dal 1973, non solo in termini politico-economici, ma anche in termini di configurazione modificata della vita. Inoltre, nel farlo avendo come riferimento una teoria del capitale, con le sue distinzioni fra superficie e struttura profonda e fra valorizzazione e processi lavorativi, Harvey è in grado di contrapporsi criticamente agli approcci post-industriali, argomentando che ciò che essi intendono come una nuova epoca è soltanto un elemento di una dinamica più complessa di restrizioni, continuità e mutazione. Così, per esempio, quando considera le trasformazioni del capitalismo nei decenni recenti, Harvey si concentra sulle domande di valorizzazione che mediano la produzione, anziché sulla natura dei processi lavorativi in maniera non mediata. Quindi, egli caratterizza le più nuove configurazioni del capitalismo in termini di "accumulazione flessibile", invece di utilizzare in termine di "specializzazione flessibile", più orientato ai processi lavorativi. In questo modo, Harvey è in grado di dimostrare che quest'ultima fase di sviluppo capitalista dà luogo a tutto un insieme di pratiche produttive - dal risorgere del super-sfruttamento del lavoro [sweatshops] fino alla robotica - che in superficie appaiono antagonistiche e che non possono essere comprese adeguatamente come teorie post-industriali con il loro focus unilaterale sui processi lavorativi, Quest'approccio distingue la teoria critica del capitalismo da una qualsiasi teoria dello sviluppo tecnologico lineare e, naturalmente, da qualsiasi teoria del determinismo tecnologico.
Allo stesso modo, focalizzandosi sul capitale, Harvey è in gradi di dimostrare che questa nuova fase del capitalismo comporta una dialettica complessa di decentralizzazione e di centralizzazione, di eterogeneità e di omogeneità. Su questa base, Harvey attua una critica severa degli approcci postmoderni che isolano un lato di questa dialettica, confondendo, perciò, gli sviluppi in corso con una rottura liberatrice rispetto al passato. Nel comprendere criticamente l'ordine esistente soltanto in termini di centralizzazione e di omogeneità, tali approcci celebrano la decentralizzazione e l'eterogeneità anch'esse generate dal capitalismo contemporaneo. Lungi dall'essere critici, gli approcci postmoderni, secondo Harvey, sono espressioni di una nuova configurazione del capitale che non comprendono. In questo modo, servono ad oscurare e a difendere il capitale nelle sue manifestazioni più nuove.
Cercando di mettere in relazione i cambiamenti culturali postmoderne con una nuova configurazione del capitale, Harvey va al di là delle posizioni che comprendono il capitalismo soltanto in termini economici. Anche il suo approccio alla relazione fra cultura e capitalismo va oltre la teoria della regolazione, che cerca di fatto di prendere conoscenza della cultura come momento costitutivo di una data tappa del capitalismo, ma che lo fa assumendo una relazione completamente contingente fra cultura e capitalismo, sulla base di una comprensione della cultura che è essenzialmente vuota. Mentre quest'ultimo approccio fornisce un'analisi funzionalista della relazione fra le forme culturali e qualsiasi configurazione su larga scala del capitalismo, Harvey cerca di relazionarli intrinsecamente.
L'approccio di Harvey pone in forma esplicita la questione della dinamica storica. Il suo argomento per cui nei decenni passati abbiamo assistito all'emergere di una nuova configurazione del capitalismo ci ricorda che quest'emergenza comporta un processo di cambiamento (una nuova configurazione) e di continuità (capitalismo). Nel distinguere le forme superficiali dalle forme fondamentali del capitalismo, egli sottolinea anche come quello che rimane inalterato è un elemento centrale del capitalismo.
Queste considerazioni aiutano a chiarire alcuni elementi del capitalismo e l'importanza dell'analisi del capitale. Visto in maniera retrospettiva, il dominio del capitale è esistito in varie configurazioni storiche, a partire dalla forma più mercantile fino alle forme liberali del XIX secolo, quelle statali del XX secolo e, ora, le forme globali neoliberiste. Queste configurazioni mutevoli indicano che il capitalismo non può essere identificato completamente con nessuna delle sue configurazioni. Allo stesso tempo, riferirsi a queste diverse configurazioni in quanto forme del capitalismo implica che alla base di tutte vi sia un nucleo caratteristico, il capitale.
Questo, quindi, suggerisce che il nucleo del capitalismo produce le sue diverse configurazioni storiche. Sebbene un'analisi completa del carattere storicamente dinamico del capitalismo non sia possibile nello spazio di questo saggio, va notato che si tratta di una dialettica complessa di mutamento e riproduzione, per mezzo della quale gli elementi centrali del capitalismo producono mutazioni e, allo stesso tempo, si riproducono. Questa dinamica dialettica si basa sulla distinzione fra superficie e struttura profonda del capitalismo, e rende accessibile la possibilità di un futuro al di là del capitale, mentre riproduce il nucleo di base del capitalismo e, per mezzo di esso, ostacola la realizzazione del futuro.
L'approccio che sto delineando, allora, non presuppone l'esistenza di una dinamica storica, intesa come caratteristica della vita sociale umana, ma analizza la forma di dominio sociale intrinseca alla moderna società capitalista come produttrice di una dinamica storica. Vale a dire, essa basa questa dinamica sulle forme sociali storicamente specifiche che sono al cuore del capitalismo - come la merce ed il capitale. Nel fondare la dinamica storica della moderna società capitalista nelle forme sociali storicamente specifiche, quest'approccio cerca di superare l'opposizione fra la concezione di una logica trans-storica della storia ed il suo relativo complemento, ossia una concezione trans-storica della possibilità storica. Direi che un tale approccio dialettico non-lineare permette una teoria dello sviluppo capitalista più sofisticata di quelle che rimangono dentro la struttura teorica dell'opposizione tradizionale, dualista, essenzialmente metafisica, fra determinismo e contingenza.
L'approccio di Harvey indica tali temi. Ma, la sua elaborazione a proposito del nucleo del capitalismo è tale da escludere aspetti importanti di una teoria critica del capitale o, quanto meno, di svilupparli assai poco. Per Harvey, ci sono tre elementi centrali nel capitalismo: esso è orientato alla crescita, si basa sullo sfruttamento del lavoro vivo nella produzione, ed è necessariamente dinamico dal punto di vista tecnologico ed organizzativo. Questi tre fattori centrali sono, tuttavia, incoerenti. Di conseguenza, lo sviluppo capitalista è caratterizzato da una tendenza alla sovraccumulazione, che lo rende propenso alla crisi. Storicamente, allora, il problema del capitalismo è diventato l'amministrazione della sovraccumulazione. Sulla base di quest'analisi, Harvey procede poi ad analizzare la transizione dal fordismo al post-fordismo.
Questa comprensione del nucleo del capitalismo permette ad Harvey di fare una distinzione fra struttura profonda e superficie, a partire dalla quale formula la sua critica degli approcci postmoderni, e ad analizzare i vincoli e gli imperativi che caratterizzano lo sviluppo del capitalismo da un modo di regolazione all'altro. Tuttavia, la sua attenzione al carattere di propensione alla crisi, del capitalismo, non esamina la distanza crescente fra la forma che assume la vita sociale sotto il capitalismo e la forma che potrebbe avere, se non ci fosse il capitalismo. Un approccio che problematizzasse più esplicitamente la categoria del capitale, e che la collocasse al suo centro, potrebbe mettere a fuoco con più rigore una tale distanza.
La differenza fra i due approcci diventa chiara in relazione al tema del rapporto fra le forme di soggettività e di oggettività nel capitalismo. Harvey tratta le concezioni mutevoli di spazio e tempo, ad esempio, come reazioni ai mutamenti del capitalismo. Il capitalismo realizza ciò che Harvey definisce compressioni spazio-temporali. Esse alterano le esperienze dello spazio e del tempo che le persone fanno, esperienze che vengono espresse culturalmente e sulle quali si riflette teoricamente.
Per quanto chiarificatrice possa essere l'analisi di Harvey, la sua enfasi sull'esperienza come mediatrice fra capitalismo e cultura rimane fondamentalmente intrinseca alle forme sociali espresse dalle categorie marxiane. In tal modo, le manca la dimensione epistemologica/soggettiva di quelle categorie, che le possano permettere di affrontare una maggior quantità di assunti riguardanti le forme di conoscenza e di soggettività. Per esempio, l'approccio categoriale può affrontare altre teorie dell'economia o della storia, in quanto espressioni equivoche radicate come possibilità nelle forme sociali stesse. Un simile approccio non intende soltanto spiegare percezioni e teorie sul mondo, come quelle di Smith, di Ricardo o di Hegel, come non del tutto adeguate ai loro oggetti; ma cerca anche di fondare la possibilità stessa della critica. Questa è evidentemente in rapporto con la questione della creazione storica, da parte del capitalismo, delle necessità e delle sensibilità che puntano oltre il capitalismo. Un tale approccio categoriale parla, quindi, di forme di soggettività come intrinseche alle categorie stesse.
Le differenze fra questi due approcci diventano ancora più evidenti quando si considera l'analisi di Harveu a proposito del postmodernismo e del capitalismo. Quando egli mette in rapporto i due, tratta implicitamente in capitalismo come unidimensionale. In altri termini, Harvey non tratta il capitale come qualcosa che, nel ricostituirsi, punti al di là di sé stesso. Vale a dire, egli non si chiede se anche il postmodernismo possegga un momento emancipatore, sebbene molto diverso da quelli espressi dalle sue auto-comprensioni postmoderne. Dentro la struttura teorica che sto delineando, il postmodernismo potrebbe essere compreso come un tipo di post-capitalismo prematuro, che indica possibilità generali, ma non realizzate, nel capitalismo. Allo stesso tempo, per il fatto che il postmodernismo non comprende il suo contesto, esso può servire come un'ideologia di legittimazione per la nuova configurazione del capitalismo, del quale esso è parte.
Questo porta ad una questione generale con la quale le teorie critiche del capitalismo devono confrontarsi. In una transizione globale precedente del capitalismo, i marxisti spesso hanno opposto la pianificazione razionale generale all'irrazionalità anarchica del mercato. Invece di puntare necessariamente al di là del capitalismo, tuttavia, tali critiche il più delle volte hanno aiutato a legittimare il susseguente capitalismo centrato sullo Stato. Allo stesso modo, l'ipostasi contemporanea della differenza, dell'eterogeneità e dell'ibridazione non punta necessariamente oltre il capitalismo, ma può servire da velo ed a legittimare una nuova forma globale che combina decentralizzazione ed eterogeneità della produzione del consumo con una crescente centralizzazione del controllo e con l'omogeneità strutturale.
Ciascuna di queste posizioni, tuttavia, possiede anche un momento emancipatore. Il difficile è separare concettualmente la dimensione emancipatrice dalle possibilità create dal capitalismo di quelle forme di non-emancipazione o anti-emancipatrici in cui tale dimensione è stata generata. Una teoria critica del capitalismo dovrebbe essere in grado di rendere chiare in quanto forme di incomprensione, quegli approcci che confondono una dimensione della vita sociale generata dal capitalismo con il tutto. Nell'oscurare il nucleo di base del capitalismo in quanto forma di vita sociale, tali approcci sono emancipatori solo apparentemente. I loro orientamenti critici finiscono per promuovere e legittimare il dominio del capitale nelle sue nuove forme, quali il capitalismo centrato sullo Stato ed il capitalismo postmoderno. Questo non significa che il potenziale di emancipazione del coordinamento sociale generale, o del riconoscimento della differenza, non debba essere considerato. Ma questo potenziale può essere realizzato soltanto quando viene associato al superamento storico del capitale, il nucleo della nostra forma di vita sociale.
Nonostante tutti i loro vantaggi, i diversi approcci formulati da Brenner, Arrighi ed Harvey non riescono a chiarire completamente il nucleo storico del capitale in un modo che possa indicare la possibilità del suo superamento storico. Tuttavia, senza un'analisi del capitale che non sia ristretta al modo di distribuzione, ma che, da un lato, possa affrontare gli impulsi di emancipazione espressi dal marxismo tradizionale, e del postmodernismo, dall'altro lato, il nostro concetto di emancipazione continuerà ad oscillare fra un'omogeneizzazione generale (realizzata dal mercato e dallo Stato) ed un particolarismo, un'oscillazione che replica le stesse forme dualistiche della merce e del capitale.
- Moishe Postone - Pubblicato nel 2007, in "Political Economy and Global Capitalism: The 21st century, Present and Future" (Anthem Press) -
fonte: Blog da Boitempo