Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde
- Il problema della prassi, come evergreen di una critica tronca del capitalismo, e la storia delle sinistre -
di Robert Kurz
SOMMARIO: *1 - Il malessere nella teoria * 2- Adorno a proposito della prassi ridotta e della "pseudo-attività" * 3 - "Prassi teorica" e interpretazione reale del capitalismo * 4 - Trattamento della contraddizione e "prassi ideologica" * 5 - Capitalismo come trasformazione del mondo: critica affermativa e critica categoriale * 6 - Teoria della struttura e teoria dell'azione * 7 - "Modernizzazione ritardata" e il postulato di una "inseparabile unità" fra teoria e prassi * 8 - Ragione strumentale * 9 - Il punto di svolta della teoria dell'azione. Marxismo occidentale e "filosofia della prassi * 10 - Il *marxismo strutturalista" ed il politicismo della teoria dell'azione * 11 - Il pendolo di Foucault. Dal marxismo di partito all'ideologia di movimento * 12 - Il ritorno del "soggetto". Metafisica dei diritti umani e falsa autonomia * 13 - Noi siamo tutto. La miseria del (post-)operaismo * 14 - Dalla capitolazione dell'ideologia autoreferenziale del movimento al nuovo concetto della "prassi teorica *
9. La svolta della teoria dell'azione. Il marxismo occidentale e la "filosofia della prassi"
Nella critica di sinistra del capitalismo, si è prodotta, nella seconda metà del XX secolo (e già si erano visti i primi rudimenti di questo nel periodo fra le due guerre), una spaccatura, o quanto meno una differenziazione, che è stata molto più importante della rottura apparente, avvenuta in seno al marxismo di partito, fra la socialdemocrazia ed i bolscevichi. Per la periferia globale, il processo di "modernizzazione ritardata" è rimasto decisivo fino al suo collasso avvenuto nel corso della terza rivoluzione industriale. Le contraddizioni del "socialismo reale" dell'Est e dei regimi di sviluppo della "rivoluzione nazionale" nei paesi del Sud trovavano sostegno nell'orizzonte ideologico delle idee di trasformazione tradizionale dei partiti operai che si erano fatti Stato. Il marxismo-leninismo, paralizzato dogmaticamente, si stava sgretolando sotto la pressione della prassi economica delle "leggi" della produzione moderna delle merci e del mercato mondiale, orientato a fare continue concessioni tecnocratiche nei confronti della logica e della dinamica proprie delle categorie reali capitaliste non-superate, finché la facciata ideologica non andò velocemente in fumo al punto di svolta del 1989. Quasi dalla notte al giorno, i dogmatici marxisti-leninisti di facciata cambiarono pelle, diventando neoliberisti altrettanto dogmatici, nella realtà dei regimi mafiosi collassati, nello scenario in rovina della "modernizzazione ritardata".
Al contrario, nei paesi occidentali sviluppati sotto il capitalismo, l'impulso di modernizzazione del movimento operaio tradizionale aveva già cominciato ad esaurirsi a partire dalla prima guerra mondiale. E, dopo la sconfitta subita contro il fascismo ed il nazionalsocialismo, si poteva osservare una totale demoralizzazione delle sue idee di trasformazione. Nel fordismo del dopoguerra, la funzione di modernizzazione era passata, su larga scala, dal movimento operaio tradizionale, e dai suo apparati di partito, allo Stato di regolamentazione keynesiana, nel quale sindacati e partiti operai venivano integrati corporativamente, cessando di essere avanguardia storica. La socialdemocrazia si trasformava in un sistema di partiti del "popolo", il comunismo di partito si socialdemocratizzava, ed i funzionari del paradigma del marxismo di partito entravano in gran parte nella "classe politica" del patriarcato produttore di merci.
L'erosione del marxismo di partito in Occidente si presentava, pertanto, sotto una forma singolarmente opposta a quella del socialismo reale dell'Est e del Sud. I regimi "socialisti" (capitalisti di Stato) della "modernità ritardata", che solo in quel modo avevano potuto impiantare socialmente il "lavoro astratto" e le moderne relazioni di "scissione-valore", dovevano combattere, nel corso di questo processo, contro le contraddizioni della "economia politica" non superata. Per tale motivo, il loro trattamento specifico della contraddizione continuò, fino alla fine, ad essere accoppiato alla metafisica della legalità con caratteristiche quasi di scienza naturale, e mediata dalla teoria della struttura (nel senso ampio introdotto sopra), in modo che questi paesi, conseguentemente, finirono per sfociare, "in accordo con le leggi", nel capitalismo globale in crisi. Tuttavia, nei paesi occidentali, il "lavoro astratto" e le relazioni di scissione-valore erano diventate da tempo la "base naturale" della società; fin dall'inizio, qui le funzioni di "modernità ritardata" del movimento operaio e del marxismo di partito si erano limitate al livello giuridico-politico del trattamento della contraddizione, nel senso della "lotta per il riconoscimento" (inclusi i suoi campi d'azione nei sindacati e nello stato sociale); ossia, erano ridotte, nella terminologia tronca e meccanicistica del materialismo storico, a "sovrastruttura". Su questa linea si muoveva anche il processo di erosione ideologica in Occidente.
Sulla scia dell'estinzione della funzione di modernizzazione immanente a partire dalla prima guerra mondiale, si era sviluppata, in primo luogo ancora nell'ambito del marxismo di partito in corso di erosione, una formazione ideologica chiamata marxismo occidentale. Nonostante tutte le distinzioni e differenze interne - sulle quali qui non è possibile scendere nei dettagli - vi era un aspetto caratterizzante comune. Per il marxista inglese Perry Anderson - come osserva nel suo saggio sul tema - questo tratto era dato dal "silenzio intenzionale del marxismo occidentale su quelle aree che erano state al centro delle tradizioni classiche del materialismo storico" (Anderson, 1976). In primo luogo egli menziona "l'analisi delle leggi del movimento economico del modo di produzione capitalista".
Infatti, nel marxismo occidentale aveva prevalso una tendenza di successivo abbandono della critica dell'economia politica in senso stretto. Passata l'epoca delle guerre mondiali e della crisi economica mondiale, in Occidente si erano estinti i grandi dibattiti marxisti sulla teoria dell'accumulazione e della crisi, sulla "teoria economica" della trasformazione e sul socialismo/comunismo; di tali questioni erano rimasti solo dei combattimenti sporadici di retroguardia senza grande importanza. Una simile evoluzione, in Occidente, si era accompagnata esternamente alla prosperità fordista che aveva spinto in secondo piano tutte quelle questioni. Questo blocco ideologico continua ad avere effetto - a tutt'oggi, nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale - come "fede" della sinistra nella capacità immanente del capitalismo di auto-eternizzarsi. Naturalmente, il pauroso sviluppo del "socialismo reale", incluso il suo collasso, ha contribuito ad oscurare i vecchi paradigmi.
L'abbandono surrettizio delle "dure" questioni politico-economiche, e conseguentemente della problematica riguardo la forma sociale di base in generale, è stata una conseguenza, soprattutto, della logica interna dello stesso marxismo occidentale di modernizzazione, nel suo limitarsi alla sfera giuridico-politica del trattamento della contraddizione, nel cui ambito si è inscritta anche la sua comprensione tronca della critica dell'economia politica. Da questo nasce anche il fallimento della "rivoluzione" in Occidente che, in tal senso, era sprovvista di oggetto. Mancava qualsiasi criterio per la rivoluzione e per la trasformazione di un sistema, che era già un sistema sviluppato di "lavoro astratto" nel contesto del paradigma della modernizzazione immanente, ossia, del trattamento della contraddizione nel senso dell'ideologia della lotta di classe.
La svolta del marxismo occidentale venne preparata e motivata dalla cosiddetta "filosofia della prassi", designata anche come "pensiero della prassi", "concetto della prassi" o "teoria della prassi"; un concetto che è stato rappresentato, sotto differenti aspetti, principalmente da Ernst Bloch e da Antonio Gramsci, e che si è reso effettivo a più livelli. In primo luogo, in senso tradizionale marxista, "filosofia della prassi" significava rivendicare come oggetto dell'elaborazione teorica - in opposizione esterna alla riflessione meramente "storico-spirituale" - le relazioni di vita e di riproduzione "vera" o "materiale", al fine di un intervento pratico. Questa è, certamente, una comprensione ineludibile del "materialismo storico", formulato dettagliatamente da Marx ed Engels ne "L'Ideologia Tedesca".
E si noti che quest'opera costituisce, accanto alla Tesi su Feuerbach, un riferimento centrale dei filosofi della prassi. Ma così, però, venne ampiamente offuscata la costituzione feticista della "vera" prassi della vita o della "attività della vita sensibile" (Tesi su Feuerbach), il cui concetto non era in alcun modo presente nell'Ideologia Tedesca, e che emerge solo con "Il Capitale" ed suoi lavori preparatori. Come conseguenza, a somiglianza di quanto avviene nel classico marxismo di partito, si evidenzia ancora il malinteso ancorato alle stesse Tesi su Feuerbach, che ipostatizza in forma non-critica "l'attività umana sensibile" e la prende come campo indeterminato per eccellenza della "prassi".
Ma cosa c'era di nuovo nella "filosofia della prassi" del marxismo occidentale? Con la sua interpretazione specifica delle Tesi su Feuerbach e dell'Ideologia Tedesca, la filosofia della prassi pretendeva di prelevare dal concetto di prassi un paradigma trasformato. La teoria marxiana in senso lato nasceva ad un alto livello di astrazione come "filosofia della prassi" (dell'agire sociale) per eccellenza, il cui carattere era stato fino a quel momento male interpretato. Era essenziale, per la nuova interpretazione, la comprensione per cui l'agire doveva essere liberato dal determinismo che lo aveva dominato fino ad allora. Così si esprimeva, per esempio, Gramsci nei Quaderni del Carcere: "Per quanto concerne la funzione storica esercitata dalla concezione del fatalismo della filosofia della prassi, si può qui pronunciarne il necrologio... La morte del 'fatalismo' e del 'meccanicismo' segna una grande svolta storica" (Gramsci, 1932/35). Con questo, si proclamava un movimento di sganciamento del marxismo occidentale nei confronti della metafisica della legalità fino ad allora vigente. Tuttavia, il problema della "legalità" dello sviluppo sociale non veniva trasformato in critica categoriale della costituzione feticista storica, ma veniva archiviato. Al suo posto, il concetto di "prassi" iniziava intanto una nuova carriera, che avrebbe avuto una trasformazione del tutto illusoria e, per lo più, ben più affermativa della ragione del pensiero marxista tradizionale.
Per la nuova comprensione diventava centrale il concetto di "economicismo". Nell'opinione della "filosofia della prassi", il marxismo fino ad allora vigente avrebbe dato un'importanza esagerata e meccanicistica al ruolo determinante della "economia". Ma questa critica era anche legata all'abbandono della critica dell'economia politica in senso stretto, constatato più tardi da Perry Anderson (che, da parte sua, seguiva un'argomentazione più tradizionale). In realtà si può legare "l'economicismo" marxista classico all'idea per cui lo sviluppo dell'accumulazione del capitale è stata erroneamente intesa come determinismo storico immediato, nella sua relazione con "l'economia" empirica e, nella maggioranza dei casi, complementato dalla "lotta di classe" ad essa accoppiata. Engels aveva già tentato una correzione di questo economicismo meccanicistico, col definire "l'economia" (oggettiva) come un "fattore" che sarebbe determinante solo "in ultima analisi", concetto che poi doveva essere modificato e trasformato nelle forme del percorso reale, mediante lo sviluppo (soggettivo) politico, ideologico e culturale, ecc.. Tuttavia, tale correzione era poco poco profonda e condivideva, nel fondo, alcuni falsi presupposti. Ciò si doveva principalmente al fatto che il problema della moderna costituzione feticista era rimasto, per Engels, un libro serrato con sette chiavi. Per questo aveva finito per fallire anche nella critica della determinazione "economica", ammorbidendo e modificando la metafisica della legalità-non-infranta solo mediante svolazzi retorici intorno alla determinazione economica "in ultima analisi".
Alla luce di una critica della matrice feticista a priori - una critica legata allo "altro" Marx - la critica dell'economicismo classico viene vista in modo completamente differente. Quel che è determinante non è "l'economia", né tanto meno la "lotta di classe" ad essa associata; né immediatamente né "in ultima istanza". Invece, "la conformità con la legge" sta nella matrice a priori della metafisica reale moderna e del contesto della sua forma; una matrice che serve da base a tutta l'azione nel capitalismo, incluso il suo trattamento della contraddizione, e che sempre viene riprodotta in questo agire (forma della merce e scissione sessuale, e la corrispondente identità della forma di pensiero, della forma di azione, della forma del soggetto, della forma della teoria, della forma della politica, ecc., in quanto forme di riproduzione). Questa costituzione ha radici molto più profonde di tutti i movimenti e di tutti gli sviluppi empirici (anche istituzionali) "nella" sua connessione. Non ha molto senso voler trasformare il problema in quello che sarebbe l'influenza e la penetrazione reciproca delle diverse sfere "relativamente autonomizzate" tra loro, o dei "sistemi parziali, o sotto-sistemi" (per usare la terminologia della teoria dei sistemi). Il concetto del tutto, o della totalità sociale, diventa così una mera "somma" delle sfere o aree parziali: il concetto del "sistema" diventa vuoto e finisce per rappresentare solo uno svolazzo retorico.
La definizione "dell'economia" come determinante - non importa se immediatamente o "in ultima istanza" - è una formulazione completamente tronca e distorta del problema, e rimane a-concettuale. La scissione-valore ha costituito, anzi, un'ampia categoria reale di base, a partire dalla quale, solo allora, quella "completa differenziazione" strutturale viene collocata nelle sfere sociali "relativamente autonome". "L'economia" in senso empirico non determina, ma è essa stessa determinata dalla matrice a priori sovrastante la costituzione feticista e dalla sua logica che produce una "legalità" secondo un modello quasi identico a quello delle api (anche in seno alla "economia"). Una critica adeguata di questa "legalità" si può costituire negando il modo di socializzazione in quanto tale; cosa che implica il dualismo esistente tra "economia" e "politica" in generale, e a cui è legata anche la scissione sessuale.
La critica tronca dell' "economicismo" fatta dalla filosofia della prassi condivideva, così come Engels, il presupposto equivocato; perciò c'era una frequente ripetizione del riferimento alla formulazione di Engels circa la "relativa autonomia" delle sfere o delle aree parziali della socializzazione capitalistica che, in quanto tale e nelle sua connessioni, finiva per essere lentamente posta fuori dal campo visivo. Per tale ragione, il "nuovo pensiero" dei filosofi della prassi non provoca una critica più grande e più profonda riguardo la matrice a priori della costituzione feticista, per mezzo della critica della metafisica della legalità e dell' "economicismo" classico. Invece, se ne distanzia, andando in un certo modo in un'altra direzione, nella direzione della corrente della teoria dell'azione dell'ideologia borghese.
E' stata questa la svolta fondamentale per la teoria dell'azione, in cui i dibattiti realizzati dal marxismo occidentale o dai filosofi della prassi sull'analisi delle "leggi del movimento economico del modo di produzione capitalista" hanno dato luogo all'enfasi "del soggetto", o al celebre "fattore soggettivo", connesso alle questioni della teoria della cultura e della conoscenza e/o epistemologica. Il positivismo della metafisica della legalità, derivato dal paradigma delle scienze naturali, è stato solo sostituito dal positivismo di una metafisica della volontà e dell'intenzionalità (adattata, nei filosofi della prassi, a sociologia delle classi), positivismo proveniente dallo storicismo, dalla filosofia della vita e dalla fenomenologia e/o dall'esistenzialismo. Pertanto, grosso modo, al posto dell'esecuzione della legalità storica, avevamo, oramai, volontà contro volontà, invece di azione contro e nonostante le "leggi"; ma sempre dentro la stessa costituzione della matrice a priori delle relazioni feticistiche non-infrante e ampiamente irriflesse. "In realtà", le "api" dovrebbero sempre essere "architetti", solo con "concetti" contrari, la cui origine rimane oscura.
Da qui, si propaga anche sull'erosione, avvenuta in senso contrario, del marxismo di partito dei socialismi reali dell'Est e del Sud, che finiranno per collassare. Mentre nell'Est e nel Sud, la "intenzionalità socialista" portava avanti con forza sempre maggiore una matrice a priori non superata, finendo per capitolare davanti alla "legalità" di questa, la svolta occidentale della teoria dell'azione verso la "prassi", ingannava sé stessa sul problema. Questo si rese possibile perché il marxismo occidentale non si trovava sotto la pressione di una supposta trasformazione reale (nella realtà, di un'implementazione "ritardata" delle relazioni di scissione-valore) e non si poneva in alcun modo il problema della trasformazione, ma cominciava, semmai, a perdersi nel trattamento della contraddizione e nell'interpretazione reale del capitalismo, sulla base di una formazione altamente sviluppata del "lavoro astratto" e della socializzazione della scissione-valore. In questo modo, l'opposizione interna, dicotomica rispetto all'ideologia della teoria sociale borghese, si riprodusse nel marxismo occidentale solo come transizione verso l'altro polo, il polo della teoria dell'azione.
Gramsci aveva tipicamente designato la Rivoluzione d'Ottobre con una celebre formula, come una "rivoluzione contro 'Il Capitale' di Karl Marx". Senza nessuna intenzione critica, solo nel senso di supposto "trionfo della volontà", compreso alla luce della teoria dell'azione, sulla metafisica della legalità e sul "meccanicismo economico". Le contraddizioni successive dello sviluppo del socialismo reale lo interessavano poco; quel che gli interessava era soprattutto la sovversione rivoluzionaria apparentemente realizzata a livello di rapporti di forza nella "lotta di classe" (nonostante le "leggi" e anche contro di esse), mentre la questione delle forme sociali di base cominciava ad uscire di scena, essendo percepita solo nel senso di "istituzioni" giuridico-politiche.
La formula della "unità inseparabile" non-critica e non-mediata fra "teoria e prassi" - che può solo sfociare sempre nel legame coi modelli di azione ontologizzati nella matrice a priori - aveva bisogno di essere riprodotta dalla ragione; a maggior ragione ora, nella versione della teoria dell'azione della metafisica dell’intenzionalità. Così, anche Gramsci aveva postulato "il rafforzamento energico di un'unità fra teoria e prassi". Formulazione somigliante a quella di Ernst Bloch, nel suo "Il principio speranza. Sulle Tesi su Feuerbach": "Così, alla fine il pensiero giusto diventa la stessa cosa che fare giustizia". E' vero che Bloch, nelle sue riflessioni sulle Tesi su Feuerbach, si volge contro l'interpretazione pragmatica-praticante di una "autocoscienza pseudo-attiva", in una certa misura una risonanza di Adorno, e che vuole delimitare la relazione marxista fra teoria e prassi nella comprensione borghese "...come mero 'utilizzo' della teoria". Ma con questo non pretendeva criticare il legame della teoria con una prassi prestabilita, ontologizzata, anzi al contrario: la teoria borghese, secondo Bloch, "... semplicemente accondiscendeva ad un "utilizzo" della prassi, come fa un sovrano con il popolo, nella migliore delle ipotesi come un'idea per la sua valorizzazione". Ma la "valorizzazione" come criterio indica già proprio la subordinazione della teoria ad un fine ontologicamente prestabilito, irriflesso, e non per la sua "arroganza borghese" (padronale), come vuole suggerire Bloch. Se la teoria, secondo la comprensione di Bloch, non deve "condiscendere" con la prassi, allora con questo si vuole dire che la teoria, inversamente, deve fondersi con la prassi (lotta di classe riformulata alla luce della teoria dell'azione), e non che essa necessita di distanza in relazione al trattamento della contraddizione immanente. Nel richiedere alla teoria, com’è il caso, la "parzialità del punto di vista della classe rivoluzionaria", e nel celebrare la "principale opera" di Marx come "pura istruzione per l'azione", la sua stessa comprensione della teoria si situa già nell'orizzonte dell'utilizzo della ragione strumentale, la cui costituzione feticista rimane tutta da riflettere.
In tal modo non è possibile ottenere né un concetto critico della "forma teoria", come "forma" borghese della "coscienza reificata", né una critica del riferimento legittimante e dell'interpretazione reale vincolata ad un tale forma, per il modo in cui tale riferimento si trova già collocato di per sé in ogni postulato di una "unità" a priori di "teoria e prassi", e ancora di più in un postulato modellato in conformità con la teoria dell'azione. Per questa ragione, come avviene nel marxismo tradizionale di partito, i filosofi della prassi restano incapaci di far emergere la differenza tra prassi dominante (feticistica) della vita, "controprassi" particolare in quanto trattamento della contraddizione nel campo dell'immanenza capitalistica, e prassi trascendente che eccede tutto questo (rompendo la connessione costitutiva della forma). E' chiaro che così anche il concetto di critica non possa essere separato dal suo contenuto immanente, ereditato dalla storia dell'imposizione capitalistica, per essere trasformato in critica categoriale. Più che mai, la teoria rimane "bloccata" nel trattamento della contraddizione immanente, solo che ora svolta nella teoria dell'azione.
La prassi è la prassi è la prassi ...
Naturalmente la metafisica del lavoro, in quanto ontologia del lavoro, ha continuato senza interruzioni, come osserva Bloch facendo riferimento al Marx teorico della modernizzazione com’è nella comprensione del movimento operaio, per poi definire l'ontologia borghese del lavoro, da Hobbes fino a Hegel, come "fase preliminare" di un "materialismo ancora contemplativo" o di un "idealismo oggettivo": "In questo contesto, Marx naturalmente diceva chiaro che l'attività borghese non è ancora un'attività completa, giusta(!). Essa non può esserlo, giacché manca dell'apparenza del lavoro, poiché la produzione di valore non parte mai dall'imprenditore, ma dal contadino, dall'artigiano, infine dal salariato". E' di un candore impressionante il modo in cui il problema ovvio di un'ontologia del lavoro comune alla modernità, che sottolinea il fatto che il marxismo del movimento operaio è parte della forma borghese, venga reinterpretato come differenza apparente secondo la quale l'ontologia borghese del lavoro non sarebbe nemmeno "giusta". Per Bloch, così come per il marxismo tradizionale, la "vera" metafisica del lavoro, quella che dovrebbe soppiantare "l'apparenza del lavoro", risulterà solo dall'identificazione con la "vera produzione di valore" da parte dei dipendenti, facendo notare, di passaggio, che emerge anche un ontologia della forma del valore che viene estesa a tutti i contadini ed artigiani (premoderni).
Tuttavia, l'ontologia del lavoro di Bloch già non indica più alcun ricorso alla critica dell'economia politica, né alla teoria dell'accumulazione e/o della crisi, né alla problematica della trasformazione sociale, dove la metafisica della legalità del marxismo tradizionale aveva fatto grandi sforzi per poi comunque finire col fallimento del "socialismo reale" (in ogni caso, avendo come riferimento la pretesa di un superamento del capitalismo). L'ontologia del lavoro si nasconde ora dietro un'ontologia della prassi storicamente indeterminata, generalizzata, ampliata, a cui viene adattata la teoria dell'azione, e a partire dalla quale la matrice a priori della costituzione feticista viene sistematicamente ridotta. Per la problematica della trasformazione, nella misura in cui essa ancora sorge, questo significa, in un certo modo, ricadere nel pensiero utopico. Più che mai, la relazione di immanenza e trascendenza, che bara con le contraddizioni dell'ontologia del lavoro, rimane indeterminata e si disfa nell'espressione nebulosa dell'"utopico" (Bloch). La questione di un vero superamento della costituzione feticista capitalista viene così abortita, con una maggior sicumera tanto più dovuta ad un contenuto "utopico" suppostamente trascendente che cerca di trovare significati nascosti in una "controprassi" limitata dal trattamento della contraddizione immanente, prima che la prassi possa arrivare alla soglia di una critica categoriale. Per questo motivo, le cosiddette "utopie concrete", preferite dai filosofi della prassi di diverse tendenze, si impantanano in fattori particolari senza fondamento, che non scalfiscono nemmeno il modo di socializzazione capitalista, dove allora le forme feticistiche di un tale modo dovrebbero essere reinterpretate o "ridefinite" in una qualche forma più simpatica per gli esseri umani. Quindi, il "concreto" dell'utopico, o è sempre orientato verso un'azione socialmente irrilevante nelle nicchie dell'astrazione reale capitalista, oppure quest'ultima viene rivestita di abiti illusoriamente ingannevoli.
Ma la ricaduta nell'utopismo diffuso, traboccante di metafore sentimentaloidi (per esempio, attraverso la mobilitazione del concetto di Heimat (patria, in Bloch), costituisce solo un aspetto parziale della svolta della teoria dell'azione. Maggior importanza e maggior portata, ha avuto la reinterpretazione (al posto del superamento) del politicismo marxista nel quadro di questo cambiamento. Il collegamento della "forma teoria", non compresa nel suo carattere borghese, col trattamento della contraddizione immanente ha portato, com'è noto, alla sua integrazione nella "forma politica", ugualmente borghese; e, a partire da questo, anche tra i filosofi della prassi questa continua ad essere politica di partito. Tuttavia, a partire dalla svolta della teoria dell'azione, e nel contesto della critica tronca dello "economicismo", ha fatto seguito un ampliamento, una dilatazione e, in un certo qual modo, un'autonomizzazione del concetto di politica, come viene annunciato in Gramsci: "Così si arriva anche all'uguaglianza, o all'equiparazione, fra 'filosofia e politica', tra pensare ed agire, ossia, si arriva ad una filosofia della prassi. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie... e l'unica 'filosofia' è la storia in azione, cioè, la vita stessa" (Gramsci, 1930/31). Già dalla terminologia si rivela qui una certa dipendenza dal pensiero della filosofia della vita, nel cui orizzonte vengono interpretati i concetti dell'Ideologia Tedesca. L'immediata "equiparazione tra pensare e agire" (in realtà, "l'annodare" la teoria dell'identità negativa a priori della forma di pensiero con la forma dell'azione) dovrebbe trasformare la riflessione direttamente in "storia in azione", dovendosi notare che le parole "la vita stessa" compaiono al posto della critica della costituzione sociale. L'enunciato chiave è: "tutto è politica".
Con questo si rende evidente la differenza decisiva rispetto al pensiero fino ad allora vigente del marxismo di partito nel quadro della metafisica della legalità. In quella comprensione, la politica non era assolutamente "tutto", ma semmai, essa stessa, un "mezzo per il fine", cui la teoria, a sua volta era subordinata in forma strumentalmente leggittimatrice. Il "fine" avrebbe dovuto costituirsi nella trasformazione "conforme alle leggi" e "storicamente necessaria" (determinata) in una riproduzione "pianificata socialisticamente". Ma dal momento che tale finalità rimaneva sotto la soglia della critica categoriale e continuava a presupporre ontologisticamente le forme capitalistiche, essa aveva bisogno di venir fuori nella proclamazione illusoria di un comando della politica e dello statalismo "socialista e/o proletario" sul contesto della forma positivamente affermato. Tuttavia, o proprio per questa ragione, continuava ad esistere una distinzione di contenuto fra politica e trasformazione sociale, tra mezzo e fine. Nel senso di un superamento emancipatore della moderna costituzione feticista, si trattava di un mezzo impraticabile per un fine inattuabile, spiegabile solo a partire dalla costellazione della "modernizzazione ritardata". Ciò nonostante, quando la svolta del marxismo occidentale verso la teoria dell'azione elimina tutta la questione, affogando in una critica tronca dello "economicismo", rimane solo la politica, per così dire, "sola in casa". La formula "tutto è politica" mostra il "mezzo" politica trasformato nel suo stesso "fine", e quindi viene oscurato ed offuscato il fine in sé stesso presupposto del "soggetto automatico", ancor più di quanto lo era nella comprensione tronca del marxismo tradizionale.
Pertanto, la svolta della teoria dell'azione strappò il politicismo marxista tradizionale dal suo ancoraggio nella problematica dell'accumulazione, della crisi e della trasformazione, per ipostatizzarlo come mai prima. La fioritura aconcettuale della "ultima istanza" economica non era già più solo un puntello, per smettere definitivamente di prendere sul serio il contesto della forma sociale di base e trasformarlo in un mero rumore di fondo ontologico. Rimaneva l'enfasi sulla "relativa autonomia" (che diventava parola-chiave inflazionata) delle sfere, delle aree parziali e dei "sotto-sistemi" sociali, della cultura, ecc. e, specialmente, della politica. Il concetto gonfiato di politica, diventava tautologico, e perfino autistico. Semplicemente, non si poteva indagare su che cosa dovesse realmente contenere l'obiettivo di un superamento sociale del capitalismo; la determinazione del contenuto veniva totalmente sostituita da una metafisica della volontà e dell'intenzionalità fondata sulla teoria dell'azione. Questa comprensione realmente assurda assomigliava fatalmente alla metafisica della "determinazione" heideggeriana, molte volte oggetto di scherno: "siamo tristemente determinati, solo non sappiamo a che cosa". La politica è la politica è la politica.
Ecco perché si vede anche in Gramsci, per esempio, il già menzionato ampio disinteresse per le contraddizioni della "società della pianificazioni" burocratico-statale sovietica (la quale, in ogni caso, venne percepita nel senso di un democraticismo superficiale, senza intervenire sul paradosso della "pianificazione del valore"), e la riduzione dell'interesse solo al rivoluzionamento delle "relazioni politiche" in senso lato. "Tutto è politica" significava anche: "tutto è relazioni di potere", o "rapporti di forza", fino ai capillari della società. Il contenuto feticista del potere, il "soggetto automatico" della valorizzazione del valore, il "lavoro astratto" e la relazione di scissione sessuale, ossia, il contesto della forma sociale, come contenuto a partire dal quale viene generato potere in generale, tutto questo veniva completamento ignorato. Il tradizionale sociologismo delle "classi", che aveva ancora una relazione positivisticamente ridotta con la problematica della forma, veniva ora del tutto liberato e "disconnesso" da tutto questo. La metafisica dell'intenzionalità della teoria dell'azione aveva disciolto la socialità in generale in relazioni di volontà; perciò, volontà contro volontà, come "classe contro classe" e come riconfigurazione infinita dei "rapporti di forza", senza il presupposto della costituzione della forma e senza l'obiettivo di una rottura con tale costituzione.
In questo contesto, Gramsci aveva coniato un concetto molto laborioso di "egemonia", o di eterna lotta intorno ad essa, che aveva inghiottito la forma feticista comune della volontà e, con essa, il concetto di relazione capitalistica, così come il concetto di prassi: "La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (ossia, la coscienza politica), è la prima fase di un'autocoscienza progressiva che va al di là di questo, in cui teoria e prassi costituiscono finalmente un'unità...E proprio per questo, va sottolineato come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenti, più che un progresso politico-pratico, un grande progresso filosofico, perché necessariamente suppone e compone un'unità intellettuale..." (Gramsci, 1932/35). Coscienza in generale e critica in generale si trasformano in pura "coscienza politica" spogliata dal suo condizionamento. Mentre nel "socialismo reale" la politica veniva gradualmente ritirandosi davanti alle pseudo-leggi naturali della costituzione feticista, per capitolare alla fine, incondizionatamente, di fronte ad esse, nel marxismo occidentale accadeva esattamente l'inverso, laddove la stessa costituzione sociale non-superata si disfaceva ideologicamente poco a poco nella "politica", e ignorando di fatto sistematicamente lo sviluppo fatale del socialismo reale. La proclamata "unità fra teoria e prassi" sotto la formula "tutto è politica", della teoria dell'azione, si trasforma nella parola d'ordine "la politica è tutto". Di conseguenza, la teoria viene più che mai degradata alla condizione di teoria leggittimatrice di una "prassi politica" - a priori presupposta alla teoria - di trattamento della contraddizione immanente, ma che ora è una politica strappata alla sua costellazione della "modernizzazione ritardata" senza più ragione di essere, una politica che si è trasformata in un punto-morto storico delle eterne "lotte" nell'eterno parallelogrammo dei "rapporti di forza". In realtà, anche questa è stata una capitolazione, ma una capitolazione esitante, negata e finta: un auto-compromesso implicito con la moderna costituzione feticista definitivamente offuscata, nonostante ancora tuonasse nel petto come "coscienza di lotta", laddove il petto gonfio della classe proletaria cominciasse ad apparire già come un petto di pollo. Le lotte sono le lotte sono le lotte.
9 – segue -
Robert Kurz
fonte: EXIT!
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