mercoledì 15 ottobre 2014

Comincia lo spettacolo!

debord

Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde
- Il problema della prassi, come evergreen di una critica tronca del capitalismo, e la storia delle sinistre -
di Robert Kurz

SOMMARIO: *1 - Il malessere nella teoria * 2- Adorno a proposito della prassi ridotta e della "pseudo-attività" * 3 - "Prassi teorica" e interpretazione reale del capitalismo * 4 - Trattamento della contraddizione e "prassi ideologica" * 5 - Capitalismo come trasformazione del mondo: critica affermativa e critica categoriale * 6 - Teoria della struttura e teoria dell'azione * 7 - "Modernizzazione ritardata" e il postulato di una "inseparabile unità" fra teoria e prassi * 8 - Ragione strumentale * 9 - Il punto di svolta della teoria dell'azione. Marxismo occidentale e "filosofia della prassi * 10 - Il *marxismo strutturalista" ed il politicismo della teoria dell'azione * 11 - Il pendolo di Foucault. Dal marxismo di partito all'ideologia di movimento * 12 - Il ritorno del "soggetto". Metafisica dei diritti umani e falsa autonomia * 13 - Noi siamo tutto. La miseria del (post-)operaismo * 14 - Dalla capitolazione dell'ideologia autoreferenziale del movimento al nuovo concetto della "prassi teorica *

12. Il ritorno del "soggetto". Metafisica dei diritti umani e falsa autonomia

Nell'epoca dello sviluppo, spesso interrotto, del pensiero di sinistra da Gramsci a Foucault, il cui legame interno non è stato fino ad oggi criticamente elaborato per mancanza di un sufficiente concetto della moderna costituzione feticista nel contesto della "modernizzazione ritardata", c'è stata una posizione che non ha di certo lavorato alla svolta della teoria dell'azione del marxismo occidentale (ivi compreso anche il movimento strutturalista). E' stata la Teoria Critica della cosiddetta Scuola di Francoforte, soprattutto nella formulazione dettagliata di Adorno. E' vero che Adorno è stato incluso molte volte nel marxismo occidentale (per esempio, da Perry Anderson). Ma una tale percezione superficiale non arriva a vedere le differenze decisive. Come si è già fatto notare, è stato proprio Adorno a rifiutare il gioco, nel senso della critica radicale, della "unità" a priori "fra teoria e prassi" costante nel marxismo, sebbene non abbia approfondito il problema. Il suo concetto specifico di "prassi teorica", inoltre non si limitava, come nel caso di Althusser, al postulato superficiale di una "autonomia relativa" della teoria critica, in quanto "sfera", accanto alle altre, ma era mediato, almeno in embrione, da una tematizzazione della costituzione feticista. Da qui anche le citate osservazioni critiche a proposito della riduzione sociologica promossa dalla teoria dell'azione. Assai meno si è potuto sposare Adorno alla prassi ideologica post-strutturalista e all'ontologia foucaultiana del potere: mentre questa ha un riferimento essenziale nella filosofia di Heidegger, sulla linea dell'Ideologia Tedesca, la posizione rispetto ad Adorno era chiaramente quella di uno dei suoi maggiori nemici.
Lo stesso Adorno non ha affrontato sistematicamente il problema della matrice a priori sovrastante in quanto tale; non è questo il luogo per accertare i suoi deficit che, sotto quest'aspetto, sono in parte nella linea dell'ideologia della circolazione. Ma la sua teoria lascia aperta la questione fino alla fine ed è stata, in questo contesto, non solo oltre il marxismo tradizionale, ma anche oltre il marxismo occidentale, il quale l'ha semplicemente gettata via. Se, in seguito, questa problematica, che normalmente veniva offuscata, tornava a scintillare, quasi sempre questo avveniva in riferimento ad Adorno. La critica della scissione-valore, la cui elaborazione teorica si è diretta fondamentalmente per la prima volta verso quel livello, può essere compresa solo come trasformazione della teoria adorniana.
Questa teoria è esistita parallelamente ai lavori di Althusser e di Foucault negli anni '60; l'ultima grande opera di Adorno, la Dialettica Negativa, è stata pubblicata nel 1966. Quando si è formata la Nuova Sinistra, e prima del movimento del 1968, i testi della Scuola di Francoforte facevano parte dei riferimenti teorici centrali, nella Repubblica Federale Tedesca. Ma tale ricezione era stranamente mescolata con elementi marxisti tradizionali originari della socialdemocrazia di sinistra (per esempio in Oskar Negt, che fino ad oggi ancora vi si aggrappa nel Libro del Partito) e non solo. Soprattutto, anche la comprensibile enfasi data al movimento rese ricettivi i protagonisti nei confronti del ricorso diretto alla Tesi su Feuerbach nell'orizzonte della svolta verso la teoria dell'azione, svolta che, a maggior ragione, rimaneva del tutto irriflessa nella sinistra del 68. La ricezione di Adorno venne subordinata ad una pretesa di "prassi" diretta, e perciò, senza rispetto per il contenuto teorico. Il problema della costituzione della forma feticista, presente ma non elaborato in Adorno, appariva così marginalmente e, nella maggior parte delle volte, in formulazioni soprattutto esistenzialiste o morali. Invece, la pretesa della "prassi" nella teoria è stata fin dall'inizio rivolta in forma estremamente grezza contro la presunta mera "contemplazione" della Scuola di Francoforte.
Su tale questione, il vero e proprio dibattito avvenne dopo, con Habermas, dovendosi notare che non si trattò sintomaticamente di percezione del contenuto del pensiero critico nella gabbia del democraticamente ammissibile, ma si trattò soprattutto della "azione immediata", cui tutta la riflessione teorica doveva essere legata. E' per questo che Arnhelm Neususs, nella sua antologia intitolata "La sinistra risponde a a Jürgen Habermas", scrive contrattaccando: "E' indubitabile che Habermas abbia difeso posizioni molto progressiste, nella misura in cui l'interesse era quello di interpretare il mondo in maniera differente. Oggi è chiaro che il concetto di prassi da lui impiegato non è mai stato altro che una categoria teorica. Se la teoria cerca di divenire realmente pratica, allora diventa una seccatura per lui. Per lui, la trasformazione del mondo deve avvenire tramite la via contemplativa" (Neussus, 1968). Qui, il problema della relazione fra teoria e prassi viene assunto in maniera del tutto unidimensionale e diretto, senza alcuna differenziazione riguardo le diverse forme di prassi, e senza riflettere sulla relazione fra immanenza e trascendenza. Si può già vedere che il riferimento critico e continuato ad Adorno (anche contro Habermas) viene sepolto dal criterio di "azione".
Involontariamente, il famoso "leader studentesco" Rudi Dutschke ha messo in chiaro che questo punto di vista della "prassi" era legato alla svolta irriflessa verso la teoria dell'azione: "Tutto dipende dalla volontà cosciente delle persone di prendere finalmente coscienza della storia fatta sempre da loro stessi..., ossia, Professor Habermas, il suo oggettivismo non-concettualizzato fulmina il soggetto ai fini della sua emancipazione... io confido solo nelle attività concrete delle persone pratiche e non in un processo anonimo" (Dutschke, 1967). Dal punto di vista della critica del feticismo qui difesa, Dutschke presenta, come in un libro aperto, il modo in cui la dialettica reale capitalista dell'oggettivazione e della soggettivazione non viene trasformata criticamente, ma viene semplicemente ridotta alla metafisica dell'intenzionalità (l'accusa contro Habermas, la cui teoria era segnata sotto molti aspetti dalla teoria dell'azione, rivela ignoranza sotto quest'aspetto). Una tale critica tronca al vecchio oggettivismo della legalità, con cui Habermas viene identificato, non porta alla critica della forma, né pertanto alla critica della "forma soggetto", ma, al contrario, si dissolve del tutto in questo soggetto, sulla linea dei filosofi della prassi (Dutschke era vicino a Bloch). Il soggettivismo ugualmente non-concettualizzato, ma solo girato dall'altro lato, "fulmina" la "prassi teorica". Questo annodare la riflessione alle "attività concrete delle persone pratiche" significava già l'auto-blocco incosciente nella "critica affermativa" e nel trattamento della contraddizione, che doveva obbligatoriamente condurre all'esatto opposto del postulato di una "storia fatta in modo finalmente cosciente", e precisamente alla successiva auto-consegna ad un "processo anonimo".
Il cammino verso un rinnovamento, espansione e trasformazione della critica dell'economia politica, era sbarrato dalla pretesa immediata della "prassi". Nella misura in cui l'analisi del capitale cominciava ad assumere importanza nel marxismo della nuova sinistra degli anni 70, essa rimaneva in gran parte un assunto dell'ala sinistra dei socialdemocratici nell'ambito accademico, e si muoveva sulla strada della vecchia comprensione categoriale positivista. Ma in quell'epoca la corrente principale del movimento cominciava già a separare per lo meno il concetto di crisi della teoria di Marx, e a soggettivizzarlo apertamente nel contesto del procedimento tronco della teoria dell'azione. In questo modo, il giovane Claus Offe affermava contro Habermas, nell'antologia già menzionata: "In questa costellazione, non solo si può immaginare un'accumulazione dei sintomi della crisi, senza che questa possa essere semplicemente pronosticata secondo i modelli di decorso delle teorie tradizionali della crisi, ma forse perfino anche provocata, mediante la corretta espansione strategica dei problemi sistemici e mediante il lavoro pratico collettivo di chiarimento di minoranza politica (!)... Ma non sarebbe pensabile che il campo e, di conseguenza, l'area di competenza delle teorie di tipo marxista si rimpicciolisse ...? Quindi, l'apparenza trasformata del processo capitalista avrebbe come conseguenza il fatto che quegli aspetti e tendenze di questo processo, dei quali inizialmente la teoria può garantire con le sue proprie forze, dovrebbero essere costituiti oggi a livello di prassi (!). Anche la relazione fra analisi ed azione dovrebbe essere quindi circolare. Sotto tali condizioni, si estingue semplicemente anche l'autorità dei giudizi teorici sul fatto se un situazione storica concreta sia 'rivoluzionaria' o meno... A tale questione potremmo solo rispondere sulla scia di un pragmatismo disciplinato dell'azione (!)..." (Offe, 1968).
Il problema, già contenuto in quella formulazione peggiorativa sulle "teorie di tipo marxista", ossia, la differenza esistente fra teoria della modernizzazione e critica del feticismo, si situa fuori delle possibilità di pensiero; quello che rimane è la riduzione della critica dell'economia politica a prassi di movimento, è il soffocamento della riflessione teorica nel "pragmatismo dell'azione". Più che mai, la teoria viene ridotta in modo legittimatorio a ideologia di movimento ("costruita a livello di prassi"), e la "crisi" viene separata dall'oggettivazione feticista (rivolta contro Marx) e trasformata in mera funzione della "volontà". Una volta che la relazione capitalista di feticcio è ancora del tutto relegata al "soggetto", la "critica" deve rimanere apatica, in quanto non affronta la logica dell'essenza, ossia, il livello categoriale.
Nel contesto del movimento europeo e mondiale del 68, si davano solo due approcci che assumono su di sé questo livello categoriale. Uno di loro si sviluppa nei paesi di lingua tedesca, come tematizzazione della "logica del capitale" da parte di alcuni, pochi, discepoli di Adorno, che si rivolgono alla critica dell'economia politica in maniera ben differente rispetto ai rappresentanti che dominavano l'ala sinistra socialdemocratica (Backhaus; Reichelt). Per quanto siano ancora meritevoli ed in parte non esauriti riguardo alla critica, questi lavori si limitarono in gran parte al livello astratto della struttura formale del capitale, finendo per rimanere senza mediazione con lo sviluppo storico concreto del moderno patriarcato produttore di merci e con la storia del marxismo del movimento operaio inserita in questo sviluppo. Per tale ragione, potevano essere percepiti dalle persone del movimento come mero "esoterismo" accademico, senza costituire una nuova elaborazione teorica completa, che potesse anche essere in grado di condurre una riflessione critica sulla pretesa ridotta della "prassi".
Il secondo approccio è stato quello dei situazionisti francesi, soprattutto nei testi di Guy Debord, che (forse gli unici) arrivarono fino alla critica della forma merce e della costituzione feticista moderna, in modo del tutto indipendente dalla Teoria Critica di Adorno. Non è questo il luogo (così come per l'analisi di Foucault) per un dibattito più dettagliato sulla teoria situazionista, dalla quale si possono sempre "deviare" alcune suggestioni (per usare un termine situazionista). Ci interessa, semmai, affrontare l'importanza che il problema della "prassi" detiene in questa teoria. E' vero che i situazionisti hanno anche parlato di una "prassi della teoria", ma essa restava ambigua in relazione al concetto di "prassi teorica". Ambiguità che consisteva, in ultima analisi, nell'incompletezza della critica categoriale. In Debord, la critica della forma feticista sovrastante era ancora mescolata con la prassi ideologica del paradigma della lotta di classe, ossia, dal punto di vista della critica della scissione-valore, si trovava ancora mischiata con la corrente della teoria della modernizzazione presente in Marx. Per questo motivo, la limitazione alla "lotta per il riconoscimento", o al processo di "modernizzazione ritardata", inoltre non si presentava come essenza della storia del movimento operaio, ma semmai, come mancato completamento di un compito ontologico del "proletariato", volto al suo auto-superamento.
I "desideri" non liberati, non realizzati ed amputati dal capitalismo, in quanto prigionieri della forma feticista in processo, erano ancora situati nel luogo sociale sociologicamente immanente ed ontologizzato (pur se solo diffusamente determinato), a partire da dove avrebbero potuto essere liberati per mezzo della "lotta di classe", e, di conseguenza, la forma feticista non veniva riconosciuta, coerentemente, come sovrastante a tutte le classi. In fin dei conti, si era finito per risolvere la questione riducendo il problema alla "opposizione di classe", basata semplicemente sulle categorie del potere dei soggetti sociali, prelevate dal marxismo del movimento operaio. In questo modo, il rapporto tra "volontà di classe", da un lato, e costituzione feticista cui anche si sottomettevano i funzionari della rappresentazione del capitale, dall'altro lato, si può intendere in Debord (riguardo al capitalismo di Stato dell'Est), sotto una forma paradossalmente immanente, come affermazione "che la borghesia ha creato un potere autonomo, il quale ... può andare così lontano da riuscire a sopravvivere senza borghesia" (Debord, 1967). Pertanto, lo sviluppo reale del movimento operaio e del "socialismo reale" capitalista di Stato appariva (così come appariva in parte in Adorno) come storia delle sconfitte e di un "recupero" capitalista sempre nuovo (i situazionisti coniarono il termine recupero).
L'annodare la critica del feticismo all'ideologia della lotta di classe ha ristretto anche la critica situazionista del lavoro a fenomenologia capitalista nella quotidianità del "lavoro astratto", dove l'ontologia del lavoro come tale rimaneva intatta; per cui, Debord parlava in maniera totalmente acritica di "produzione da parte dell'essere umano per mezzo del lavoro umano" (id.). Tale affermazione ontologizzatrice della "forma lavoro" portava costantemente allo stesso risultato per quanto riguardava la "forma soggetto". "Lo sviluppo della classe proletaria come soggetto", dice Debord. "è l'organizzazione delle lotte rivoluzionarie" (id.). Ma sfortunatamente: "soggettivamente, questo proletariato è ancora lontano dalla sua coscienza di classe" (id.). Se, per tale ragione, Debord denuncia esplicitamente lo strutturalismo come "sogno gelido" e come "pensiero garantito dallo Stato" (id.), questo rifiuto non viene fuori dalla critica del feticismo, ma è conseguenza, semmai, delle riflessioni dei filosofi della prassi; del resto, nella stessa misura in cui Debord censura Marx "che aveva creato la base intellettuale dell'economicismo" (id.).
Conseguentemente, la tematizzazione situazionista della costituzione feticista doveva contribuire, ancora una volta, alla postulazione tradizionale della "unità fra teoria e prassi" a priori: secondo questo postulato, non sarebbe più possibile "intendere lo sviluppo e la comunicazione di una tale teoria, senza una prassi rigorosa" (id.). E nel famoso pamphlet situazionista "Della miseria nell'ambiente studentesco", si arrivava già a fare la seguente affermazione: "Come  Lukács ha visto giustamente (ma applicato ad un oggetto indegno; il partito bolscevico), l'organizzazione rivoluzionaria è la necessaria mediazione fra teoria e prassi... Le tendenze e le divergenze 'teoriche' devono essere immediatamente (!) trasformate in questione organizzative, se vogliono indicare la strada della loro realizzazione. La questione dell'organizzazione sarà il giudizio finale del nuovo movimento rivoluzionario... La dissociazione fra teoria e prassi era la barriera che ha incontrato il vecchio movimento rivoluzionario sul suo cammino ...". Trasformare "immediatamente la teoria critica e perfino le divergenze teoriche in "organizzazione" di lotta era un programma condannato al fallimento, il quale ha portato solamente all'auto-atomizzazione, attraverso scissioni ed espulsioni in serie, e conseguentemente al "giudizio finale" degli stessi situazionisti. Al contrario dell'opinione situazionista, nella realtà è stato esattamente il postulato della "unità fra teoria e prassi" a priori che ha sbarrato al movimento operaio il cammino verso la critica della matrice feticista a priori. Contro l'eterno trattamento della contraddizione all'interno del capitalismo, il cui carattere rimane indeterminato e che in realtà viene negato, c'è nei situazionisti un massimalismo immediato della pretesa della "prassi", che doveva finire per girare a vuoto.
Per il nuovo "attivismo" dell'ideologia del movimento, risultante dalla svolta del marxismo occidentale verso la teoria dell'azione, il problema della "struttura" e del "sistema", visti come un tutto, passò sempre più in secondo piano, il che corrispondeva anche alla congiuntura teorica di allora. L'ultimo Foucault era tornato all'ontologia del soggetto; nel 1980, in una conversazione con Duccio Trombadori, affermava che "... le persone,  nel corso della loro storia, non smettevano mai di autocostruire, ossia, di modificare (!) permanentemente la loro soggettività, di costituire un'infinita e molteplice serie di differenti soggettività" (cit. da Brieler, 2001). L'ontologizzazione del potere è ora completata con l'ontologizzazione della forma soggetto, ed il momento strutturalista, non superato criticamente nel post-strutturalismo, semplicemente viene messo da parte senza essere stato liquidato. François Dosse fa la seguente constatazione: "Realmente il soggetto è di nuovo qui... Il fatto che Barthes, Todorov o Foucault si siano evoluti, a partire dalla metà degli anni settanta, verso una problematizzazione del soggetto, annuncia una profonda corrente che travolge le scienze sociali, andando ben oltre i margini nei quali un giorno avevano sperato di poter ancorare la sua scientificità: ai margini del sistema, della struttura. La strada su cui c'è ora il rimosso, il soggetto, dalla quale si riteneva fosse possibile deviare, c'è di nuovo. Sotto diversi nomi e anche come portatori di metodologie diverse, gli individui, gli agenti, gli attori, esigono attenzione nel determinato momento in cui le strutture si confondono nell'orizzonte teorico" (Dosse, 1992).
Tuttavia, il ritorno del "soggetto" nella teoria, un ritorno d'ora in poi generale, indicava solo che la sua critica nello strutturalismo era rimasta ridotta ed incompleta, proprio perché il polo opposto dell'oggettività feticista non era stato incluso in tale critica, ma soltanto positivizzato in una "debole" metafisica della legalità particolarizzata. Proprio per questo, il pendolo di Foucault tornava non solo al polo della teoria dell'azione, ma anche, in quella direzione, si dirigeva coerentemente verso il polo del "soggetto". Tuttavia, già non si trattava più di un meta-soggetto ("classe"), come ancora si verificava per i filosofi della prassi e per i situazionisti, dovendosi notare che, con l'aiuto delle antiche filosofie della "arte di vivere", per esempio nelle lezioni di Foucault sull'Ermeneutica del Soggetto (Foucault, 1981/82), già si annunciava l'impulso post-moderno dell'individualizzazione sociale. "Il sistema, la struttura", l'oggettività sociale si trasformava allora, a sua volta, nel "rimosso", dal quale "si credeva possibile deviare".
Collegata all'attivismo dei movimenti, la nuova enfasi del soggetto conosceva, in varie ondate, diverse forme di manifestazione del politicismo gonfiato. A partire dal movimento del 68, si sviluppa primariamente un revivalismo fantasmagorico del marxismo di partito, come abbandono provvisorio dell'ideologia di movimento, sotto la forma di sette comuniste d'impronta marxista-leninista, trotskista e maoista, ma un revivalismo che non poteva avere lunga durata, giacché non aveva più nessuna relazione sociale reale. Dalla fine del decennio del 1970, i partiti-fantasma tornarono a trasformarsi su larga scala nei cosiddetti "nuovi movimenti sociali" che si configuravano, in pieno accordo con il paradigma post-strutturalista, come movimenti monotematici particolari e fenomenologicamente limitati (per esempio, il movimento contro le centrali nucleari). Le diverse forme di manifestazione del capitalismo che erano bersaglio della critica, rimanevano senza nesso perché, a causa della svolta verso la teoria dell'azione e del conseguente ritorno del "soggetto" d'ora in avanti particolarizzato, non ci poteva più essere un qualche concetto critico della totalità negativa.
In questo contesto entra il nuovo femminismo, nella forma in cui si era evoluto sulla base dei primi approcci nel movimento del 68. Non a caso, la relazione tra i sessi, nel contesto globale della svolta nella teoria dell'azione, non aveva avuto alcuna importanza o aveva solo giocato un ruolo secondario. La dissoluzione della vecchia metafisica della legalità marxista l'aveva lasciato, in tutte le varianti, non considerato nella "forma teoria" androcentrica unidimensionale, il cui universalismo astratto non era stato superato, ma solamente (anche in Foucault) particolarizzato e atomizzato. La formulazione adeguata di un concetto di moderno patriarcato produttore di merci era stata possibile solo in combinazione con una penetrazione teorica della costituzione feticista, che però aveva solo toccato in modo tangenziale e, in fin dei conti, lasciato di lato. Nel suo schema teorico, il nuovo femminismo, nonostante molti studi meritori di taglio storico o critico delle scienze, era rimasto aggrappato al sistema delle categorie androcentriche non-riconosciute come tali; appariva proprio come un semplice movimento monotematico, e la relazione tra i sessi, un oggetto "relativamente autonomo" o perfino una "singolarità" nel senso di Foucault. In pratica, questa comprensione aveva come bersaglio un mero trattamento della contraddizione nelle categorie capitalistiche androcentriche, ed il femminismo si riduceva ad una "lotta per il riconoscimento", più o meno conforme al modello del vecchio movimento operaio, visto che, dopo che le donne avevano conquistato il diritto di voto - fatto che si era verificato molto tempo fa - restava ben poco margine d'azione (per esempio, la regolamentazione delle quote, ecc.). Per questa ragione, la critica di questo nuovo femminismo, da esso designata come "critica affermativa", ben presto fu costretta ad esaurirsi e a trovare il suo posto nell'ordine generale dell'ideologia del movimento, cosa che oggi provoca effetti amari, nella crisi mondiale del patriarcato produttore di merci.
Così come la metafisica dell'intenzionalità, nella costituzione feticista presupposta acriticamente, non riesce a separarsi dal suo polo opposto, che è la metafisica della legalità, anche il particolarismo e lo "atomismo" sociologico non riescono ad abbandonare il loro polo opposto, ossia, l'universalismo od "olismo", che corrisponde alla matrice a priori del contesto della forma capitalista. Per questo motivo, il ritorno dell'universale non-superato ed androcentrico per natura, nella forma borghese, in modo analogo al ritorno del "soggetto", dev'essere realmente realizzato in modo acritico; al posto della critica della costituzione feticista, tralasciata, subentra allora una nuova metafisica dei diritti umani, nella quale la sinistra teoricamente disarmata comincia a legarsi clandestinamente con il neoliberismo ufficiale in ascesa. François Dosse ne mostra un esempio in Foucault: " Dapprima egli ha segnato la Modernità con la nuova figura dello "intellettuale specifico" che rinuncia all'universale per impegnarsi specificamente nelle nuove situazioni che emergono ai margini dei sistemi... Solo che Michel Foucault, sotto l'impressione delle mutazioni radicali attuali, nella pratica deve tornare a legarsi gradualmente a quella figura dalla quale si era separato, la figura dell'intellettuale globale che lotta per i valori della democrazia... Alle fine degli anni 70 e all'inizio degli 80, la lotta di Foucault si era perciò rivolta verso i diritti umani... Con un tale posizionamento, egli si distanziava chiaramente dal suo impegno iniziale, proclamando, pronto a combattere, la sua solidarietà con i valori della democrazia, che fino ad allora erano stati considerati il culmine del palliativo... Gli interventi di Foucault si realizzavano nelle nuove lotte nelle quali gli interessi erano rivolti alla solidarietà con i principi universali dei diritti umani" (Dosse, id.).
L'universalismo borghese astratto della metafisica dei diritti umani - che era stato criticato nella sua essenza dal giovane Marx, demolendolo (ma anche senza riuscire a percepirne il suo carattere androcentrico) - riempiva, quindi,  il noioso posto lasciato vuoto da una critica radicale che riflettesse sulla totalità sistemica della socializzazione capitalistica, e si univa alle "critiche locali" atomizzate dei diversi fenomeni senza la dovuta analisi; era stato questo, quello che era successo al Foucault tardivo, attraverso le improvvise azioni di solidarietà con i "bot people" provenienti dall'Asia, con il "movimento operaio neoliberista" di Solidarnosc, in Polonia, e con l'uscita islamica della rivoluzione iraniana, la cui "dimensione spirituale" lo aveva impressionato (Taureck, 1997). Le azioni irriflesse, come il "turismo dei movimenti", con la presenza tanto di celebrità quanto di attivisti, indicavano l'incapacità di un'analisi critica del contesto in cui "qualcosa si stava muovendo"; l'importante era che si agisse, in qualsiasi maniera, "contro il potere al potere", la cui forma storica già non poteva più essere registrata in alcun modo.
Nell'amalgama formato, da un lato, dalla critica particolare o dal riferimento superficiale ai movimenti, la cui relatività storico-sociale rimaneva deconcetualizzata e, dall'altro lato, dall'universalismo dei diritti umani, veniva riprodotta la polarità borghese formata dal carattere particolare del trattamento della contraddizione e dal carattere generale ed astratto delle idee di circolazione della "libertà ed uguaglianza", dietro cui si nasconde la concorrenza eliminatrice. Poi c'è stato il ritorno al parlamentarismo nella forma delle "liste arcobaleno", in combinazione col politicismo staccato da qualsiasi critica del contesto della forma sociale. Alla fine, il risultato fu il Partito Verde, non solo nella Repubblica Federale Tedesca: ora non già più come revivalismo del marxismo di partito, ma come partito senza marxismo, intasato dall'ideologia di movimento più moderato proveniente dalle "critiche locali" sommate in modo superficiale; e, nella RFT, perfezionato, per mezzo di interpretazioni della filosofia della vita e del vitalismo, in un'ideologia dell'alternativa. Questi paradossali "partiti di movimenti" si liberarono del loro peso morto ideologico ("democrazia di base" ecc.) e dalla militanza attivistica inconsistente, per ricadere, nello stesso modo dei suoi predecessori del marxismo di partito, nel rapido passaggio alla "ricerca della patria" della classe politica del patriarcato produttore di merci. Il ritorno della metafisica dei diritti umani sfociava, di conseguenza, nell'ideologia della legittimazione delle guerre capitalistiche di ordinamento mondiale e delle controriforme neoliberiste; sviluppo, questo, cui Foucault, certamente, non avrebbe partecipato.
Tuttavia, una volta che il lungo processo di trasformazione della teoria dell'azione era rimasto fondamentalmente irriflesso nel marxismo occidentale, il risultato deplorevole poteva essere criticato solo in modo esterno, e moralmente. Nella misura in cui l'ideologia di movimento guidata dalla metafisica dell'intenzionalità aveva continuato parallelamente la costituzione del parlamentarismo verde, essa era in grado solo di evocare debolmente il "soggetto" debole di una falsa "autonomia", che in realtà rimaneva determinato in una forma totalmente eteronoma. Il concetto di questa "autonomia" (concepita implicitamente nella teoria dell'azione) era, fin dall'inizio, diffuso; portava con sé una pretesa, in nessun modo dichiarata, di aprire un margine di azione diretta, contro il corso delle cose capitalistiche, e frainteso in quanto tale (nella forma dei movimenti o dei contesti di vita), un margine di azione che ben presto venne frustrato dall'inizio della crisi mondiale della terza rivoluzione industriale.

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