Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde
- Il problema della prassi, come evergreen di una critica tronca del capitalismo, e la storia delle sinistre -
di Robert Kurz
SOMMARIO: *1 - Il malessere nella teoria * 2- Adorno a proposito della prassi ridotta e della "pseudo-attività" * 3 - "Prassi teorica" e interpretazione reale del capitalismo * 4 - Trattamento della contraddizione e "prassi ideologica" * 5 - Capitalismo come trasformazione del mondo: critica affermativa e critica categoriale * 6 - Teoria della struttura e teoria dell'azione * 7 - "Modernizzazione ritardata" e il postulato di una "inseparabile unità" fra teoria e prassi * 8 - Ragione strumentale * 9 - Il punto di svolta della teoria dell'azione. Marxismo occidentale e "filosofia della prassi * 10 - Il *marxismo strutturalista" ed il politicismo della teoria dell'azione * 11 - Il pendolo di Foucault. Dal marxismo di partito all'ideologia di movimento * 12 - Il ritorno del "soggetto". Metafisica dei diritti umani e falsa autonomia * 13 - Noi siamo tutto. La miseria del (post-)operaismo * 14 - Dalla capitolazione dell'ideologia autoreferenziale del movimento al nuovo concetto della "prassi teorica *
2. Adorno a proposito della prassi ridotta e della "pseudo-attività"
Sotto molti aspetti, la teoria critica di Adorno costituisce una transizione dal marxismo del movimento operaio verso la critica della scissione-valore, anche se Adorno nom ha mai fatto il passo decisivo. Questo vale anche per quanto riguarda la relazione fra teoria e prassi nella comprensione comune della sinistra, dal momento che si tratta per lo più di schizzi e osservazioni incidentali, in cui Adorno si rivolge contro il consueto ed incontinente "malessere della teoria". Alla vigilia del movimento del '68, in una delle sue lezioni sulla Dialettica Negativa, del 1965/66, Adorno richiamò con apprensione l'attenzione sulla miopia distruttiva dell'esigenza categorica del "divenire pratico" immediato: "E' un grande pericolo che il pensiero della prassi ora si trasformi in una prigione del pensiero teorico; che tutti i pensieri possibili vengano ora interrotti dal seguente sollecito: A cosa serve codesto in pratica, e cosa ci posso fare con codesto? Oppure anche: perché con simili congetture si cerca di impedire il cammino di alcune possibili prassi? Per esempio, si vedrà sempre che, trattandosi dei limiti terribili di una prassi politica interventista qualsiasi nei rapporti di produzione e, in maniera generale, nelle forme sociali a questi rapporti adeguati ... sempre si vedrà che, in caso affermativo, immediatamente ci verrà data una risposta accompagnata da quel gesto di 'si, ma...', che io considero uno dei maggiori pericoli in materia di intelletto: Sì, ma dov'è che andiamo a parare, pensando così? Così niente sarà più possibile, se non restare a braccia conserte! E io risponderei: Il momento che oggi sembra risiedere nell'applicazione, nell'applicazione ininterrotta della Tesi su Feuerbach, è esattamente quel momento in cui la stessa teoria viene ad essere incatenata al suo confine" (Adorno).
Adorno, dunque, insiste sul fatto che l'undicesima tesi su Feuerbach non dev'essere intesa come se la teoria critica dovesse essere sussunta nelle pretese non dichiarate dell'azione, e rimanere in questo modo bloccata. Per lui, la dialettica di una relazione così troncata consiste nel fatto che non si può più espandere e sviluppare, proprio nel suo proprio ambito e nella sua propria logica, così ampiamente come farebbe se rimanesse parte integrante di una trasformazione realmente liberatrice del mondo. Nel pensiero di Adorno, la pretesa della prassi ridotta nella teoria non rappresenta, in alcun modo, il "concreto": al contrario, qui la stessa "prassi" diventa un elemento astratto, diventa "prassi in generale", la quale viene irriflessivamente confrontata con la teoria in quanto tale. Ma, nella qualità della rivendicazione meramente astratta, essa contraddice il suo proprio concetto, come dice chiaramente Adorno nella succitata lezione sulla Dialettica Negativa: "Ma quello che qui voglio dire, quando non applico il concetto di prassi come fanno molti, e come certamente dev'essere molto attraente per tanti di voi, è che vorrei non si confondesse la prassi con la pseudo-attività; e vorrei perciò evitare che lo facciate voi - non perché mi ponga come autorità, ma per il semplice fatto che vorrei che le riflessioni che oggi ho presentato penetrino un poco nelle vostre menti, e che voi, a partire dalle stesse, le svolgiate un poco; che non pensiate che per il fatto di fare "qualcosa" in una maniera qualsiasi (per esempio, come un organizzatore - come viene chiamato questo genere di individuo negli USA - unendo persone qualsiasi, promuovendo agitazioni e facendo cose di questo tipo) che conseguentemente allora si farebbe anche qualcosa di essenziale di per sé. In qualsiasi attività bisogna tenere presente la relazione con la rilevanza, così come bisogna tener conto del potenziale possibile che contiene in sé. Gli è che ai nostri giorni - poiché l'attività decisiva viene ad essere impedita e poiché, dall'altro lato, per motivi che ho già dato ad intendere frequentemente, rimane paralizzato il proprio pensiero - si fa diventare, molto facilmente, la prassi impotente e casuale, come una specie di sostituzione di quello che non accade. E quanto più profondamente si sa che essa non è realmente la vera prassi, tanto più ostinatamente e appassionatamente la coscienza si afferra ad una tale prassi" (Adorno).
Naturalmente, non si deve dimenticare in quale situazione storica Adorno formulava questa critica alle pretese della prassi ridotta. Erano gli ultimi anni del "miracolo economico" fordista, dopo la seconda guerra mondiale, un periodo di tranquillità politico-sociale in Germania, senza un movimento sociale con momenti trascendenti, con cui la teoria critica in generale potesse stabilire una relazione. C'era, al massimo, un impegno "politico-partitico" nell'ala sinistra della socialdemocrazia, il Partito Comunista (KPD) fuorilegge, ed altri gruppi marxisti tradizionali, così come un contesto lavorativo di formazione sindacale. Il riferimento che Adorno fa ad una "vera prassi" - al rivendicare implicitamente "qualcos'altro" davanti ai modelli del movimento operaio e del marxismo di partito - può avere una sua legittimità in un tale contesto; ma ci sembra che qui assuma piuttosto un discorso utopico, dal momento che è così scarsa la possibilità di avere una "vera" prassi, quanto di avere una "vera" teoria, nel senso di qualcosa di definitivo. Un'elaborazione teorica critica ed un agire di critica pratica, intesi sempre in relazione alla costituzione capitalista, sono innanzitutto, entrambi, processi in un movimento dall'immanenza alla trascendenza, con un'uscita verso l'esterno. Quindi sorgono dei punti di rottura e di cambiamento risultanti da essi, ma che non istituiscono nessuna "definitiva verità" della teoria e della prassi.
In ogni caso, il periodo ha un senso diverso, come si può leggere a partire dalla problematica cui Adorno allude riferendosi ai "terribili limiti di una prassi interventista": ossia, che la prassi può dirsi "vera" in quanto ha come meta la trasformazione del modo di socializzazione capitalistico negativo e distruttivo, mentre tutta la prassi che si mette al servizio del modo di socializzazione diventa "non-vera", per il suo non avvicinarsi assolutamente alla soglia di una trasformazione realmente emancipatrice del mondo. Questa finisce per rimanere, secondo il discorso di Adorno, una "pseudo-attività" che possibilmente amerebbe anche abbronzarsi e prendere il sole alla luce della Tesi su Feuerbach.
E' proprio la difficoltà di intervento critico e trascendente, per quel che riguarda il contesto totalitario della socializzazione, che oggi ci porta, più che mai, al "malessere della teoria", proprio perché è a questo livello che si rappresenta l'oggetto della riflessione critica nella teoria critica della scissione-valore. Gli individui avidi di "divenire pratico" immediato, si vedono messi, dalla critica della scissione-valore, davanti ad una parete nera impenetrabile, perché qui non si può avere una mera estrapolazione di una pratica prestabilita dentro le forme dominanti. Perciò,l'orientamento alla prassi ridotta vorrebbe delegare di nuovo alla teoria, secondo schemi ben radicati, questa difficoltà immanente di intervento al di là delle categorie capitaliste finora ontologizzate; ed esigono dalla teoria una forma ed un modo di rappresentazione per cui il problema, che è un problema inevitabile della prassi stessa, venisse eliminato teoricamente con un colpo di magia, di modo che così tutto accadesse attraverso "un'attività", come "di per sé", in forma pretesamente pratica, a somiglianza del famoso omino ritratto nella pubblicità delle sigarette HB, negli anni '70.
In tale questione, rimane valida, e particolarmente per la situazione attuale, la conclusione offerta da Adorno in quella lezione: "E per questo vorrei registrare le mie riserve contro la domanda precipitosa riguardo la prassi; la domanda del "controllore di passaporti", che ora non richiede più da tutta la prassi una giustificazione teorica - cosa che è certamente sbagliata - ma che, al contrario, ora invece esige il visto per qualsiasi pensiero: Che cosa ci posso fare con questo? Penso che una condotta di questo tipo non incoraggi affatto la prassi, ma le crei degli ostacoli. E direi anche che la possibilità di una prassi corretta, a sua volta, presuppone in primo luogo la coscienza integrale, e completamente non-ridotta, del carattere limitato della prassi. Se prendiamo come misura diretta del pensare la sua possibile realizzazione, allora verrà incatenata la produttività del pensare. Allor, probabilmente potrà diventare pratico solo quel pensare che non viene ristretto dalla prassi alla quale dev'essere direttamente applicato. Poiché la dialettica, a mio vedere, è la relazione fra teoria e prassi" (Adorno).
Qui, va notato che Adorno arriva anche alla conclusione inversa, ossia, rifiuta non solo il "visto" della pretesa immediata di prassi, rivendicata dalla teoria, ma anche l'imposizione per cui si deve esigere, per tutta la prassi, una "giustificazione teorica" in maniera ugualmente immediata. Nelle condizioni di vita capitalistica, e ancor più nelle condizioni nuove di crisi, come quelle che ci sono oggi, appaiono costantemente zone di attrito che fanno sorgere forme diverse di confronto (anche distruttive e caricate di ideologia negativa), nelle quali si scaricano i confronti interni e le assurde strutture di questo tipo di socializzazione. Ma la lotta per gli interessi della vita nel capitalismo, che in quanto tale non può essere assolutamente negata, non è di per sé trascendente, in modo da poter così andare al di là dell'ontologia del lavoro, del valore e della scissione.
Proprio qui sta il problema per la critica della scissione-valore, poiché essa ha bisogno di ridefinire la relazione esistente con queste "lotte" che incontra, che non possono venire prolungate in forma lineare e senza rotture, nel nome di una prospettiva "socialista" che vada al di là del capitalismo, come avviene nel contesto del marxismo dell'ontologia del lavoro e della scissione, e della sua "prassi" immanente alla forma. In questo senso, la questione non è il "malessere della teoria", ma, al contrario, il "malessere della prassi"; il malessere della sottomissione del pensiero critico alle necessità dell'azione, senza dubbio esistente ed in una certa maniera legittimo, ma che inevitabilmente ha bisogno di retrocedere verso le esigenze storicamente maturate della liquidazione dell'ontologia capitalista. Proprio per tale motivo, al giorno d'oggi tali "lotte" hanno così poca forza di penetrazione e sono tanto impotenti. Ne consegue che non si può fare alcuna censura alle necessità date di azione; esse devono affrontare lo stesso limite che affronta la teoria. La censura dev'essere diretta contro la pretesa di voler imporre, a sua volta, un limite alla riflessione teorica, come purtroppo è accaduto finora.
2 – segue
- Robert Kurz -
fonte: EXIT!
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