lunedì 28 maggio 2012

Due parole

Ali

"Sono America. Sono la parte che non riconoscete, ma vi abituerete a me. Sono negro, sicuro di me. Arrogante. Ali è il mio nome, non il vostro; la mia religione, non la vostra". "Il più grande" esce da un ristorante di Louisville, Kentucky, un ristorante costoso con vista sul fiume Ohio, un ristorante esclusivo, uno di quelli dove, per entrare, ti costringono ad indossare giacca e cravatta. Si sono rifiutati di servirlo, a causa del colore della sua pelle, lo hanno chiamato "scimmia", gli hanno detto di tornarsene in Africa, dandogli di "schiavo". La mano gli fa male per via del destro con cui ha mandato a sedere, lontano, uno dei camerieri, ma è l'anima quella che gli fa più male. Gli è capitato altre volte di essere chiamato schiavo, ma adesso la pazienza è finita. Una volta, a Miami, lo avevano arrestato mentre faceva il suo jogging mattutino. Gli avevano fatto passare una notte in cella, solo per il colore della sua pelle. Muhammad Ali sussurra a sé stesso due parole: ora basta! Si fruga nelle tasche dei pantaloni e trova la sua medaglia d'oro, quella che ha vinto alle Olimpiadi di Roma. La guarda, la medaglia, la guarda a lungo. La guarda per l'ultima volta, poi la serra nel pugno e la scaglia, lontano, fin dentro le acque dell'Ohio. Ora basta essere il campione dei bianchi!

Anni dopo, finita la sua carriera di pugile, Ali venne invitato a tenere una lezione all'Università di Harvard, ai neo-laureati. Alì tenne un discorso straordinario - senza leggerlo, dal momento che era dislessico. Parlò della vita e della cultura. Parlò di cogliere le opportunità che permettono di cambiare il mondo. Gli studenti, dopo un lungo, scrosciate applauso, cominciarono a gridargli "Vogliamo una poesia, campione!". Ali gesticolò in modo affermativo. Nell'aula scese il silenzio. Poi, Ali guardo verso gli studenti e ruppe quel silenzio con la sua poesia. "Me, We." Io, Noi. Due parole