lunedì 22 maggio 2017

Ribelli

schiavi

Il miraggio della libertà nel mondo antico
Intervista con Orietta Rossini, curatrice della mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», all’Ara Pacis
- di Federico Gurgone -

Il giurista Gaio, suddito dell’illuminato Marco Aurelio, divideva in due la specie umana: liberi e schiavi. Un sistema binario, nel probabile rapporto di sette a tre, raccontato crudamente all’Ara Pacis dalla mostra Spartaco. Schiavi e padroni a Roma, curata da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo e visitabile fino al 17 settembre.
A un certo punto del percorso espositivo, l’attenzione è catturata da un contenitore bronzeo di profumi in forma di testa di schiavo, in prestito dal Louvre. È questa l’essenza di Roma: il profumo degli eletti costruito sul sudore insanguinato della maggioranza. L’Urbe segna l’origine del capitalismo. E infatti poggiava i piedi sullo schiavismo. «L’idea è nata al museo archeologico di Madrid, dopo aver visto le catene in ferro rinvenute nelle miniere romane – racconta Orietta Rossini
– Quando sono giunti all’Ara Pacis i due reperti esposti, l’archeologa accompagnatrice mi ha detto che i restauratori avevano individuato evidenti tracce di resti organici impresse nel ferro».
Non sorprende: sono catene pensate per ferire le caviglie appena ti muovevi. E dovevi muoverti, altrimenti non lavoravi. Dalla Spagna viene anche una gerla in quercia, impermeabilizzata con pece in quanto serviva per togliere acqua dai tunnel. Fu restituita dalle miniere andaluse di Rio Tinto, luogo di provenienza anche della stele di Quartulus, morto di fatica a quattro anni, rimasta a Madrid.
«Prima di procedere all’allestimento, abbiamo preso contatti con l’International Labour Organization, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di schiavitù nel mondo contemporaneo», continua la curatrice. Le foto esposte, scelte da Alessandra Mauro di Contrasto, sottolineano la tragica corrispondenza delle sezioni antiche con la realtà dei 21 milioni di schiavi del 2017, delocalizzati nelle periferie del capitale.
Ginnasti bambini nepalesi, agricoltori dell’Amazzonia presi per debiti; caporali in Italia, schiavisti senza nome laddove i padroni romani per lo meno non potevano nascondersi. «Essendo persone concrete e note, Claudio poté imporre una legge per punirle qualora abbandonassero uno schiavo anziano nel lazzaretto dell’Isola Tiberina. Finché non eliminiamo la povertà ci sarà sempre la schiavitù». Nelle miniere ci finivano i dannati ad metalla, ma anche i poveri di ogni epoca. Quartulus era nato libero.
Il Rio Tinto è rosso per i sedimenti ferrosi. Eppure il suo nome evoca sangue. I filoni di rame sono stati sfruttati dai fenici, dai romani e dalla britannica Rio Tinto Company, che costruì un villaggio per accogliere i minatori inglesi, reprobi di prima classe rispetto ai colleghi spagnoli scesi in sciopero nel 1888. L’esercito sparò su di loro, lasciando sul campo duecento morti.

Le miniere sono gironi danteschi. «Sì, se ne parliamo al di sotto dell’Ara Pacis è proprio perché ne costituiscono il nucleo: l’inferno», conferma Rossini, secondo la quale l’Impero Romano è stata la più grande economia schiavista della storia. In seguito alla smisurata introduzione di manodopera servile, i romani divennero ricchi e latifondisti, misero a tacere i Gracchi e dimenticarono i Cincinnato con la spada nella destra e l’aratro nella sinistra.
«Si trattava di un’economia proto-capitalista. Secondo Peter Temin, chi voleva far fruttare il suo capitale aveva anche gli strumenti finanziari per farlo: il prestito, l’interesse, l’investimento, le banche». E nel commercio al capitalista conveniva soprattutto impiegare uno schiavo, sottoposto alla sua illimitata autorità. Bastava dargli per stimolo un piccolo capitale da investire per conto proprio, e il servus diventava un borghese. Uno schiavo manager, benestante ma senza diritti: se veniva menomato da una terza persona, era il padrone a essere risarcito.
I romani giocavano al bastone e alla carota, elargendo benevolenza e terrore: il metus che colpì inesorabile i seimila spartachisti superstiti crocefissi lungo l’Appia. I curatori hanno fortemente voluto un’olio su tela dipinto nel 1878 da Fëdor Andreevic Bronnikov nella vicinissima via Vittoria, dall’altra parte di via del Corso, e subito dopo portato in Russia, da dove non era più uscito. Raffigura un episodio di crocefissione di schiavi: la peggiore delle punizioni, inventata per loro. «Gesù è trattato come uno schiavo: è umiliato. Si crocifiggeva fuori dalle mura urbane: a Roma sull’Esquilino, presso il campus sceleratus del quadro. La tabula puteolana stabilisce per il municipio di Pozzuoli la procedura delle esecuzioni. Esisteva un servizio di crocifissione pubblico, al quale poteva ricorrere anche un privato. C’era un preciso tariffario, il prezzo dei carnefici e della sofferenza richiesta. Una banalità del male. Un lavoro».
Bisognava essere pragmatici. Romolo non si era fatto problemi a reclutare schiavi fuggiaschi e i suoi eredi impiegarono massicciamente la manumissione: l’atto giuridico con il quale si affrancava uno schiavo. Al padrone conveniva liberarlo, se lui pagava. Da giovane magari non si ribellava, per la speranza di una vecchiaia da liberto. Da anziano non serviva più a nulla, meglio rottamarlo. Non che i romani siano mai stati razzisti; capitalisti estremi, tutto qui. «A Roma, paradossalmente, un ascensore sociale esisteva».
«La macchina era meritocratica – spiega Rossini – Gli schiavi migliori potevano far carriera. Fino agli anni ’60, in Mississippi, gli afro-americani non erano ammessi all’università; gli schiavi greci, invece, a Roma ci venivano da professori. Furono gli schiavi ellenici a portare la medicina sul Tevere, superando le antiscientifiche tradizioni dei pater famililas alla Catone. Nella mostra si può ammirare l’intero armamentario di un chirurgo: bisturi, divaricatori, cateteri, pinze e tenaglie».

Tra il 135 e il 71 a.C. tre generazioni di schiavi si ribellarono alla Repubblica. Inutile negare un dato di fatto: nessuno dei leader ribelli pensò mai di abolire la schiavitù, un male necessario esistente anche nella Tracia di Spartaco e nella Siria di Euno, il capo della prima rivolta. Erano ribelli, non rivoluzionari, argomenta Rossini. «Spartaco va immaginato come un mirmillone: il peso massimo dei gladiatori. Non poteva accettare per carattere la sottomissione. Aggiungi poi che Plutarco lo descrive non solo dotato di grande forza fisica, ma anche di intelligenza e acume: ’è più un greco che un trace’, il maggiore dei complimenti». Di fronte alla possibilità di aggredire Roma, però, rinunciò come Annibale. L’esercito era impegnato allora anche contro Sertorio in Spagna e Mitridate in Grecia. La situazione era favorevole, tuttavia Spartaco prese tempo perché consapevole della necessità di un presupposto: sollevare l’Italia degli oppressi contro i romani. La sua, più che una rivolta servile, fu una ribellione antiromana su base etnica.
E perché, peggiorata la situazione, non scappò? «Perché sarebbe stata una soluzione individuale. Invece lui accettò di guidare un esercito composto da disperati di diversa origine, non solo servile. In un momento successivo penso si sia reso conto di dover agire su base sociale. Non sappiamo se per convenienza o per convinzione. Nessuno può restituirci le sue idee. Certo era un uomo motivato dalla sete di libertà. Certo arrivò a instaurare tra i rivoltosi un regime più egualitario: spartiva il bottino in parti uguali, per questo ebbe un forte seguito tra gli scontenti».
Il suo sacrificio, in parte, servì. I romani impararono che l’eccesso di brutalità genera ribellione. Il sistema, per conservarsi, capì che non doveva esagerare. C’è una differenza tra il trattato di Catone sull’agricoltura e quello di Columella, scritto duecento anni dopo: nel secondo si invita a una gestione un po’ meno disumana delle risorse umane. Sempre pragmatici questi romani.

- Federico Gurgone - Pubblicato sul Manifesto del 9 maggio 2017 -

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