domenica 14 dicembre 2014

Iconoclastia, ora!

iconoclast

TABULA RASA
- Fino a che punto è auspicabile, necessario o lecito criticare l'illuminismo -
di Robert Kurz

Le icone dell'illuminismo
Continua ad esserci qualcosa di strano nel fatto che l'atteggiamento della critica dovrebbe diventare improvvisamente umile proprio quando comincia ad essere messo in causa il patrimonio ancestrale. Laddove le tappe precedenti della critica del valore venivano definite "rinfrescanti", ora vengono lette come "dubbie" o "disgustose", per non dire "delicate". Chissà perché, improvvisamente si sente odore di incenso. A quanto pare, ci stiamo avvicinando senza il dovuto rispetto per il santuario, dove all'improvviso si esige che si porti rispetto al migliore. China il capo, piega il ginocchio; e non dimenticare mai e poi mai di consegnare le armi al guardaroba, perché nel tempio non si trascinano durlindane, né si giocherella con i revolver.
La venerazione è un sentimento essenzialmente religioso; e nella maggior parte delle religioni esistono, come oggetti esteriori di venerazione, idoli o icone. Questa relazione può, evidentemente, essere trasposta anche alla storia, sotto forma di un'iconografia, o di un'agiografia, intellettuale o politica. Le relazioni di feticcio hanno sempre le proprie gallerie di antenati, le proprie immagini di santi ed i propri oggetti di devozione, che hanno poco a che vedere con un rispetto per le relazioni personali, e molto a che vedere con un'auto-integrazione superstiziosa in un contesto tradizionale irriflesso. Qualsiasi scuola convenzionale di pensiero, qualsiasi epoca dove c'era una situazione di dominio, qualsiasi Stato e qualsiasi istituzione, e perfino qualsiasi club calcistico, ha in un certo qual modo le sue icone, i suoi padri fondatori, i suoi ideologhi, i suoi eroi, le nostre signore, ecc.. La rottura con una determinata relazione o con un determinato contesto è, perciò, necessariamente, anche e soprattutto, una rottura con la sua forma specifica di devozione. Ed è questo che, non ultimo, pone dei limiti al pensiero emancipatore; limiti che non sono solo cognitivi.
Indubbiamente, anche lo stesso illuminismo rappresenta una rottura con un determinato tipo di devozione, e perfino, in un certo modo, una rottura con tutto quello che prima della sua epoca veniva designato come religione, ossia, la coscienza del feticcio delle vecchie civiltà agrarie. Nella sua critica dell'acutizzarsi della critica dell'illuminismo, Anselm Jappe usa questo fatto per invertire i termini della questione: "Ma c'è un punto in cui la critica dell'illuminismo sembra davvero restare profondamente illuminista, e perfino più illuminista dello stesso illuminismo: stiamo parlando del desiderio di far tabula rasa, dell'iconoclastia, della rottura con tutte le tradizioni. Se possiamo solo 'girare le spalle, con rabbia e disgusto, a tutto il ciarpame intellettuale dell'Occidente...' quello che ci rimane allora è davvero ripartire da zero senza poterci basare su qualcosa che provenga da prima" (Una questione di punti di vista. Note relative alla critica dell'illuminismo, in Krisis 26/2003).
Voglio riferirmi qui, per ora, solo al concetto di iconoclastia, di attacco diretto contro le immagini. Cosa ci sarà di male in queste? Le icone di ogni tipo non sono il mondo, rappresentano solo una determinata comprensione del mondo e del rapporto con questo. E' evidente che l'accusa di iconoclastia evochi alcune associazioni negative: chi non si ricorda, anche senza volere, della così tanto pubblicizzata barbarie dei talebani che, davanti agli occhi del mondo intero, usavano i cannoni per ridurre in briciole statue di Buddha di valore storico? La barbarie, qui, però, risiede nella mancanza di sincronia storica. A quanto pare, può essere di "valore storico" - nel senso di un'opera d'arte del museo o di un artefatto protetto in quanto patrimonio storico - solo un oggetto che si trova già da tempo spogliato della sua devota venerazione e che, perciò, non può risvegliare in maniera immediata affetti positivi, né negativi, ma solo sensazioni estetiche dissociate ed interesse antiquario, in un senso che è, del resto, già specificamente moderno.
Com'è evidente, per i talebani le statue di Buddha non costituivano simili oggetti di interesse storico o estetico ma, semmai, i simboli immediatamente minacciosi ed ingombranti nella contingenza dei principi nemici da superare. Il fatto che venissero trattati anche così - in termini oggettivi di pura barbarie, e non di atto rivoluzionario e nemmeno liberatore - si deve unicamente alla circostanza per cui i talebani non rappresentano un movimento trascendente, una nuova forma di stare in società o un futuro dell'umanità, dal momento che essi stessi non sono una cosa diversa da un prodotto di decomposizione della stessa modernità: così come tutti i fondamentalismi contemporanei, pseudo-religiosi o etnici, costituiscono una regressione tanto paurosa quanto distruttiva; come se ad una parte dell'umanità tornassero a crescere le code, o i peli in tutto il corpo. Gli è che, indipendentemente dal continuum negativo delle relazioni di feticcio, non può esistere un "progresso" positivo delle relazioni sociali verso stadi "superiori", ma non può nemmeno esistere un "regresso" a situazioni anteriori; l'impulso reazionario rappresenta sempre solamente un momento della crisi in seno alla rispettiva formazione, ed il regresso può assumere sempre e solamente i tratti fantasmaticamente irreali di un essere non morto.
In questo caso si tratta, pertanto, di un'iconoclastia non solo asincrona, ma anche astorica, meramente regressiva. Tuttavia, questo non cambia il fatto che qualsiasi vera rottura storica, qualsiasi rivoluzione mentale e sociale, qualsiasi forza storica pregna di un futuro, in seno alle relazioni di feticcio ha dovuto sempre accompagnarsi ad una qualche forma di iconoclastia, poiché diversamente il nuovo non sarebbe stato capace di imporsi sul vecchio. Se San Bonifacio abbatté la quercia di Donar, se i protestanti gettarono fuori dalle loro chiese i santi cattolici, o se Voltaire attaccò la chiesa nel suo insieme al grido di guerra "Schiacciate l'infame", le immagini e i simboli dell'epoca da abbattere sono sempre stati rimossi senza pietà. Non esiste un qualche motivo per supporre che, nel limite storico delle relazioni di feticcio in generale, le cose potrebbero andare in modo diverso con la modernità e con le sue icone. Proprio perché non oltrepassiamo la forma di una sintesi sociale feticizzata, la lotta più o meno feroce per uscire da tale forma dev'essere accompagnata, da parte sua, da una colonna sonora iconoclasta.
A questo proposito, in un certo senso sta accadendo con l'illuminismo semplicemente la stessa cosa che l'illuminismo, da parte sua, ha fatto con le icone della coscienza premoderna, seppure, evidentemente, nel suo tempo, ha dovuto cominciare a rivoltarsi contro quello che era carne della sua carne. Tuttavia, rivoltarsi, ora, allo stesso modo, contro l'illuminismo, non costituisce né una ripetizione né una caricatura del modo di procedere illuminista, nella misura in cui per il suo oggetto si tratta questa volta di distruggere lo stesso illuminismo insieme alle sue icone, come momento costitutivo della religione secolarizzata, o metafisica reale, della relazione del valore e della dissociazione. Allo stesso modo, per la sua posizione, in ogni caso non si tratta di un'attività specificamente illuminista, in quanto parliamo di iconoclastia come tale. Il fatto è che atti simili hanno accompagnato i movimenti rivolzionari in ogni epoca storica.
Eppure esiste una differenza importante per quel che riguarda le iconoclastie precedenti. Gli è che le icone dell'illuminismo sono di un'indole diversa rispetto agli idoli ed agli oggetti storici di devozione. In un senso ancora molto più eminente di quanto lo sia, per esempio, il dio islamico, l'essere metafisico reale del valore non consente alcun ritratto di sé, alcun oggetto palpabile di devozione e alcuna oggettivazione, che non sia la mistificazione banale del denaro. L'astrazione reale si fa beffe di tutti i simboli e di tutte le immagini secondarie, è soddisfatta di sé stessa come vuota astrazione, mentre tutte le espressioni sensibili e simboliche e tutte le rappresentazioni fisiche gli servono solo da scenario materiale indifferente. In termini immediati, le icone dell'illuminismo sono, perciò, di una natura tanto astratta quanto quello che rappresentano: non si tratta di immagini nel vero senso, ma di figure di riflessione, teorico-filosofica e positivista, della relazione del valore e della dissociazione. In questo si esprime anche l'oggettivazione della nuova, più recente ed ultima forma di feticcio e delle relative esigenze di sottomissione.
Le qualità di astrattificazione (astrazione reale), secolarizzazione ed oggettualizzazione, escludono il tentativo di un'iconoclastia personale od oggettuale nei confronti dell'illuminismo. Sarebbe solo ridicolo procedere, per esempio, alla distruzione solenne dei busti di Kant. Le divinità intellettuali del pantheon borghese maschile non costituiscono oggetto di una venerazione superstiziosa nella loro figura personale immediata o nelle relative repliche, ma sono solo portatori del contenuto affermativo della riflessione.
Per questo, si rivela inadeguata anche un'altra associazione che talvolta si impone quando viene emessa l'accusa di iconoclastia, mi riferisco segnatamente al ricordo dell'autodafé. Questo atto che può essere sempre e solamente una barbarie, nella storia delle formazioni di feticcio solo raramente si è accompagnato a dei meri atti iconoclasti da parte delle forze progressiste; piuttosto, nella storia dell'Occidente cristiano si è trattato soprattutto dei tentativi della reazione di spegnere, letteralmente, pensieri sentiti come rivoluzionari. Ci è stato chi ha detto, con ragione, che chi brucia libri brucia anche persone.
La critica dell'illuminismo, tuttavia, per essere rivoluzionaria e non reazionaria, non solo non può coincidere con l'autodafé, e a causa della sua iconoclastia specifica non può riferirsi a una qualche grossolana oggettualità, ma soprattutto in virtù del fatto che si tratta di iconoclastia nei limiti delle relazioni di feticcio in generale, non può inserirsi in questo continuum. Del resto, quello che è all'ordine del giorno è la rottura proprio con questo genere di relazione, escludendo di per sé qualsiasi tipo di mero fanatismo e, con esso, qualsiasi volontà di distruzione meramente esteriore ed oggettualizzata. Infatti, in tal senso si rende ancora inevitabile che la critica dell'illuminismo, come disputa sul piano del feticcio, si accompagni a momenti di iconoclastia. Tuttavia, nella sua funzione di critica del feticismo nel suo insieme - che non crea alcuna relazione nuova di feticcio - si distingue anche qualitativamente da tutte le iconoclastie precedenti. Sia per il suo oggetto, come per la sua intenzione, la critica radicale della qualità negativa del feticismo specificamente moderno, che ci porta nel suo insieme in maniera catastrofica verso i limiti della "preistoria" - nel senso dato a questo termine da Marx - esige che si superi ogni tipo di vincolo simbolico esteriorizzato che si trova sottratto alla riflessione. Solo dove una forma di feticismo viene sostituita da un'altra, l'iconoclastia può avvenire sotto forma di un letterale attacco alle immagini, o può perfino provocare la reazione per cui vengono bruciati libri o persone.
La critica dell'illuminismo deve distruggere la devozione della modernità, la quale, tuttavia, si manifesta in forma immediata sotto forma di devozione nei confronti della forma sociale e della sua forma di riflessione. E' proprio in questo senso che avvengono i perpetui salamelecchi davanti ai filosofi e soprattutto davanti a Kant, così come essi vengono eseguiti in forma rituale dai teorici tanto liberali quanto conservatori e di sinistra, con ramificazioni che arrivano anche al cuore della sinistra radicale, e perfino alla stessa critica dell'illuminismo. I bastioni avanzati di questa fortezza di devozione sono costituiti da determinate pietose bugie che, da parte loro, si trovano situati in forma aprioristica a monte di qualsiasi tipo di contenuto, e che devono far sì che la critica cada nel vuoto prima ancora di cominciare.
In questo modo, per esempio, l'attacco polemico all'illuminismo e alle rispettive icone viene respinto in forma mezzo ironica, a metà pietosa e inadeguata, in quanto gli sembra che si maltrattino i morti in generale. Pietosa, in conformità col vecchio detto: De mortuis nil nisi bene - che sarebbe come dire che questo costituisce una profanazione dei cadaveri, dei cimiteri e dei monumenti; qualcosa che un teorico decente non farebbe mai. Ed un po' ironica, sebbene in maniera forzata: in fondo, il mondo non è molto che ha superato quei tempi, il condizionamento di un Kant già oggi non esiste più - e sei tu che stai dando grucciate agli zoppi; e questo non sta bene per chi si attribuisce un atteggiamento colto e riflessivo.
Se e quando tutto questo viene riferito ai condizionamenti storici, lo si trova implicitamente associato alla ricaduta nella logica illuminista dello sviluppo. Il messaggio subliminale di questa anti-critica che dice che "nel suo tempo" fu semplicemente "il turno" di Kant di esprimere le sue opinioni, dal momento che esse rappresentavano un determinato livello (supposto come necessario) dello sviluppo del pensiero riflessivo o del "progresso teorico"; oggi, naturalmente sarebbe andato molto più lontano, ma in fondo non si può attaccare la storia in quanto tale. E così Kant appare, ancora una volta, come architetto di un edificio del pensiero che forse non deve essere demolito; ossia, la continuità invece della rottura. Oppure, in maniera paradossale, la rottura appare anch'essa rotta; come una rottura che ha già smesso di esserlo.
Poi è chiaro che non si può criticare la storia in quanto tale; ma si può, semmai, criticare la storia nella misura in cui questa è presente. Il fatto per cui Kant è tutto meno che un cieco, presentandosi innanzitutto - per mezzo della sua architettura elaborata di un'opera d'arte teorica integrale di affermazione pura e dura - come un avversario vivo, e ben vivo, in quanto la forma di riflessione da lui resa esplicita si è radicata fino all'incoscienza nel pensiero quotidiano di un'umanità capitalista. Questo fatto decisivo viene solo ammesso in una maniera singolare, che consiste nell'affermazione per cui, proprio per questo fatto, la critica radicale dovrebbe "riconoscere" la coscienza riflessiva di Kant in maniera rispettosa, per arrivare a spiegare la forma tuttavia socialmente sedimentata di questa riflessione. Invece di affrontarlo e regolare i conti con Kant, diviene il vettore e l'ideologo di questa forma di pensiero e di azione comunque incosciamente oggettivata, in maniera tanto polemica ed aggressiva quanto adeguata al carattere distruttore del mondo di questa forma di pensiero e di azione.
Una variante di questa falsa devozione in seno alla critica dell'illuminismo, consiste nell'attestare agli illuministi in generale, e a Kant in particolare, che in un certo qual modo essi si sarebbero già smentiti da sé soli, a causa delle loro contraddizioni interni, a causa della loro argomentazione aporetica e dell'insostenibilità delle loro conclusioni; e l'indegna "polemica postuma" perciò, in fondo, manca di argomenti, visto che non possiamo ormai criticare questi signori, tanto più che essi stessi, "oggettivamente", avrebbero già criticato sé stessi. Se le mere contraddizioni interne e l'insostenibilità - oppure una "brutta fine" - fossero criteri della critica, in tal caso Nerone sarebbe stato il primo critico del principio imperiale, e Hitler, il primo antifascista. Qui viene di nuovo assunto implicitamente un punto di vista oggettivista che lascia fuori la qualità specifica della critica in quanto "negazione non autorizzata", e che vede l'elemento negativo unicamente nella "realizzazione" oggettiva "della storia" il solo che dev'essere espresso - ossia, ancora una volta, e più che mai, una ricaduta nella logica interna dell'illuminismo. Kant, con la sua franchezza e coscienza di una riflessione affermativa della condizione del mondo, non anticipa alcuna critica, così come, per esempio, non l'anticipa de Sade con la sua propaganda sfacciata della tortura degli esseri umani e della volontà di distruggere (così come, in maniera generale, Kant e de Sade rimangono figure imparentate, che daranno una mano alla costruzione della medesima logica di astrazione reale).
La critica del valore come critica dell'illuminismo non ha il minimo motivo di affrontarlo in maniera devota ed oggettivista secondo una simile tematica, contrariamente a quello che succede, per esempio, nel caso dello svezzamento polemico del marxismo del movimento operaio; piuttosto il contrario. La polemica teorica contro l'intero complesso del pensiero illuminista e la sua ideologia deve diventare la polemica più aspra mai vista. In questo, e solo in questo senso, si applica alla critica dell'illuminismo, mai come prima nella storia, la parola d'ordine temeraria: Iconoclastia ora!

- Robert Kurz -

3 – continua … -

fonte: EXIT!

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