Verso una politica di destituzione: nuclei e campo rivoluzionario
- di Anonimo - Ottobre 2nd, 2025 -
«Ogni generazione deve, in relativa opacità, scoprire la sua propria missione: compierla o tradirla.» (Frantz Fanon)
La nostra generazione si trova con le spalle al muro. E qui, per generazione, non si intende la solita divisione mainstream per fasce d'età, ma piuttosto tutti coloro che, in un dato momento, si pongono le stesse domande e affrontano gli stessi problemi. Il muro che ci troviamo di fronte, è quello del significato. È questo ai renderci orfani. Orfani politici; orfani delle forme, delle spiegazioni, e di quelle parole da cui trarre un senso per la conflittualità storica nella quale siamo coinvolti. Come osservava Jacques Camatte nel 1973, «I militanti passano da un gruppo all'altro, e in tal modo, così facendo, "cambiano" ideologia, portandosi dietro con sé, ogni volta, il solito carico di intransigenza e di settarismo. Alcuni di loro riescono a percorrere traiettorie estremamente ampie, passando dal leninismo al situazionismo, per riscoprire il neobolscevismo e poi passare al consiliarismo. Vanno tutti a sbattere contro questo muro, e in alcuni casi si viene respinti, più che in altri.» [*1] Questo effetto di rimbalzo, è sempre presente: alcuni, dopo essere stati respinti a causa del fallimento di una lotta territoriale, diventano marxisti , mentre altri diventano formalisti rimbalzando sulle delusioni della comunità, ed altri ancora vengono gettati nelle braccia del movimentismo a causa dei fallimenti del loro gruppo. In queste diverse forme, tutti cercano le risposte che poi illumineranno la situazione e daranno loro i mezzi per combattere. Gli è che però che il nostro periodo di sperimentazione differisce da quello che ha caratterizzato il precedente ciclo di lotta. Ora, le stesse domande non hanno più le medesime risposte. Ciò che le varie prospettive rivoluzionarie del XX° secolo avevano in comune, era il programmatismo. Detto in breve: la rivoluzione sarebbe stata realizzata grazie all'ascesa del proletariato in quanto classe, e dalla sua riappropriazione delle forze produttive capitaliste. Anarco-sindacalista, socialista, trotskista o maoista; era questo il punto di partenza di tutti i modi di pensare al rovesciamento della società capitalista, ognuno dei quali indicava in essa il nemico da sconfiggere. Ora ci troviamo con una capacità di chiarezza strategica assai più debole, rispetto a coloro che ci hanno preceduto. Come possiamo abbattere quel muro di significato, su cui così tanti sono rimbalzati negli ultimi decenni? Per noi, il significato è stato a lungo legato alla nostra esperienza politica: un rifiuto del mondo, e una sperimentazione all'interno di quel rifiuto, e il tentativo di farne una comunità. Una relazione comune con la politica, è quella che potremmo definire come una comprensione soggettivista del significato dell'impegno, come un rapporto esistenziale con la politica. Questo modo di pensare che dice: «Scelgo di lottare poiché questo è un modo di vivere intensamente, pienamente», viene però contraddetto nel momento in cui la politica ci appare ridondante, piuttosto che nuova, allorché l'intensità lascia il terreno della politica, quando la comunità è lacerata. Ecco che allora inseguiamo altrove la follia del movimento, nella forma di coppia, nel lavoro, nell'arte, oppure ci abbandoniamo alla nostra follia. A questo modo di pensare, corrisponde una concezione oggettivista del significato che afferma che «la rivoluzione sarà il risultato di una graduale ascesa al potere delle masse», e che la storia si muove inesorabilmente in questa direzione. L'ultimo decennio, nel quale il movimento operaio è stato inghiottito dal mondo del capitale, e il linguaggio della protesta ha rafforzato la costruzione politica del potere. L'enfasi che viene posta sulla determinazione storica della rivoluzione, dettata da condizioni materiali oggettive, viene annullata da dei movimenti che muoiono senza nemmeno tentare l'insurrezione, e senza costruire un contropotere, poiché i tentativi di rivoluzione danno origine solo a nuovi governi, altrettanto deplorevoli di quelli che si lasciano alle spalle. Senza cadere in nessuno di questi vicoli ciechi, senza però negare la forza che ciascuno reca in sé, diciamo: «la rivoluzione non è necessaria – se vista come necessità inevitabile della storia – ma è però realmente possibile.» Crediamo che sviluppare questa possibilità, e la possibilità di agire, al suo interno, come forza etica oltre che politica, implichi il dover porre la questione dell'organizzazione. E il problema dell'organizzazione riguarda il tempo che separa il nostro presente da una possibile rivoluzione. Questo tempo, è un tempo di interrogativi e di sperimentazione politica, ma è anche un tempo di esperimenti etici che ci legano a questa scommessa. Poiché, se la rivoluzione è solo possibile, allora è anche possibile che non avvenga, e che il corso catastrofico degli eventi prosegua. Ecco perché dobbiamo continuare a riaffermare la nostra scelta in ogni occasione che abbiamo. In quest'ottica, il presente testo si propone di contribuire, a livello locale e internazionale, al dibattito sulle forme organizzative rivoluzionarie. Nel ciclo di lotta che sta volgendo al termine, la destituzione è stata una potente forza trainante. Piuttosto che chiudere questo capitolo negandone il significato, è fondamentale imparare da esso e aprire una nuova fase di sperimentazione politica. Sviluppando alcune finzioni comuni – la destituzione, il campo rivoluzionario e il nucleo – il nostro scopo è quello di approfondire le intuizioni che si sono dimostrate giuste, mentre dissezioniamo quelle che ci hanno portato fuori strada. Tali strumenti possono cambiare il nostro rapporto con ciò che traspare dai vari paesaggi politici che incontriamo. Non siamo soli nella nostra ricerca di risposte. Questo è ciò che spinge ognuno di noi a cercare, nonostante le differenze di lingua e nonostante il divario tra le nostre esperienze, ciò che ci unisce, e a chiederci se ciò che abbiamo in comune sembra sufficiente. Abbiamo appena iniziato.
Movimenti destituenti
La Destituzione era stata vividamente espressa dallo slogan "¡Que se vayan todos!" [*2], la parola d'ordine del movimento argentino nei primi anni 2000. Negli anni che seguirono, ci furono di nuovo sommosse, segnate non solo da un rifiuto del mondo così com'è, ma ancor più dal rifiuto di cercare una via d'uscita che chiudesse una particolare sequenza politica. L'obiettivo era quello di farla finita con tutte le concezioni di "cambiamento sociale", così come con la prospettiva di prendere il potere. "Fuck toute", avevano detto gli studenti in lotta nella Quebec del 2015. Allo stesso modo, su scala globale, oggi sta accadendo qualcosa del genere, un'esacerbazione della violenza politica nelle strade che non chiede di avere alcuna legittimità, non si basa su nessun soggetto che possa essere chiaramente identificabile, e non viene giustificata da alcun progetto sociale. Nel 2008, contro quella che era la sua stessa grammatica politica leninista, Mario Tronti esclamava che si stava aprendo un'altra storia, dove la logica della rivolta non fa più riferimento a un qualche progetto di costruzione di qualcosa, ma consiste nel mettere in crisi tutto ciò che nella crisi esiste ; non è più qualcosa di meramente politico, ma etico. Per Tronti, la rivolta etica riflette lo stato di crisi in cui si trova la soggettività operaia portatrice di un progetto positivo. Essa testimonia il crollo del programmatismo. Ciò che si rivela in questo tipo di rivolta, è proprio il rifiuto della totalità del modello sociale, il quale non lascia spazio ad alcuna esteriorità, intromettendosi anche negli aspetti più intimi della nostra vita. L'etica perciò affiora nelle rivolte contemporanee, proprio perché spiega la morsa totalizzante del dominio, per fare qualcosa che le risposte politiche classiche non sono riuscite a fare. Inoltre, ciò che è in gioco, e contro cui si combatte in queste rivolte, non è un nemico che potrebbe essere concepito come totalmente esterno a noi, ma è anche qualcosa che ci attraversa. Non è solo l'istituzione o la merce, ma il nostro bisogno di esse, e la presa che esse hanno su di noi. Si tratta di una determinata relazione con il mondo, dei modi di pensare, di fare e di amare che qui vengono interrotti. L'ipotesi della povertà presuppone pertanto che altre forme di vita possano essere inventate a partire dall'interno di questo rifiuto del mondo. Vengono così scartati quelli che erano alcuni elementi centrali della tradizione rivoluzionaria classica: la presa del potere statale, la dichiarazione di una nuova costituzione, o il decreto, dall'alto, di nuove istituzioni rivoluzionarie. L'ipotesi storicista, secondo cui la destituzione è «la dinamica dell'epoca successiva alla sconfitta del movimento operaio», rappresenta un possibile uso del concetto di destituzione, visto come descrittivo. Per quanto interessante, questa analisi rimane tuttavia insufficiente, dal momento che essa offre solo una visione unilaterale di ciò che avviene nelle situazioni politiche. In realtà, la loro realtà è invece ambivalente. Come ha affermato Kiersten Solt nella sua critica a "Endnotes": «Lo sconvolgimento contemporaneo costituisce il luogo di un incontro conflittuale tra gesti destituenti e forze costituenti» [*3]. Per quanto sia più precisa, anche questa affermazione non ci convince del tutto. Il pensiero politico che ne consegue rimane limitato. Se abbiamo bisogno di pensare al di là dell'opposizione tra gesti destituenti e forza costitutiva, ciò è perché tutto questo non ci permette di immaginare cosa possa essere una forza destituente. Il nostro ruolo di rivoluzionari non può ridursi alla diffusione o alla spiegazione di alcuni gesti compiuti all'interno dei movimenti. È questo il limite riscontrato anche in delle ipotesi come il "meme-con-forza", o la generalizzazione di atteggiamenti come "front line" o il "black bloc". Nel dare centralità alle forme inventate nel corso delle brecce aperte dalle rivolte, non è più nemmeno certo che una simile concezione della destituzione possa essere una concezione della rivoluzione. Nei recenti dibattiti, è stato scritto molto sulla destituzione vista come gesto negativo, e non abbastanza su ciò che una politica rivoluzionaria e indigente potrebbe o dovrebbe essere. Per noi si tratta di saper distinguere tra una descrizione storica e un gesto di prescrizione politica. Partire dalla constatazione che le dinamiche destituenti sono all'opera, senza limitarci a descriverle, rappresenta per noi un primo passo verso la formulazione di una posizione destituente. Da questo punto di vista, tuttavia, vediamo emergere due strade: la destituzione della politica, e la politica della destituzione. Il nostro obiettivo in questo testo è quello di identificare alcune delle impasse che vediamo in quella che chiamiamo la destituzione della politica, e in quella che a sua volta delinea una politica della destituzione.
La Destituzione della Politica
Ciò che il movimento delle piazze, le ZAD, le insurrezioni degli ultimi anni, e i "non-movimenti", nei quali la vita si reinventa attraverso la lotta, mostrano soprattutto un divario insormontabile tra le aspirazioni di coloro che intraprendono la lotta e le loro traduzioni politiche, anche da parte delle organizzazioni più radicali. La destituzione, si riferisce alla consapevolezza che non ci sarà più alcuna organizzazione in grado di unire tutte le richieste, per lo meno nessuna che non sia una truffa all'interno di un quadro negoziale, nessuna che non vada poi a beneficio dello Stato. Se perfino le organizzazioni "rivoluzionarie" sono assai lontane da ciò che sta accadendo ovunque sul pianeta a ogni minimo segno di insurrezione, allora che senso ha tenersele strette? In questi ultimi anni, una delle risposte che è emersa sostiene che dovremmo invece concentrarci sulla condivisione di questi momenti, di certe esperienze del mondo e del cambiamento etico, che emergono nelle situazioni polarizzate. Come suggerisce il titolo della rivista Entêtement, si tratta di «mantenere una sensibilità». Dappertutto, in quest'epoca, il "noi" rappresentativo [basato sull'identità] è stato sopraffatto dal "noi" esperienziale, che per quanto sia assai malleabile e instabile, è eppure così potente. Il "noi" rappresentativo su cui è stata costruita questa società, non può comprendere questo emergere storico di un "noi" esperienziale. E pertanto sono letteralmente terrorizzati, traumatizzati e indignati da esso.[*4] Una forma di ciò che chiamiamo la destituzione della politica, sostiene che ciò che deve crescere è la distanza tra l'etica (il "noi" esperienziale) e la politica (il "noi" rappresentativo). La diffusa disillusione nei confronti della politica rappresentativa, e l'apertura di questioni che vanno ben oltre la logica dell'interesse, indicano di certo un'apertura che è necessario approfondire. Però, prendere posizione a favore dell'etica in questo modo, tende a svuotare la possibilità di un "noi", che così finisce per non essere né rappresentativo né puramente esperienziale, ma piuttosto di parte. Una nuova idea di politica può nascere solo dal fallimento del suo concetto rappresentativo. Le rivolte etiche, se non sono sostenute da una forma politica cadono preda di due tipi di tradimento. Il più evidente è il tradimento riformista: una rivolta contro il mondo intero (che comprende in esso anche il nostro modo di essere), o finisce per passare alla storia come un movimento contro uno dei suoi aspetti particolari, o come una vittoria da cui proviene un senso di progresso e di giustizia.[*5] L'altro tradimento è quello che, pur riconoscendo la natura totale della sfida politica, nell'emergere di questa verità dimentica la centralità della rivolta e, da lì, si ritira nell'etica. Per il primo è facile immaginare i leader dei movimenti che sono diventati politici, i presidenti delle ONG, i professionisti di sinistra di ogni tipo. O secondo, invece, sono coloro che, avendo sperimentato la rivolta, vedono la loro vita sconvolta e, nel tentativo di separarsi da tutto, alla fine rompono con la rivolta stessa. Essendo entrati nei movimenti attraverso la porta politica, ne escono dalla porta etica, e cercano di creare un mondo nel quale questo modo di essere possa fiorire. Dopo l'ebbrezza dei movimenti, ci sono molti che pensano di poter continuare in questo modo. Il tentativo di formulare un orientamento basato sul ripiegamento etico, tende troppo facilmente a condurre sulla strada di ciò che chiamiamo alternativismo. L'alternativismo è una delle figure che associamo alla destituzione della politica. Concentrandosi sui progetti in quanto progetti, esso ci offre la possibilità di accontentare tutti. Per i radicali, l'orizzonte alternativista è quello di una contro-società, mentre per i riformisti il cambiamento avverrà attraverso la graduale diffusione di queste pratiche all'interno dell'economia. In breve, non c'è alcuna lotta frontale contro l'egemonia dell'economia, e non c'è il pensiero di andare oltre «ciò che è possibile, qui e ora»; c'è solo l'abdicazione di fronte alla lotta da condurre. Il fatto che - anziché combattere - ci siano radicali e riformisti che difendono la proliferazione delle filiere corte, delle bioregioni e dei centri di servizio alla comunità, è più indicativo della sconfitta storica dei rivoluzionari, piuttosto che della loro vittoria ideologica. In poco tempo, l'infrastruttura che avrebbe dovuto fungere da supporto diventa la fine di sé stessa. Mettendo in atto infrastrutture che non sono immediatamente politiche, si spera di contribuire a una possibile situazione politica, o addirittura a una crisi futura. Così, nella sua forma autonoma, l'alternativismo esprime una distanza dal tessuto insurrezionale, e colloca l'antagonismo in un tempo futuro. Verrà un giorno in cui queste terre nutriranno i comunardi! Chi mai può essere contro la virtù? In ogni caso, la prefigurazione di un mondo post-rivoluzionario, unita al desiderio di costruirlo ora, ha avuto la precedenza sulla costruzione di una forza politica.
Quali forme dopo l'informalità?
Fino a poco tempo fa, l'enfasi sulla rivolta etica andava di pari passo con il rifiuto di tutte le forme di organizzazione. Per un po' di tempo, l'alternativismo è apparso come una strada seria, che non tradiva ciò che lo aveva originato. Più in generale, mentre l'informalità e la destituzione sembravano andare di pari passo, rapidamente abbiamo percepito i loro limiti. In diversi modi, gli ultimi anni hanno visto la questione dell'organizzazione tornare come se fosse una vendetta. L'organizzazione informale - che è l'opzione implicitamente dominante nell'attuale ciclo di lotta - sta esaurendo la sua spinta, e incontra critiche da tutte le parti. La dinamica, che si basava sulla ricorrenza di movimenti sociali classici, in cui le organizzazioni riformiste o pseudo-rivoluzionarie potevano essere sopraffatte, criticate e combattute, con la pandemia ha intonato il suo canto del cigno. Dopo gli ultimi focolai insurrezionali, ogni possibilità politica è stata schiacciata dalla gestione autoritaria del Covid. La maggior parte dei gruppi informali preesistenti si è ridotta al loro coinvolgimento nei vari progetti (comunità, mutuo aiuto, quartiere, centro sociale, affari, riviste), se non a mantenere un atteggiamento pessimista, persino cinico, nei confronti di qualsiasi tentativo politico. Certo, ci sono ancora dei gruppi informali che mantengono relazioni politiche partecipando a questa o quella lotta, ma come ipotesi tutto questo non ha più senso. Il fallimento della prima fase della sperimentazione destituente – che potrebbe essere definito come il primo ventennio del XXI secolo – ha pertanto prodotto una reazione formalistica che si manifesta nella creazione di gruppi aperti. Questa reazione, crede di poter rimediare alla debolezza del movimento rivoluzionario per mezzo di soluzioni tecniche: strutture formali di impegno che permettono l'allargamento della base organizzativa. Alcuni hanno perciò reagito agli evidenti fallimenti dell'informalità [*6] indossando i vecchi abiti della politica: si oppongono alla clandestinità del gruppo attraverso gruppi formali, pubblici, aperti, volti a rompere l'isolamento di una politica condannata come settaria. Ma stranamente, i vestiti vecchi odorano di vestiti vecchi, e il formalismo sta tornando a delle strutture incentrate su categorie sociali, come la classe e altri indicatori oggettivi, oppure (spesso si tratta di entrambe le cose) a teorie avanguardiste dell'organizzazione. Il pendolo è tornato indietro, portando gli ex sostenitori dell'informalità a rispondere al problema dei numeri, dell'impegno e dell'isolamento per mezzo delle strutture pubbliche, e all'indicibilità del loro contenuto etico e politico, attraverso ampie petizioni di principio (anticapitaliste, femministe, ambientaliste, ecc.). La loro pubblicità, che si presume sia una garanzia di espansione e di propagazione, porta alla fine a dare la sensazione di essere troppo esposti per potere avere l'intensità desiderata, o per trarne forza a posteriori. Inoltre, nei momenti critici, gli spazi aperti non forniscono la fiducia necessaria a mettersi davvero in gioco, e la vaga condivisione di identità o di principi non genera un vero e proprio impegno.
Cercare la soluzione al problema della forza, significa porre la questione al contrario. L'organizzazione pubblica può dare una momentanea sensazione di potere, ma questo si rivela ingannevole nei momenti in cui la polizia tenta di schiacciare sistematicamente ciò che viene fuori. Quando queste organizzazioni pubbliche escono di nuovo fuori nella loro costruzione politica, esse vengono sconfitte dalla repressione. Non contengono i semi del loro superamento, bensì quelli del loro stesso schiacciamento. In un momento di sorveglianza e di controllo specifico, a causa del vacillare dell'ordine capitalista globale, nella sfera pubblica non ci può più essere un gruppo apertamente – e veramente – rivoluzionario. Oltre al problema dell'apparenza, il ritorno all'uso di finzioni storiche obsolete, o di categorie sociologiche derivate da una nuova critica, non riesce a dare un senso al conflitto contemporaneo. Questi termini trovavano la loro forza nella capacità di dare senso a ciò che si viveva. Erano strumenti di semplificazione, come lo sono sempre i concetti politici. Oggi, le piroette retoriche, e l'arsenale accademico necessari a dare loro un senso, testimoniano la loro fragilità, non la loro forza. Il programmatismo, non ha fatto il suo corso perché il movimento operaio è stato sconfitto come nemico, ma è finito perché è stato inghiottito dal mondo del capitale. Tutto ciò che ha reso forte il movimento operaio, è stato integrato nel regno dell'economia. Ciò che potrebbe essere visto come l'espressione del proletariato o - come diceva Marx - di un «ordine che è la dissoluzione di tutti gli ordini», è andato perduto per sempre. Il movimento operaio è nato nell'economia, e pertanto non sorprende affatto che lì sia morto! Per molti, c'è una grande tentazione di tornare alla lotta di classe in quanto spiegazione generale. Serve loro, come stampella analitica nella loro ricerca del potere, che queste ipotesi storiche hanno effettivamente portato all'esistenza. Invece di imboccare questa strada, ci chiediamo: quale forza è stata resa possibile dall'ipotesi della lotta di classe? Anche se la terminologia del passato non può aiutarci a cogliere la complessità degli eventi che si presentano oggi, resta il fatto che la finzione è una cosa seria. Abbiamo bisogno della finzione per poter credere nella realtà di ciò che stiamo vivendo. Il compito politico più urgente è quello di trovare e condividere i termini che danno senso alle nostre esperienze, a ciò che si oppone al dominio, allo sfruttamento, alla distruzione e a tutte le forme di potere. Il denaro è una finzione, così come lo stato e la legge. Dobbiamo opporre le nostre finzioni a quelle che ci vengono imposte. Insieme al concetto di destituzione; i nuclei e il campo rivoluzionario consentono la ricapitolazione della conflittualità storica.
Organizzare una forza destituente
La destituzione implica una «crisi di ciò che è», un rifiuto totale del mondo. La posizione che chiamiamo "destituzione della politica" fa parte di questa negatività. Tuttavia, a causa del suo rapporto ambiguo con la conflittualità, essa non riesce a partecipare allo sviluppo di una forza rivoluzionaria; una forza capace di affrontare il potere costituente, e non solo di chiedere la diserzione da esso. Inoltre, la risposta formale data dall'opinione pubblica, vale a dire, il rinnovamento dell'anticapitalismo, non riesce necessariamente a soddisfare le esigenze della clandestinità imposte dal potere. Come abbiamo detto prima, sebbene nei movimenti contemporanei le dinamiche di destituzione siano all'opera, esse sono troppo spesso coperte dalla pacificazione, dall'ordine e dal regno della normalità. Per Idris Robinson, il compito dei rivoluzionari è quello di rivelare le dinamiche della destituzione al fine di sconvolgere l'ordine delle cose e precipitarlo in un conflitto incontrollabile. Piuttosto che dire che la destituzione è immanente nelle rivolte contemporanee, si sostiene che l'ingestibile situazione conflittuale è in realtà il risultato dell'organizzazione di una forza destituente. È pertanto necessario «organizzare un potere capace di produrre un nemico diametralmente opposto, provocando così uno scontro così selvaggio da portare a una situazione totalmente ingestibile, incontrollabile e ingovernabile».[*7] È ovvio che non esiste un interruttore che possa innescare magicamente un confronto così selvaggio da portare a una situazione totalmente incontrollabile. Ciò che è possibile è invece cercare, spingere e rivelare tutti gli antagonismi contenuti in ogni situazione. Come minimo, dobbiamo ricostruire un immaginario di lotta politica, e cercare coloro che possono essere d'accordo su degli approcci simili. Se la miseria della politica ha preso per il momento la forma di un rifiuto, il contenuto di ciò che potrebbe essere una politica della destituzione resta tutto da elaborare. La questione, pertanto, è come se essa consistesse nello sviluppare una forza politica capace di rafforzare la polarità rivoluzionaria all'interno delle situazioni, di rendere più forte l'opzione destituente. Come possiamo assicurarci che «non ne rimanga fuori nessuno»? Armare la distruzione con una politica ci permette di immaginare un contenuto positivo per tutti i vari rifiuti che essa comporta. La politica che qui cerchiamo di descrivere riguarda il modo in cui rimaniamo fedeli a delle situazioni che sconvolgono il corso ordinario delle cose, in modo che ciò che si apre in queste situazioni poi non si richiuda, non appena riprende la normalità. Alain Badiou lo ha detto giustamente, quando ha scritto che "il partito" è ciò che organizza la fedeltà all'evento emancipatore, assumendosene le conseguenze per quanto possibile. Ciò che viene poi rivelato, e a cui dobbiamo rimanere fedeli, è la seguente verità: la normalità dell'economia non è l'unica strada concepibile; È possibile fare scelte basate su altre logiche. Dobbiamo politicizzare i rifiuti in rivolta che emergono e che possono sconvolgere irreversibilmente le nostre vite, diventando parte di noi. Se le rivolte etiche hanno il potere di scoppiare, la sfida allora è quella di trovare le forme politiche che le facciano durare nel tempo, le dichiarazioni che le rendano condivisibili al di là dell'esperienza. Rimanere fedeli a questa verità significa continuare ad alimentare un tale sconvolgimento. Questa densità condivisa, esiste in opposizione all'economia, e impone necessariamente qualcosa che trascende le nostre stesse vite. Da lì, la politica chiama in causa l'idea di un "noi", che è un'appartenenza, ma che dobbiamo sempre cercare di collocare all'interno di un orizzonte, sebbene in quanto partecipanti a un campo. Un'inclinazione contemporanea, profondamente liberale, spinge alcuni a concludere che devono evitare di essere coinvolti in qualsiasi gruppo, che «la mia vita, è la mia scelta». In definitiva, allora sarebbe più interessante navigare nella destituzione emotiva del liberalismo esistenziale, piuttosto che farsi coinvolgere in quella che potrebbe però diventare una deriva settaria. La critica dell'attivismo, che noi stessi abbiamo diffuso, era infatti troppo solubile in quest'epoca.[*8] Per uscire da questo vicolo cieco, crediamo sia necessario formalizzare gli spazi politici. Formalizzarli nel senso di dare loro forma e metterli in parole, in modo da chiarire i contorni di una posizione: chi la condivide, per quanto porosa essa sia, in che cosa ci relazioniamo con essa, e come si può rafforzarla? Crediamo inoltre che sia possibile formalizzare le nostre posizioni senza tradire la nostra appartenenza a un "noi" più grande, quello degli insorti, il nostro partito storico. In altre parole, dobbiamo darci forme politiche, pur sapendo che le situazioni riveleranno i loro limiti e dovranno essere superati. I nostri organi di coordinamento partigiani, i nostri nuclei rivoluzionari, non devono mai perdere di vista il loro rapporto con una cospirazione più grande. Il piano rimane quello della rivoluzione nel momento dell'insurrezione. Tutto il resto sono solo prolegomena. Da un lato, l'"ambiente rivoluzionario", in gran parte caratterizzato dall'informalismo e dal rifiuto di impegnarsi, non è chiaramente all'altezza del compito. Per paura di affrontare il muro del significato, o per una coscienza di sinistra colpevole, abbiamo sviluppato un riflesso per cui si creano spazi per gli altri, anche se ciò significa affermare delle mezze verità nelle quali non crediamo, nella speranza di aumentare il nostro numero. In mancanza di uno spazio in cui mettere in gioco gli orientamenti strategici – e non in termini di lotte settoriali, ma in termini di orizzonte rivoluzionario – i vari tentativi organizzativi sono tutti destinati a produrre un'agitazione radicale senza alcun futuro. D'altra parte, le attuali risposte formalizzanti sono insufficienti a ricostruire una forza capace di realizzare e far crescere la possibilità rivoluzionaria. Qui ci proponiamo di delineare i contorni di questa forza, che chiamiamo il campo rivoluzionario, e lo spazio più ristretto da cui la concepiamo, il nucleo.
Costruire il campo rivoluzionario
Il Partito - che fino a non molto tempo fa ospitava al suo interno la stragrande maggioranza delle organizzazioni rivoluzionarie - negli ultimi decenni è stato sostituito dall'ambiente. Ciò che oggi lega i rivoluzionari, è essenzialmente un insieme di relazioni interpersonali implicitamente politiche. L'ambiente è una fantasia di organizzazione, un aggregato senza orizzonte, quasi accidentale, che si riproduce attraverso date ritualizzate (fiere del libro, manifestazioni annuali, ecc.), in un'estetica radicale, o attraverso la creazione di nuovi progetti che moriranno con la stessa rapidità con cui sono nati. Anche se può concentrare le sue forze durante questo o quell'evento, bisogna ammettere che questa forma non ha prodotto il minimo chiarimento politico che vada oltre il suo microcosmo nell'ultimo decennio. Niente di così tanto minaccioso per il momento. Tuttavia, c'è indubbiamente ancora qualcosa che assomiglia a una sorta di "festa storica", vale a dire,un modo per dare un nome a tutte le persone e alle iniziative che stanno lavorando attivamente per rovesciare il mondo dell'economia e dei suoi governi. Dal momento che è questo modo di immaginare le cose che ci ispira, crediamo che sia possibile formare qualcosa di simile a un campo solo nella misura in cui siamo veramente organizzati. Abbiamo bisogno di "fiction" – di storie, di narrazioni, di idee che ci permettano di pensare e di riconoscerci – che ci spinga a produrre forme. Un piano di coerenza. Per noi, il campo rivoluzionario non è solo un luogo per condividere idee, ma anche per schierarsi attivamente a favore della rivoluzione. Deve servire come spazio per la discussione, per la pianificazione strategica e per l'organizzazione tra i diversi gruppi. Il campo è uno spazio, non è un'istituzione che può essere replicata con i suoi codici e le sue procedure. Piuttosto, si tratta di un modo di pensare alla cospirazione, una forma che sta cominciando a diffondersi. Pertanto, il campo rivoluzionario è tanto un'ipotesi quanto una forma concreta di organizzazione politica. Lo scopo di uno spazio come il campo, è principalmente quello di rimediare alla natura dispersa e isolata delle forze rivoluzionarie. In una data situazione, il coordinamento all'interno del campo ci porta a considerare interventi più potenti, sia tatticamente che in termini di discorso. Evita di moltiplicare le chiamate e di confondersi. Se necessario, pensate ai disaccordi su basi politiche e strategiche, ma non in termini di incomprensioni o di conflitti interpersonali. Al di fuori del movimento, quando le forze tendono a ripiegarsi su se stesse, il campo stabilisce uno spazio nel quale lo scambio permette di resistere nel tempo. Allo stesso modo, il campo offre una distanza strategica tra le forze che lo compongono. Anziché fonderle, ne consente la loro interazione. Il campo non costituisce un punto di enunciazione, o un nuovo soggetto politico capace di agire e di esprimersi. Quello che cerchiamo di organizzare, è la cospirazione: si tratta di trovare il modo per riunire le varie forze in gioco e di uscire dalle nostre impasse. Tuttavia, il campo non può essere ridotto a uno spazio che rappresenti tutti gli elementi che lo compongono. I diversi gruppi, non dovrebbero affrontarlo alla maniera di un congresso – in cui ognuno cerca di affermare le posizioni della propria unità politica, ponendola al di sopra di quelle degli altri – né alla maniera di un'assemblea, da cui una decisione deve emergere attraverso il conteggio dei voti individuali. Le decisioni che vi si prendono, si basano sulla possibilità di accordi, di mediazioni, e di iniziative trasversali alle forze che lo compongono: una nuova situazione può portare a un'iniziativa originale che tuttavia non si sovrappone alla divisione precedente, o a tutti i gruppi presenti, ma è un insieme nuovo a sé stante. L'appartenenza si basa sull'incontro tra posizioni diverse, e deve essere sempre aggiornata; ma proprio per questo è più sincera. Oltre all'appartenenza, raggiunta attraverso un comune senso politico, e la scelta di una narrazione condivisa, crediamo anche nella natura generativa dell'impegno. Il campo deve fornire spazi formali e concreti che abbiano un'interiorità, che siano legati alla presenza attiva e alla partecipazione: spazi di discussione, dibattito, pianificazione, debriefing, ecc. Il grado di formalizzazione, così come le caratteristiche dei gruppi che lo compongono - e la questione se possa includere individui o solo gruppi - rimangono da determinare in base alle linee guida di base stabilite da coloro che utilizzano questo spazio. Anche se il campo non richiede che tutti i suoi membri abbiano le stesse priorità, presuppone tuttavia un criterio e un orientamento di base, che è quello di sollevare e far vivere la questione della rivoluzione: la capacità di dire "noi", anche se questo necessariamente copre le differenze. Ma l'etichetta di "rivoluzionario", applicata indiscriminatamente, non può essere una garanzia di appartenenza. Il campo non è un ambiente, o una rete che raccoglie tutti i tipi di tendenze insieme alle loro rivendicazioni di radicalismo. Per le forze che appartengono al campo, l'attività politica dev'essere parte di una strategia che possa essere spiegata. In assenza di una strategia, allora si profila il problema di una "scatola nera" che possa essere in grado di trasformare magicamente ogni forma di coinvolgimento riformista in attività rivoluzionaria. Ovviamente, è impossibile decidere, al di fuori di una data situazione, cos'è che definisca esattamente una posizione rivoluzionaria. Questo esercizio di discernimento rimane fondamentale; È attraverso tale porta che un giorno dovremo uscire dal tunnel della decostruzione. Non ci lasceremo ingannare di nuovo dal riformismo, o dalla presa del potere statale. La rivoluzione implica uno sconvolgimento dell'ordine stabilito e dei modi di vita da parte delle masse insorgenti. Tutti coloro che lavorano instancabilmente per l'avvento di un simile sconvolgimento, e decidono di organizzarsi su questa base, parteciperanno al campo rivoluzionario.
Formazione di Nuclei densi
Quali sono le forme politiche che si troverebbero all'interno del campo rivoluzionario? Indubbiamente un po' di tutto ciò che abbiamo visto prima: gruppi di affinità, piccole cellule comuniste, gruppi di amici, membri di organizzazioni politiche, persone che fanno dei tentativi nel contesto di lotte territoriali, o su questioni sociali, o economiche, ecc. La composizione varierebbe sicuramente a seconda del luogo, del livello di intensità e delle forme di organizzazione politica specifiche di ciascun luogo. Tuttavia, la formazione di unità politiche dense e determinate cambierebbe drasticamente quella che è la forza di uno spazio come quello rappresentato dal campo rivoluzionario e cambierebbe anche l'atmosfera politica generale. Queste unità sono ciò che chiamiamo Nuclei Rivoluzionari. Uno dei limiti attuali che vediamo, è rappresentato dalla mancanza di una posizione chiara da parte dei gruppi organizzati. Il gruppo di affinità, così come l'ampia organizzazione formale, sono soggetti a questa lacuna. Per formulare una posizione, un nucleo rivoluzionario dovrebbe porsi alcune domande, tipo: qual è il nostro quadro di analisi? Qual è la nostra prospettiva strategica per i prossimi mesi e anni? A cosa daremo la priorità? Perché? Quali interpretazioni condividiamo delle nostre esperienze comuni? Dei nostri fallimenti e dei nostri successi? Non si tratta di produrre grandi meta-narrazioni, spiegazioni universali che cerchino di abbracciare tutte le esperienze e le situazioni. Le nostre interpretazioni devono essere in grado di adattarsi alla situazione ed emergere direttamente da essa; una volta che vengono fissati, ci limitano e ci confinano a essi. Dobbiamo essere in grado di riunirci intorno a una serie di considerazioni articolate che possano essere ascoltate e condivise dagli altri. I nuclei rivoluzionari sono delle forme politiche capaci di assolvere a questo compito, in quanto costituiscono la forma più densa di organizzazione politica. Non è il numero dei membri all'interno di un nucleo, che ne crea la densità, quanto piuttosto la posizione politica decisa da coloro che lo compongono. La sua posizione non può essere riassunta in dei principi generali, o in identità condivise. Piuttosto, costituisce un forte accordo politico che ha delle conseguenze. La mancanza di posizionamento tra i diversi gruppi organizzati contribuisce alla confusione che attualmente prevale. Senza proposte sul tavolo, è impossibile capirsi o situarsi in relazione l'uno con l'altro, se non attraverso effetti di distinzione; quella interpersonale ha la precedenza su quella politica. Per definizione, una posizione è costituita tanto dalle coordinate che consentono di localizzare un oggetto in relazione a un altro, quanto dall'orientamento che questo oggetto assume in base al suo orizzonte. Il nucleo dev'essere un punto di enunciazione. Prendere posizione, significa esprimere, affermare, formulare, attraverso una presa di posizione che si decide di prendere per essere presa, una lettura del mondo a cui aderire. Tuttavia, una posizione è anche il modo in cui qualcosa è predisposto e organizzato. La forma è inseparabile dalla sostanza. Nel nucleo, l'impegno si basa sulla fiducia e sulla comprensione, le quali rafforzano i legami e mantengono la forma nel tempo. Una simile comprensione si sviluppa attraverso un accordo reciproco: dare priorità a qualcosa che riguarda un orizzonte assai più ampio della vita collettiva del gruppo. Ogni nucleo poggia necessariamente su un fondamento etico, esplicito o meno. Per noi, l'impegno politico implica una profonda trasformazione della vita; significa mettere in discussione il nostro rapporto con il denaro e con il lavoro, sperimentare la vita collettiva, condividere non solo le cose materiali, ciò che abbiamo, ma anche quello che siamo, i nostri desideri, le decisioni che prendiamo. Aprire lo spazio del comune sfida la logica dell'appropriazione e della valorizzazione all'interno del gruppo. Senza voler ridurre la politica alla vita stessa, crediamo che ciò che condividiamo abbia un senso: crediamo che la vita cambi quando essa viene vissuta insieme. Ed è ciò che dà forza e sostiene l'impegno. A partire dalla nostra esperienza, sappiamo che la mancanza di chiarimento sulle forme costituisce uno dei problemi con le bande e con i gruppi di affinità. Questa ambiguità ostacola la loro porosità, e rende arbitrari i loro criteri di appartenenza. Mentre riconosciamo, come importanti, l'intensità della sperimentazione collettiva e l'opacità cospirativa che le guida, è la struttura centrale che offre la possibilità di formalizzare le procedure, chiarire i ritmi e problematizzare le modalità di entrata e di uscita. In questo senso, la cosa assomiglia a un'ampia organizzazione formale. Per non ristagnare, il nucleo cerca necessariamente di incontrare altri nuclei, di diventare più forte e più saggio. È attraverso l'appartenenza al nucleo, che l'impegno dei suoi membri può essere mantenuto e chiarito. Allo stesso modo, la condivisione delle proposte, e l'impegno nei loro confronti, ne rendono possibile l'espansione. I nuclei hanno veramente senso solo nella misura in cui essi rimangono in dialogo con altri nuclei, e con lo spazio più ampio del campo rivoluzionario. Mentre per il momento siamo in grado di sperimentare solo dei nuclei di questo tipo, coinvolgendo solo poche decine di persone, la nostra scommessa è che sia possibile farlo con molte di più. La storia è piena di esperimenti di ogni genere che, senza tradire la densità dei loro legami, sono stati in grado di crescere di numero.
Spazi di sperimentazione: comunismo, uso, politiche
Se a volte sembra che un divario immenso separi i rivoluzionari – quelli del dizionario teorico politico – le nostre inclinazioni puntano tuttavia in una direzione comune. Quasi orfani politici, esausti per essere stati costantemente respinti dal muro del significato, ci sono almeno due cose che ci uniscono. Il primo, e più immediato, si rivela in tutto ciò che cerchiamo di incontrare, o provocare, nei vari movimenti sociali, e in quelle situazioni che ci troviamo ad affrontare: gesti di rottura, discorsi che sfuggono alla logica del diritto e della legittimità, pulsioni ingovernabili. È solo attraverso un supplemento di organizzazione, e non attraverso la semplice partecipazione, che ciò che manca in una situazione può essere compreso e portato a compimento. Il secondo, invece, sta nel nostro desiderio di affrontare la questione rivoluzionaria, basata sui fallimenti del secolo scorso e sugli ostacoli del nostro immediato presente. I nostri percorsi puntano verso una ritirata dalla politica del potere, ma fino a ora sono rimasti in tensione con la formulazione della nostra politica e con il principio dell'organizzazione. È all'interno di questa tensione che ci orientiamo. Stiamo parlando di spazi strategici, in quanto uso della politica. Ma cos'è che rende possibile questo uso o, più in generale, cosa rende possibile la politica? Siamo impegnati nella dimensione negativa della politica destituente, perché sappiamo che è nella distruzione del potere statale che risiede la possibilità della comunizzazione. L'insurrezione, l'evento politico per eccellenza, è proprio il momento privilegiato, dal momento che esso permette di aprire la questione più generale possibile, al maggior numero possibile di persone. In esso, ogni tentativo prefigurativo o progettuale verrebbe umiliato o imposto. Tuttavia, questo ridispiegamento negativo della politica, la sua sfiducia nei fini, ci impone di ripensare il significato del comunismo, il quale è servito da orizzonte nella politica dell'ultimo secolo. Il comunismo è stato disastrosamente inteso e visto come la fabbricazione di un nuovo mondo da parte dello Stato. Oggi, invece, pensiamo al comunismo come alla condizione della politica destituente, in almeno due modi. In primo luogo, il comunismo è il nome dato a una politica di inimicizia e di antagonismo nei confronti del capitale. Come sottolinea Bernard Aspe, esso è il nome dato a una filosofia generale dell'antagonismo, dell'inconciliabilità con il mondo, e della possibilità di esteriorità qui e ora. Il comunismo, è quindi il nome di una possibilità della politica, perché una politica può rivelarsi solo in relazione a un'altra, che le serve come nemico a livello di totalità. Non momentaneamente, in quello che è un processo di modifica interna, ma completamente. È proprio rivelando come siano possibili decisioni diverse da quelle legate agli interessi, che il comunismo si afferma come il nome di una politica contro l'economia. In secondo luogo, il comunismo si riferisce alla condizione della politica in un altro modo ancora: non possiamo immaginare di caricarci sulle spalle qualcosa politicamente, senza un'elaborazione collettiva. Ciò richiede l'apertura di uno spazio in cui la questione della sopravvivenza non costituisca più la questione centrale. Più che un accordo materiale, il comunismo trascende la nostra semplice capacità di sbarcare il lunario, e sorge nel momento in cui gli esseri smettono di contare, e invece condividono, sia ciò che sono tanto quanto ciò che hanno. La ritirata etica è, dopo tutto, solo una delle possibili forme che la destituzione può assumere. Se permettiamo che la dimensione esistenziale del movimento destituente si gonfi indefinitamente, la sua carica comunista finisce allora per essere neutralizzata. Non stiamo dicendo che questa dimensione debba essere negata, ma solo che deve essere collegata alla costruzione di una forza politica. Il comunismo è un'idea che ci guida, qualcosa che miriamo a diffondere, tanto quanto cerchiamo di scoprirlo nel mondo. È una relazione che ci consente di vedere in un gesto, o in un evento, il potenziale di divisione, di intensificazione o di alleanza. Il comunismo è vissuto da molti proprio laddove la logica dell'appropriazione fallisce, come se fosse un ambito: dove si abolisce la distanza tra chi decide e chi agisce, tra chi possiede e chi non lo fa, permettendo di prendere decisioni, di decidere orientamenti, di adottare o eliminare pratiche. In questo senso, il comunismo può essere vissuto solo ponendosi a una certa distanza dallo Stato. Il terreno da cui crescono simili esperimenti, non è quello del piacere del combattimento, o di qualsiasi conoscenza scientifica che riguardi la possibilità che l'incubo potrebbe finire, sebbene questa possibilità può nutrirci. Il suo terreno fertile è quello della verità condivisa secondo cui l'incubo può finire. Naturalmente, la nostra partecipazione a questa o quella situazione non è mai completamente condizionata; possiamo sempre essere travolti da un evento, indipendentemente da qualsiasi spazio che lo abbia preceduto, o che gli sopravviva. Tuttavia, chiunque trovi lì dei compagni, e decida di rimanere fedele all'evento, si troverà inevitabilmente di fronte alla domanda: come potrebbe continuare tutto questo? Per quanto utile sia la distinzione tra etica e politica, qui possiamo toccare il loro punto di inseparabilità.
- Anonimo - Ottobre 2nd, 2025 - fonte: https://illwill.com/
NOTE:
1. Jacques Camatte, “Against Domestication” (1973), online here. L’originale francese è stato recentemente ripubblicato qui.
2. «Devono andarsene tutti», è la seconda parte dello slogan, troppo spesso dimenticato, («e nessuno deve rimanere»), annuncia forse il compito della nuova fase di destituzione che si sta aprendo.
3. Kiersten Solt, “Seven Theses on Destitution” Ill Will, February 12th, 2021. Online here.
4. Anonymous, Conspiracist Manifesto, trans. Robert Hurley, Semiotexte, 2023, 301.
5. Si consideri l'esempio della sequenza politica del 2012 in Quebec e il modo in cui è stata portata a termine. Molti mesi di accese proteste si sono ridotti alla questione delle tasse universitarie e a un cambio di governo attraverso le elezioni.
6. La politica informale non è stata in grado di fornire una teoria che andasse oltre la propria esperienza. Si limita al silenzio, alla malinconia o alla ricerca.
7. Idris Robinson, “Introduction to Mario Tronti’s ‘On Destituent Power,’” Ill Will, May 22nd, 2022. Online here.
8. Il rifiuto dell'attivismo classico, che separa artificialmente le scelte di vita e le prospettive politiche, ha generato confusione su ciò che costituisce l'azione politica. Il rifiuto della politica classica ha portato a una tendenza a confondere completamente la distinzione tra etica e politica, rendendo oscura o ambigua la differenza tra l'organizzazione dell'esistenza e lo sviluppo delle forme politiche.
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