martedì 3 gennaio 2017

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Pericle insegna Realpolitik
- di Luciano Canfora -

Prima che l’Ue comprasse, al prezzo di alcuni miliardi di euro, dall’attuale «sultano» turco il desiderato blocco dei migranti entro il recinto della penisola anatolica, masse di persone tentavano il passaggio in Europa alla ricerca di una vita migliore, raggiungendo, dalla costa turca, l’isola di Lesbo. In quelle settimane, l’esodo e l’accoglienza generosa, ancorché ardua, che i migranti hanno ottenuto in terra greca richiamarono alla mente fatti e traumi storici di un passato apparentemente lontano.

Innanzitutto l’idea greca — e già omerica — dell’ospitalità. Non paia singolare questa formulazione, giacché Omero racconta non uno ma due mondi, quello greco (gli Achei) e quello della Troade (che i Greci intendono conquistare e saccheggiare): ebbene, su entrambi egli proietta le stesse usanze, la stessa sacralità dell’ospite, dello straniero. Glauco (licio alleato dei Troiani) e Diomede (greco) si scambiano le armi perché i loro antenati erano stati in rapporto di ospitalità. Ma quel passaggio, quel minuscolo braccio di mare, poi precluso a suon di euro, alludeva anche ad altro: ai rapporti, mutevoli nel tempo, tra le due sponde (Lesbo di fronte a una costa ormai asiatica, un tempo greca). E alludeva anche — in antitesi alla miseria dell’oggi — al grande secolo per eccellenza, al V avanti Cristo, segnato dall’impero ateniese, di cui Lesbo, Chio e Samo — le tre grandi isole antistanti l’Asia — erano il nerbo.

Se la storia della civiltà greca è stata, talvolta, raffigurata come un «viaggio dello spirito», si potrebbe dire che tale viaggio era incominciato proprio nell’area ionico-eolica: nella grecità della costa asiatica (Efeso, Mileto, Smirne) e delle grandi isole che abbiamo prima ricordato. La forma politica dominante era stata, lì, come nel resto della Grecia (tranne Sparta) e in Magna Grecia, quella della «tirannide». Ma il «tiranno» non era ciò che la retorica dei secoli seguenti creò: era innanzi tutto un «mediatore» e aveva dietro di sé, oltre a un clan familiare o interfamiliare, anche una base popolare. Per i clan avversi, ovviamente, egli era il nemico, e quando moriva (non sempre di vecchiaia) si festeggiava.

Lesbo, la cui fioritura si pone nei secoli VII e VI a.C., fu, a quel tempo, una grande potenza: colonizzò la Troade e il Chersoneso tracio. E vide anche una notevole fioritura culturale, rappresentata per noi soprattutto da due grandi nomi, Saffo e Alceo. Figure più diverse sarebbe difficile immaginare: il quasi completo disinteresse di Saffo per ciò che accade intorno (non solo nel «mondo grande e terribile», ma addirittura fuori della porta di casa) ci sconcerta, rinvia a un mondo autosufficiente e socialmente privilegiato; la violenza verbale, il tuffarsi nella lotta politica (cioè nella guerra civile), che i componimenti di Alceo testimoniano, stanno invece a dimostrare quanto periglioso e conflittuale fosse il contesto nel quale la poetessa sognava. Poi si abbatté su tutti quella crisi epocale, protrattasi per quasi un venticinquennio, che può considerarsi un unico processo — rivolta ionica, prima e seconda invasione persiana miranti a colpire innanzi tutto Atene —, al termine del quale si forma e si impone sulla scena internazionale quell’unicum ideologico-politico-economico che fu l’impero ateniese (478-404 a.C.).

Lesbo, come del resto gran parte degli «isolani», entrò presto a farne parte. E presto si rese conto, sulla propria pelle, di quanto veridica fosse la celebre definizione-diagnosi dell’impero (di ogni impero) che Pericle affida (nel II libro tucidideo) al suo ultimo discorso: «L’impero è tirannide». In altre parole: chi tenta di andarsene, magari sbarazzandosi preventivamente e con la forza del governo democratico imposto da Atene, va riportato all’ordine, senza mollezza.

Tre episodi memorabili vanno qui ricordati e riguardano la repressione di Samo (441-440 a.C.), di Lesbo (428 a.C.) e di Melo (416 a.C.). Tre casi diversi con esiti diversi. Il primo fu trattato direttamente da Pericle e fu una vera e propria guerra, durissima, al termine della quale Samo, tornata sotto il potere «popolare», divenne l’alleato più fedele di Atene. Il secondo — Lesbo (Mitilene) — esplose poco dopo l’inizio della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e fu determinato dall’illusione, a Mitilene epicentro della secessione, che Sparta sarebbe intervenuta a sostegno del nuovo potere oligarchico, promotore della secessione. Questo non avvenne: Sparta aveva un’idea molto prudente e realpolitica dell’«internazionalismo» tra oligarchie. Lo scontro ci fu invece — dopo la sconfitta dei ribelli — all’interno della stessa capitale dell’impero, in Atene davanti all’assemblea. Due linee si affrontarono e l’assemblea popolare votò, in sequenza, due delibere tra loro opposte in merito al trattamento da infliggere ai ribelli: la linea durissima, periclea, propugnata da Cleone, leader della democrazia, fu ribaltata e il massacro in massa dei ribelli non ci fu. Comunque Atene impose nell’isola una cleruchia, cioè vi installò un cospicuo gruppo di coloni, in genere cittadini pleno iure ma non possidenti, ai quali venivano assegnati lotti di terra tolti d’autorità ai vinti. A Melo, nel 416, repressione invece ci fu e anche insediamento di cleruchi.

Tutto ciò fu cancellato dalla vittoria spartana al termine della quasi trentennale guerra (aprile 404). L’impero fu sciolto, i cleruchi furono cacciati e tornarono ad Atene come massa immiserita e socialmente inquietante, le terre — a Lesbo, a Melo, a Egina e altrove — furono restituite agli antichi proprietari (quelli ancora in vita).

- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere/Cultura del 20 dicembre 2016 -

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