Autore di pluripremiati libri di fantascienza e fantasy, come "La città e la città", China Miéville è anche un riconosciuto autore marxista che ha dedicato la sua ricerca allo studio del diritto internazionale. La sua tesi di dottorato, “Between equal rights: A marxist theory of international law”, è forse uno dei più importanti testi nel canone marxista dedicato allo studio del diritto internazionale. Nel saggio che segue, che consiste del quarto capitolo della suddetta tesi, l'autore vivifica il pensiero di Evgenij Bronislavovic Pašukanis, giurista sovietico, al fine di determinare quali sono le implicazioni della forma giuridica rispetto allo Stato ed al diritto internazionale.
Coercizione e forma giuridica: politica, diritto (internazionale) e Stato
- di China Miéville -
1. Il problema della politica
Molti critici affermano che nella teoria di Pašukanis non c'è spazio per la politica: sarebbe questo, apparentemente, il suo problema più tenace. Nella misura in cui la "amministrazione" viene vista come politica, l'argomento precedentemente esposto per cui tale amministrazione rimane ancora derivata dalla stessa forma giuridica è un tentativo di risposta alla questione. Tuttavia, non è sufficiente. Questa integrazione dell'amministrazione all'interno della teoria della forma-merce contribuisce in qualche modo a dimostrare come pratiche politiche particolari possano procedere di pari passo con la forma giuridica, ma lascia intatto il problema di comprendere in maniera sistematica la relazione fra la forma ed il contenuto del diritto.
Lo stesso Pašukanis si era preoccupato di evidenziare l'importanza di non feticizzare la politica, il contenuto del diritto, come fonte della disuguaglianza fra le classi. «Le categorie giuridiche fondamentali non dipendono dal contenuto concreto delle norme giuridiche, vale a dire, esse conservano il loro significato anche quando il contenuto materiale concreto è alterato in un modo o nell'altro.» (Pašukanis). Egli descrive quei marxisti che si focalizzano sul «contenuto concreto delle norme giuridiche e sullo sviluppo delle istituzioni giuridiche» come se non ci fosse «responsabilità per la giurisprudenza».
Tuttavia, Pašukanis ha considerato il proprio lavoro una correzione rispetto alla tendenza ad analizzare isolatamente il contenuto giuridico. Ciò non significa che tale contenuto non sia importante - ma solo che si deve procedere a partire da una base corretta. Pašukanis accetta come «legittimo, fino ad un certo punto» focalizzarsi sul contenuto. Ma nel fare questo, spiega, «tutto ciò che otteniamo è una teoria che spiega l'emergere della regolamentazione giuridica a partire dalle necessità materiali della società, e in questo modo si fornisce una spiegazione del fatto per cui le norme giuridiche si conformano alle necessità materiali di classi sociali particolari». Questo non è un cattivo punto di partenza. Ma, se vogliamo superare un nebuloso funzionalismo di sinistra, il contenuto del diritto dev'essere considerato un contenuto di una forma particolare.
La teoria di Pašukanis è una teoria della forma giuridica, ma questo non vuol dire che sia ostile all'esame dei contenuti giuridici particolari [*1]. Anche uno dei suoi critici osservava che il «trionfo teorico di Pašukanis (...) è stato quello di stabilire un legame fra il feticismo della forma ed il feticismo del contenuto» (Bob Fine). Tuttavia, ha trascurato di esaminare i meccanismi di relazione fra forma e contenuto. È questo che lo ha reso vulnerabile alle critiche per cui non ci sarebbe spazio nel suo lavoro per una politica del diritto - per una politica del contenuto giuridico.
Questa lacuna può essere meglio affrontata all'interno della sua teoria. In fin dei conti, mentre la politicizzazione della legislazione non compromette la comprensione della forma giuridica, il senso dei processi dello "uso politico" del diritto può essere colto solo per mezzo di un'adeguata comprensione della forma giuridica.
Uno dei seguaci moderni di Pašukanis pone succintamente la questione:
«Pašukanis viene criticato per aver trascurato il ruolo del diritto in quanto strumento del dominio di classe nelle mani della classe capitalista. Contro questo, vanno dette due cose. Secondo Marx, la principale forma del dominio di classe nel capitalismo è quella che deriva dalla proprietà esclusiva sui mezzi di produzione da parte della borghesia, che fa sì che il resto della popolazione sia effettivamente proprietaria solo della sua forza lavoro. La teoria di Pašukanis mostra con successo come il diritto serva a tale forma di dominio nello stesso tempo in cui sembra proteggere anche i diritti di proprietà sia del lavoratore che del capitalista. Al di là dell'uso e dell'abuso del diritto da parte di chi detiene il potere, Pašukanis mira a darci solo la struttura generale del diritto. Egli non nega che all'interno di questa struttura, coloro che detengono il potere di farlo, useranno il diritto per servire i loro propri fini» (Reiman).
Jessop è ancora più diretto:
«Pašukanis è stato attaccato per aver suppostamente ignorato il ruolo decisivo svolto dalla repressione nell'ordine giuridico e nello Stato borghese. Tale critica è ingiustificata. In quanto Pašukanis non solo sottoscrive integralmente (non importa se a ragione o a torto) la visione marxista-leninista dello Stato come macchina di repressione di classe ed enfatizza il ruolo della ragion di Stato e della pura convenienza in determinate aree dove esso opera (...), ma fornisce anche una valutazione esplicita dell'apparenza contraddittoria del diritto in quanto libertà soggettiva combinata con la regolazione esterna e, di fatto, tende a conferire, nella sfera del diritto pubblico, un maggior peso al ruolo della violenza organizzata rispetto a quello della volontà individuale...» (Jessop).
Sarebbe eccessivamente semplicistico considerare la teoria del diritto di Pašukanis una bottiglia vuota all'interno della quale possa essere versato qualsivoglia contenuto. Significherebbe concettualizzare separatamente contenuto e forma, come se fossero qualità isolate di una formazione sociale e, pertanto, non riuscire a comprendere l'interrelazione dialettica fra le due cose. Come propone Chris Arthur, «da un punto di vista dialettico una forma è la forma del suo contenuto, e dobbiamo obiettare da subito a chiunque immagini che Pašukanis abbia cercato di scrivere un trattato sulle forme giuridiche astraendo dai loro contenuti. Questa sarebbe un'incomprensione. Nel caratterizzare il diritto come una forma borghese egli sta chiaramente relazionando il diritto ad un contenuto materiale definito - le relazioni sociali fondate sullo scambio delle merci» (Arthur).
Ma si devono fare tuttavia altri due passi. Il primo è quello di ricordare che le relazioni sociali del capitalismo non sono semplicemente «relazioni sociali fondate sullo scambio di merci», ma sono anche relazioni sociali di sfruttamento delle disuguaglianze che assumono la forma di lavoro salariato. Per poter dare conto della forma salario è imprescindibile qui lo sviluppo della forma giuridica. Al contrario di Pašukanis, ho sostenuto che la forma merce della forza lavoro sotto il capitalismo permette che la merce venga sottomessa alla forma giuridica in sé. Di conseguenza, dal momento che la forma giuridica incarna il contenuto concreto delle relazioni sociali fondate sullo scambio di merci, in cui la stessa forza lavoro viene universalmente mercificata, sotto il capitalismo la forma giuridica penetrerà le relazioni particolari dello sfruttamento di classe da parte dello sfruttamento capitalista. Per meglio chiarire: non è nell'incarnare l'uguaglianza formale astratta del semplice scambio di merci, ma nel farlo nelle condizioni particolari del capitalismo, che la forma salario, luogo dello sfruttamento, viene portata dentro il regno del diritto come forma merce.
Tuttavia, queste derivazioni rimangono ad un livello molto astratto: le relazioni sociali capitalistiche possono manifestarsi giuridicamente in molti modi. E tale manifestazione può non avvenire in maniera unilaterale a favore degli interessi del capitale: la lotta di classe è intrinseca al capitalismo, e il tentativo di "addomesticare" la resistenza significa che possono essere approvate leggi "progressiste" grazie alla forza della classe lavoratrice - sebbene queste leggi possono convertirsi in vantaggio per il capitale. La discussione di Marx a proposito della legislazione che limitava la giornata lavorativa, ad esempio, dimostra come le leggi, anche se vengono fatte su pressione della classe lavoratrice, portino ad un miglioramento delle capacità produttive del capitale (Marx) [*2].
La discussione di Marx a proposito della legislazione di fabbrica è importante non solo quando dibatte la questione di come le leggi siano raramente "a favore" o "contro" una classe particolare. Ma, cosa ancora più importante, quando stabilisce, seppure in maniera ancora incipiente, una teoria dell'imposizione di contenuti particolari alla forma giuridica.
«Il capitalista difende il suo diritto di acquirente quando cerca di rendere più lunga possibile la giornata lavorativa (...). Dall'altro lato, il lavoratore difende il suo diritto di venditore quando desidera ridurre la giornata lavorativa ad una particolare durata normale. Abbiamo qui, pertanto, un'antinomia, di diritto contro diritto, entrambi ugualmente contrassegnati dalla legge di scambio. Fra diritti uguali, decide la forza» (Marx).
Marx ha diviso in due argomenti distinti l'affermazione di Reiman secondo la quale «coloro che detengono il potere di farlo, useranno il diritto per servire i loro propri fini». Un argomento è che è molto probabile che i potenti siano in grado di accogliere o cooptare qualsiasi intenzione progressista che venga incorporata in una legge particolare. L'altro argomento, più fondamentale, è che comunemente sono i rappresentanti dei potenti quelli che di fatto fanno le leggi, che impongono contenuti politici particolari alla forma giuridica astratta, Se, dopo tutto, «decide la forza», non c'è però una battaglia equa fra capitale e lavoro. All'interno delle frontiere di uno Stato-nazione, il capitale ha dalla sua il potere legislativo, per mezzo del braccio dello Stato borghese. Ma, istituzionalmente, è al lato giudiziario dello Stato che viene dato il potere di forzare un contenuto particolare dentro la forma giuridica.
Perché lo Stato e il diritto assumono la parte del capitale?
Un'ovvia ragione, sottolineata da Miliband, può essere quella della posizione di classe della magistratura:
«Le élite giudiziarie, come le altre élite del sistema statale, sono costituite a partire dagli strati superiori e medi della società: e quei giudici che non ne provengono chiaramente passano ad integrarvisi a partire dal momento in cui assumono le loro cariche. Inoltre, l'inclinazione conservatrice cui la loro situazione di classe è predisposta, viene qui parecchio rafforzata dal fatto che i giudici sono (...) anche reclutati nelle professioni giuridiche, la cui disposizione ideologica è tradizionalmente connotata secondo modelli altamente conservatori (...). Inoltre, i governi che si trovano nella posizione di nominare e promuovere i giudici sono più suscettibili di favorire uomini che hanno proprio tali disposizioni conservatrici (...). La ragione per cui tali disposizioni ideologiche sono importanti è ovvia - condizionano parecchio il modo in cui la funzione giudiziaria viene svolta. Viene generalmente accettato il fatto che i giudici non sono "macchine per vendere i diritti", o prigionieri indifesi di un insieme di norme legali oppure meri espositori del diritto così come lo trovano (...). Nel lavoro giuridico contemporaneo, c'è inevitabilmente spazio per la discrezionalità del giudice per quanto riguarda l'applicazione del diritto e la creatività giudiziaria (...). Nell'interpretare e creare il diritto, i giudici non possono non continuare ad essere profondamente condizionati dalla propria visione del mondo» (Miliband).
C'è poco con cui dissentire qui, per quanto lontano si possa andare. Il problema con la posizione di Miliband è la poco convincente implicazione per cui la natura capitalista dello Stato (e della magistratura) borghese sarebbe essenzialmente contingente alla sua struttura, e sarebbe esclusivamente radicata primordialmente in essa per le attitudini dei suoi agenti.
La notazione di Milliband per cui la magistratura è un luogo di creazione del diritto rimane, tuttavia, assolutamente corretta e si incastra perfettamente con l'enfasi di McDougal che sottolinea il ruolo creativo dell'interpretazione delle leggi di diritto internazionale. Dentro i limiti di una nazione, è lo Stato in quanto autorità suprema ed i suoi agenti ad avere l'autorità finale sull'interpretazione - e perciò sulla creazione - del diritto. Non è questo quel che avviene nel diritto internazionale, e le implicazioni di questa differenza diverranno chiare.
Se rigettiamo la teoria del diritto di Miliband, pur riconoscendo il monopolio statale sull'interpretazione giuridica autorizzata nell'ambito nazionale, la questione di come intendere lo Stato capitalista diventa molto importante, sia per comprenderne il suo senso in quanto arbitro finale del diritto interno sia per comprenderlo come unità del diritto internazionale. La portata di questo enorme dibattito può qui essere toccata solamente di passaggio. Uno degli aspetti del dibattito sullo Stato, tuttavia, è molto importante per questo capitolo: Pašukanis stesso viene frequentemente visto come una figura fondatrice di una teoria particolare dello Stato.
2. Pašukanis e la teoria della derivazione dello Stato
Abbiamo affermato che, come parte della sua teoria del diritto, Pašukanis ha elaborato uno teoria dello Stato borghese. Gli autori che si associano a quella che viene intesa come la sua posizione sono noti come Scuola "logica del capitale" o della "derivazione dello Stato" - sebbene gli autori compresi in tale definizione siano in disaccordo su molti temi, si trovano uniti su un punto di partenza metodologico astratto.
«La principale preoccupazione della cosiddetta scuola "logica del capitale" è quella di derivare la forma dello Stato capitalista dalla natura del capitale e/o stabilire i prerequisiti funzionali dell'accumulazione, la cui soddisfazione dev'essere mediata per mezzo dell'attività statale» (Jessop).
La posizione di Pašukanis in quanto patrono di questa Scuola è ampiamente accettata, qualsiasi cosa si possa pensare di essa [*3], in quanto si afferma che "ha tentato di derivare la forma storica specifica del diritto borghese e dello Stato ad esso associato dalle qualità essenziali della circolazione della merce nel capitalismo"» [*4] (Jessop).
Se questo è corretto, allora al centro della teoria di Pašukanis si trova un modello di quel corpo coercitivo che ha potere di monopolio sulla regolazione giuridica interna. Se la forma giuridica è diventata concreta per mezzo dei poteri coercitivi dello Stato borghese, e se lo Stato borghese è derivato dalle medesime relazioni sociali del diritto, emerge allora una sofisticata circolarità. Questo risponderebbe chiaramente all'accusa per cui Pašukanis manca di teorizzare il politico - ossia, gli aspetti coercitivi del diritto. Per molti derivazionisti dello Stato, il punto di partenza è la seguente questione formulata da Pašukanis:
«Perché il dominio di classe non rimane quello che è, vale a dire, la subordinazione di una parte della popolazione ad un'altra parte? Perché assume la forma di un dominio statale ufficiale o - che poi significa la stessa cosa - perché l'apparato della coazione statale non si impone come apparato privato della classe dominante, perché esso si separa da quest'ultima e assume la forma di un apparato di potere pubblico impersonale, dislocato rispetto alla società?» (Pašukanis)
L'argomento è che Pašukanis deriva lo Stato borghese, con la sua apparente neutralità, con la sua irriducibilità ad essere un insieme di interessi particolaristici, dalle necessità della mercificazione generalizzata. Data l'universalizzazione degli individui giuridici astratti, solo un arbitro astratto rispetto alle esigenze dei concorrenti - lo Stato borghese - può mantenere la loro uguaglianza formale. Jessop riassume mirabilmente questa posizione. Nel contesto della sua teoria del soggetto del diritto, «Pašukanis ha cercato di derivare la forma dello Stato borghese come un apparato di potere pubblico impersonale distinto dalla sfera privata della società civile. Egli sostiene che la forma giuridica del Rechtstaat (lo Stato basato costituzionalmente sul principio di legalità) caratteristica delle società borghesi è richiesta dalla natura delle relazioni di mercato fra individui liberi e uguali. Queste relazioni devono essere mediate, controllate e garantite da un soggetto collettivo astratto dotato di autorità per far rispettare i diritti nell'interesse di tutte le parti delle transazioni giuridiche» (Jessop).
Gran parte della teoria "derivazionista" è affascinante e teoricamente feconda [*5]. La questione, tuttavia, è se la teoria del diritto di Pašukanis e la sua apparente teoria dello Stato siano realmente inestricabili. Dovremmo cominciare esaminando quelle affermazioni in cui Pašukanis sembra "derivare" più chiaramente lo Stato.
«Il dominio assume di fatto un pronunciato carattere giuridico di diritto pubblico a partire dal fatto che, a lato ed indipendentemente da esso, sorgono relazioni che sono legate all'atto dello scambio, cioè, relazioni private per eccellenza. Nella misura in cui l'autorità appare come il garante di queste relazioni, si impone come autorità sociale un potere pubblico, il quale rappresenta l'interesse impersonale dell'ordine» (Pašukanis).
«Nella misura in cui la società rappresenta un mercato, la macchina dello Stato viene stabilita, effettivamente, come volontà generale, impersonale, come l'autorità del diritto, ecc.. Nel mercato, come abbiamo già visto, ogni consumatore e ogni venditore è un soggetto giuridico per eccellenza. In quel momento, quando entrano in scena le categorie del valore, e del valore di scambio, la volontà autonoma di quello scambio si impone come condizione indispensabile... La coercizione, in quanto imposizione fondata sulla violenza che pone un individuo contro l'altro, contraddice le premesse fondamentali delle relazioni fra i proprietari della merce. Ed è per questo che, in una società di proprietari di merci e dentro i limiti dell'atto di scambio, la funzione di coazione non può apparire come una funzione sociale, dal momento che non è astratta ed impersonale. La subordinazione ad un uomo in quanto tale, in quanto individuo concreto, nella società di produzione mercantile significa la subordinazione di un proprietario di merce dinanzi ad un altro. Ecco la ragione per cui anche qui la coazione non può sorgere sotto forma non camuffata, come un semplice atto del caso. Essa deve apparire innanzi tutto come una coazione proveniente da una persona collettiva astratta e come esercitata non nell'interesse dell'individuo da cui proviene (...) ma nell'interesse di tutti i membri che partecipano alle relazioni giuridiche» (Pašukanis).
La teoria descritta in maniera conforme è intuitivamente attraente. Ha il senso di una spiegazione del perché sia funzionale per il capitalismo un'autorità statale astratta che garantisca la forma giuridica e che, nel fare questo, dà a tale forma un contenuto concreto. Tuttavia, Pašukanis non vede lo Stato in sé come logicamente necessario al capitalismo.
La maggior parte delle affermazioni fatte nel suo capitolo sul "Diritto e Stato" (Pašukanis) sono storiche e più o meno contingenti, anziché rigorosamente logiche e necessarie. Per esempio: «nella misura in cui il potere feudale assumeva il ruolo di garante della pace, indispensabile ai contratti di scambio, grazie alle sue nuove funzioni, esso assumeva un nuovo carattere pubblico che all'inizio gli era estraneo» (Pašukanis). Questo può significare che il nuovo ruolo del potere feudale come uno Stato astratto è diventato peculiarmente adeguato all'essere arbitro del diritto, ma questa non è un'affermazione circa la necessità o la derivazione della forma statale borghese.
Ci sono altre formulazioni di questo tipo: «lo Stato moderno, nel senso borghese del termine, sorge nel momento in cui l'organizzazione del potere del gruppo o della classe copre relazioni mercantili sufficientemente estese» (Pašukanis). «Accanto al dominio di classe, diretto ed immediato, nasce un dominio mediato che si riflette nella forma del potere dello Stato ufficiale in quanto potere particolare, separato dalla società» (Pašukanis). Queste affermazioni possono essere veritiere. Ma sono dichiarazioni storiche e suggestive, piuttosto che una teoria sistematica della derivazione dello Stato.
Cosa che tra l'altro non pretendeva di esserlo. Al centro esatto della presunta derivazione dello Stato, dopo aver esposto la "questione classica" (Blanke: Jurgens; Kastendiek) sul perché il dominio di classe assuma la forma di un meccanismo impersonale, Pašukanis prende come oggetto teorie inadeguate:
«Non possiamo accontentarci della spiegazione secondo cui è vantaggioso per la classe dominante erigere un ambiente ideologico e camuffare il suo dominio di classe dietro il paravento dello Stato. In quanto, sebbene tale spiegazione sia, senza alcun dubbio, corretta, essa non determina la ragione per cui tale ideologia possa nascere e neanche, di conseguenza, la ragione per cui la classe dominante è in grado di servirsene» (Pašukanis).
Così, nel punto esatto in cui si richiede rigore nella teorizzazione dello Stato, egli insiste sul fatto che dev'essere spiegato come lo Stato borghese astratto possa sorgere, e non come "è sorto" o come "deve sorgere". Così, nonostante usi il termine "derivazione", non si tratta di una teoria derivazionista in senso forte.
Niente di tutto questo vuole negare che ci sia un ruolo funzionale poderoso nello Stato borghese astratto, né che la teoria di Pašukanis svolga un eccellente lavoro nel dimostrare il perché. Quello che si vuole mostrare è che non c'è una teoria della forma dello Stato borghese che viene "derivata" dalla teoria di Pašukanis, e che nemmeno lui pensava che ci fosse.
Consideriamo un passaggio rivelatore. Di nuovo, nel cuore del suo momento apparentemente più "derivazionista", quando Pašukanis domanda perché l'apparato dello Stato non è un "apparato privato della classe dominante", bensì "un apparato del potere pubblico impersonale, dislocato rispetto alla società", c'è una nota che richiama la nostra attenzione.
«Nella nostra epoca, nella quale si sono intensificate le lotte rivoluzionarie, possiamo osservare come l'apparato ufficiale dello Stato borghese ceda spazio alle organizzazioni armate fasciste ecc. Questo prova ancora una volta che, quando viene scosso l'equilibrio della società, questa non cerca la propria salvezza nella creazione di un potere che si trovi al di sopra delle classi, ma la cerca nella massima tensione di tutte le forze delle classi in conflitto» (Pašukanis).
Quindi, non c'è niente di inevitabile nella forma particolare dello Stato borghese. Sebbene evidenzi l'importanza dello Stato "astratto" borghese, Pašukanis ricorda al lettore che nelle congiunture storiche particolari lo stesso Stato cercherà delle alternative, che includono metodi meno astratti per ottenere i suoi fini, senza cessare di essere uno Stato capitalista: è "l'apparato ufficiale" che arretra, non lo Stato in sé, che in questo caso è il suo stesso corpo "alla ricerca della sua salvezza" facendo ricorso al fascismo.
Si assume che ci sono momenti nei quali Pašukanis faccia affermazioni più solide a favore della tesi della derivazione. Il lungo passaggio qui sopra, in cui parla sulla coercizione necessaria nel capitalismo ed il motivo per cui essa deve assumere la forma statale borghese rappresenta, più di qualsiasi altra cosa, il suo tentativo di derivare logicamente e sistematicamente la necessità di uno Stato astratto. Ma si basa su una falsa premessa.
"La coercizione", scrive, "in quanto imposizione basata sulla violenza, mettendo un individuo contro l'altro, contraddice alle premesse fondamentali delle relazioni fra i proprietari di merci" (Pašukanis). Questo è assolutamente falso, ed è un passo falso caratteristico - a volte il formalismo eccessivo porta Pašukanis a trascurare la "ricchezza" delle contraddizioni dialettiche inerenti a categorie apparentemente stabili.
Ho sostenuto che, contrariamente ad alcune affermazioni di Pašukanis, la controversia e la disputa sono intrinseche alla merce, nella misura in cui la proprietà privata su di essa implica l'esclusione degli altri. Analogamente, la violenza - coercizione - si trova al cuore della forma-merce e anche del contratto. Una merce che sia in maniera incontestabile "mia e non sua" - cosa che, dopo tutto, è al centro del fatto che si tratta di una merce che dev'essere scambiata - implica inevitabilmente che in essa siano incorporate alcune capacità. Se non ci fosse niente in grado di sostenere il fatto che "il mio è mio", non ci sarebbe niente ad impedire che sia "suo", e allora non si tratterebbe più di una merce, giacché non la si starebbe più scambiando. La coercizione è implicita. «Se la categoria del contratto, un atto congiunto di volontà basato sul mutuo riconoscimento, è considerato il modus originale del diritto, allora esso è chiaramente una forma che non può esistere senza vincolo» [*6] (BLANKE, JÜRGENS; KASTENDIEK).
E ad un livello un poco superiore di concretezza, portando il livello di analisi dall'individuale al sociale, la forza deve essere una condizione generale per il mantenimento delle relazioni di mercato.
«La ragione è molto semplice. Le relazioni esistenti di proprietà [cioè, non ancora relazioni di produzione] separano sistematicamente i produttori degli oggetti dalle loro necessità, su una base quotidiana e continua. Nella produzione di merci, "necessità" e "diritto" rimangono opposti. L'organizzazione della società esistente sollecita costantemente gli individui, i gruppi, le classi e le altre collettività ad (...) "invadere i diritti degli altri". I motivi per violare, rubare, invadere, opprimere, rapinare e trasgredire in maniera generale i diritti di proprietà vengono continuamente ricreati per mezzo della pressione delle necessità materiali. Perciò, questo sistema di relazioni sociali di produzione genera una esigenza generale e permanente di mezzi di "difesa", vale a dire, mezzi di violenza e la loro organizzazione. Senza una costante minaccia e/o applicazione di forza, la produzione di merci correrebbe il rischio di una rapida sovversione e crollo» (Barker).
In altre parole, e contrariamente all'affermazione fatta da Pašukanis, la coercizione al riparo della forza è implicita in maniera generalizzata (ed "è rivolta da una persona all'altra" - cioè, da tutti i proprietari di merci verso tutti i proprietari di merce) nella natura stessa dello scambio e della produzione di merci. Per Barker, così come la violenza stessa appare la cosa più fondamentale - nel cuore della merce -, «l'organizzazione sociale della forza necessaria e la questione specifica dello Stato rimangono ancora in attesa di ulteriori sviluppi» (Barker).
In altri termini, il passaggio anomalo in cui Pašukanis sembra vedere lo Stato astratto come necessario è solamente una conseguenza della sua affermazione occasionale ed erronea per cui la violenza non si trova al cuore della merce (mostrerò in qualche parte di questo testo che mantiene una percezione molto più convincente della violenza incorporata). Nella percezione per cui la violenza è parte integrante dello scambio di merci, la "politica" - forza coercitiva, violenza - viene portata più vicino, ma la sua forma specifica - in questo caso, lo Stato borghese - non è così fondamentale, e di certo non è "necessario".
Per la maggior parte del tempo, quindi, Pašukanis fa vedere esplicitamente come la sua posizione non sia sistematicamente derivazionista, ma solo quanto basta. E, ancora di più, nel momento in cui tenta di fatto di derivare la necessità dello Stato, la sua analisi si rompe in quanto le sue categorie non sono sufficientemente sfumate. Alcune delle letture più interessanti di Pašukanis, fatte dai teorici della derivazione dello Stato, indicano la necessità della politica, ma non implicano la forma statale borghese, Il suo concentrarsi sulla libertà e sull'uguaglianza dei soggetti dello scambio, dicono che lui «ci dice (...) la categoria della forma giuridica è la necessità di una forza che garantisca il diritto, uma forza che può essere chiamata una forza (coercitiva) extraeconomica. Con questo vogliamo riferirci non tanto all'apparato organizzato (o strumento), ma essenzialmente solo ad una funzione di base che può essere derivata a livello concettuale di analisi della forma. Con ciò, in nessum modo arriviamo "allo Stato", ma a differenti forme di relazioni sociali, soprattutto relazioni economiche e politiche, che sono peculiari del modo di produzione borghese» (BLANKE; JÜRGENS; KASTENDIEK).
La teoria di Pašukanis implica coercizione e politica, ma non implica la necessità di una forma particolare di organizzazione di tale coercizione. Lo Stato di certo "introduce chiarezza e stabilità nella struttura giuridica" (Pašukanis), ma questa è una funzione secondaria. Questo rifiuto della teoria "logica del capitale" dello Stato è importante. Da questo emerge che l'assenza di una teoria della derivazione dello Stato in Pašukanis è la chiave per comprendere la natura del diritto e del diritto internazionale.
3. Diritto (internazionale) e contingenza di Stato
Lungi dall'essere derivato, per Pašukanis lo Stato, come un arbitro astratto, un'autorità pubblica, è di fatto subordinato alla forma giuridica. Ed è questo a fare di lui un teorico così essenziale per il diritto internazionale: chiarisce una volta dopo l'altra che l'assenza di un sovrano non rende il diritto internazionale meno "diritto". Pašukanis non nega la necessità della coercizione, ma chiarisce che una coercizione globale e astratta, che "introduce stabilità" ed è funzionale al capitalismo che non si trova in crisi, è estrinseca alla forma giuridica in sé.
«È ovvio che l'idea di una coercizione esterna, tanto idealmente quanto nella sua organizzazione materiale, costituisce un aspetto essenziale della forma giuridica. Quando nessun meccanismo coercitivo è stato organizzato, e non si può contare sulla giurisdizione di un apparato speciale che rimanga al di sopra delle parti, essa appare sotto la forma di una cosiddetta "interdipendenza". Il principio di interdipendenza, nelle condizioni di equilibrio di poteri, rappresenta la base singolare, e si può dire instabile, del diritto internazionale» (Pašukanis).
In questo trascurato saggio sul diritto internazionale, Pašukanis biasima la giurisprudenza borghese per la quantità di inchiostro sprecato nella questione del se l'assenza di un'autorità suprema significhi che il diritto internazionale non è diritto. Chiarisce come tale autorità non sia necessaria o immanente al diritto.
«Non importa quanto eloquentemente l'esistenza del diritto internazionale sia dimostrata, il fatto dell'assenza di una forza organizzativa che possa costringere uno Stato con la stessa facilità con cui uno Stato costringe un individuo rimane un fatto. L'unica garanzia reale che le relazioni fra Stati borghesi (...) riposino sulla base dello scambio di equivalenti, cioè, una base giuridica (sulla base del reciproco riconoscimento delle soggettività), è di fatto l'equilibrio di forze» [*7] (Pašukanis).
Non sorprende che ogni volta che Pašukanis sottolinea la contingenza della coercizione esterna organizzata in relazione al diritto, il diritto internazionale venga usato come un esempio. Si prenda la discussione nel suo capitolo a proposito di "Norma e relazione", che è probabilmente l'esposizione più rigorosa ed accurata in proposito.
«Possiamo modificare la proposizione summenzionata e mettere al primo posto, non già la norma in quanto tale, ma le forze oggettive regolatrici e agenti nella società (...) se si intende come tale un ordine particolare, organizzato coscientemente che garantisce e preserva tali relazioni, allora l'errore logico diventa del tutto chiaro. In effetti, non si può affermare che la relazione fra creditore e debitore venga creata dal sistema coercitivo in conformità dei debiti esistenti nello Stato in questione. Quest'ordine, oggettivamente esistente, garantisce di certo la relazione, la preserva, ma in nessun caso la crea (...) si possono immaginare i più diversi gradi di perfezione nel funzionamento di questa regolamentazione sociale, esterna e coercitiva, e di conseguenza i gradi più diversi nella preservazione di certe relazioni (...) senza che queste relazioni soffrano la minima modifica nella loro propria esistenza. Possiamo anche immaginare un caso limite in cui non esista, accanto alle due parti che reciprocamente entrano in relazione, una terza forza capace di stabilire una norma e di garantire il suo rispetto: per esempio, un contratto qualsiasi fra abitanti del Var e i greci. Tuttavia, anche in questo caso, la relazione rimane» (Pašukanis).
Da qui Pašukanis procede con una nota in calce rivelatrice.
«Tutto il sistema giuridico feudale si basava su tali rapporti contrattuali, non garantiti da alcuna "terza forza". Ugualmente il diritto internazionale moderno non conosce alcuna coazione organizzata dall'esterno. Sicuramente tali relazioni giuridiche non garantite non si caratterizzano per la loro stabilità, ma questo non ci autorizza a negare la loro esistenza» (Pašukanis).
È chiaro che Pašukanis vede l'autorità globale o qualsiasi forma particolare di Stato come subordinata alla relazione giuridica esistente fra due parti formalmente uguali nel contesto di una relazione di scambio. Tuttavia, egli vede più lontano di questo. Per Pašukanis, il diritto stesso - nella sua forma embrionale primordiale - è un prodotto proprio dell'assenza di tale autorità.
«Lo sviluppo del diritto come sistema non è stato generato dalle esigenze delle relazioni di dominio, ma dalle esigenze degli scambi commerciali con quei popoli che ancora non si trovavano agglutinati in una sfera di potere unico (...) Le relazioni commerciali con le tribù straniere, con i pellegrini, con i plebei [a Roma...] diedero origine allo jus gentium, questo modello di sovrastruttura giuridica nella sua forma pura. Contrariamente allo jus civile e alle sue prolungate formalità, lo jus gentium rifiuta tutto quello che non è legato al fine e alla natura della relazione economica su cui si basa (...). Gumplowicz (...) si inganna quando pensa che il sistema del diritto privato potrebbe svilupparsi (...) derivando dal potere pubblico» (Pašukanis).
Per lo studioso di diritto internazionale, questa è una colossale illuminazione teorica. Il dibattito considerato da Pašukanis nel suo saggio sul diritto internazionale dopo tutto non è stato abbandonato. «La preoccupazione centrale» di questa disciplina, e la cui possibilità di una "risposta teorica" è stata "rifiutata" da gran parte della teoria giuridica moderna [*8] (Kennedy), riguarda il come, mancando un'autorità suprema, il diritto internazionale possa essere Diritto. Pašukanis risolve qui, di passaggio, il problema più ostico della legittimità di un sistema giuridico decentralizzato.
Per la teoria della forma-merce, il diritto internazionale e quello interno sono due momenti della stessa forma. Pašukanis afferma che il (proto-)diritto internazionale precede storicamente il diritto interno, non avendo questo niente a che fare che un qualche primato ontologico putativo della sfera internazionale: invece, il diritto viene promosso necessariamente dalla relazione sistematica di scambio delle merci, che è occorsa fra gruppi organizzati, ma disuguali, in cui tali relazioni sono sorte. [*9] È chiaro che qui c'è solo il germe del diritto internazionale. Per Pašukanis, «il Trattato di Westfalia [nel 1648...] va considerato il fatto fondamentale nello sviluppo storico del diritto internazionale moderno (vale a dire, borghese)» (Pašukanis). Pašukanis non ci fornisce una storia del diritto internazionale teoricamente informata - le sue proposizioni storiche sono utili, ma schematiche. Tuttavia chiarisce che «solo in quanto Stato borghese, lo Stato diventa completamente il soggetto del diritto internazionale» (Pašukanis).
A un certo livello questo è tautologico: il concetto moderno di che cosa sia "internazionale" è inestricabile dallo sviluppo dello Stato-nazione, una forma essenzialmente moderna (capitalista). In tal senso, il diritto internazionale è per definizione una forma capitalista. Tuttavia, quello che Pašukanis sta sottolineando è che è in quest'epoca che avvengono i cambiamenti che sottendono alla «Teoria dello Stato in quanto soggetto solitario della comunità giuridica internazionale» (Pašukanis). In altre parole, quello che potremmo chiamare un proto-diritto internazionale, la forma giuridica che regola le relazione fra gruppi sociali organizzati, precede il capitalismo e lo Stato borghese. Solo quando lo Stato borghese diventa il soggetto centrale di queste relazioni, allora possiamo chiamarlo con pieno senso diritto internazionale: cioè, quando nasce lo "internazionale". Ma la forma delle relazioni esisteva già.
«In quanto forma separato che colloca sé stesso fuori dalla società, lo Stato è emerso nella sua forma finale soltanto nel periodo moderno capitalista borghese. Ma questo non vuol dire che le forme contemporanee delle relazioni giuridiche internazionali, e le istituzioni individuali del diritto internazionale, nascano solo in tempi molto recenti. Al contrario, percorrono la loro storia nei periodi più antichi delle società di classe o persino pre-classe. Nella misura in cui, inizialmente, lo scambio non avveniva fra individui, bensì fra tribù e comunità, si può affermare che le istituzioni di diritto internazionale sono le più antiche istituzione giuridiche in generale» (Pašukanis).
Quindi, lo Stato è centrale per lo sviluppo del diritto, sia interno che internazionale, ma non per la forma giuridica in sé [*10].
4. Diritto (internazionale), politica e violenza
C'è un problema in Pašukanis. Da un lato enfatizza la "legittimità" delle relazioni giuridiche in cui non c'è un'autorità suprema. Dall'altro lato, vediamo che ad un certo punto dichiara che la coercizione, «in quanto imperativo rivolto ad una persona da un'altra, e basato sulla forza», è dannosa alle relazioni di merce (Pašukanis). Tuttavia, il diritto chiaramente esige forza, come Pašukanis chiarisce [*11]. Allora, da dove proverrebbe una violenza coercitiva se non ci fosse uno Stato astratto? Ho sostenuto, contro Pašukanis, che la violenza e la coercizione sono immanenti alle relazioni stesse di merce. Se questo viene accettato, il problema scompare nella misura in cui diventa chiaro che nei sistemi giuridici senza autorità supreme è l'autotutela - la violenza coercitiva dei soggetti stessi del diritto - che regola le relazioni giuridiche. L'importanza di questa soluzione al paradosso di Pašukanis non va sopravvalutata. Ma rimane cruciale per poter comprendere i meccanismi del diritto internazionale e la forma giuridica, e questo al cuore di un'analisi pašukaniana del diritto internazionale e dell'imperialismo.
È anche chiaro che, nonostante le sue stesse note occasionali che dicono il contrario, nel corso di tutto il suo lavoro - in particolare quando discute del diritto internazionale - Pašukanis capisce che, senza una forza suprema, era questa la natura della coercizione giuridica. Egli cita la "interdipendenza" o la "reciprocità" "nelle condizioni di equilibrio di potere" (Pašukanis) o di "equilibrio reale di forze" (Pašukanis) - uno sfondo di relazioni mediate dalla forza - come base della regolamentazione giuridica internazionale.
In realtà, la comprensione di Pašukanis circa la compenetrazione fra forza coercitiva e forma giuridica è profonda e sistematica, e non è isolata rispetto alla sua discussione intorno al diritto internazionale. Contraddicendo la sua stessa affermazione secondo cui la coercizione è antagonistica rispetto alla relazione di merce, scrive che «la relazione giuridica non presuppone "per sua natura" uno stato di pace, allo stesso modo in cui il commercio non (...) rende impossibile la rapina a mano armata, ma procedono mano nella mano. Il diritto e l'autotutela, sebbene appaiano come concetti contraddittori, in realtà sono intimamente legati» (Pašukanis).
Comprendere - come Pašukanis chiaramente fa - che il furto (possesso non consensuale di merci altrui) vada mano nella mano con il commercio (scambio consensuale di merci), significa comprendere che la violenza è implicita nella forma merce, e di conseguenza nella forma giuridica. Se "mio" implica la forza per impedire che qualcosa diventi "suo", allora il furto è il fallimento di questa forza, ed il successo dell'altra. Per Pašukanis, «l'ordine è nella realtà una mera tendenza e un risultato finale (mai pienamente raggiunto), ma non è mai il punto di arrivo ed il prerequisito delle relazioni giuridiche» (Pašukanis).
Rispetto a questo, e tenendo in mente che per il diritto la percezione della centralità della coercizione non è limitata ai teorici radicali, ma ha fatto parte di alcune delle correnti che hanno dominato la filosofia del diritto almeno a partire dalla fine del 19° secolo (cfr. Jhering, 1924), l'incapacità di pensare, da parte delle maggioranza delle correnti dominanti il diritto internazionale, le sanzioni e la violenza, appare evidente. Anche se, ovviamente, ci sono delle eccezioni, la più parte degli scritti su questo argomento e la riapparizione ripetitiva di questo problema sono frutto della petulanza degli accademici, visto che «la coercizione accompagna il diritto come un'ombra» (Zoller), e da una concomitante evasione dall'analisi, fantasticamente giustificata con il rifiuto delle menti elevate a lasciarsi assorbire dai dettagli volgari. Ad esempio, dice Shearer:
«È chiaro che un'esposizione completa della (...) obbligatorietà di una forza [nel diritto internazionale] che copra tutti i casi e tutte le condizioni, sarebbe difficilmente praticabile. Tuttavia, c'è qualcosa di pedante nel concetto stesso per cui un'esposizione completa di questo problema sarebbe necessaria o auspicabile» (Shearer).
Questo collasso dell'analisi raggiunge livelli di crudezza sorprendenti:
«A parte le sanzioni e le pressioni (...) i principali elementi che rafforzano il carattere obbligatorio delle norme di diritto internazionale sono i fatti empirici per cui gli Stati insistono nei loro diritti contro altri Stati ai sensi di tali regole che loro ritengono si dovrebbero osservare, e ritengono il diritto internazionale vincolante per tali Stati (...). Le ragioni ultime che spingono gli Stati a sostenere l'osservanza del diritto internazionale appartiene al dominio della scienza politica, e non possono essere spiegate per mezzo di un'analisi strettamente giuridica» (Shearer).
Shearer qui afferma che la forza di obbligatorietà del diritto internazionale si basa sul fatto che gli Stati lo osservano. Quest'affermazione secondo cui un fatto viene spiegato come spiegazione di sé stesso è chiaramente senza senso. Consapevole che questa spiegazione non è soddisfacente, Shearer accantona debolmente la questione come pertinente alla scienza politica e non al diritto. Ed è assolutamente sicuro nel concludere il suo capitolo osservando che «il problema dell'obbligatorietà del diritto internazionale si risolve in ultima analisi insieme al problema del carattere obbligatorio del diritto in generale» (Shearer), ma dal momento che esclude qualsiasi analisi della sistematicità della violenza nel diritto o nel diritto internazionale, non può nemmeno avvicinarsi ad una soluzione. In maniera simile, Akehurst afferma che:
«Non risulta convincente studiare qualsiasi sistema giuridico in termini di sanzioni. È meglio studiare il diritto come un corpo di regole che generalmente vengono osservate, senza concentrarsi esclusivamente su quel che avviene quando le regole vengono violate. Non si deve confondere la patologia del diritto con il diritto stesso» (Akehurst).
Qui il fallimento dell'analisi è evidente. Il concetto di trasgressione del diritto, delle controversie moderate dalla coercizione, è patologico per il diritto, è straordinario, e non è un elemento fondamentale del tessuto giuridico, Per contrasto, Pašukanis casualmente chiarisce tutto questo:
«La Russkaya Pravda (…) contiene 43 articoli (...) Solamente due articoli non sono relazionati a violazioni del diritto civile o penale. Gli articoli rimanenti, o determinano una sanzione, oppure contengono le norme procedurali applicabili nel caso una norma venga violata. Di conseguenza, la trasgressione alla norma costituisce la sua premessa» (Pašukanis).
Diritto e violenza sono intrinsecamente legati in quanto regolatori di rivendicazioni sovrane. Pašukanis può, quindi, mostrare due punti di vista apparentemente opposti in Marx. Uno è l'enfasi sull'uguaglianza giuridica e sullo scambio di equivalenti. L'altro è l'affermazione per cui «perfino il diritto del più forte è diritto» [*12] (Marx citato da Pašukanis). C'è un altro passaggio di Marx, che media queste due concezioni, e da una soluzione al paradosso di Pašukanis esposto sopra: «fra diritti uguali, quel che decide è la forza» (Marx).
Da un lato, il diritto è una relazione astratta fra due uguali, dall'altro, Marx indica la nuda imposizione di un potere come forma giuridica. «Questo non è un paradosso», chiarisce Pašukanis, giacché «il diritto, come lo scambio, è un espediente cui ricorrono elementi sociali isolati nelle loro relazioni gli uni con gli altri» (Pašukanis) - proprio come si fa con la violenza. In assenza di una "terza forza" astratta, l'unica violenza regolatrice in grado di difendere la forma giuridica, e di riempirla di un contenuto particolare, è la violenza di uno dei partecipanti.
È per questo che «diritto ed autotutela (...) si trovano, in realtà, legati in maniera estremamente intima» (Pašukanis). Ed è per questo che, sottolinea Pašukanis, in assenza di un sovrano, «il diritto internazionale moderno include un grado assai considerevole di autotutela (misure di ritorsione, rappresaglie, guerre e così via)» (Pašukanis).
La violenza è intrinseca al diritto, ma è in assenza di un sovrano che la violenza preserva il suo carattere particolarista, anziché un carattere impersonale astratto (Stato). Pašukanis esprime tutto questo nel seguente passaggio estremamente importante.
«Il soggetto giuridico, insieme a tutta la sfera del dominio giuridico, è stato morfologicamente preceduto dall'individuo armato, o, con maggior frequenza, da un gruppo di uomini (gens, orda, tribù), in grado di difendere nel conflitto, nella lotta, ciò che per loro rappresentava le proprie condizioni di esistenza. Questa stretta relazione morfologica stabilisce un chiaro collegamento fra il tribunale ed il duello, fra le parti di un processo ed i protagonisti di una lotta armata. Tuttavia, con la crescita delle forze regolatrici, il soggetto perde la sua concretizzazione materiale. Al posto delle sue energie personali sorge il potere dell'organizzazione sociale, cioè, dell'organizzazione di classe, la cui espressione più elevata può essere trovata nello Stato» (Pašukanis).
Dove non ci sono tali "forze sociali regolatrici", la coercizione rimane incorporata nei partecipanti. La teoria del diritto internazionale enfatizza l'autotutela come mezzo di sanzione del diritto internazionale. (Akehurst; Kelsen). La prossimità morfologica del soggetto del diritto e di quello dell'unità armata è più chiara nel diritto internazionale che in qualsiasi altro luogo.
Non sorprende affatto, data la vicinanza fra diritto e forza, che "la parte migliore" delle norme di diritto internazionale "si riferisca alla (...) guerra. E presuppone una condizione di lotta aperta ed armata" (Pašukanis). Queste leggi, destinate a regolare la violenza politica degli Stati sono certamente diritto "pubblico": in realtà, quello che viene di solito designato come "diritto internazionale" è precisamente "il diritto internazionale pubblico" [*13]. Ho mostrato che per la teoria della forma-merce il diritto internazionale rappresenta in qualche modo una forma semplificata delle relazioni giuridiche, e consiste anche di diritto "pubblico", che Pašukanis sostiene essere secondario e derivato dal diritto "privato". Questo può sembrare un paradosso rispetto alla teoria della forma-merce.
Per Pašukanis, tuttavia, in assenza di un'autorità sovrana - proprio perché la violenza coercitiva inerente alle relazioni di merci/giuridiche fra individui astratti ed uguali deve essere inerente ai partecipanti stessi - le relazioni "pubbliche" sono relazioni di commercio. Il pubblico ed il privato sono qui inestricabili. Nella misura in cui le unità delle relazioni giuridiche sono formalmente uguali, «la lotta fra Stati imperialisti deve includere il commercio come uno dei suoi componenti. E se gli scambi si sono conclusi, allora devono esistere anche le forme per la loro conclusione» (Pašukanis) - cosa che significa violenza.
Di conseguenza, per il diritto internazionale la questione della "derivazione" del pubblico dal privato è senza senso. Questa compenetrazione avviene perché "lo sviluppo del diritto di guerra non è nient'altro che la consolidazione graduale del principio di inviolabilità della proprietà borghese» (Pašukanis).
Senza una terza forza - vale a dire, nella sua forma più semplificata - la forma giuridica non potrebbe attuare la coercizione necessaria alla sua esistenza al di fuori delle capacità coercitive dei partecipanti. È vero, in altre parole, che il diritto privato è alla base del diritto pubblico, così come noi lo percepiamo a partire dall'interno di uno Stato, separato da tutti gli altri, ma tale distinzione acquisisce significato solamente come risultato della sovrapposizione dello Stato alla forma giuridica. Nella sua forma più radicale - e nel diritto internazionale - il diritto era simultaneamente astratto e particolarista - "pubblico" e "privato". «Non c'era distinzione», afferma Pašukanis a proposito del diritto embrionale, senza una terza forza, e anche a proposito del diritto internazionale, «fra il diritto come una norma oggettiva ed il diritto come potere» (Pašukanis).
4.1 Forma, contenuto, economia e politica nel diritto internazionale
Ho cercato di mostrare come fra i soggetti del diritto internazionale esista la forma giuridica. Ma per quanto riguarda il contenuto del diritto internazionale?
L'affermazione di Chris Arthur secondo la quale la forma è la forma del suo contenuto implica che il contenuto di un diritto nazionale sotto il capitalismo sia - ad un livello astratto - quello dello sfruttamento di classe basato sull'estrazione del plusvalore nella produzione, e della concomitante lotta di classe. Però, non sono queste le relazioni fra le unità del diritto internazionale, gli Stati.
In questo saggio sul diritto internazionale, Pašukanis chiarisce quel che sono queste relazioni, e pertanto quale sia il contenuto sociale del diritto internazionale. «Gli esempi storici proposti in qualsiasi manuale di diritto internazionale proclamano solennemente che il diritto internazionale moderno è la forma giuridica della lotta degli Stati capitalisti, fra di loro, per il dominio sul resto del mondo» (Pašukanis). La «lotta degli Stati capitalisti fra di loro» è il «contenuto storico reale nascosto dietro» la forma giuridica (Pašukanis).
Il «contenuto reale» del diritto a questo livello è ancora molto astratto. Ci sono vari metodi per i quali il "contenuto reale" potrebbe essere concretizzato per mezzo della forma giuridica in leggi particolari. Dobbiamo approcciare l'analisi del concreto.
Per Pašukanis la formalizzazione dello Stato come un soggetto del diritto internazionale era l'altra faccia della medaglia del processo per mezzo del quale lo Stato alla fine consolida il suo ruolo in quanto "terza forza" astratta che regola internamente la forma giuridica. Se, da un lato, la borghesia "è subordinata alla macchina dello Stato" (Pašukanis), allo stesso tempo tale macchina dello Stato agisce a favore del "capitale nazionale".
Circa gli interessi perseguiti dagli Stati capitalisti, Pašukanis cita con approvazione "Imperialismo, fase suprema del capitalismo" di Lenin (anche se chiude la citazione, senza spiegazione, prima che essa entri nel cuore della questione):
«L'epoca del capitalismo contemporaneo ci mostra come si stabiliscano determinate relazioni fra i gruppi capitalisti sulla base della divisione economica del mondo, e che, allo stesso tempo, in relazione con questo, si stabiliscano fra i gruppi politici, fra gli Stati, determinate relazioni sulla base della divisione territoriale del mondo, della lotta per le colonie, della "lotta per il territorio economico"» (Pašukanis).
Per Lenin si tratta della compenetrazione particolare del capitale tardivo, cartellizzato e monopolistico con lo Stato che nel 20° secolo attua l'espropriazione dei territori per mezzo del colonialismo e della guerra. Le ramificazioni di questa analisi verso il diritto internazionale verranno sviluppate più avanti, nel 6° capitolo. Qui metterei brevemente in evidenza solo che è vero, nonostante le particolarità storiche della teoria di Lenin, dire che la lotta fra i paesi capitalisti si basa sulla divisione economica del mondo, e che la divisione economica viene attuata politicamente dallo Stato, che si basa, a sua volta, sul sistema economico capitalista.
È chiaro che questa non è una teoria sistematica dello Stato capitalista, ma si tratta di una giustificazione teorica preliminare all'intuizione secondo cui la lotta fra gli Stati capitalisti è più di una lotta fra Stati che abbiano per caso economie capitaliste. Si tratta di una lotta per risorse per il capitale. È questo ciò che rende lo Stato uno Stato capitalista. Non si tratta di un ritorno alla "logica del capitale", e neppure, dall'altro lato, di usare abusivamente la "autonomia" dello Stato per dimenticarsi della sua relazione con il capitale - la "interdipendenza strutturale" significa che «le entrate dello Stato e la sua capacità di difendersi contro gli altri Stati dipendono (...) dalla continuità dell'accumulazione del capitale» (Harman).
Pertanto, se concordiamo con Pašukanis, il «contenuto storico reale del diritto internazionale (...) è la lotta fra Stati capitalisti» (Pašukanis), una lotta continua e spietata per il controllo sulle risorse del capitalismo, che, man mano che coinvolge parti del processo competitivo ("economico") capitalista, spesso tracima in violenza "politica".
«Perfino quegli accordi fra Stati capitalisti che sembrano essere guidati da interessi generali sono, di fatto, per ciascuno dei partecipanti un mezzo per proteggere egoisticamente i loro interessi particolari, prevenendo l'espansione dell'influenza dei suoi rivali, vanificando conquiste unilaterali, vale a dire, continuando sotto un'altra forma la medesima lotta che esisterà fino a quando esisterà la concorrenza capitalista» (Pašukanis).
Quella che emerge è un'affascinante circolarità. Il capitalismo si basa sullo scambio di merci, ed ho tentato di mostrare che la violenza è immanente a tale scambio. Tuttavia, l'universalizzazione di questo scambio tende verso un'astrazione dello Stato in quanto "terza forza" per stabilizzare le relazioni. Così, la politica e l'economia sono state separate. Nello stesso momento, la controfaccia di questa separazione e della creazione di un corpo politico pubblico è stata l'investitura di quel corpo - lo Stato - come un soggetto di quelle relazioni giuridiche che esistevano ormai da lungo tempo fra le entità politiche, e che ora è diventato il diritto internazionale borghese. Ma questo processo necessitava di autoregolazione delle relazioni giuridiche internazionali da parte dei suoi soggetti; questa autotutela aveva, allo stesso tempo, una funzione sia "politica" che "economica". È, quindi, una manifestazione del collasso della distinzione fra la politica e l'economia esistente all'interno della dinamica stessa che le aveva separate.
Identifichiamo le relazioni sociali che hanno costruito il contenuto del diritto internazionale come competizione fra gli Stati capitalisti. Vediamo anche che il potere costituisce diritto, che la forza coercitiva necessaria verrà sostenuta dai partecipanti delle relazioni giuridiche. E, ovviamente, non verrà sostenuta in maniera uguale.
«Il diritto internazionale borghese da principio riconosce che gli Stati hanno dei diritti uguali, sebbene nella realtà essi siano diseguali nel loro significato e nel loro potere. Per esempio, ogni Stato è formalmente libero di scegliere i mezzi che considera necessari applicare in caso di violazioni dei suoi diritti: "tuttavia, quanto uno Stato potente fa sapere che risponderà ad un danno con una minaccia, o con l'uso diretto della forza, uno Stato minore si limita a fare resistenza passiva oppure è costretto a cedere." Questi dubbi benefici di uguaglianza formale non vengono goduti da quelle nazioni che non hanno sviluppato una civiltà capitalista e sono coinvolti nelle relazioni internazionali non in quanto soggetti, ma come oggetto di politica coloniale degli Stati imperialisti» [*14] (Pašukanis).
Sebbene si parli qui di un colonialismo solo formale, come dimostreremo più avanti, l'osservazione di Pašukanis può essere facilmente tradotta in un'asserzione più generale a proposito del comportamento degli Stati capitalisti nelle loro interazioni. Il fatto è che sebbene entrambe le parti siano formalmente uguali, hanno accesso diseguale ai mezzi di coercizione, e pertanto non sono ugualmente capaci di determinare né le politiche né i contenuti del diritto.
Dato che la forma giuridica è la medesima nel diritto internazionale e nel diritto interno, è chiaro che l'indeterminatezza precedentemente indicata è inerente a questa forma tout court; cosa su cui Pašukanis è chiaro [*15]. L'apparente "determinazione" del contenuto giuridico nel diritto interno è unicamente un prodotto del fatto che internamente lo Stato ha il monopolio della violenza legittima. Ed è solo il diritto efficace che può essere di fatto considerato diritto in termini materialistici. La "polizializzazione" del diritto secondo le disposizioni della magistratura dello Stato riguardo ai contenuti che garantiscono il monopolio statale dell'interpretazione legittima, qui è decisivo.
Senza quella terza forza la "polizializzazione" della forma, e pertanto la sua interpretazione - la sua investitura con un contenuto particolare - viene lasciata a carico dei soggetti stessi. È per questo che uno Stato meno potente, "o mette in atto resistenza passiva o è costretto a cedere". Ed è così che i contenuti e le norme particolari che aggiornano il contenuto generale delle relazioni sociali concorrenziali vengono investiti della forma giuridica.
4.2 Lo strano matrimonio fra Pašukanis e McDougal
Le teorie di Myres McDougal - apologeta reazionario statunitense e giurista di professione - e quelle di Evgeny Pašukanis - rivoluzionario bolscevico (del periodo iniziale) e critico del diritto - hanno dei punti di contatto affascinanti. Fino ad un certo punto, ciascuno completa e riempie le lacune dell'altro.
Non pretendo affermare alcuna equivalenza teorica. Il lavoro di Pašukanis si basa su un metodo dialettico e storico, e contribuisce ad una teoria totalizzante, una concettualizzazione dettagliata e rigorosa del mondo; la teoria di McDougal è basata su nozioni idealiste e nebulose del potere e della politica, un individualismo riduzionista e pre-teorico. Tuttavia, la teoria di McDougal sul diritto internazionale in quanto processo è convincente, e sta chilometri sopra il manuale formalista della maggioranza dei teorici del diritto internazionale. Ho suggerito che molti dei difetti nella sua concezione di "interesse nazionale" e di "potere", ad esempio, potrebbero essere risolti a partire dall'interno di un paradigma materialista alternativo, che sia capace di mantenere in sé la teoria processuale. Il grande problema nella teoria di McDougal, tuttavia, rimane la questione del perché alcuni processi politici riconosciuti diventano diritto - in altre parole, da dove proviene la forma giuridica?
Con la teoria giuridica della forma merce, l'ascendenza, la generalizzazione e la tenacia della forma giuridica si radicano direttamente nelle relazioni commerciali. Dal momento che le relazioni fra Stati sovrani sono quelle relazioni di uguaglianza astratta esistenti fra proprietari privati - un fatto riconosciuto dal diritto internazionale dominante fin da Grotius [*16] - qui abbiamo una risposta alla domanda di McDougal. La forma giuridica sarebbe la forma acquisita dal processo politico di lotta fra gli Stati in cui le relazioni fra tali Stati sono basati sulla sovranità che significa proprietà privata, dominio sul loro proprio territorio [*17]. Queste sono, alla fine, le condizioni necessarie per lo scambio di equivalenti.
Riguardo quello che McDougal può offrire alla teoria della forma merce, la sua schietta descrizione di come i processi politici particolari diventano diritto è inestimabile al fine di comprendere la mutazione dei contenuti politici della forma giuridica astratta. «In una giurisprudenza rivelante», dice, «il diritto internazionale verrà esplicitamente concepito come un processo comprensivo della decisione basata sull'autorità» (Lasswell; McDougal; Preisner). Perché una decisione abbia autorità - per una interpretazione particolare in grado di vincere sui rivali - essa dev'essere garantita dalla forza coercitiva più potente in una relazione giuridica particolare.
È per questo che il diritto internazionale è una forma paradossale. È simultaneamente una relazione genuina fra uguali, e una forma in cui gli Stati più deboli non possono sperare di vincere [*18]. È questo, più di qualsiasi semplice collasso del potere politico, il significato delle parole di Marx per cui «fra diritti uguali, è la forza che decide».
È chiaro che, dal momento che non c'è uno Stato supremo, il partecipante più forte della relazione giuridica può dichiarare il contenuto della forma giuridica come un'interpretazione particolare, e - con la sua forza coercitiva superiore - può agire come se fosse così e può stabilire i fatti, ma questo non significa che la sua interpretazione sia universalmente accettata. Dove c'è un monopolio dell'interpretazione, dove la forma giuridica viene resa manifesta in statuti pubblicati dallo Stato, è molto più difficile mettere in discussione l'interpretazione decisa a partire da diritti particolari.
Generalmente, ci sono due livelli di politica, di coercizione, che partecipano alla consustanziazione della forma giuridica. Il primo è dare contenuto alla forma decidendo in astratto che tipo di azione sarà legittima o meno; il secondo è decidere, su tale base, se un atto concreto particolare è legittimo. In ambito nazionale, gli avvocati possono argomentare molto bene nei confronti dello Stato che i loro clienti non sono colpevoli di un crimine particolare, ma è virtualmente impossibile che argomentino che l'azione in sé non sia di fatto un crimine. Questo, tuttavia, non funziona nel diritto internazionale, in cui non c'è monopolio nemmeno al livello primario dell'interpretazione.
Si prenda l'esempio delle rappresaglie, discusso nel 2° capitolo. Il dibattito fra giuristi non consiste nel fatto se questa o quell'azione sia una rappresaglia, e sia pertanto illegale, ma se le rappresaglie in quanto tali siano illegali. Qui, l'importanza della decisione "competente" è la chiave. Alla fine, la maggioranza degli autori concorda che le rappresaglie sono illegali. Tuttavia, nella misura in cui, per esempio, Israele è in grado di interpretare le rappresaglie come legali (cfr. Blum; Dinstein), di affermare chiaramente che le sue attività sono rappresaglie, ed ha un potere sufficientemente forte (con l'appoggio degli Stati Uniti) per vincere qualsiasi silenzio o dissenso, allora non ha senso dire che le rappresaglie sono funzionalmente illegali [*19].
Questo non significa neppure che sono "legali": il diritto è indeterminato, e la questione della loro legalità è astrattamente senza risposta. Tutto ciò che si può decidere e se, in una congiuntura concreta particolare, le rappresaglie (o qualsiasi altra attività) vengono trattate come illegali [*20]. Pertanto, è perfettamente possibile che le rappresaglie siano funzionalmente "legali" in un conflitto ed "illegali" in un altro conflitto, simultaneamente.
5) Problemi
Qui, i critici possono affermare che tutta la teoria giuridica naufraga. Nel riconoscere che una medesima azione può essere simultaneamente legale ed illegale non stiamo forse ridicolizzando la nozione stessa di diritto?
Tuttavia, questa affermazione si basa su una visione già screditata secondo la quale il diritto è un sistema di norme e di regole. È la critica di tale posizione che costituisce il punto di partenza condiviso da McDougal e da Pašukanis. McDougal dice che «la fondamentale oscurità della teoria contemporanea del diritto internazionale (...) comincia nella definizione stessa di diritto internazionale come sistema di regole» (McDougal). Pašukanis dice che «la visione dominante colloca il diritto oggettivo o la norma come base della relazione giuridica», ma «il diritto in quanto una totalità di norme non è altro che un'astrazione senza vita» (Pašukanis).
Da qui in avanti seguono direzione opposte. McDougal enfatizza il processo in astratto e Pašukanis se basa sul processo esistente fra i soggetti del diritto, teorizzandolo come relazione. Tuttavia, nel trattare la dinamica come opposta alla statica, condividono la comprensione per la quale le norme sono storicamente contingenti. Il semplice fatto della mutazione storica o la revoca di certe norme giuridiche serve ad illustrare questo dato.
Un ordinamento giuridico non è definito dal contenuto delle sue norme, ma dal tipo di relazioni che lo regola - vale a dire, quelle fra unità astratte uguali. Vediamo che il diritto è indeterminato, che è un processo, che il suo contenuto è determinato secondo il contesto politico. La coesistenza di norme contraddittorie sulla scena internazionale è meramente un'evidenza straordinariamente chiara di come contenuti differenti possano assumere una forma giuridica.
Il contenuto di una norma è il prodotto di ciò che viene usualmente chiamato, specialmente nella giurisprudenza orientata politicamente, "decisione autorevole" (McDougal, Lasswell, Reisman) e che potrebbe benissimo essere chiamata interpretazione coercitiva. Rimane, pertanto, aperto. Dove non c'è monopolio dell'interpretazione non c'è alcun motivo di avere due insiemi di affermazioni, interpretazioni contraddittorie possono non essere basate su una forza coercitiva superiore in ogni caso. È per questo che, come sottolinea Pašukanis, «la pratica di diversi Stati in un dato periodo, e la pratica dello stesso Stato in periodi differenti, sono molto diverse le une dalle altre» (Pašukanis).
Dal momento che siamo abituati a vivere in Stati dotati di autorità suprema, interpretazioni contraddittorie delle norme giuridiche ci sembrano qualcosa di raro: ma sono un corollario inevitabile della teoria della forma giuridica e del processo giuridico. E inoltre la scena giuridica internazionale è piena di tali dispute fra giuristi e Stati. «La fonte delle norme di ciascun diritto internazionale consuetudinario è formata a partire dalle opinioni degli "autori", o accademici», nota sarcasticamente Pašukanis, «che frequentemente differiscono in maniera decisiva l'una dall'altra in ogni questione» (Pašukanis). Il consenso "può" emergere, è chiaro [*21], ma la sua assenza non genera un collasso del diritto.
C'è una seconda critica, più seria, di cui tener conto per questo tipo di teoria centrata sull'interpretazione, che diventa chiara nella critica di Young a McDougal.
«Quando il diritto viene definito in termini di decisioni autoritative ed effettive (...) il concetto tende a perdere il suo potere di differenziazione rispetto a molti casi (...). Questa concezione incoraggia l'inclusione di molte cose nella parola diritto (...) di modo che a volte diventa difficile identificare il diritto stesso (...) e pertanto analizzare le connessioni fra diritto e i diversi altri aspetti del sistema sociale» (Young).
In sostanza, la questione è: come, in questa teoria, si possono distinguere le relazioni giuridiche dalle relazioni non giuridiche? Fin qui la parola d'ordine dell'analisi è stata certamente il collasso delle distinzioni nette fra la politica e l'arena astratta del "diritto".
Nel 1° capitolo ho sostenuto che McDougal non potrebbe spiegare perché le relazioni sociali assumono la forma di diritto, e ciò perché non possiede una teoria della forma giuridica. Nel recuperare Pašukanis, perciò, guardiamo in questa lacuna e forse abbiamo risolto il problema. Tali relazioni sono giuridiche nella misura in cui regolano fra individui le controversie basate sulla proprietà privata.
In una società dove ci sono relazioni di produzione e di scambio universale delle merci, tuttavia, quasi tutte le relazioni (incluse quelle fra gli Stati) potrebbero essere viste come costruite sulla base dell'equivalenza astratta. La critica di Young, tuttavia, proviene dal lato opposto. Inizialmente è stato detto che McDougal non potrebbe spiegare dove comincia il diritto; e ora si potrebbe dire, contro Pašukanis, che egli non può spiegare dove finisce il diritto. Senza una comprensione della forma giuridica, la teoria procedurale di McDougal non potrebbe spiegare perché una relazione dovrebbe assumere la forma del diritto: posta la teoria della forma merce, siamo forse diventati incapaci di spiegare perché una relazione non dovrebbe assumere quella forma?
Pašukanis fa alcune osservazioni che toccano questo tema. Parla della natura instabile del diritto internazionale e propone la questione dei suoi limiti.
«Nei periodi critici, quando l'equilibrio delle forze oscilla parecchio, quando gli "interessi vitali" o perfino l'esistenza stessa di uno Stato vengono messi in discussione, il destino delle norme del diritto internazionale diventa estremamente problematico (...) Il miglior esempio di questo viene fornito dall'ultima guerra, del 1914-1918, durante la quale entrambe le parti violarono continuamente il diritto internazionale. Con il diritto internazionale in una situazione così deplorevole, i giuristi borghesi possono consolarsi solo con la speranza che, per quanto profondamente sia stato turbato l'equilibrio, esso verrà ristabilito: la più violenta delle guerre deve ad un certo momento essere conclusa con la pace (...) i governi ritornano all'obiettività e al compromesso, e le norme del diritto internazionale ritrovano nuovamente la loro forza» (Pašukanis).
L'accusa secondo la quale il diritto internazionale è stato "continuamente violato" durante la guerra necessità di un esame più approfondito. Dal momento che, nello sviluppo dell'analisi, la stessa cosa può essere simultaneamente, sia funzionalmente "legale" che "illegale", è difficile vedere come queste azioni - o qualsiasi altra - possano essere definite come violazioni del diritto.
Innanzitutto, tuttavia, bisogna ricordare che Pašukanis non nega che ci sono alcune norme del diritto internazionale che sono condivise, cioè, interpretazioni non controverse, sebbene va detto chiaramente quanto esiguo sia il loro numero. Inoltre, per dimostrare come l'interpretazione è di solito guidata dalla convenienza politica, un esame del registro del 1940 della Corte Permanente di Arbitraggio della Lega delle Nazioni ci dà un'idea di quanto siano pochi i casi "incontrovertibili".
«I giudici nazionali che facevano parte della Corte, nel 95% dei casi votavano a favore dei loro paesi. Nei quattro casi in cui un giudice ha votato contro il suo proprio paese, tre vennero decisi all'unanimità. In altre parole, la situazione giuridica era talmente ovvia che sarebbe stato assai difficile deviare dalla decisione della Corte» (Grewe).
In quest'esempio, in solo il 3% dei casi l'applicazione della norma appariva autoevidente [*22]. È chiaro che sostenere che il diritto è indeterminato non significa che, in questi casi "incontrovertibili", il diritto abbia di fatto incontrato qualche limite di "interpretabilità", e che questo sia il "reale" significato di una legge. È solo un'ammissione che i fatti dei casi particolari variano con la medesima facilità con cui possono essere costruiti gli argomenti, e in questi esempi nessun contro-argomento venne stabilito - non che nessun contro-argomento avrebbe potuto essere stabilito. Ma il punto di Pašukanis è che, in uno stato di crisi politica come la guerra, gli Stati cercheranno di infrangere perfino quelle regole condivise e concordate da tutti. Pertanto, quando si verificano azioni politiche che trasgrediscono un norma incontroversa, possiamo dire a ragione che tali azioni sono "puramente" politiche, piuttosto che legali - e che sono di fatto funzionalmente illegali.
L'attenzione rivolta alla materialità del diritto significa che, se nessun Stato in nessun luogo sta obbedendo ad una norma particolare, abbiamo un argomento molto forte a favore del fatto che la norma ha cessato di esistere, giacché essa non regola più niente in maniera significativa [*23]. Ma, mentre la pratica di ignorare le norme è comune in tempo di guerra, essa differisce rispetto all'obsolescenza della norma in tempo di pace per il fatto che: 1) Il contesto politico è definito dai partecipanti come patologico (anche se delle analisi indicano la guerra come immanente alla pace capitalista); ed in concomitanza: 2) gli Stati generalmente rivendicano di star rispettando le leggi che violano, sostenendo che la violazione della legge si deve a delle circostanze straordinarie.
In questa situazione, può avere senso parlare di trasgressione del diritto internazionale. Alla fine, anche un'attenzione materialista all'effettività del diritto deve tener conto di modelli di comportamento nel tempo in quanto prova del fatto che una legge non ha senso: se, per caso, un gran numero di persone ha infranto una particolare legge per un giorno ed è poi tornata a rispettarla di nuovo, sarebbe eccentrico definire la situazione come di inesistenza e subito dopo di ristabilimento del diritto, anziché definirla come una violazione del diritto. Un simile approccio feticizzerebbe l'attenzione sulla "effettività" della legge, rendendola astratta: la "effettività" dev'essere giudicata secondo un contesto politico, dev'essere situata temporalmente.
Durante la guerra, un gran numero di trasgressori proclama fermamente la stessa legge che viola. Anche il fatto che venga ampiamente infranta non puo essere visto immediatamente come se venisse resa obsoleta. Di conseguenza, la situazione (relativamente rara) di un ampio abuso delle norme più o meno universalmente condivise può essere vista come "pura politica".
Mentre una guerra rappresenta, tuttavia, una situazione di collasso del diritto, è anche una situazione di affermazione del diritto. La spirale di rappresaglie e di contro-rappresaglie che tendono a caratterizzare il diritto, sono molto frequentemente descritte e giustificate proprio in termini di "autotutela" giuridica. In altre parole, in risposta ad un'infrazione della sovranità percepita (una violazione fondamentale del diritto, un mancato rispetto della proprietà privata), uno Stato eserciterà la sua interpretazione coercitiva, muovendo una guerra in quanto modo di stabilire la sua rivendicazione giuridica della violazione dei suoi diritti astratti. Questo mette in moto contro-rivendicazioni, anch'esse regolate per mezzo della forza.
In questo senso, perciò, quasi per definizione, una guerra moderna è simultaneamente sia una violazione fondamentale del diritto internazionale di una delle parti, nella percezione dell'altra parte, che il meccanismo regolatore per mezzo del quale il contenuto di quella relazione giuridica viene stabilito: uno shock di coercizione per mezzo del quale viene decisa l'interpretazione effettiva del diritto oggetto della controversia. È questo il senso per cui abbiamo uno «stretto collegamento morfologico (...) una chiara connessione (...) fra le parti di un processo giuridico e i combattenti di un conflitto armato» (Pašukanis).
La guerra è, simultaneamente, sia una violazione del diritto internazionale che il diritto internazionale in azione.
«Il diritto internazionale appare come un mezzo di lotta nel cuore di un ordine instabile, allo stesso tempo come locus e come ciò che è in gioco (...). Lungi dall'essere in opposizione l'uno all'altro in linea di principio (...) il diritto internazionale associativo ed il diritto alla subordinazione si rivelano entrambi come complementari e come portatori di violenza» (Robelin).
Non arriviamo molto lontano nella delimitazione delle relazioni giuridiche. Dato che Pašukanis ve le norme del diritto internazionale «trovando la loro forza» in una situazione di pace internazionale, "obiettività e compromesso» (Pašukanis), possiamo dire che il comportamento più chiaramente "conforme al diritto" è quello in cui le norme giuridiche consensuali regolano pacificamente i comportamenti e dove non esiste la controversia. In opposizione a questo, possiamo dire che vi è "pura politica" in quelle situazioni molto rare di crisi politica nelle quali norme giuridiche consensuali assai simili vengono ignorate con indifferenza. Questo lascia un vasta zona intermedia di comportamenti e relazioni. Possiamo distinguere alcuni di questi comportamenti in quanto "non giuridici"?
Nella sua discussione sull'eredità kantiana della giurisprudenza borghese, Pašukanis chiarisce il paradosso. Il diritto è limitato da un lato dalla "pura politica", e dall'altro dalla "pura moralità", ma quando si tenta di sistematizzare la posizione giuridica di fronte ad uno di questi due limiti, si scivola necessariamente nell'altro.
«Quando si afferma l'autonomia del diritto rispetto alla morale, il diritto viene confuso con lo Stato, a causa della forte accentuazione del momento di coazione esterna (...) Quando il diritto viene opposto allo Stato, ossia, al dominio di fatto, il momento del dovere nel senso del dover essere entra inevitabilmente in scena (...) e allora ecco che abbiamo, se così si può dire, un fronte unico del diritto e della morale» (Pašukanis).
Se si distingue il diritto dal comportamento "politico" allora non è chiaro che cosa lo distingua dalla morale. Ma, dall'altro lato, «se l'obbligo giuridico non ha niente a che vedere con il dovere morale "interiore", allora non c'è modo di differenziare fra sottomissione alla legge e sottomissione all'autorità in quanto tale» (Pašukanis). È precisamente questa la questione di cos'è e di cosa non è il diritto, di come possiamo distinguere fra attività giuridica e attività non giuridica. E la teoria dominante non ci può aiutare. «La filosofia borghese del diritto si esaurisce in questa fondamentale contraddizione, in questa lotta interminabile con le sue stesse proprie premesse» (Pašukanis).
Di fatto, non c'è via d'uscita. «L'obbligo giuridico non può trovare un significato autonomo in sé stesso e perciò oscilla eternamente fra due limiti esterni: la coazione esterna e il "libero" dovere morale» (Pašukanis). Il problema è di fatto senza soluzione. Nella teoria della forma merce, il diritto è simultaneamente una forma esistente fra due individui astratti liberi ed un necessario assoggettamento alla coercizione. Per tale ragione, non esiste una soluzione elegante. Non è la teoria giuridica ad essere paradossale, ma le relazioni che essa rappresenta.
«Qui, come sempre, la contraddizione del sistema logico rappresenta la contraddizione del sistema reale, ossia, del mezzo sociale che ha prodotto la forma stessa della morale e del diritto. La contraddizione fra l'individuale ed il sociale, fra il privato e il pubblico, che la filosofia borghese del diritto, malgrado tutti i suoi sforzi, non può sopprimere, è il fondamento reale della stessa società borghese in quanto società di produttori di merci. Tale contraddizione è qui sostenuta dalle relazioni reali degli uomini, che non possono considerare le loro attività se non sotto la forma assurda e mistificata del valore della merce» (Pašukanis).
Gli è che le relazioni giuridiche non possono essere separate in maniera sistematica né dalla morale né dalle relazioni "politiche". Questo non rappresenta il fallimento della teoria, ma la natura peculiare della modernità. Così come la ricchezza della società sotto il capitalismo appare come una «immensa accumulazione di merci» (Marx), «la società viene rappresentata come una catena infinita di relazioni giuridiche» (Pašukanis). Nella misura in cui la mercificazione si estende ben oltre i suoi limiti immediati e sembra essere investita di valori di scambio immateriali, la forma giuridica romperà i suoi margini e assumerà muove forme sulla base della sua forma essenziale, cercando di regolare tutte le sfere della vita sociale.
È per questo che non è solo per ipocrisia che «ciascun Stato che viola il diritto internazionale tenta anche di ritrattare l'assunto come non ci fosse stata alcuna violazione» (Pašukanis). La saturazione delle relazioni sociali per mezzo della forma giuridica è tale da costringere gli agenti sociali a "giuridizzare" ogni e qualsiasi attività. Di conseguenza, nella misura in cui queste relazioni vengono portate a termine, almeno fino ad un certo punto, sulla base dell'uguaglianza sovrana fra le parti, esse hanno carattere giuridico.
Il diritto non è una categoria separata. Agli estremi del comportamento "morale" e di quello "politico", altre dinamiche possono essere chiaramente dominanti, ma la grande massa delle relazioni si trova in qualche luogo fra questi due poli, ed è governata almeno in parte dalla logica giuridica. Il fatto per cui sia discernibile anche una logica "politica", non significa che il comportamento non sia giuridicamente diretto. Infine, non c'è niente come un atto "puramente" giuridico. Nel momento esatto dell'azione giuridica, un soggetto mobilita un'azione "politica" sotto forma di violenza coercitiva diretta.
La "impurezza" delle azioni giuridiche e l'impossibilità di discernere eventuali confini nitidi della sua sfera, un qualche regno ermetico del diritto, tuttavia, lungi dal minare la teoria della forma merce, la giustifica. I dibattiti teologici della giurisprudenza dominante su una teoria pura del diritto, sono il prodotto della mancanza di rigore, un tentativo di ritagliare un regno giuridico indipendente. Più di ogni altra cosa, sono le intuizioni dovute a questo insolito matrimonio fra Pašukanis e McDougal a provare che questo è impossibile.
6. La violenza della forma giuridica
Ho cercato di fornire una teoria sistematica e generale per il riconoscimento del contenuto che sta all'interno della forma giuridica. È chiaro che, per comprendere la dinamica attraverso cui vengono codificate le specifiche leggi internazionali, si devono investigare le relazioni di potere fra gli Stati in quei momenti particolari.
Non dobbiamo cadere nella trappola di pensare che la coercizione immanente al diritto abbia bisogno di essere esplicita o fisica, e nemmeno che i partecipanti diretti e formali dei processi giuridici siano solo giocatori di un gioco di potere che essi stabiliscono. La tela degli obblighi e l'imperialismo informale sono assai più intricati.
Nonostante l'importanza dell'ONU per quanto attiene al diritto internazionale, non vi è nessuna autorità suprema; di conseguenza, non c'è nessun monopolio internazionale della coercizione o delle interpretazioni legittime. Gli unici organi capaci di amministrare la coercizione necessaria al diritto internazionale sono i suoi stessi soggetti del diritto, gli Stati. Date le straordinarie disparità di potere fra tali Stati, e dato che il contenuto reale della regolamentazione giuridica sarà la lotta fra di loro, non c'è da meravigliarsi che il diritto internazionale materialmente efficace, al contrario delle frasi edificanti e delle nobili interpretazioni degli idealisti, favorisca gli Stati più forti, e i loro clienti.
Il diritto internazionale è una relazione ed un processo: non è un insieme fisso di regole, ma un modo di decidere le regole. E la coercizione, o la sua minaccia, di almeno una delle parti è necessaria in quanto mezzo attraverso il quale i contenuti particolari attualizzano il contenuto più ampio della lotta intorno alla forma giuridica.
L'accusa secondo la quale Pašukanis non ha una teoria della politica è assai lontana dalla verità. Nella sua teoria, la compenetrazione costitutiva del "politico" e del "giuridico" è estrema. Il politico - la violenza, la coercizione - vive nel cuore del giuridico, e questo è evidente nel diritto internazionale, più di quanto lo sia in qualsiasi altro luogo.
Per ora, ho argomentato su tutto questo ad un livello teorico. Tutto diventa ancora più chiaro, quando viene esaminata la storia del diritto internazionale.
- China Miéville - Pubblicato il 4 novembre 2016 su LavraPalavra -
fonte: LavraPalavra
Note:
[*1] - Come emerge, ad esempio, da Warrington (1984).
[*2] «Gli inconvenienti che ci aspettavamo provenissero dall'introduzione del "Factory acts" nel nostro settore manifatturiero, sono felice di dire, non si sono verificati», cita le parole di un industriale. «Non hanno interferito nella produzione; in realtà, si produce di più nello stesso tempo di prima» (Marx).
[*3] «Forse, la "Scuola logica del capitale" in Germania è quella più direttamente in debito con il lavoro di Pašukanis» (Von Arx). Per una revisione generale dei punti essenziali, si veda Holloway; Picciotto; Clarke. Per una breve panoramica si vede (per esempio) Barrow.
[*4] - «Pašukanis (...) si preoccupava di far derivare la forma giuridica e la forma statale ad essa intimamente relazionata dalla natura delle produzione capitalista di merci» (Holloway; Picciotto). Barrow ripete l'affermazione.
[*5] - In particolare nei saggi di Holloway; Picciotto, soprattutto Hirsch, Blanke; Jürgens; Kastendiek e Von Braunmühl.
[*6] - «Quando è "volontario" un contratto? La risposta è: probabilmente mai» (Banaji). Spinto all'estremo, alla base di un tale "contratto coercitivo" si trova la concezione del 19° secolo secondo la quale, nel sud degli Stati Uniti, la stessa schiavizzazione «aveva un carattere quasi contrattuale» (Jenkins, 1935). Autori, come Samuel Seabury, Edmundo Bellinger ed altri, problematizzano queste categorie apparentemente pacifiche (mossi, è chiaro, da terribili motivazioni politiche). Non che sia una novità per i marxisti volgere contro le categorie borghesi le teorie degli autori pro-schiavitù - vedi la citazione fatta da Negri di John Caldwell Calhoun [Negri, 1999].
[*7] - Questo saggio fornisce una linea sulla quale McWhinney ha fondato la sua argomentazione per affermare che «Pašukanis (...) concludeva che sarebbe puramente scolastico (...) tentare di definire la "natura" del diritto internazionale» (McWhinney).
[*8] - Più avanti, continua spiegando che per la maggior parte della teoria giuridica del 20° secolo questioni di questo tipo «potrebbero essere proposte dottrinalmente (...) proceduralmente (...) o, più recentemente, istituzionalmente, professionalmente, praticamente, in ultima analisi facendo attenzione al comportamento degli Stati, attraverso l'osservazione pragmatica, ma non teoricamente».
[*9] - Questo corrobora in maniera intrigante l'affermazione di Richard Tuck secondo cui, per i primi autori del diritto internazionale e della sovranità, in particolare Grotius ed Hobbes, «gli individui hanno assunto euristicamente le caratteristiche degli Stati sovrani» (Tuck), e per quegli autori «noi possiamo comprendere meglio i diritti di cui gli individui dispongono in opposizione l'uno all'altro (...) se osserviamo i diritti di cui gli Stati sovrani sembrano disporre gli uni contro gli altri» (Tuck). Per un commentatore gentile, «questa proposizione appare esagerata», e «si tratta di stabilire una connessione fra il concetto di sovrano, in quanto proprietario isolato nelle prime società moderne, ed il sovrano in quanto Stati isolati in costruzione in questo stesso periodo (...) ma la rivalità esterna degli Stati è un'altra questione(...). Questa appare come un movimento perverso» (Gowan). Tuttavia, il riferimento incrociato con Pašukanis qui è quanto meno suggestivo. Se concordiamo sul fatto che la concettualizzazione giuridica dell'individuo è un elemento indispensabile nella costruzione della sovranità, allora l'affermazione di Pašukanis secondo cui l'unità giuridica si dà inizialmente fra organizzazioni politiche, fa apparire meno "perversa" la proposizione di Tuck: il soggetto del diritto proseguirebbe di fatto (a partire dalla) giuridicità dell'unità politica - in maniera cruciale, al tempo di questi autori, lo Stato (quindi, le questioni di "derivazione" devono essere sfumate: senza un senso della mercificazione soggiacente da cui queste forme sarebbero espressione, c'è il pericolo - anche in Tuck - che il processo appaia come se avvenisse attraverso un qualche tipo di analogia-locale-a rovescio autopoietica). Così, in maniera controintuitiva, guardando primariamente al livello internazionale prima di restringere il focus sull'individuo, dovremmo far avanzare il progetto con cui Adorno letteralmente sognò di comprendere «La transizione dall'essere umano vivente all'entità legale» (Halley).
[*10] - Sebbene argomenti da un punto di vista "libertario" radicale abbastanza antipatico rispetto al marxismo di Pašukanis, e soffra di carenze filosofiche (come l'apparente coincidenza di "giustizia" e "diritto"), e filtri delle prove al fine di sostenere una posizione indifendibile ed utopica anarco-capitalista, e che lo spazio qui disponibile mi vieta di criticare, Benson contiene molti esempi interessanti di sistemi giuridici senza autorità gerarchica (statale), che corrobora in maniera suggestiva l'analisi svolta da Pašukanis riguardo la contingenza dello Stato.
[*11] - «L'idea di una coercizione esterna (...) costituisce un aspetto essenziale della forma giuridica» (Pašukanis).
[*12] - L'originale si trova in Marx. In questa traduzione si legge «il principio secondo cui il potere fa diritto (...) è anch'esso una relazione giuridica». Ho scelto questa versione perché più incisiva.
[*13] - Si veda ad esempio Akehurst: «Diritto internazionale (conosciuto anche come diritto pubblico internazionale o diritto delle nazioni».
[*14] - La citazione è di V.E. Grabar (1912).
[*15] - «Il dogma del diritto privato non è altro che una corrente interminabile di argomenti pro e contro affermazioni immaginare e fatti potenziali» (Pašukanis).
[*16] - «Tutto il sistema [di Grotius] dipende dal fatto che egli considera le relazioni fra Stati come relazioni fra proprietari privati; egli dichiara che le condizioni necessarie per eseguire scambi, cioè scambi di equivalenti fra proprietari privati, sono le condizioni per l'interazione giuridica fra Stati. Stati sovrani coesistono e sono contrapposti l'uno all'altro esattamente nella misura in cui sono proprietari individuali con diritti uguali» (Pašukanis).
[*17] - Va detto che lo "scambio di fatto" fra gli Stati può esistere o può non esistere. Quel che è necessario perché le sue relazioni assumano la forma giuridica è che le relazioni siano quelle "necessarie" allo scambio. Senza il riconoscimento della proprietà privata qualsiasi relazione che potrebbe aver luogo non sarebbe "commercio".
[*18] - Questo si riassume bene nell'affermazione di Pašukanis, precedentemente citata, secondo cui un'autorità suprema non fa distinzione «fra il diritto in quanto norma oggettiva ed il diritto in quanto potere» (Pašukanis).
[*19] - Questa affermazione corrobora l'argomento di Bowett, a proposito di un "vuoto di credibilità" creato dalla "divergenza fra la norma [che condanna le rappresaglie come illegali] e la pratica reale degli Stati" (Bowet, 1972).
[*20] - Quegli autori che caratterizzano il diritto internazionale come un sistema "primitivo", e vedono le rappresaglie come una sanzione centrale di questo diritto, mancano il bersaglio. È vero che la "autotutela" è l'unico meccanismo coercitivo serio nel sistema internazionale e che le rappresaglie sono un sistema di autotutela. Tuttavia, è anche vero che non tutti gli Stati possono avvalersi di una violazione del diritto - Grenada può essere una tesi estremamente consistente del fatto che l'invasione degli Stati Uniti contro la sua sovranità, nel 1983, era illegale, ma era anche assolutamente incapace di reagire. Quel che è centrale per il diritto internazionale è l'autotutela coercitiva, più di qualsiasi categoria astratta di "rappresaglie".
[*21] - «Ci sono poche (...) norme del diritto internazionale riconosciute in generale» (Pašukanis).
[*22] - Perfino anche qualcosa di quasi universalmente condannato dal diritto come gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e nella fascia di Gaza, possono essere e sono stati accolti dal diritto internazionale (si vedano gli orientamenti politici del governo israeliano pubblicati nel marzo del 2001).
[*23] - Se la normatività venisse sempre negata per mezzo di pratiche contrarie, essa o non potrebbe esistere oppure la sua esistenza sarebbe senza senso, giacché le norme sussistono e perfino prosperano grazie alla loro trasgressione (vedi Fitzpatrick, 2003).
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