sabato 21 gennaio 2017

Senza venire a patti

serge-v

Quanto è rimasto nelle generazioni più giovani di quella storia complessa, violenta, alla lunga perdente – e tuttavia animata da un profondo afflato ideale, guidato da ideali di uguaglianza, giustizia e libertà –, che i libri di storia chiamano Rivoluzione comunista? I trentenni di oggi sono nati in un mondo che non è più diviso in due da una cortina di ferro. Dopo la caduta del muro di Berlino l’universo comunista si è rapidamente dissolto, e la storia di quel mondo, che una generazione fa era ben nota e aspramente dibattuta nel bene e nel male, è oggi quasi eclissata. Per questo è tanto più importante rileggere lo sviluppo di quegli eventi, il racconto dei primi vent’anni della Rivoluzione, descritti in questo libro forse dal più lucido, appassionato e lungimirante intellettuale e rivoluzionario dell’epoca. Attraverso la narrazione e il prisma interpretativo di Victor Serge – pensatore troppo presto dimenticato, come scrive David Bidussa nella prefazione di questo volume – percepiamo quel mutamento di fini, quello stravolgimento politico e ideologico che fu il passaggio dalla Rivoluzione comunista guidata da Lenin all’istituzione del regime dittatoriale di Stalin. Pochi, come Victor Serge, percepirono per tempo questo stravolgimento come il tradimento di un ideale, denunciandone pubblicamente la barbarie. Ben pochi, come lui, in Russia e in Europa occidentale, furono disposti a subire le conseguenze delle proprie idee, lottando fino all’ultimo per farsi sentire.

(dal risvolto di copertina di: Victor Serge: Da Lenin a Stalin. 1917-1937. Cronaca di una rivoluzione tradita, Bollati Boringhieri)
serge

Il sogno infranto del 1917
- di David Bidussa -

Victor Serge, o meglio la memoria di Victor Serge, è la prova più bruciante della nostra ipocrisia. Chi di noi non sostiene infatti che la prova della propria fermezza stia nel «non venire a patti»? Se fosse così Victor Serge dovrebbe essere una figura essenziale nel Pantheon di immagini del Novecento. Ma non c’è.
Eppure non è vero che sia solo per questo che alla fine Victor Serge – una figura che non si può non citare come esempio di ciò che significa indisponibilità «a venire a patti» – è collocato «di lato» nella galleria degli intellettuali del Novecento. In molti, se devono pensare a un intellettuale che non si adegua, inquieto, citerebbero George Orwell, Arthur Koestler, Albert Camus o Ignazio Silone. Serge non compare in quella galleria. Perché? Certo, si dirà, non è stato facile nemmeno per loro entrare nella memoria pubblica. E tuttavia, pur con difficoltà, alla fine Orwell, Koestler, Camus e Silone sono diventati parte di un sapere condiviso. In breve, «non si può non averli letti». Per Serge non è così. Significa che non basta «non venire a patti», o forse che «non venire a patti» non è la categoria appropriata per capire come si costruisce un Pantheon e che quindi altre questioni vanno proposte.

La domanda intorno alla «questione Serge» non è mia, è di Susan Sontag (in un saggio scritto nel 2004, alla vigilia della sua morte e che forse ci resta come suo testamento),e mi sembra non solo pertinente ma anche ineludibile.
Sontag si chiede perché Victor Serge sia stato dimenticato, o comunque abbia avuto meno fortuna di altri. E prova a darsi delle risposte: Perché è un esule e dunque nessuno può rivendicarlo appieno? Perché non fu uno scrittore impegnato in modo discontinuo nella militanza, «bensì un attivista e un agitatore tutta la vita»? Perché ha scritto tantissimo e la maggior parte della sua scrittura non è letteraria? Perché nessuna letteratura nazionale può rivendicarlo?
Persino la sua morte fu triste scrive Sontag. «Trasandato, malnutrito, sempre più afflitto dall’angina – aggravata dall’altitudine di Città del Messico – una notte ebbe un infarto mentre era per strada, riuscì a fermare un taxi, e morì sul sedile posteriore. Il tassista lo depositò in un posto di polizia: ci vollero due giorni prima che la sua famiglia venisse a sapere quello che gli era successo e potesse recuperare la salma».
E poi scrive: «Sarà perché nella sua vita ci furono troppe dicotomie? Fu un militante, in lotta per un mondo migliore, fino alla fine dei suoi giorni, cosa che lo rese esecrabile alla destra (…) Ma fu un anticomunista abbastanza perspicace da preoccuparsi che il governo inglese e quello americano non avessero compreso come dopo il 1945 Stalin mirasse a impadronirsi dell’intera Europa (a costo di una terza guerra mondiale).
E ciò, in un’epoca in cui tra gli intellettuali dell’Europa occidentale erano diffusi i preconcetti filosovietici e la diffidenza per gli anticomunisti, fece di Serge un rinnegato, un reazionario, un guerrafondaio.
Come recita un vecchio adagio, Serge seppe «scegliersi i giusti nemici». Questo è il punto della questione, insieme a un altro, che Aldo Garosci – presentando nel 1956 la prima edizione italiana di un altro grande libro di Serge – Memorie di un rivoluzionario (La nuova Italia) - ha intuito e proposto e che poi a lungo è rimasto inevaso. La sua premessa parte dalle ultime righe de Il caso Tulaev (Fazi 2005) il romanzo uscito postumo nel 1948, per molti aspetti un vero capolavoro, insieme a Buio a Mezzogiorno di Koestler, ma appunto meno fortunato di questo. Lì, uno dei protagonisti sfoglia gli appunti di Kiril Rublev, il rivoluzionario che non ha «confessato», e che per questo è stato ucciso, in cui rivendica allo stesso tempo la propria lucidità nell’aver sfidato il mondo con la rivoluzione e di non essersi piegato, pur comprendendo la logica schiacciante del potere che lo vuole morto.

«Ci fu impossibile – scrive Rublev – adattarci alla fase della reazione, dato che eravamo al potere circondati da una leggenda veridica nata dalle nostre imprese, eravamo tanto pericolosi che è stato necessario distruggerci, non soltanto fisicamente, creando attorno ai nostri cadaveri la leggenda del tradimento». (Ivi, p. 415)

È una logica, secondo Aldo Garosci, che rende gli oppositori prigionieri di se stessi, perché si fermano sulla soglia. Limitandosi a «giocare il gioco assurdo della democrazia in un ambiente e in un clima che democratico non poteva restare; il gioco assurdo della fedeltà al partito che ogni giorno di più si rivelava come un nemico della libertà operaia». In questa logica, se il partito rimaneva l’unica ancora di salvezza, allora ne discendeva che l’analisi non poteva che fermarsi sulla soglia della categoria di «degenerazione», ovvero evitando di mettere in discussione il carattere «proletario» dell’Urss, come avviene infatti nella struttura logica e teoretica della critica di Trockij allo stalinismo. Serge, osserva Garosci, si salvò in parte proprio perché in lui «la parte dell’Occidente, la parte libertaria e liberale era assai più profondamente radicata che nei suoi compagni di lotta, e costituiva assieme un non indifferente appoggio esterno e una tavola di salvezza ideale a cui aggrapparsi». È un processo che diventa evidente negli anni dell’esilio messicano, tra 1941 e 1947, soprattutto a contatto con quel vasto mondo di esuli dell’antifascismo internazionale che non si sentono a casa né a Mosca, né in Gran Bretagna, né negli Stati Uniti e che prima di tutto sono alla ricerca appassionata di un ordine da dare alle loro molte sconfitte.
Quel processo inizia nel 1933, alla vigilia del suo secondo arresto in Unione Sovietica, quando in una lettera agli amici francesi scrive: «Nel momento attuale ci troviamo sempre di più di fronte a uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ubriacato dalla sua potenza, per il quale l’uomo non conta. Questa macchina formidabile si fonda su una duplice base: una “pubblica sicurezza” onnipotente che ha ripreso le tradizioni delle cancellerie segrete del diciottesimo secolo e un “ordine”, nel senso clericale del termine, burocratico di esecutori privilegiati».
Quella lettera è il testo che indica il primo momento da cui si origina la traiettoria che lo porta verso la sua riflessione antitotalitaria. Quel processo ha il suo primo punto di bilancio con Da Lenin a Stalin, che esce per la prima volta nel 1937 e che segna un prima e un dopo.

- David Bidussa - Pubblicato su Il Sole/Cultura del 14 gennaio 2017 -

Nessun commento: