domenica 31 gennaio 2016

La satira della politica, e la politica della satira

toto

Lo spirito anti-dogmatico dell’arte comica
- di Luciano Canfora -

Totò era di destra o di sinistra? Questione insolubile e mal posta. Era un grande comico, le cui frecciate, se e quando davvero efficaci, centravano il bersaglio: non importa a vantaggio di chi. La commedia e la satira muoiono se scelgono di orientarsi rispetto a un committente politico o se si propongono di dire, o peggio di tacere, in funzione di una convenienza politica. Vivono, trionfano o precipitano, solo se si prendono per intero la loro libertà. Non per questo però sono qualunquiste: sono arte comica, né più né meno. E quindi potremmo dire, nel solco della Poetica di Aristotele, che producono «catarsi» comica. La catarsi dello spettatore di fronte alla tragedia passava attraverso l’operazione mentale-emotiva e terapeutica di immedesimarsi nel dolore e nella sofferenza dei grandi personaggi messi in scena: la catarsi comica consiste nel condividere sull’istante la fulminante frecciata politica o di costume messa sulla scena e nel dismettere, in quel momento, la propria appartenenza o faziosità politica o anche etica. Ecco perché la satira e la commedia sono liberatorie, oltre che salvifico antidoto al dogmatismo.
Si deve pensare dunque che siano anche portatrici di verità, della verità? Non necessariamente. Dire con fulminante efficacia e senza autocensure o reticenze ciò che davvero si pensa — il che è proprio dell’artista comico — non significa di per sé essere nel vero. Anche perché, cosa sia propriamente la verità nella lotta politica, cioè nello scontro quotidiano su cui si fonda e di cui si nutre la vita associata, è questione tutt’altro che agevole. Con sommaria sentenza si potrebbe dire che la verità della politica si manifesta sui tempi lunghi ed è però sempre provvisoria (nessuna sentenza della storia è definitiva), mentre la verità della satira è istantanea. Se assumessimo quest’ultima come unica vera andremmo incontro a una frantumazione intellettuale, sentimentale e pratica, a un pulviscolo di pulsioni autentiche e contraddittorie, forse nocive, certo inconcludenti. La verità della satira è essenziale, indispensabile correttivo del costringente «sentire collettivo», che a sua volta è l’inevitabile effetto dello schieramento in politica. Perciò un comico, grande o meno grande che sia, non può a lungo capeggiare una formazione politica, per quanto non convenzionale essa sia.
Di ciò sono per lo più consapevoli gli stessi artefici di satira ma soprattutto i fruitori e destinatari di essa. È intuitivo saper distinguere il tempo del ridere e dell’indignarsi e il tempo del riflettere. Il più grande comico del mondo occidentale, l’ateniese Aristofane, in una commedia ferocemente politica intitolata Cavalieri, fece a pezzi il più potente uomo politico del momento, quel Cleone che lo storico Tucidide definì «l’uomo di cui maggiormente il popolo si fidava». Siamo nel gennaio-febbraio dell’anno 424 a.C. Cleone ha da poco conseguito un grande e imprevisto successo militare, è dunque popolarissimo. Di lì a poco ci saranno le elezioni, o forse ci sono appena state. Il pubblico destina ad Aristofane la vittoria, l’ambitissimo primo premio. Ma rielegge Cleone stratego.

Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 25.1.2016 -

fonte: Corriere

venerdì 29 gennaio 2016

Le città che ci aspettano

CNIL

Architettura Intelligente

"Come gli dei del Monte Olimpo, i manager della città scrutano una rappresentazione olografica in miniatura della città e dei suoi abitanti. Anziché fra le nubi atmosferiche, il loro dominio è situato in una nuvola informatica. La loro onniscienza non proviene dalla divinità ma da una massiccia rete di sensori in grado apparentemente di tracciare tutto, le precipitazioni, gli ingorghi, perfino i movimenti di ogni singolo cittadino. Per il controllo a distanza delle infrastrutture e per l'invio istantaneo di transponder, posseggono un'onnipotenza che nessun sindaco ha mai avuto. Soprattutto, l'ordine viene mantenuto in questa visione apertamente paternalistica del futuro."
- Anthony Townsend - " Smart cities : Big Data, Civic Hackers and the Quest for a New Utopia " -

Città Intelligenti e Norme della qualità: Impatto sulle politiche pubbliche di Sicurezza
- Centre de Recherche de l’École des Officiers de la Gendarmerie Nationale -
- Redattore : capo squadrone Jérôme LAGASSE -
(dicembre 2014)

Nelle aeree urbane si concentra il 53% della popolazione mondiale. Tale cifra dovrebbe raggiungere la soglia del 70% da qui al 2050. Per inciso, l'INSEE (1) definisce la città come quello spazio che presenta una certa continuità di abitato, costituito sia da un comune composto da più di 2000 abitanti, sia da due o più comuni sui cui territori una zona agglomerata comprenda più di 2000 abitanti- I responsabili pubblici sono chiamati ad affrontare delle importanti sfide: la mobilità urbana, la domanda energetica e la garanzia della sicurezza degli abitanti. Naturalmente, lo sviluppo della città intelligente va a modificare in maniera sostanziale le politiche pubbliche di sicurezza, sia in termini di sistemi informatici che di controllo di flusso. Parallelamente, questo sviluppo si accompagna alla creazione di indicatori pertinenti che siano in grado di misurare il punto di performance. Un precursore in questa materia, è la norma ISO 37120:2014 relativa a

"Sviluppo sostenibile delle comunità - Indicatori per i servizi urbani e per la qualità della vita"

che recensisce per la prima volta, in un documento ufficiale, gli strumenti che serviranno a misurare le prestazioni nei settori fondamentali.

Lo spazio abitativo farà ricorso ad architetture intelligenti. Declinate sul piano securitario, le architetture intelligenti disporranno di sensori impiantati nei canali di comunicazione, nei luoghi pubblici e nei locali ad uso abitativo o professionale. Tali architetture digitali procederanno alla raccolta di una molteplicità di dati ad alto valore ai fini della decisione di attuazione di politiche pubbliche di sicurezza. L'esercizio delle missioni tradizionali di polizia subirà grandi cambiamenti.

La quantità di dati raccolti pone necessariamente il problema della preservazione delle libertà individuali, fra cui il rispetto della vita privata è uno dei componenti più importanti. Come contropartita, si aprono delle formidabili opportunità di constatazione, di raccolta di indizi utili alla risoluzione di determinati crimini e delitti. A questo proposito il parere del CNIL circa l'impiego di contatori intelligenti nella gestione energetica degli alloggi merita una particolare attenzione. A questo stadio di sviluppo, la sicurezza dell'Internet degli oggetti connessi deve sempre più tener conto della possibilità che un terzo prenda il controllo del sistema di comando di un'applicazione d'architettura intelligente.

La città intelligente e le sue applicazioni derivate aprono un vasto cantiere di riflessione e di dottrine per gli anni a venire in materia di politica pubblica di sicurezza e di modalità di azione nei compiti fondamentali della polizia amministrativa e della polizia giudiziaria.

La norma ISO 37120: Sviluppo sostenibile delle comunità - Indicatori per i servizi urbani e la qualità della vita: Sfide e prospettive

Una norma è un documento che contiene delle esigenze articolate in più componenti. Stiamo assistendo ad una revisione delle norme ISO al fine di adattarle ai cambiamenti del mondo ed alle aspettative delle diverse parti. Prima nel suo genere, la norma ISO 37120, pubblicata il 14 maggio 2014, si propone di rispondere alle elevate aspettative in materia di censimento ed analisi degli esistenti indicatori circa lo sviluppo sostenibile e la resilienza delle città. Vero e proprio strumento di performance, la norma 37120 potrebbe essere lo strumento per valutare la qualità delle città e del loro livello di progresso nei 17 settori interessati. ed i benefici attesi.

Declinata localmente, questa norma costituirà uno strumento di guida e di controllo della gestione dei progetti per ogni città, municipalità o comunità desiderosa di valutare la propria performance in maniera comparabile e verificabile, quali che siano le sue dimensioni, la sua situazione geografica ed il suo livello di sviluppo. Ovviamente, questa norma è destinata ad essere applicata alle zone rurali e peri-urbane così come alle linee di comunicazione. Documento elaborato dall'OIT (Organisation Internationale de Normalisation) è suscettibile di essere rivisto, emendato o integrato nel tempo. L'AFNOR (Agence française de normalisation), incaricata di trascrivere tale documento, prevede la pubblicazione della versione nazionale nell'aprile 2016. Dei 17 indicatori principali utilizzati, l'aspetto della Sicurezza si fonda su 5 indicatori di base o di sostegno, considerati efficienti in questo segmento:
1. Numero di agenti ogni 100.000 abitanti (indicatore di base)
2. Numero di omicidi su 100.000 abitanti (indicatore di base)
3. Crimini contro la proprietà su 100.000 abitanti (indicatore di sostegno)
4. Tempo di risposta da parte del dipartimento di polizia in seguito alla chiamata iniziale (indicatore di sostegno)
5. Tasso di crimini contro le persone su 100.000 abitanti (indicatore di sostegno).

Per combattere in maniera efficace i reati contro le persone ed i beni, migliorare i tempi di reazione che intercorrono fra il verificarsi di un evento e la risposta da dare, le architetture intelligenti apporteranno un contributo decisivo all'efficienza delle politiche pubbliche di sicurezza.

Le architetture intelligenti, ausiliarie alla sicurezza delle persone e dei beni

Non esiste alcuna definizione ufficiale di architettura intelligente. La dottrina (2) ha potuto definire l'architettura intelligente come insieme di elementi spaziali ed architettonici avente la capacità di rispondere intelligentemente all'ambiente esterno così come ai bisogni degli utenti. Tali architetture intelligenti si basano su una rete di sensori senza fili che recuperano i dati, pietra angolare dell'architettura intelligente.

Fra le architetture intelligenti, alcune una hanno vocazione securitaria della loro concezione, come i sistemi di video-protezione e la biometria. La video-protezione conosce un'evoluzione sempre più sofisticata che va ben oltre la funzione iniziale di sorveglianza che le era stata assegnata in origine. Così, in uno spazio dato, con controlli di accesso e telecamere, un centro di iper-visione può realizzare un servizio del tipo scorta di accompagnamento per permettere ad una persona di muoversi in tutta tranquillità da un punto all'altro di questo spazio connesso.

La securizzazione degli spazi a vocazione comunitaria comporterà progressivamente un sistema globale di dispositivi di sicurezza che integrerà l'insieme dei sottosistemi: viso-sorveglianza, controllo d'accesso, sistema anti-intrusione ed interfonia nello spazio pubblico. Il castello di Versailles (3) è un tipico esempio di ciò che l'attuale tecnologia è in grado di fare in termini di centro di iper-visione. Questo concetto sarà, con riserva di adattamento, trasponibile quali che siano le dimensioni e la natura dello spazio da connettere.

La biometria (4) è il secondo "silo" intelligente al servizio della sicurezza. La CNIL definisce la biometria come "l'insieme di tecniche informatiche che permettono di riconoscere automaticamente un individuo a partire dalle sue caratteristiche fisiche, biologiche, ed anche comportamentali". I dati biometrici vengono classificati secondo tre categorie che rispondono ai seguenti criteri: i campioni di corpo umano (DNA, odore corporale); rappresentazioni digitali o modelli (impronte digitali o il contorno della mano); atteggiamenti o comportamenti (firma autografa, battitura su una tastiera).

Le applicazioni operative in termini di sicurezza sono illimitate, soprattutto la biometria comportamentale. Il Gruppo all'articolo 295 precisa che "le tecniche biometriche basate sul comportamento sono volte a misurare le caratteristiche comportamentali di una persona. Esse comprendono la verifica della firma autografa, l'analisi della battitura sulla tastiera, l'analisi della postura, il modo di camminare o di muoversi, modelli che indicano un certo pensiero inconscio come la menzogna, ecc.." (5)

L'arredo urbano offre delle opportunità al servizio di architetture intelligenti. Abbiamo così dei lampioni installati sulle strade pubbliche. Questi oggetti diventano dei preziosi ausiliari alla sicurezza e all'ordine pubblico. Diffusi da più di un secolo sullo spazio pubblico dalla metropoli al villaggio, i lampioni costituiscono, per la loro struttura e la loro impiantazione, il supporto ideale per l'infrastruttura digitale senza fili che controlla, sorveglia e gestisce il mondo sensoriale per mezzo dei dati valorizzabili raccolti dai sensori (6). Una lista non esaustiva permette di misurare rapidamente l'interesse: diffusioni di annunci e di avvertimenti, cattura di immagini, conteggio dei passanti, rilevamento di movimenti anomali di folla, anche spontanei. Questa stessa illuminazione pubblica potrebbe essere messa in condizione di funzionare secondo la frequentazione di una strada e fornire delle informazioni riguardo al numero di individui.

CNIL2

Questi pochi esempi concreti introducono nuove problematiche in termini di integrità dei sistemi di comando. Il controllo del sistema da parte del suo legittimo utilizzatore rimarrà il fattore chiave di ogni riuscita nel dispiegamento di architetture intelligenti degli spazi connessi. Penetrare un sistema informatico che pilota delle funzioni critiche può avere delle conseguenze gravi. Il furto da parte di un ladro che agisce effettuando un'effrazione "digitale" non è frutto di immaginazione. L'ipotesi di una procedura che consiste nel distogliere i sistemi intelligenti che ci fanno sapere se una persona si trova nel suo domicilio così come disattivare i meccanismi di sicurezza sarà molto plausibile. Questo cambiamento esigerà che i locali ad uso abitativo o professionale siano inviolabili e che i sistemi l' installati lo siano altrettanto.

I dati personali o pubblici, raccolti attraverso le architetture intelligenti, presentano un carattere valorizzabile che conviene inquadrare. Su tale problematica, la CNIL si posiziona fin da ora come l'autorità di regolamentazione fondamentale riguardo la sorveglianza digitale.

Circa gli sviluppi osservati dalla Commissione Nazionale Informatica e Libertà (CNIL)

In Francia, la CNIL ha cominciato ad occuparsi delle problematiche dei dati raccolti dagli oggetti connessi nel settore della rete di distribuzione di elettricità intelligente ("smart grids") (7). Tali problematiche prefigurano gli obblighi degli operatori nei confronti dei clienti nella loro qualità di cittadini. La CNIL constata: il carattere "intelligente" ottenuto dai progetti di città digitale proviene dai dati acquisiti dagli oggetti connessi: non sono le città a divenire intelligenti, bensì i loro dati.

Questi dati, spesso presentati come anonimi, non sempre lo sono, tanto più che le tecniche di re-identificazione dei dati continuano ad evolvere senza sosta. Ad esempio, un sensore di presenza che controlla l'illuminazione pubblica di una strada poco frequentata può permettere di sapere quale degli abitanti di quella strada sia passato, se la temporizzazione di spegnimento dei lampioni è sempre la stessa. Questi contatori comunicanti sollevano delle nuove questioni di privacy. Un'approfondita analisi delle curve di carico (8) può permettere di dedurre un gran numero di informazioni sulle abitudini di vita degli occupanti di un'abitazione: l'ora in cui si svegliano e quella in cui vanno a letto, le ore o i periodi di assenza, la presenza di ospiti in un alloggio, l'uso della doccia, il numero di persone presenti nell'alloggio, ecc.. Più in generale, la gestione dei dati raccolti nelle abitazioni e trasmessi all'esterno, volto a consentire un controllo a distanza di alcuni dispositivi elettrodomestici, andrà ad espandere il futuro campo d'investigazione della polizia giudiziaria.

I locali ad uso professionale verranno interconnessi con i media e con il resto della sfera pubblica. Quest'insieme di "materiale da costruzione intelligente" grazie alla sua capacità di reagire ai bisogni del suo ambiente, garantirà una tracciabilità delle operazioni effettuate. Sono anche in grado di far fronte ad ogni tentativo di attentare alla loro integrità per mezzo di atti di ostilità fisica o di cyber-attacchi. L'efficienza della sicurezza raggiunta per mezzo di queste nuove tecnologie dovrà tuttavia tener conto dei principi fondamentali del diritto delle persone riconosciuto nelle società democratiche, sia nella sfera personale che in quella professionale.
Questa massa di dati a carattere personale o pubblico porta già da ora ad una nuova riflessione sull'ammissibilità delle prove che nel diritto francese si fonda sul principio di lealtà e sulla sua estensione, il principio di parità delle armi (N.d.T.: l’obbligo di offrire ad ogni parte la concreta possibilità di esporre la propria difesa in condizioni che non siano di netto svantaggio rispetto all’avversario), principio che la Corte europea dei diritti dell'Uomo applica in maniera vigile. I nuovi metodi di investigazione aprono delle prospettive riguardo alla manifestazione della verità nelle inchieste criminali e penali.

Il processo volto a garantire la sicurezza delle persone e dei beni risulterà profondamente cambiato dalla collocazione di sensori di dati sia nello spazio pubblico che in quello privato. La conoscenza e l'accesso rispetto ai dati raccolti dovrà, nei limiti delle libertà fondamentali e sotto il controllo giudiziario, essere preso in considerazione nell'analisi e nella lotta contro i fenomeni di delinquenza di una circoscrizione. Le norme di resilienza degli spazi connessi e l'efficienza nell'analisi dei megadati (Big data) rappresentano per il futuro gli strumenti di aiuto alle decisioni che riguardano le politiche pubbliche di sicurezza.

- Centre de Recherche de l’École des Officiers de la Gendarmerie Nationale -
- Redattore : capo squadrone Jérôme LAGASSE -
(dicembre 2014)

NOTE:

(1) - 1 http://www.insee.fr/fr/methodes/default.asp?page=definitions/ville.htm

(2) - Khaled Sherbini, Robert Krawczyk, Overview of intelligent architecture : 1st ASCAAD International Conference, e-design in Architecture KFUPM, Dhahran, Saudi Arabia, 12-2004

(3) - http://www.assystem.com/fr/entreprise/livre-blanc-introduction.html

(4) - http://www.cnil.fr/documentation/fiches-pratiques/fiche/article/biometrie-des-dispositifs-sensibles-soumis-a-autorisation-de-la-cnil/

(5) - G29 : groupe des autorités européennes de protection des données personnelles

(6) - Per le applicazioni concrete : http://intellistreets.com/index.php

(7) - http://www.cnil.fr/linstitution/actualite/article/article/compteurs-communicants-premieres-recommandations-de-la-cnil/

(8) - http://www.cnil.fr/documentation/deliberations/deliberation/accessible/non/delib/279/

fonte: Laboratoire Urbanisme Insurrectionnel

giovedì 28 gennaio 2016

Il dito nel naso

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"La cosa migliore che si possa sperare è che gli uomini non abbiano alcun odore. Ora, Alessandro - dal soave sudore - non solo non puzzava ma profumava naturalmente. Secondo Plutarco, aveva un temperamento ardente, simile al fuoco, che cuoceva e dissipava l'umidità del corpo. Montaigne è affascinato da questo genere di osservazioni che colleziona dagli storici. Non è interessato a grandi eventi, alle battaglie, alle conquiste, bensì agli aneddoti, ai tic, alla mimica: Alessandro inclinava la testa da un lato, Cesare si grattava il capo con un dito, Cicerone si infilava le dita nel naso. Questi gesti non controllati, che sfuggono alla volontà, ci dicono di un uomo molto più di quanto ci raccontino le gesta della sua leggenda." - Antoine Compagnon - Un'estate con Montaigne - Adelphi, 2014 -

Non c'è niente di più freudiano di questi "tic" e di questi "gesti incontrollabili". Del resto, "una disciplina come la psicoanalisi si costituisce intorno all'ipotesi secondo cui dettagli apparentemente insignificanti possono rivelare fenomeni profondi di notevole importanza" (Ginzburg). Vite e gesti si uniscono in una sorta di "paradigma indiziario" che si dipana a partire dall'intuizione di Aby Warburg secondo la quale "Dio è nei dettagli". Insomma, da Plutarco a Vasari fino all'uomo della folla di Edgar Allan Poe. Si formulano giudizi sull'uomo, e sulla società, a partire da dei "sintomi".

Hollywood - che una volta si trovava sempre un passo avanti - nel 1935 produce un film, firmato da John Ford (e chi altri?) sui "gesti non controllati". "The Whole Town's Talking" ("Tutta la città ne parla"), con Edward G. Robinson che interpreta due personaggi: Jones, un tranquillo impiegato modello, e "Killer" Mannion, rapinatore di banche ed omicida, appena evaso dalla prigione. Sul giornale, la notizia della fuga è accompagnata dalla foto di Mannion: l'impiegato e l'assassino sono identici. Jones viene arrestato al posto di Mannion e la polizia non intende dare ascolto alla sua insistente e disperata difesa: "Mi chiamo Arthur Ferguson Jones! Sono un membro dell'YMCA! [N.d.T.:  Young Men's Christian Association]". Dopo ore, alla fine, viene creduto e rilasciato, insieme ad una lettera firmata dalle autorità che certifica la sua identità. Si tratta di Jones, e non di Mannion, c'è scritto. Naturalmente, Mannion va a casa di Jones e si impossessa della lettera. (Sì, lo so, è la stessa trama del film con Paolo Villaggio, "Fracchia, la belva umana"!)

Questa dinamica va più o meno avanti per tutto il film, fino al confronto finale. La performance di Robinson, nello svolgere entrambi i ruoli, è impeccabile e poggia su una differenziazione fra Mannion e Jones che consiste nel mettere in atto un dettaglio minimo, quel "gesto non controllato", quel "tic" di cui si diceva. Più volte, Jones, quando si trova a dover maneggiare documenti, giornali, una lettera, il menù del ristorante, compie il gesto di inumidirsi il dito con la lingua. Ma, nel finale del film, quando Mannion cerca di convincere Jones a cadere nella sua ultima trappola, è Mannion ad inumidirsi il dito, e non Jones.
Forse Mannion ripete un gesto che è di Jones, o forse si tratta di un gesto che, a quanto pare, non è di nessuno dei due, ma è piuttosto dell'attore, di Robinson. Un corto circuito nell'impostura di un'impostura.

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mercoledì 27 gennaio 2016

Spiegare Auschwitz

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Auschwitz come alibi?
- di Robert Kurz -

L'ostinato rifiuto, a fronte del cambio di paradigma, di prendere posizione nel senso di una "critica del valore" proviene, in primo luogo, dalla nostalgia della lotta di classe. Inoltre, è da molto tempo che la maggior parte del marxismo tradizionale ha preso congedo dalla critica esplicita dell'economia politica. Non sono pochi gli ideologhi che cercano, come sostituto all'azione, di guarnire l'ormai superato marxismo del movimento operaio con ogni genere di costruzioni con esso incompatibili, presupposte come modernizzanti: dal ragionamento pop-culturale della sociologia di un Pierre Bordieu, fino al "discorso" post-strutturalista.
L'impulso, in sé giustificato, ad impadronirsi criticamente dell'aspetto culturale della socializzazione capitalista abitualmente ignorato da una sinistra tradizionalmente "economista" (per meglio dire: "sociologista"), in manifestazioni del genere non ha niente a che vedere con un superamento del marxismo del movimento operaio. I postmoderni "marxisti culturali" che, in realtà, non sono più propriamente marxisti, si trovano solamente all'altezza dei tempi con i loro stravaganti occhiali da sole. In teoria, non possono e non vogliono coinvolgersi nella trasformazione storicamente in atto della teoria critica, ridotta a sociologismo della lotta di classe, per mezzo della critica del valore. Al contrario, similmente ai sostenitori della lotta di classe, vivono questo compito come una minaccia che li lascerebbe impotenti. La tematica culturale non si manifesta in un nuovo contesto, ma soltanto come la sua difesa e, in tal modo, diventa un puro alibi spettacolare. Il vecchio economicismo completamente mutilato viene sostituito da un culturalismo altrettanto ottuso.

E' con particolare crudezza che entra in scena il commercio a buon mercato dei riduzionismi teorici sul tema di Auschwitz. Il settore del marxismo tradizionale più o meno orientato alla cultura intende sbarazzarsi di ogni tentativo di riformulazione della teoria del fascismo svolto alla luce della critica del valore. In passato, la sinistra ha limitato i crimini del nazionalsocialismo contro l'umanità al mero contesto socio-economico dello "interesse del capitale". Inoltre, si è limitata ai processi sociologici superficiali della trasformazione dell'apparato di dominio capitalista durante la crisi economica mondiale, relegando in secondo piano il potere dell'ideologia biologico-antisemita in quanto specificamente tedesca. Ora, al contrario, è il contesto capitalista del regime nazista che sparisce in un decontestualizzato stato di cose cultural-ideologico "puramente tedesco".

Non sorprende che, da questo punto di vista, Günter Jacob attacchi in maniera così violenta lo Schwarzbuch (*). dal momento che in esso viene esposta una relazione sistemica fra la storia dello sviluppo capitalista ed una specifica "ideologia tedesca" (cioè, non viene semplicemente opposta l'una all'altra). In quanto portavoce del marxismo ortodosso, abituato ad un pubblico "addestrato", Jacob decreta che lo Schwarzbuch è "costruito su una revisione della teoria marxista del valore", senza però spiegare che cosa questo significhi. Ad ogni modo, per quanto ancora gli rimane da dire, non serve una teoria del valore, che sia marxista o revisionata. Per necessità tattica, si limita a flirtare con la vecchia critica radicale di sinistra del capitalismo e, pertanto, viene utilizzato il marxismo detronizzato degli anni 70 come fosse una fiche per puntare, come una rappresentazione volta unicamente a far sì che il concetto di economia politica elimini la sua critica. Esplicitamente, in Jacob, i concetti critici della socializzazione del valore appaiono soltanto come presunte "categorie che sono diventate incerte a causa dell'olocausto". C'è quasi l'apparenza macabra che l'assassinio di sei milioni di ebrei trovi il suo senso in quello che gli viene attribuito da una certa sinistra tedesca: il privilegio di poter dissimulare culturalmente, in tutta tranquillità, la vecchia identità della lotta di classe, ormai collassata. Jacob non solo strumentalizza Auschwitz al fine di seppellire la critica radicale dell'economia, ma vuole anche chiamare Adorno a testimone principale, nel mentre che per le questioni essenziali lo tratta come un cane morto. In realtà, la Teoria Critica non ha mai smesso di vedere Auschwitz nella sua relazione con il sistema produttore di merci, mentre la posizione di Jacob si basa sull'esigenza, di invertire completamente la frase di Horkheimer, dicendo: chi vuole parlare di Auschwitz deve immediatamente tacere sul capitalismo.

Per poter presentare questa fuga verso il culturalismo come una posizione ponderata, Jacob si avvale di un mezzo quasi incredibile: falsifica letteralmente le argomentazioni dello Schwarzbuch riguardo al nazionalsocialismo e mente al pubblico affermando che c'è scritto esattamente l'opposto di quel che dice. In tal modo, asserisce che lo Schwarzbuch riprende fondamentalmente la spiegazione storicizzante di  Götz Aly, con un riferimento positivo ad Ernst Nolte (!), per cui viene messo in dubbio Auschwitz in quanto atto singolare e lo si subordina ai crimini generali della modernizzazione del 20° secolo. Esattamente al contrario, lo Schwarzbuch esplora, a partire dalla storia della seconda rivoluzione industriale, la differenza decisiva fra Auschwitz ed il gulag sovietico, così come quella con il fordismo americano e, in questo modo, regola i conti con Nolte assai più profondamente di quanto facciano i suoi critici fatti in casa, democratici di sinistra della Repubblica Federale Tedesca. Jacob va ancora più lontano nella sua falsificazione, affermando che nello Schwazbuch il massacro degli ebrei viene presentato in maniera "funzionalista", come un mezzo per arrivare ad un altro fine (la modernizzazione), ma che, tuttavia, risulta difficile all'autore estrarre "i calcoli utilitaristici che si trovano dietro le apparenze" e "all'improvviso" appare "tutto irrazionale". Ma proprio al contrario, lo Schwarzbuch (fra l'altro, riferendosi a Moishe Postone) mostra il perché Auschwitz non può essere spiegato in funzione di qualsivoglia "calcolo di utilità", essendo radicato profondamente nell'irrazionalità e nel risentimento, i cui elementi, da un lato, hanno caratterizzato fin dal principio la socializzazione del valore in quanto tale e, dall'altro lato, si sono costituiti in Germania, a partire da Herder e Fichte, sulla base di un contenuto specifico: la legittimazione culturalista della "ideologia del sangue" già presente nella formazione della nazione tedesca. Questo contesto, che percorre tutto lo Schwarzbuch, viene interamente nascosto da Jacob.

La falsificazione è talmente evidente che non può non essere presa in considerazione l'idea di un calcolo accusatorio consapevole. Si può supporre, tuttavia, che il problema di Jacob risieda anche nella sua limitata comprensione della questione del valore. Come vittima degli "insegnamenti" del marxismo tradizionale, egli condivide il concetto positivamente ridotto di socializzazione del valore, in quanto è assorbito da "calcoli razionali utilità" degli "interessi di classe". E dal momento che Auschwitz non può essere spiegato in questo modo, abbandona la critica del capitalismo. In tale prospettiva, quello che spiega la relazione fra la forma feticistica del valore ed Auschwitz dovrebbe ridurre il crimine contro l'umanità ad un "calcolo razionale di utilità". E' proprio questo che Jacob vede nello Schwarzbuch. Non si rende conto che ciò che attribuisce agli altri costituisce il suo proprio problema fondamentale.

Per questo, successivamente, l'analisi dell'antisemitismo nella sua relazione con il lavoro astratto gli appare come una limitazione, quando in realtà si tratta di un ampliamento. Dal momento che al marxismo del movimento operaio sfuggiva tale relazione, a causa della positivizzazione e dell'ontologizzazione del "lavoro", gli sfuggiva anche la proiezione antisemita, su una presunta "essenza ebraica", del carattere astratto negativo di tale "lavoro". Così, la teoria marxista tradizionale del fascismo si riduceva allo "interesse di classe", nonostante includesse anche - e non solo a partire dagli insulti di Engels contro "il ritaglio dei buoni sconto" - alcuni elementi della "economia politica dell'antisemitismo" (senza che, tuttavia, fosse semplicemente identica ad essa). Solo una critica radicale del valore e, quindi, una critica del lavoro, può mettere a nudo una simile relazione e, allo stesso tempo, analogamente, le forme generali del soggetto della concorrenza e del lavoro astratto, e spiegare il carattere, che si pone al di sopra delle classi, della formazione dell'ideologia antisemita (e della formazione dell'ideologia in generale). L'affermazione marxista secondo cui l'essere determina la coscienza si libera, in questo modo, dalla riduzione ideologica di classe e si innalza all'ambito formale delle categorie fondamentali della società. Al contrario, Jacob elimina dalla sua analisi il riferimento al concetto di valore, ridotto ad un mero oggetto della "economia" e dello "interesse", per convertire in una mistificazione culturalista tutto ciò che di Auschwitz può essere spiegato.

Grazie ad una critica radicale che non cosifica il valore in maniera teorico-economica, ma lo intende come forma generale del soggetto, si può definire storicamente la relazione fra capitalismo, ideologia antisemita ed olocausto. L'ideologia antisemita moderna in quanto tale, allo stesso modo del razzismo, è presente nella società borghese fin dall'Illuminismo, ed in tal senso è un fenomeno capitalista universale. I nazisti non solo hanno tratto dal liberalismo anglosassone la loro ideologia social-darwinista, ma anche tutta una serie di altri elementi repressivi della modernità (fra di essi, ad esempio, i campi di concentramento). In questo registro, Auschwitz è parte costitutiva della totalità storica del capitalismo. Tuttavia, soltanto in Germania l'antisemitismo, in un contesto di formazione della nazione legittimata dall'ideologia del sangue, si è convertito in un processo eliminatorio. In tal senso, Auschwitz è parte costitutiva essenziale della specifica storia tedesca. D'altra parte, questo antisemitismo tedesco eliminatorio non si è convertito, nel corso del 19° secolo, in programma statale di assassinio su scala industriale, ma la cosa si è venuta a verificare solo nel contesto della crisi economica mondiale del nazi-fordismo. Auschwitz è anche parte costitutiva della seconda rivoluzione industriale. E' del tutto erroneo rendere escludenti questi due riferimenti, come avviene nella domanda insinuante di "Konkret" circa il fatto se l'olocausto sia stato "in ultima analisi una conseguenza della generale catastrofe capitalista" oppure "una conseguenza dello specifico antisemitismo tedesco". L'uno non può essere pensato senza l'altro.

In questo contesto, è importante svolgere un'analisi del problema, come avviene nel libro di Gerhard Scheit sulla drammaturgia dell'antisemitismo, nel contesto della critica del valore, la quale persegue il carattere eliminatorio specifico di tale ideologia, nel corso di tutta la storia culturale tedesca. Ma un culturalismo come quello di Jacob non è capace di realizzare una tale impresa, giacché nella sua visione "post-strutturalista" del mondo non si ha storia, almeno nel senso della continuità di un processo che si sprigiona, se non come la superficie delle "eventualità" di manifestazioni temporanee che si dispongono nella storia le une sulle altre in una maniera puramente esteriore, che deve costituire sempre ed immediatamente la loro vera essenza. In questo senso, Jacob non solo separa Auschwitz dal capitalismo, ma la separa anche da tutta la continuità della storia tedesca. Così, l'olocausto non viene compreso in maniera polemica, contro gli storici apologeti, come storia non superata, e che si potrebbe superare soltanto mediante una critica categorica della socializzazione attraverso il valore, ma diventa un giocattolo astorico del "discorso". Anche la relazione strutturale fra la forma del valore e la formazione dell'ideologia può essere chiarita per mezzo della critica del valore. Dal momento che per Jacob la relazione fra "soggetto automatico" e le persone che lo attuano, fra la forma del soggetto ed il contenuto della volontà, continua ad essere un libro chiuso da sette sigilli, egli legge lo Schwarzbuch come se non fossero gli individui, ma bensì le stesse categorie astratte, ad "attuare" immediatamente, e, in questo modo, giustifica le persone in quanto oggetti senza volontà "del valore". Mentre alla luce degli interessi sociali sono proprio i contenuti soggettivi di volontà ad eseguire inconsapevolmente una gran parte del processo di valorizzazione nella forma del soggetto di concorrenza; la formazione dell'ideologia richiede ai soggetti una parte di lavoro della coscienza ancora maggiore. Non si tratta solo di esecuzione quotidiana, ma di una relazione elaborata consciamente fra la negatività sperimentata praticamente e le contraddizioni della socializzazione attraverso il valore.

I contenuti ideologici della volontà, perciò, non possono essere semplicemente "dedotti" formalmente dal valore, al contrario di istituzioni quali il denaro, il mercato e lo Stato. Chi interpreta l'irrazionalità della forma del valore in maniera proiettivamente antisemita, lo "vuole" anche con il fine di essere liberato dalle contraddizioni minacciose. Dal momento che queste contraddizioni non vengono aggredite argomentativamente dalla "chiarificazione", rimane solo da combattere. Tali contenuti ideologici della volontà, "liberamente scelti", non si spiegano come una formazione reattiva automatica o necessaria della coscienza, in quanto tali contenuti hanno una determinata storia (anche specificamente tedesca) che li contestualizza. Jacob elimina le due cose: risolve la formazione dell'ideologia antisemita come una variante assassina tedesca del suo oggetto sociale e la converte in un atto di arbitrarietà incondizionata. In questo modo, cade in una morale individuale puramente borghese, sostituendo gli imperativi etici alla critica sociale; un pensiero ridotto e non riflessivo che ha udienza solo perché è perfettamente coerente con la "svolta" neoliberista.
Guardando attraverso gli occhi della Tatcher, si manifesta soltanto il soggetto individuale atomizzato - "l'individuo responsabile di per sé", e niente di più.

- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista "Konkret" 6/2000 - Giugno del 2000 -

(*) - Il presente testo è una risposta ai critici tedeschi dello "Schwarzbuch Kapitalismus" ("Il libro nero del capitalismo") di Robert Kurz.

fonte: EXIT!

martedì 26 gennaio 2016

La fine della nostalgia

end

La fine del capitalismo non sarà una fine pacifica
- Intervista di Marc Losoncz ad Anselm Jappe -

Marc Losoncz - Vorrei partire dal concetto centrale: il valore. Da un lato, si tratta di una parola che negli anni 1930 è stata eliminata dall'economia mainstream, ed è diventata un'espressione puramente operativa, completamente ridotta al prezzo. Dall'altro lato, questa parola è molto polisemica: ha significati matematici, filosofici (in assiologia, ad esempio), sociologici (come in Werturteilsstreit) ecc. Allora, perché la Wertkritik utilizza oggi la parola "valore"?

Anselm Jappe - Marx, in un breve scritto chiamato "Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner" (1880), commenta egli stesso i diversi possibili significati della parola "valore". Ritrova le parole "valore" e "valore-lavoro" soprattutto presso gli economisti politici inglesi, che si sono staccati dalla dottrina dei fisiocratici per la quale il valore è legato all'utilità del prodotto (segnatamente in agricoltura). Adam Smith e David Ricardo, invece, concepiscono il valore come qualcosa che è dato esclusivamente dal lavoro umano, dalla quantità di lavoro umano. Perciò, anche quando l'essere umano attinge acqua da un fiume, è l'attività umana che conferisce un valore all'acqua, che poi ritroviamo anche negli altri prodotti. Fino a che l'acqua rimane nel fiume, essa non ha valore in senso economico.

M.L. - Dunque non esiste alcun valor naturalis, valore naturale.

A.J. - No. Tuttavia, Smith e Ricardo affermano che non è solamente l'attività di coloro che lavorano direttamente, ma ci sono anche il capitale e la terra - e quindi i proprietari dei mezzi di produzione - che contribuiscono a al valore totale del prodotto. Secondo la visione marxista tradizionale, Marx si sarebbe limitato a riprendere la teoria del valore-lavoro di Smith e Ricardo, eliminando semplicemente i fattori derivati quali il capitale e la terra, cioè a dire la proprietà dei mezzi di produzione, e mantenendo come fonte del valore il solo lavoro vivente. In realtà, Marx fa allo stesso tempo anche un'altra operazione assai più complicata: egli critica l'esistenza stessa del valore, il fatto stesso che venga attribuita al lavoro la capacità di creare un valore che accompagna la merce come una specie d'ombra. E' la parte più radicale della critica di Marx, ma è anche la parte meno nota. Secondo la visione marxista tradizionale, Marx avrebbe semplicemente accettato l'esistenza del valore come qualcosa che esiste in tutte le società e che corrisponderebbe al fatto che gli uomini si sono sempre interessati alla "economia" del loro tempo, valutando gli oggetti secondo il tempo necessario per produrli. Marx ha effettivamente ragionato anche in simili termini. Cosa che di conseguenza lo ha portato a concepire una teoria della giustizia e della giusta (re)distribuzione del valore, dunque alla rivendicazione di un pieno salario per l'operaio. Questo deve rientrare nel pieno possesso del valore che ha prodotto, invece di doverlo condividere con il proprietario dei mezzi di produzione: il capitalista viene allora visto come un semplice parassita. Ripeto, si tratta dell'approccio marxista tradizionale - che del resto si può appoggiare effettivamente su certe affermazioni di Marx. Ma allo stesso tempo in Marx c'è anche un altro approccio. La critica del valore chiama questi due approcci il "Marx esoterico" ed il "Marx essoterico" (i quali approcci si trovano mescolati per tutto il corso dell'evoluzione del suo pensiero - non si tratta di una questione di "fasi"). Nell'approccio esoterico, l'accento è posto sulla "doppia natura del lavoro", come lo definisce Marx: ciascun lavoro, creando delle merci, crea del valore d'uso, ma crea anche un "valore" di mercato che è una pura finzione sociale. Esso non fa affatto parte delle proprietà oggettive di una merce. Ciò che il valore rappresenta è semplicemente il lavoro che è stato effettuato per produrre la merce - non il lavoro concreto, ma il dispendio di energia umana non differenziata, misurato con il parametro del tempo (perciò, la questione è semplicemente quella di sapere si si lavora 10 minuti o 60 minuti, e questo fa sei volte tanto più valore - indipendentemente dal contenuto). Questo valore non ha niente a che vedere con l'utilità del prodotto o con la sua bellezza. E' un criterio quantitativo che rimane indifferente ai bisogni dei produttori o dei consumatori. Marx propose quest'analisi del valore soprattutto nei primi capitoli del Capitale. Non si tratta di una semplice astrazione concettuale: secondo l'analisi di Marx, quest'astrazione di tutte le qualità - ciò che chiama il lavoro astratto - diviene una realtà effettiva nella società di mercato e finisce per governare anche la realtà concreta degli oggetti, cioè a dire il loro valore d'uso. Effettivamente, nel capitalismo si producono delle merci solo per accumulare del valore. Il lato concreto è subordinato all'accumulazione di tempo di lavoro. E' solamente il tempo di lavoro che dopo una serie di metamorfosi alla fine si rappresenta nel denaro - e come si sa, nel capitalismo la sola cosa che importa, è il denaro. Trasformare una somma iniziale di 100 euro in 110 euro, poi in 120 euro ecc., è il solo fine reale dell'economia di mercato; la soddisfazione dei bisogni è solo un aspetto secondario. Ma questa moltiplicazione del denaro non è una moltiplicazione di oggetti concreti - essa è dovuta alla moltiplicazione del lavoro e soprattutto del pluslavoro, il quale dà plusvalore sotto forma di profitto.
La critica del valore si è costituita in Germania a partire dagli anni 1980 proprio sulla base di una nuova lettura di Marx che ne riprende il lato "esoterico". Quello che è sempre stato trascurato o dimenticato assai velocemente, dal momento che i marxisti tradizionali cominciano i loro discorsi dalla condivisione del valore fra capitalisti e proletariato, mentre la critica del valore afferma che esiste un problema più profondo già nel fatto che l'attività sociale prenda la forma del valore, fondandosi quindi su una sorta di indifferenziazione di tutta la produzione, sulla sua riduzione alla quantità di energia spesa. Certo, il termine "critica del valore", come tutti i termini, è nato un po' per caso, ed è proprio a causa della sua polisemia che io utilizzo anche il termine di "critica del feticismo della merce", che è più lungo, ma anche più chiaro.

M.L. - I teorici della Wertkritik, come lei ha già ricordato, hanno spesso elaborato una storia alternativa del marxismo. Qualcuno ha detto che il comportamento di Robert Kurz e della Wertkritik è assai simile a quello di Guy Debord: ci sono state intense polemiche, eresie e scismi. Chi sono i predecessori più importanti della Wertkritik secondo lei e chi sono gli alleati teorici della Wertkritik, le correnti oggi più vicine alla Wertkritik?

A.J. - Non c'è una filiazione diretta della critica del valore rispetto ai situazionisti. Guy Debord era poco conosciuto in Germania all'epoca in cui la Wertkritik si è formata ed è stato piuttosto a partire da me che in seguito è stato stabilito il legame. Ci sono due momenti storicamente assai diversi. Fino agli anni 1950 e 1960, il marxismo veniva ampiamente identificato con il leninismo - sia che fosse la sua versione staliniana trionfante oppure la sua versione dissidente trotzkista. E in seguito anche con quell'altra forma di stalinismo che è stato il maoismo. E' soprattutto a partire dagli anni 1960, nel clima che ha prodotto il 1968, che numerose eresie o eterodossie, soprattutto quelle degli anni 1920, vengono riscoperte all'interno del campo marxista. Come ha detto qualcuno: tutti gli autori contro cui Lenin polemizza nel suo testo su "La malattia infantile del comunismo" ("l'estremismo") vengono riscoperti e fatti oggetto di nuove pubblicazioni ed interpretazioni. Quindi Debord stesso fa parte di un tale clima che ha permesso di riscoprire una tradizione dell'altro marxismo, che fosse Karl Korsch o György Lukács, che fosse il comunismo dei consigli di Pannekoek o altre correnti che erano più vicino all'anarchismo come Kropotkin, oppure dei dissidenti sovietici come Ante Ciliga o Victor Serge...

M.L. - Lei ha scritto un libro su Guy Debord, il quale le ha mandato una lettera, una lode della sua monografia.

A.J. - Mi è capitato di parlare con delle persone che mi dicevano di avere appena letto "La società dello spettacolo" - ma senza essersi resi conto che si trattava di un libro apparso quarant'anni prima. Quindi ci sono delle persone che credono che il libro sia stato pubblicato di recente. In effetti, è una delle rare opere degli anni 1960 che può essere letta ancora oggi: per lo stile, ma anche per l'analisi di un'epoca nella quale nasce la società dell'informazione e del consumo - una nuova forma di mercificazione del mondo e della vita. La società dello spettacolo spesso è stata definita "profetica". Non è soltanto una critica della televisione, ma più generalmente una critica della passività organizzata in cui le persone contemplano altre persone che vivono al posto loro, come compensazione per la povertà della loro vita. Debord è stato uno dei primi a riprendere i concetti marxiani di merce e di feticismo della merce. La sua attualità consiste proprio nel suo contributo alla creazione di una nuova critica sociale che analizza il carattere anonimo e feticista del dominio capitalista - anche se la teoria di Debord fosse ancora troppo mescolata ad altre forme più tradizionali di marxismo. L'altro aspetto essenziale dell'agitazione situazionista risiede nel fatto di aver combattuto lo spettacolo con dei mezzi non spettacolari, perciò di aver dimostrato che si può combattere il capitalismo senza esporsi nei media, senza insegnare all'Università e senza militare in dei partiti. E' anche una lezione sulla dignità del rifiuto. Alcuni ambienti artistici oggi scommettono sulla rinascita della pratica della deriva, dell'esplorazione della città e del "detournement di oggetti estetici prefabbricati", ai loro tempi tutte pratiche dei situazionisti.

M.L. - Torniamo alla questione della riscoperta delle numerose eresie o eterodossie e la Wertkritik.

A.J. - Per la Wertkritik è diverso. Essa analizza le differenti forme storiche del marxismo proprio per vedere se si può trovare una comprensione della natura del feticismo e della merce, e quali correnti si sono realmente avvicinate alla questione della produzione del valore, e non solo della sua distribuzione. E se poniamo questo come parametro, si scopre che praticamente nessuna corrente, anche fra quelle eterodosse, abbia mai criticato veramente il lavoro, il valore ed il feticismo della merce. Gli eterodossi hanno insistito molto spesso soprattutto sulle questioni di strategia, ma raramente hanno criticato le categorie di base, quali il denaro, il lavoro e la merce. Questo è altrettanto vero anche per quanto riguarda gli anarchici. Perciò il giudizio sulla non-comprensione dei marxisti riguardo alla critica categoriale di Marx si applica praticamente su tutti i dissidenti del marxismo. La questione dei precursori della critica del valore si riduce alla fine a poca cosa. Sicuramente "Storia e coscienza di classe" di Lukács occupa un posto importante, ma il lavoro astratto analizzato da Lukács è soprattutto il lavoro parcellizzato ed atomizzato, piuttosto che il lato astratto della doppia natura del lavoro, come in Marx. Sulla critica del valore, vi è una certa influenza della Scuola di Francoforte - ma bisogna dire che anche in Adorno e Marcuse si rimane essenzialmente in una critica della circolazione piuttosto che in quella della produzione delle merci. E proprio laddove erano marxisti, sono rimasti in un marxismo abbastanza tradizionale. Quindi questo significa che la critica del valore è nata come rottura con le forme precedenti del marxismo, piuttosto che come un proseguimento. Anche gli eterodossi del marxismo si sono sempre voluti appoggiare su qualche tradizione: su Lukacs, Gramsci, Althusser... La critica del valore riprende piuttosto una parte dell'opera di Marx stesso. Ciò non vuole affatto dire che la critica del valore sia più intelligente dei suoi predecessori, ma che ci sono delle nuove circostanze storiche. Negli anni 1970 e 1980, lo sviluppo capitalista aveva messo fine alle possibilità di un miglioramento all'interno del sistema stesso, e quindi anche alle forme di critica immanente del capitalismo, dove ancora si pensava ad una riforma del capitalismo. E' solo in quest'epoca che si è potuto cominciare ad avere una visione d'insieme della società capitalista, e non solo di una fase particolare. E la critica del calore ha avuto semplicemente il merito di aver elaborato la prima espressione teorica di tali cambiamenti...

M.L. - Non c'è forse anche un'influenza di Isaak Rubin e di Alfred Sohn-Rethel?

A.J. - Questi sono due autori che a volte vengono menzionati negli scritti di Kurz. E si possono aggiungere le teorie sulla crisi di Rosa Luxemburg e di Henryk Grossman: tuttavia la critica del valore essenzialmente non si pone come un proseguimento di altre iniziative teoriche. Sicuramente Rubin è stato uno di quei rari autori della sua epoca che hanno effettivamente compreso la struttura del valore. Ma Kurz nei suoi ultimi scritti ha criticato l'approccio di Rubin quando questi vede nella riduzione di tutti i lavori a lavoro astratto una sorta di unità di misura che può essere ritrovata in ogni società umana - e non una specificità del sistema capitalista. La critica del valore non ha mai un atteggiamento di venerazione verso i modelli teorici del passato. Anche gli autori che vengono apprezzati, possono essere oggetto di critiche severe sotto alcuni aspetti.

M.L. - E cosa pensate dei possibili alleati più contemporanei come Moishe Postone o Jean-Marie Vincent?

A.J. - Moishe Postone ha sviluppato negli Stati Uniti un'altra forma di critica del valore, nella stessa epoca della Wertkritik in Germania. Ha pubblicato Tempo, Lavoro e Dominio Sociale nel 1993. Ci sono molti punti in comune fra il lavoro di Postone ed il lavoro di Krisis. Postone attinge in parte alle stesse fonti (ha studiato a Francoforte cin gli allievi di Adorno). Ma ci sono anche delle notevoli differenze: in Postone non si trova una teoria della crisi e neppure una vera e propria critica del lavoro in quanto categoria sovrastorica. Postone critica il lavoro nel capitalismo in quanto mediazione sociale autonomizzata, ma in lui manca l'idea che "il lavoro" che comprende le attività più diverse costituisca di già un'astrazione che le società precapitalistiche non conoscevano. Purtroppo non ci sono stati molti dibattiti fra Postone e la critica del valore in Germania. Quindi si tratta piuttosto di percorsi paraleli. Jean-Marie Vincent è un autore che ha altre origini. E' stato trotzkista ed universitario; è stato uno dei primi ad introdurre la Scuola di Francoforte in Francia. Nel 1987 ha pubblicato "Critica del Lavoro. Il fare e l'agire", un libro piuttosto coraggioso per i marxisti dell'epoca. I suoi argomenti sono a volte assai vicini alla critica del valore. Ma sotto altri aspetti ne è assai lontano, ad esempio quando riprende le categorie di Martin Heidegger oppure quando utilizza le analisi dei post-operaisti.

M.L. - La sua tesi di dottorato era sul feticismo in Adorno ed in Lukács. Dal momento che vorrei tradurre questa intervista in ungherese, mi potrebbe parlare un po' più di Lukács? Mi sembra che si possa fare una distinzione fra il Lukács essoterico e quello esoterico...

A.J. - Ho fatto questa tesi di dottorato con Nicolas Tertulian quando lui era professore all'EHESS di Parigi. Era uno specialista di Lukács, che aveva conosciuto personalmente. Tertulian poneva il suo accento sull'ontologia e sulle ultime opere di Lukács. Naturalmente, nella mia tesi mi sono appoggiato piuttosto su Storia e Coscienza di Classe ed ho cercato di dimostrare che i giudizi opposti di Adorno e di Lukács sull'arte moderna del 20° secolo - che Lukács rifiuta quasi completamente, mentre Adorno difende le avanguardie artistiche - hanno le loro radici nelle loro concezioni divergenti dell'alienazione e del feticismo. La concezione di Lukács è molto legata ad una sorta di alienazione dell'essenza umana e riprende dei temi dei Manoscritti del 1844 di Marx. Lukács, nelle sue ultime opere, è ancora più lontano, rispetto alle sue prime opere, dal tener conto del feticismo e del lavoro astratto. Al contrario, fa un elogio del lavoro nella maniera più tradizionale possibile. Il lavoro gli appare come l'attività umana principale. Mentre Adorno, malgrado alcuni limiti, è molto più vicino alla concezione del feticismo della merce. Ecco anche perché Lukács, con la sua centralità del lavoro, arriva a quel che chiama una concezione antropomorfizzante dell'arte ed ecco perché critica l'arte non figurativa, mentre Adorno è più sensibile agli aspetti astratti della vita sociale. Nella sua Teoria Estetica, afferma che l'arte astratta dice più verità sulla società capitalista di quanto faccia una rappresentazione "realista" di eroi rivoluzionari.

M.L. - La concettualizzazione dell'Europa dell'Est è stata molto importante per Robert Kurz, già negli anni 1980, al tempo della nascita della Wertkritik. Ha analizzato le ragioni strutturali dell'inefficacia dell'economia del blocco dell'Est ed ha suggerito che la caduta dell'Unione Sovietica non è stata altro che la prima tappa della nuova crisi del capitalismo. Cosa pensa della posizione strutturale dell'Europa dell'Est di oggi?

A.J. - Lei parla evidentemente del libro Il Collasso della Modernizzazione di Kurz che è apparso nel 1991, quando l'Unione Sovietica esisteva ancora, ma era sul punto di esalare l'ultimo respiro. Quel che è stato rivoluzionario nel libro di Kurz, era il fatto che non analizzava l'Unione Sovietica come una società dominata da una burocrazia che però manteneva ancora una struttura socialista - come diceva, ad esempio, la critica trotzkista. Kurz non ci vedeva semplicemente un'altra forma di capitalismo, come facevano altri critici, come quelli della rivista Socialisme ou Barbarie, ma mostrava come l'Unione Sovietica avesse conservato le fondamenta della società capitalista, quindi il lavoro astratto, il valore ed il denaro, e che la forma super-statale non contraddiceva affatto la sua appartenenza alla società capitalista mondiale. Lo Stato ed il suo forte interventi non sono affatto incompatibili con la logica capitalista, ed hanno spesso ugualmente caratterizzato gli Stati capitalisti, ad Ovest. Kurz soprattutto ha mostrato che l'Unione Sovietica è crollata perché non poteva resistere alle altre forme più competitive della stessa società mondiale di mercato. Il paradosso della società sovietica è stato quello di volere una società di mercato senza mercato. Kurz ha analizzato la realtà sovietica come il risultato di una "modernizzazione di recupero", la quale doveva colmare il ritardo iniziale. La Russia era rimasta indietro dopo la prima ondata dell'industrializzazione partita dai paesi occidentali. Perciò, questo paese aveva bisogno di uno spazio protetto ed autarchico per poter installare in maniera forzata ed accelerata le sue industrie - non solo in termini materiali, ma anche per quel che concerne la trasformazione delle mentalità e delle forme di vita. L'economia sovietica è stata sempre molto meno produttiva di quella dei paesi occidentali, ma era protetta ed i suoi prodotti non soffrivano la concorrenza dei paesi occidentali. Allo stesso tempo, Kurz aveva già previsto che dopo il crollo dell'Unione Sovietica e degli altri paesi dell'Est non sarebbe arrivata la prosperità capitalista promessa. Il capitalismo non è il modello "giusto", "appropriato", che basta mettere al posto del modello sbagliato, come vogliono credere i liberali che pensano che il sistema socialista non funziona perché non motiva le persone a sufficienza e perché sarebbe contrario alla natura egoista dell'essere umano. Per cui basterebbe, secondo i liberali, sostituire il cattivo modello con il modello giusto in cui ciascuno dà il meglio di sé, e la mano invisibile del mercato farebbe finalmente arrivare la ricchezza per tutti. I liberali avevano promesso che la Russia sarebbe diventata ricca come la Germania, o altri paesi. Ma il capitalismo globale è un sistema concorrenziale dove i primi paesi che sono entrati in gara - prima l'Inghilterra, poi la Francia, la Germania ecc. - hanno sempre mantenuto la loro maggior competitività schiacciando le altre economie che non riuscivano a svilupparsi alla stessa velocità. Ciò vuol dire che più tardi un paese entra nell'economia mondiale, più si ritrova in un contesto in cui le opportunità e le nicchie sono già occupate. Quindi non è stato più possibile avere un'industria locale una volta che l'isolamento dell'Unione Sovietica era stato abolito. La  Russia si viene dunque rapidamente a trovare nel classico ruolo di un paese del Terzo Mondo. Cioè a dire che essenzialmente fornisce delle materie prime, soprattutto gas naturale e petrolio a basso prezzo, in cambio dei prodotti finiti - e cari - dei paesi occidentali. Si fonda anche su qualche prodotto particolare, come gli armamenti. Questa produzione non ha evidentemente una struttura equilibrata, e quello che è nato in Russia non è un capitalismo stabile, ma piuttosto una sorta di cleptocrazia, una regime di cricche mafiose che vive essenzialmente dello sfruttamento delle materie prime del paese. Durante la presidenza di Boris Eltsin, la Russia sembrava si stesse completamente disintegrando. In seguito è tornata ad un regime autoritario, quello di Putin. Quindi, non è affatto vero che l'introduzione del capitalismo alla fine sfocerà nella democrazia. Al contrario, il capitalismo, per sopravvivere ha la tendenza a riprendere delle forme autoritarie. Gli altri paesi dell'Europa dell'Est ora vivono come paesi semi-colonizzati, soprattutto da (e per) l'economia tedesca.

M.L. - Nella Wertkririk, la teoria della crisi del capitalismo gioca un ruolo centrale. Si tratta del carattere autodistruttivo del sistema, dei limiti e delle contraddizioni interne... Voi parlate anche dell'imbarbarimento, della crisi della civiltà intera. Tuttavia, la Wertkritik viene spesso attaccata come una sorta di "catastrofismo" e come una "profezia gnostica dell'auto-annichilimento del mondo" ecc. C'è per esempio una discussione fra i teorici della Nuova Lettura di Marx e la Wertkritik.

A.J. - Neue Marx-Lektüre...Penso che si riferisca ad autori come Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt et Michael Heinrich... Essa, in generale rimane in una prospettiva molto universitaria, di esegesi e di filologia marxiana. Ha dato a volte importanti risultati, ma ha portato anche a delle impasse teoriche. Si è interessata molto poco a ciò che Marx ci può insegnare sul mondo di oggi. Al contrario, la Wertkritik fa riferimento soprattutto al capitalismo contemporaneo, che è diverso dal capitalismo conosciuto da Marx. All'epoca di Marx, la tendenza autodistruttrice del capitale era ancora poco visibile. Mentre oggi occupa ampiamente la scena, soprattutto perché - come aveva già dimostrato Marx - è solo il lavoro vivente a creare il valore, nel momento in cui il capitalismo tende a sostituire il lavoro vivente con le macchine, diminuendo in tal modo la creazione del valore. Marx ha visto che questa contraddizione a lungo termine costituisce per il capitalismo un fattore potenziale di crisi, ma lui pensava che la rivoluzione proletaria sarebbe arrivata assai prima che il capitalismo raggiungesse il limite della sua capacità di creare valore a sufficienza. Questa desustanzializzazione del valore alla fine ha avuto luogo, ed a partire dagli anni 1960, con l'informatizzazione del lavoro, ha compiuto un salto qualitativo. E' a partire da quel momento che il capitalismo si trova in una crisi permanente, e non solo congiunturale. La critica del valore non è apocalittica per partito preso, ma in quanto tiene conto dell'esaurimento di quella che è la logica di base stessa del capitalismo. Gli ultimi decenni hanno ampiamente confermato la teoria della crisi della Wertkritik. Sono quarant'anni che si aspetta il nuovo ciclo di crescita promesso dagli economisti borghesi. Abbiamo visto solo la crescita dei mercati finanziari. Non si tratta di prevedere una grande crisi futura, ma di parlare della crisi cui già stiamo assistendo. In realtà, la società del lavoro si trova già in una grave crisi. C'è anche la crisi del denaro e questo vuol dire che c'è una diminuzione del valore ed una perdita di sostanza da parte del denaro. Ma molte correnti teoriche, anche a sinistra, continuano a dire che il capitalismo sta andando sempre molto bene.

M.L. - La Wertkritik è nata in un paese sviluppato. Ma la tesi secondo la quale la proporzione del lavoro vivente diminuisce, può essere applicata anche ai paesi della periferia e della semi-periferia, o addirittura a livello globale? Ci sono delle nuove tendenze di espansione del capitale e d'industrializzazione...

A.J. - E' un argomento che viene spesso ripetuto: non ci sarebbe una diminuzione del lavoro globale, dal momento che a ciascun posto di lavoro che viene perso in Europa corrisponderebbe un nuovo posto di lavoro, o più di uno, in Cina, in India o in Indonesia. Si tratta di un argomento fallace in quanto ciò che conta per l'accumulazione del capitale non è semplicemente il numero dei lavoratori sfruttati. Il valore che tali lavoratori producono dipende largamente dalle tecnologie utilizzate. Per dirlo in breve: dei lavoratori indiani che lavorano a due dollari al giorno, con delle macchine da cucire, per fare delle camicie, possono creare un grande profitto per i loro particolari datori di valore - ma tutti insieme creano meno valore aggiunto di quanto ne crei un operaio high-tech in una fabbrica in Europa. Queste grandi masse di lavoratori ultra-sfruttati contribuiscono molto poco alla massa globale di valore. Ci sono dei meccanismi di ridistribuzione del valore sul mercato mondiale che fanno sì che i capitali più tecnologici - quindi quelli che contribuiscono maggiormente alla diminuzione globale del valore - siano paradossalmente quelli che ottengono la fetta più grande di ciò che rimane della torta, anche se la torta diminuisce. Perciò l'idea secondo la quale la Cina sta salvando il capitalismo non supera un vero esame dei fatti. La Cina dipende dall'esportazione verso i vecchi paesi capitalisti. E se, ad esempio, gli Stati Uniti non possono più comprare, anche l'economia cinese viene a trovarsi in grandi difficoltà. Intorno al Pacifico, esiste un circuito di deficit che è anche un circuito di simulazione.

M.L. - C'è un'altra critica molto diffusa nei confronti della critica del valore. La critica del valore ha sempre rifiutato il marxismo del movimento operaio (Arbeitersbewegunsmarxismus) e le varie ricerche dei soggetti rivoluzionari. Oggi si può ancora parlare, tuttavia, in un certo senso di lotta di classe? Anche se ci rifiutiamo di intendere i residui di una classe operaia come una quasi-casta semi-moderna con un'identità socio-culturale, si può ancora parlare, oggi, di classi e di lotta di classe?

A.J. - Le lotte di classe ovviamente esistono, dal momento che il capitalismo è una società che si basa sulla concorrenza - c'è sempre una lotta intorno alla distribuzione del valore. Ma oggi questa lotta non ha più - ed in passato l'ha avuto raramente - il carattere di una lotta per o contro il capitalismo. I partecipanti a questa lotta hanno quasi sempre presupposto o accettato l'esistenza del valore, del denaro e della merce. Quindi, si tratta in gran parte di lotte all'interno della sfera della circolazione. Certamente, queste lotte di classe hanno rivestito una grande importanza storica ed hanno permesso a numerose persone di vivere un po' meglio. Ma il loro orizzonte, salvo rari momenti, non è stato quello dell'emancipazione dalla forma sociale feticista. Si era già accettata l'esistenza e la presunta necessità del lavoro. Le azioni rivendicative dei lavoratori volevano semplicemente liberare il lavoro dai "parassiti" che venivano individuati nella sfera della circolazione (proprietari di fabbrica o banchieri). Con il declino del proletariato classico, la sinistra ha indicato molti altri possibili "soggetti rivoluzionari" - che fossero i lavoratori informatici, i lavoratori precari, le donne, o ancora una volta le popolazioni del terzo mondo ecc.. Ma si è visto che nessuna categoria che partecipa al ciclo del lavoro e del capitale, in quanto tale, non si colloca fuori dal capitale. I loro membri non sono interessati, per il solo fatto di appartenere ad una classe sociale, all'abolizione di queste forme sociali o del valore. Allo stesso tempo, questo non vuol dire che non vi sia alcun conflitto sociale. Al contrario, il capitalismo crea ogni giorno delle situazioni invivibili sul piano economico ed ecologico, sul piano urbanistico, su quello della vita quotidiana... Il capitalismo viene continuamente contestato sia in termini impliciti che espliciti. Ma questi conflitti rimangono assai spesso nel quadro della logica astratta della valorizzazione. questa vuole sottomettere tutte le esigenze umane alla sola logica del profitto e si viene a trovare in conflitto con la buona vita e perfino con la sopravvivenza dell'umanità. Questo genere di conflitti non possono più essere letti attraverso il prisma delle classi sociali già costituite. Quel che rimane del vecchio strato operaio di fabbrica è spesso diventato un gruppo sociale molto conservatore che vuole solo difendere i suoi interessi materiali immediati.

M.L. - E ora qualche parola a proposito delle possibili alternative... Anche se nel Capitale non ci sono molti dettagli sulla società a venire, possiamo tuttavia ricostruire in Marx quanto meno la cornice della società del domani. Ad esempio, il libro di Peter Hudis ("Marx’s concept of the Alternative to Capitalism"), ha ricostruito nel dettaglio l'immaginazione marxiana. Inoltre, mi sembra che ci sia una sorta di rinascita dell'immaginazione di modelli alternativi (Lebowitz, McNally ecc.).

A.J. - La critica del valore ha spesso criticato le facili alternative - e lo ha fatto per diverse ragioni. Per riassumere brevemente, da un lato, possiamo sicuramente sperimentare, in una certa misura, delle forme alternative di vita all'interno del quadro capitalista. Ma la logica capitalista possiede una tendenza a schiacciare tutto e tutto trasformare in fonte di profitto, e non tollera la nascita di un'altra forma di vita. Dobbiamo perciò prevedere una fase di conflitti e di lotte. Nel capitalismo, tutto ciò che esiste viene considerato solo come una porzione di valore che conosce solo delle relazioni quantitative. Il primo requisito di un'alternativa dovrebbe essere quello di restituire dignità a tutti gli oggetti che vengono creati e non permettere più che siano trasformati in merce. Questo vorrebbe dire anche non avere più una forma di scambio di merci basata sulla quantità di lavoro. Allo stesso tempo, è necessario che tutte queste nuove forme vengano praticate su una scala più ampia possibile. Diversamente, una fabbrica autogestita o una semplice impresa rischierebbe di doversi affermare in un mercato anonimo e concorrenziale che la sottometterebbe alle medesime esigenze di redditività e di profitto di tutte le altre imprese. Si dovrebbero organizzare immediatamente degli scambi non di mercato fra le diverse attività. La fine del capitalismo non sarà una fine pacifica; in effetti, la tendenza all'imbarbarimento cresce dovunque. Le forze post-mercato e non barbare dovrebbero trovare dei modi di reagire alla logica mafiosa e criminale che non mancherà di diffondersi. Ci sarà anche un aumento della violenza come già vediamo nelle numerose guerre civili nel mondo.

M.L. - Qui si potrebbe aggiungere anche la nostalgia per il welfare.

A.J. - Sì. In Europa occidentale è molto diffusa, in quei paesi che hanno conosciuto il welfare più di altri. Ma era legato ad un breve momento del capitalismo, quando lo sviluppo economico aveva permesso di ridistribuire il valore all'interno della società capitalista. Storicamente, si è trattato di un'eccezione che viene chiamata "les Trente glorieuses", "il miracolo economico"....Ma questo è per lo più quello che è rimasto nelle teste come il "vero" capitalismo, che sarebbe "umano" in rapporto a tutte le forme che sono venute dopo. Queste altre forme vengono interpretate come delle degenerazioni che potrebbero essere attribuite a dei fattori esterni, ad esempio alle banche, o ai politici corrotti..., con l'idea che si potrebbe tornare a questa specie di capitalismo idealizzato, che sarebbe sano. Ovviamente, la critica del valore non è affatto di tale avviso. La crisi che è venuta dopo il boom fordista non è stata la deregolamentazione di un sistema "sano", ma fa parte della natura stessa del capitalismo. Non si può tornare alle vecchie ricette keynesiane-fordiste perché non si può abolire la tecnologia che sostituisce il lavoro vivente. E non possiamo dimenticare che è contro la società triste di quell'epoca che si sono sollevati i movimenti del 1968! E' inconcepibile averne nostalgia.

- Intervista preparata e realizzata nel 2015 da Mark Losoncz (Istituto di filosofia e di teoria sociale, Università di Belgrado) -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

lunedì 25 gennaio 2016

L’innocenza delle parole

Terrorism word cloud

DELL’UTILITA’ DEL TERRORISMO
Considerata per rapporto all’uso che se ne fa
- di Gianfranco Sanguinetti -


E’ triste, nel nostro tempo, assistere all’avanzare della barbarie nei costumi sociali, così come all’abbrutimento morale degli individui, che non si risparmiano nessuna bassezza : in questo nuovo universo etico, la concorrenza non è più pungolata dall’eccellenza e dall’emulazione, ma al contrario essa mira all’avvilimento e alla denigrazione sistematica degli altri, e non ci si fa più scrupolo nel colpire il proprio bersaglio con la calunnia e l’ingratitudine. Nella stessa maniera della calunnia, la cinica ingratitudine, che colpisce coloro verso i quali ci si sente obbligati, non si limita più soltanto agli altri individui, ma si estende ormai anche alle cose, e infine pure alle parole stesse che designano le cose. Ora, io non pretendo che le parole siano assolte come innocenti, ma invoco per loro un giusto processo prima di condannarle come colpevoli.

Prendiamo il caso della parola « terrorismo », inventata d’altra parte dai Francesi nel 1793. Se noi la consideriamo senza pregiudizi, siamo costretti a denunciare oggi un innegabile paradosso : il terrorismo è calunniato quotidianamente da tutti i beneficiari della cosa stessa, molto più di quanto non sia criticato da quelli che lo subiscono ; e in modo ancor più virulento proprio da quegli stessi che lo finanziano, ne approfittano, lo dirigono e lo impongono alle popolazioni che ne sono vittime. Ben ingiustamente, diciamo noi, perché è grazie al terrorismo che questi demiurghi governano oggi il mondo, legiferano, torturano, condannano a morte, si arricchiscono e prosperano estorcendo la licenza più sfrenata nella direzione del mondo, licenza di cui non potrebbero avvalersi senza di lui.

E’ altrettanto triste assistere all’ingratitudine, ovunque essa si manifesti ; ma ancor più desolante è vederla all’opera quando gli ingrati perseverano sfrontatamente a trarre benefici così grandi da ciò che calunniano. Per poco che si considerino le cose con uno spirito di equità ed imparzialità, si dovrà ammettere che mai il debole Presidente francese, col suo indigente governo, avrebbe potuto imporre alla Francia tutte le misure anticostituzionali ed extra-giuridiche che ha potuto adottare grazie all’operazione Charlie e agli attentati del 13.11 – misure sempre difficili da imporre, ma reclamate da coloro ai quali Hollande deve obbedire. Grazie a questo, il più debole e impopolare governo che mai forse la Francia abbia conosciuto, può scatenare impunemente delle guerre e fare dei colpi di Stato all’estero, all’interno instaurare lo stato d’emergenza, cioè la sospensione delle libertà civili, cosa che costituisce il sogno segreto della maggior parte dei governi del mondo.

Dobbiamo constatare che il Presidente francese, così come coloro ai quali è chiamato a render conto, hanno un debito di riconoscenza infinito verso il terrorismo, che non cessano di calunniare così ingiustamente come se fosse l’origine di tutti i mali, allorché, ben al contrario, è la fonte di tutto il potere eccedentario e straordinario che si sono appena arrogati contro la società, e ciò senza opposizione.
E’ dunque costernante vedere l’ingratitudine avere l’ardimento di trasformarsi in pura ipocrisia, e l’ipocrisia in potere costituito.

Consideriamo ora senza pregiudizi gli altri vantaggi che il terrorismo procura a quelli che ipocritamente lo condannano.
Di fronte al terrorismo non c’è più rischio di rivolta nelle periferie francesi, e ciò benché le ragioni di rivolta si siano acutizzate, facendo qui riferimento alle sommosse che dieci anni fa avevano tanto preoccupato i responsabili politici. Ma ci sono altri vantaggi.
Di fronte al terrorismo, la lotta di classe e gli scioperi diventano altrettanti atti d’insubordinazione, che possono esser schiacciati all’istante, senza altre formalità, per così imporre agevolmente una sorta di pace sociale, una pace armata – d’accordo – ma armata da una parte sola.
Grazie al terrorismo si rinchiudono tutti in casa, si può criminalizzare ogni situazione, accusare e condannare arbitrariamente chiunque, perquisire dove si vuole e quando si vuole, case e Internet, si può torturare, ammazzare, obbligare al domicilio coatto, imporre una censura stretta, senza correr rischi di sollevare indignazione, critiche o opposizione.
Grazie al terrorismo lo Stato, e i suoi beneficiari politici, diventano come per magia « buoni » perché, dopo aver sacrificato una piccola porzione della popolazione, possono ergersi a protettori della popolazione  restante. Il terrorismo diventa così la pietra filosofale infine trovata che santifica il potere, edifica i politici, sdogana e legittima la protezione mafiosa dei sudditi a cui ogni Stato aspira.

Con la pace sociale acquisita all’interno grazie al terrorismo, riparte l’economia, così come i profitti, e si posson fare succulenti affari all’estero, vendendo per esempio gli aerei Rafale, altrimenti invendibili, ai grandi finanziatori del terrorismo. Come lo ha proclamato angelicamente e chiaramente il presidente e direttore generale di Dassault, dopo l’operazione Charlie, « Gli astri essendo ora piuttosto ben allineati, cercheremo di spingere il vantaggio per riuscire a firmare un quarto contratto prima della fine dell’anno » (cfr. : Le Point, 2.6.2015). Ma i vantaggi del terrorismo per l’economia sono molteplici e non si fermano qui. All’estero, grazie agli eserciti terroristi creati dal nulla (Boko Haram, Al Qeda, E.I.), l’Occidente può saccheggiare con lauto profitto i paesi del Terzo Mondo.

Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un prete sermoni, un professore trattati, etc. Il terrorismo produce attentati. Se si guarda più da vicino quest’ultima branca della produzione per rapporto all’insieme della società, ci disferemo di molti pregiudizi. Il terrorismo non produce solo attentati, ma anche tutta la legislazione antiterrorista, i giuristi per scrivere le leggi, i giornalisti per intossicare l’opinione pubblica, i programmi di televisione, i film, i magistrati specializzati, i poliziotti addestrati nella repressione del terrorismo, i professori che fanno i corsi all’università e pubblicano gli inevitabili trattati, gli psicologi di massa, i romanzi sulla sottomissione, e questi libri, film, etc., sono poi buttati come merci sul mercato generale. Si produce così un aumento della ricchezza nazionale.

Il terrorismo produce quindi tutto l’antiterrorismo, la giustizia criminale, gli sbirri, prigioni, boia, giurati, e tutta una branca dell’industria e dei servizi di vigilanza e sicurezza. E tutti questi differenti corpi e mestieri, che costituiscono altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano diverse capacità dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. Così la tortura ha dato luogo alle invenzioni meccaniche più feconde, e ha occupato molti onesti artigiani nella produzione di questi strumenti.

Il terrorismo produce un effetto talvolta morale, talvolta tragico, a seconda ; così rende servizio ai sentimenti morali ed estetici del pubblico e della classe politica, alla quale fornisce sempre l’occasione di scatenarsi contro qualcosa di più manifestamente immorale di ciò che essa è.
Il terrorismo rompe la monotonia e la sicurezza quotidiana e banale della vita borghese. Impedisce la stagnazione e suscita quella tensione e mobilità inquiete, senza le quali il pungolo della concorrenza si spunterebbe. Stimola così le forze produttive, muove le finanze, elettrizza la Borsa.

Allorché il terrorismo, quando è praticato su larga scala, elimina una parte eccedente della popolazione dal mercato del lavoro, diminuendo di conseguenza la concorrenza fra i lavoratori, impedisce anche allo stesso tempo – quando fa molti danni e vittime – al salario di scendere sotto il minimo, mentre la lotta contro il terrorismo assorbe una parte di questa stessa popolazione, riducendo così la disoccupazione.
In ogni caso il terrorismo, essendo sempre la messa in scena di una guerra civile al fine di evitarla, in confronto a questa risparmia comunque  molti morti.

Il terrorismo non è soltanto utile, ma è anche necessario, come il male. Sappiamo che quello che chiamiamo il male è il gran principio che fa di noi degli esseri sociali, che è la base, la vita e il sostegno di tutte le occupazioni, senza eccezione ; è qui che bisogna cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze. E, dal momento in cui il male non esistesse più, la società sarebbe condannata al declino, se non a perire completamente.

Il terrorismo, presentandosi così come il male e l’orrore estremo, la quintessenza di un orrore misterioso, crudele, enigmatico e inspiegabile, che colpisce ciecamente anche gli innocenti, pretende di concentrare in sé tutto il male. E, attirando su di sé tutti gli sguardi, ha il vantaggio straordinario di eclissare tutti gli altri orrori, che pretende così di cancellare dalla vista, o almeno di rendere accettabili come meno gravi,  incutendo a tutti paura : grazie ad essa diventa facile e « giustificabile » per ogni governo l’imposizione di leggi eccezionali che limitano e annullano, per il loro bene, ogni libertà precedentemente data per acquisita dai cittadini. Inversamente, gli Stati, che usano il terrorismo e se ne fanno un paravento, raggiungono in tal modo l’optimum di libertà per i governanti, mentre la società diventa malleabile e sottomessa da un nuovo sistema istituzionale formalmente identico, ma in realtà  completamente stravolto e corrotto. Questo corrisponde all’imposizione e alla generalizzazione in Occidente di regimi post-costituzionali, nell’indifferenza universale.

Le motivazioni vere e gli scopi di ogni terrorismo, la sua utilità, si ritrovano sempre nei suoi risultati. Fra questi, però, non è previsto che i popoli lo mettano a nudo e si ribellino all’inganno e all’impostura delle narrazioni ufficiali dei crimini di Stato.

E’ a causa di questo che il primo ministro britannico ha chiesto ufficialmente, nella 69° assemblea generale dell’ONU il 24.9.1014, che chi mette in discussione la versione ufficiale degli attentati dell’11.9. in U.S.A., o di Londra il 7.7.,  i cosiddetti « estremisti non violenti », come li ha definiti, siano perseguitati allo stesso titolo che i terroristi, perché responsabili della « corruzione di giovani menti » [*1]. Si introduce così ufficialmente e per la prima volta nella storia il famigerato orwelliano « psicoreato » (thoughtcrime o crimethink), che permette allo Stato di arrestare, torturare ed eliminare chiunque metta in dubbio la sua narrazione dei massacri terroristici.

Per concludere aggiungerò soltanto che l’utilità del terrorismo per tutti gli Stati che ne approfittano, lo praticano e lo coprono, appare così chiaramente da ciò che precede, che non ha bisogno di ulteriore dimostrazione. Inversamente, come prova a contrario, ci si potrebbe domandare perché gli Stati fanno così spesso ricorso al terrorismo se non fosse loro così utile ?

- Gianfranco Sanguinetti - (Pubblicato da Mediapart l’8.12.2015 - Traduzione dal francese ) -


[*1] - United Nations General Assembly at the U.N. headquarters in New York September 24, 2014.

innocenza

domenica 24 gennaio 2016

Pausa Pranzo

pausapranzo

               C’era una volta la Mensa

                                         - di Marco Belpoliti -

Sta consumando il pasto seduto per terra, lo sguardo chino sul piatto, il filone di pane appoggiato di fianco su un ripiano di legno. La foto scattata da Odoardo Fontanella è degli Anni Cinquanta e ritrae il pranzo di mezzogiorno di un operaio, o più facilmente un muratore (la tuta è sporca di bianco, forse calcina). Con questa immagine si apre Pausa pranzo. Cibo e lavoro nelle fabbriche, il libro che illustra una recente mostra a Sesto San Giovanni, curata da Giorgio Bigatti e Sara Zanisi e organizzata dall’Isec, Istituto per lo studio della storia contemporanea. In una serie di scatti provenienti da vari archivi aziendali è raccontata la storia delle mense italiane. Ci sono immagini della mensa operaia della Breda tra gli Anni Venti e Trenta, la prima azienda ad aver realizzato un servizio del genere, ma anche istantanee dei tavoli su cui i lavoratori consumano il loro pasto a Dalmine negli Anni Quaranta: spezzatino, pane e bottiglia di vino.

L’istituzione del refettorio – questo il nome iniziale di origine monastica, indica il luogo in cui ci si «ristora» – è piuttosto recente. Sono i primi decenni del Novecento quando l’aumento dei ritmi lavorativi, subito dopo la Prima guerra mondiale che ha portato alla «mobilitazione totale» dell’industria, produce la riduzione progressiva della sosta del pranzo a mezzogiorno. Si razionalizzano le consuetudini alimentari d’origine contadina che comprendevano soste più lunghe a seconda delle stagioni o del lavoro all’aperto. Il sistema americano sperimentato nelle fabbriche della Ford viene esportato nella vecchia Europa; i ritmi tayloristici impongono un lunch breve e semplificato rispetto all’alimentazione contadina fondata sulle minestre e le verdure.

In Italia per ancora un paio di decenni, o forse più, l’operaio delle grandi fabbriche sarà l’erede degli usi della società tradizionale, dove le pause per nutrirsi e il riposo dopo il pasto erano consueti e necessari. Nel regime alimentare americano domina invece una robusta colazione mattutina che supplisce al pasto di mezzodì più rapido e meno impegnativo. Ma prima di arrivare alle mense, documentate nel piccolo catalogo da straordinarie foto d’epoca, c’è la gamella, di memoria militare o, come si chiama in Lombardia, la schiscêtta: contenitore metallico dove il cibo preparato a casa dalle donne è «schiacciato». In un’altra foto si vedono gli operai di un’azienda di Treviso in lotta per ottenere la mensa, che nel 1977 mangiano su un tavolo all’aperto con gamelle, bottiglioni di vino, Coca-Cola e tovaglie.

Dal pane ai precotti

Il pane è l’alimento più presente, sino al giro di boa degli Anni Ottanta, in una continuità alimentare che Piero Camporesi ha descritto in La terra e la luna (Garzanti). Secondo lo studioso romagnolo lo stesso self service deriverebbe dalla fabbrica, e dalla invenzione delle mense aziendali, almeno in Italia. Nascono allora i cibi precotti figli della struttura industriale: riscaldati, refrigerati o surgelati. Appaiono negli Anni Settanta le vaschette di plastica e alluminio, confezioni di polistirolo, contro cui si scaglia Camporesi, che portano alla scomparsa del paese del pane e del vino, l’Italia divisa tra polenta e spaghetti, a favore invece di una cucina della «leggerezza» che ha nelle mozzarelle confezionate nella plastica il suo tripudio.

La maggior parte delle immagini del libro riguardano il periodo precedente, quando ancora l’Italia è il «paese della fame», per dirla con lo studioso romagnolo, uscito da una guerra disastrosa e deciso a guadagnare rapidamente il progresso delle altre nazioni europee. La grande trasformazione alle porte è documentata nell’immagine del refettorio Fiat a Mirafiori e dallo stabilimento Pirelli-Bicocca, con l’interno della modernissima mensa progettata da Giulio Minoletti nel 1957, purtroppo demolita per far posto a una nuova struttura postmoderna, la stecca di Vittorio Gregotti, entro cui si muove oggi la popolazione studentesca della Università, erede non solo virtuale di quei ritmi di vita e di alimentazione: l’epoca del panino.

Fine del pasto in comune

Un altro scatto ritrae la mensa degli impiegati, sempre al Lingotto, nel 1927, con tovaglie, posate, piatti, saliere e oliere, sopra tavoli lunghissimi e ben allineati che coprono l’intera superficie del capannone. La divisione tra colletti bianchi e colletti blu, tra impiegati e operai, è netta. Andrà smarrendosi man mano che si entra negli Anni Ottanta, quando i processi di deindustrializzazione modificheranno anche le mense operaie con l’introduzione dei coupon che verranno spesi in tavole calde, tavole fredde, piccoli ristoranti e bar nei pressi dell’azienda.

L’Italia si fonda sul terziario avanzato e il popolo delle mezze maniche domina nelle fabbriche sopravvissute. Sarà allora la volta di un nuovo elettrodomestico che modellerà di sé i pasti dei lavoratori scampati alla delocalizzazione e alle trasformazioni tecnologiche degli Anni Novanta e Duemila: il forno a microonde. Inventato alla fine degli Anni Quaranta negli Stati Uniti, verrà introdotto in Italia tardi, e il passaggio dal pasto comune al pasto solitario davanti al microonde segnerà di sé la nuova epoca. L’età del nascente narcisismo di massa descritto da Christopher Lasch è definita da questo nuovo strumento. Ciascuno è solo davanti al forno a microonde, ed è subito sera.

- Marco BelpolitiPubblicato su La Stampa dell’8 dicembre 2015 -

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