La fine del capitalismo non sarà una fine pacifica
- Intervista di Marc Losoncz ad Anselm Jappe -
Marc Losoncz - Vorrei partire dal concetto centrale: il valore. Da un lato, si tratta di una parola che negli anni 1930 è stata eliminata dall'economia mainstream, ed è diventata un'espressione puramente operativa, completamente ridotta al prezzo. Dall'altro lato, questa parola è molto polisemica: ha significati matematici, filosofici (in assiologia, ad esempio), sociologici (come in Werturteilsstreit) ecc. Allora, perché la Wertkritik utilizza oggi la parola "valore"?
Anselm Jappe - Marx, in un breve scritto chiamato "Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner" (1880), commenta egli stesso i diversi possibili significati della parola "valore". Ritrova le parole "valore" e "valore-lavoro" soprattutto presso gli economisti politici inglesi, che si sono staccati dalla dottrina dei fisiocratici per la quale il valore è legato all'utilità del prodotto (segnatamente in agricoltura). Adam Smith e David Ricardo, invece, concepiscono il valore come qualcosa che è dato esclusivamente dal lavoro umano, dalla quantità di lavoro umano. Perciò, anche quando l'essere umano attinge acqua da un fiume, è l'attività umana che conferisce un valore all'acqua, che poi ritroviamo anche negli altri prodotti. Fino a che l'acqua rimane nel fiume, essa non ha valore in senso economico.
M.L. - Dunque non esiste alcun valor naturalis, valore naturale.
A.J. - No. Tuttavia, Smith e Ricardo affermano che non è solamente l'attività di coloro che lavorano direttamente, ma ci sono anche il capitale e la terra - e quindi i proprietari dei mezzi di produzione - che contribuiscono a al valore totale del prodotto. Secondo la visione marxista tradizionale, Marx si sarebbe limitato a riprendere la teoria del valore-lavoro di Smith e Ricardo, eliminando semplicemente i fattori derivati quali il capitale e la terra, cioè a dire la proprietà dei mezzi di produzione, e mantenendo come fonte del valore il solo lavoro vivente. In realtà, Marx fa allo stesso tempo anche un'altra operazione assai più complicata: egli critica l'esistenza stessa del valore, il fatto stesso che venga attribuita al lavoro la capacità di creare un valore che accompagna la merce come una specie d'ombra. E' la parte più radicale della critica di Marx, ma è anche la parte meno nota. Secondo la visione marxista tradizionale, Marx avrebbe semplicemente accettato l'esistenza del valore come qualcosa che esiste in tutte le società e che corrisponderebbe al fatto che gli uomini si sono sempre interessati alla "economia" del loro tempo, valutando gli oggetti secondo il tempo necessario per produrli. Marx ha effettivamente ragionato anche in simili termini. Cosa che di conseguenza lo ha portato a concepire una teoria della giustizia e della giusta (re)distribuzione del valore, dunque alla rivendicazione di un pieno salario per l'operaio. Questo deve rientrare nel pieno possesso del valore che ha prodotto, invece di doverlo condividere con il proprietario dei mezzi di produzione: il capitalista viene allora visto come un semplice parassita. Ripeto, si tratta dell'approccio marxista tradizionale - che del resto si può appoggiare effettivamente su certe affermazioni di Marx. Ma allo stesso tempo in Marx c'è anche un altro approccio. La critica del valore chiama questi due approcci il "Marx esoterico" ed il "Marx essoterico" (i quali approcci si trovano mescolati per tutto il corso dell'evoluzione del suo pensiero - non si tratta di una questione di "fasi"). Nell'approccio esoterico, l'accento è posto sulla "doppia natura del lavoro", come lo definisce Marx: ciascun lavoro, creando delle merci, crea del valore d'uso, ma crea anche un "valore" di mercato che è una pura finzione sociale. Esso non fa affatto parte delle proprietà oggettive di una merce. Ciò che il valore rappresenta è semplicemente il lavoro che è stato effettuato per produrre la merce - non il lavoro concreto, ma il dispendio di energia umana non differenziata, misurato con il parametro del tempo (perciò, la questione è semplicemente quella di sapere si si lavora 10 minuti o 60 minuti, e questo fa sei volte tanto più valore - indipendentemente dal contenuto). Questo valore non ha niente a che vedere con l'utilità del prodotto o con la sua bellezza. E' un criterio quantitativo che rimane indifferente ai bisogni dei produttori o dei consumatori. Marx propose quest'analisi del valore soprattutto nei primi capitoli del Capitale. Non si tratta di una semplice astrazione concettuale: secondo l'analisi di Marx, quest'astrazione di tutte le qualità - ciò che chiama il lavoro astratto - diviene una realtà effettiva nella società di mercato e finisce per governare anche la realtà concreta degli oggetti, cioè a dire il loro valore d'uso. Effettivamente, nel capitalismo si producono delle merci solo per accumulare del valore. Il lato concreto è subordinato all'accumulazione di tempo di lavoro. E' solamente il tempo di lavoro che dopo una serie di metamorfosi alla fine si rappresenta nel denaro - e come si sa, nel capitalismo la sola cosa che importa, è il denaro. Trasformare una somma iniziale di 100 euro in 110 euro, poi in 120 euro ecc., è il solo fine reale dell'economia di mercato; la soddisfazione dei bisogni è solo un aspetto secondario. Ma questa moltiplicazione del denaro non è una moltiplicazione di oggetti concreti - essa è dovuta alla moltiplicazione del lavoro e soprattutto del pluslavoro, il quale dà plusvalore sotto forma di profitto.
La critica del valore si è costituita in Germania a partire dagli anni 1980 proprio sulla base di una nuova lettura di Marx che ne riprende il lato "esoterico". Quello che è sempre stato trascurato o dimenticato assai velocemente, dal momento che i marxisti tradizionali cominciano i loro discorsi dalla condivisione del valore fra capitalisti e proletariato, mentre la critica del valore afferma che esiste un problema più profondo già nel fatto che l'attività sociale prenda la forma del valore, fondandosi quindi su una sorta di indifferenziazione di tutta la produzione, sulla sua riduzione alla quantità di energia spesa. Certo, il termine "critica del valore", come tutti i termini, è nato un po' per caso, ed è proprio a causa della sua polisemia che io utilizzo anche il termine di "critica del feticismo della merce", che è più lungo, ma anche più chiaro.
M.L. - I teorici della Wertkritik, come lei ha già ricordato, hanno spesso elaborato una storia alternativa del marxismo. Qualcuno ha detto che il comportamento di Robert Kurz e della Wertkritik è assai simile a quello di Guy Debord: ci sono state intense polemiche, eresie e scismi. Chi sono i predecessori più importanti della Wertkritik secondo lei e chi sono gli alleati teorici della Wertkritik, le correnti oggi più vicine alla Wertkritik?
A.J. - Non c'è una filiazione diretta della critica del valore rispetto ai situazionisti. Guy Debord era poco conosciuto in Germania all'epoca in cui la Wertkritik si è formata ed è stato piuttosto a partire da me che in seguito è stato stabilito il legame. Ci sono due momenti storicamente assai diversi. Fino agli anni 1950 e 1960, il marxismo veniva ampiamente identificato con il leninismo - sia che fosse la sua versione staliniana trionfante oppure la sua versione dissidente trotzkista. E in seguito anche con quell'altra forma di stalinismo che è stato il maoismo. E' soprattutto a partire dagli anni 1960, nel clima che ha prodotto il 1968, che numerose eresie o eterodossie, soprattutto quelle degli anni 1920, vengono riscoperte all'interno del campo marxista. Come ha detto qualcuno: tutti gli autori contro cui Lenin polemizza nel suo testo su "La malattia infantile del comunismo" ("l'estremismo") vengono riscoperti e fatti oggetto di nuove pubblicazioni ed interpretazioni. Quindi Debord stesso fa parte di un tale clima che ha permesso di riscoprire una tradizione dell'altro marxismo, che fosse Karl Korsch o György Lukács, che fosse il comunismo dei consigli di Pannekoek o altre correnti che erano più vicino all'anarchismo come Kropotkin, oppure dei dissidenti sovietici come Ante Ciliga o Victor Serge...
M.L. - Lei ha scritto un libro su Guy Debord, il quale le ha mandato una lettera, una lode della sua monografia.
A.J. - Mi è capitato di parlare con delle persone che mi dicevano di avere appena letto "La società dello spettacolo" - ma senza essersi resi conto che si trattava di un libro apparso quarant'anni prima. Quindi ci sono delle persone che credono che il libro sia stato pubblicato di recente. In effetti, è una delle rare opere degli anni 1960 che può essere letta ancora oggi: per lo stile, ma anche per l'analisi di un'epoca nella quale nasce la società dell'informazione e del consumo - una nuova forma di mercificazione del mondo e della vita. La società dello spettacolo spesso è stata definita "profetica". Non è soltanto una critica della televisione, ma più generalmente una critica della passività organizzata in cui le persone contemplano altre persone che vivono al posto loro, come compensazione per la povertà della loro vita. Debord è stato uno dei primi a riprendere i concetti marxiani di merce e di feticismo della merce. La sua attualità consiste proprio nel suo contributo alla creazione di una nuova critica sociale che analizza il carattere anonimo e feticista del dominio capitalista - anche se la teoria di Debord fosse ancora troppo mescolata ad altre forme più tradizionali di marxismo. L'altro aspetto essenziale dell'agitazione situazionista risiede nel fatto di aver combattuto lo spettacolo con dei mezzi non spettacolari, perciò di aver dimostrato che si può combattere il capitalismo senza esporsi nei media, senza insegnare all'Università e senza militare in dei partiti. E' anche una lezione sulla dignità del rifiuto. Alcuni ambienti artistici oggi scommettono sulla rinascita della pratica della deriva, dell'esplorazione della città e del "detournement di oggetti estetici prefabbricati", ai loro tempi tutte pratiche dei situazionisti.
M.L. - Torniamo alla questione della riscoperta delle numerose eresie o eterodossie e la Wertkritik.
A.J. - Per la Wertkritik è diverso. Essa analizza le differenti forme storiche del marxismo proprio per vedere se si può trovare una comprensione della natura del feticismo e della merce, e quali correnti si sono realmente avvicinate alla questione della produzione del valore, e non solo della sua distribuzione. E se poniamo questo come parametro, si scopre che praticamente nessuna corrente, anche fra quelle eterodosse, abbia mai criticato veramente il lavoro, il valore ed il feticismo della merce. Gli eterodossi hanno insistito molto spesso soprattutto sulle questioni di strategia, ma raramente hanno criticato le categorie di base, quali il denaro, il lavoro e la merce. Questo è altrettanto vero anche per quanto riguarda gli anarchici. Perciò il giudizio sulla non-comprensione dei marxisti riguardo alla critica categoriale di Marx si applica praticamente su tutti i dissidenti del marxismo. La questione dei precursori della critica del valore si riduce alla fine a poca cosa. Sicuramente "Storia e coscienza di classe" di Lukács occupa un posto importante, ma il lavoro astratto analizzato da Lukács è soprattutto il lavoro parcellizzato ed atomizzato, piuttosto che il lato astratto della doppia natura del lavoro, come in Marx. Sulla critica del valore, vi è una certa influenza della Scuola di Francoforte - ma bisogna dire che anche in Adorno e Marcuse si rimane essenzialmente in una critica della circolazione piuttosto che in quella della produzione delle merci. E proprio laddove erano marxisti, sono rimasti in un marxismo abbastanza tradizionale. Quindi questo significa che la critica del valore è nata come rottura con le forme precedenti del marxismo, piuttosto che come un proseguimento. Anche gli eterodossi del marxismo si sono sempre voluti appoggiare su qualche tradizione: su Lukacs, Gramsci, Althusser... La critica del valore riprende piuttosto una parte dell'opera di Marx stesso. Ciò non vuole affatto dire che la critica del valore sia più intelligente dei suoi predecessori, ma che ci sono delle nuove circostanze storiche. Negli anni 1970 e 1980, lo sviluppo capitalista aveva messo fine alle possibilità di un miglioramento all'interno del sistema stesso, e quindi anche alle forme di critica immanente del capitalismo, dove ancora si pensava ad una riforma del capitalismo. E' solo in quest'epoca che si è potuto cominciare ad avere una visione d'insieme della società capitalista, e non solo di una fase particolare. E la critica del calore ha avuto semplicemente il merito di aver elaborato la prima espressione teorica di tali cambiamenti...
M.L. - Non c'è forse anche un'influenza di Isaak Rubin e di Alfred Sohn-Rethel?
A.J. - Questi sono due autori che a volte vengono menzionati negli scritti di Kurz. E si possono aggiungere le teorie sulla crisi di Rosa Luxemburg e di Henryk Grossman: tuttavia la critica del valore essenzialmente non si pone come un proseguimento di altre iniziative teoriche. Sicuramente Rubin è stato uno di quei rari autori della sua epoca che hanno effettivamente compreso la struttura del valore. Ma Kurz nei suoi ultimi scritti ha criticato l'approccio di Rubin quando questi vede nella riduzione di tutti i lavori a lavoro astratto una sorta di unità di misura che può essere ritrovata in ogni società umana - e non una specificità del sistema capitalista. La critica del valore non ha mai un atteggiamento di venerazione verso i modelli teorici del passato. Anche gli autori che vengono apprezzati, possono essere oggetto di critiche severe sotto alcuni aspetti.
M.L. - E cosa pensate dei possibili alleati più contemporanei come Moishe Postone o Jean-Marie Vincent?
A.J. - Moishe Postone ha sviluppato negli Stati Uniti un'altra forma di critica del valore, nella stessa epoca della Wertkritik in Germania. Ha pubblicato Tempo, Lavoro e Dominio Sociale nel 1993. Ci sono molti punti in comune fra il lavoro di Postone ed il lavoro di Krisis. Postone attinge in parte alle stesse fonti (ha studiato a Francoforte cin gli allievi di Adorno). Ma ci sono anche delle notevoli differenze: in Postone non si trova una teoria della crisi e neppure una vera e propria critica del lavoro in quanto categoria sovrastorica. Postone critica il lavoro nel capitalismo in quanto mediazione sociale autonomizzata, ma in lui manca l'idea che "il lavoro" che comprende le attività più diverse costituisca di già un'astrazione che le società precapitalistiche non conoscevano. Purtroppo non ci sono stati molti dibattiti fra Postone e la critica del valore in Germania. Quindi si tratta piuttosto di percorsi paraleli. Jean-Marie Vincent è un autore che ha altre origini. E' stato trotzkista ed universitario; è stato uno dei primi ad introdurre la Scuola di Francoforte in Francia. Nel 1987 ha pubblicato "Critica del Lavoro. Il fare e l'agire", un libro piuttosto coraggioso per i marxisti dell'epoca. I suoi argomenti sono a volte assai vicini alla critica del valore. Ma sotto altri aspetti ne è assai lontano, ad esempio quando riprende le categorie di Martin Heidegger oppure quando utilizza le analisi dei post-operaisti.
M.L. - La sua tesi di dottorato era sul feticismo in Adorno ed in Lukács. Dal momento che vorrei tradurre questa intervista in ungherese, mi potrebbe parlare un po' più di Lukács? Mi sembra che si possa fare una distinzione fra il Lukács essoterico e quello esoterico...
A.J. - Ho fatto questa tesi di dottorato con Nicolas Tertulian quando lui era professore all'EHESS di Parigi. Era uno specialista di Lukács, che aveva conosciuto personalmente. Tertulian poneva il suo accento sull'ontologia e sulle ultime opere di Lukács. Naturalmente, nella mia tesi mi sono appoggiato piuttosto su Storia e Coscienza di Classe ed ho cercato di dimostrare che i giudizi opposti di Adorno e di Lukács sull'arte moderna del 20° secolo - che Lukács rifiuta quasi completamente, mentre Adorno difende le avanguardie artistiche - hanno le loro radici nelle loro concezioni divergenti dell'alienazione e del feticismo. La concezione di Lukács è molto legata ad una sorta di alienazione dell'essenza umana e riprende dei temi dei Manoscritti del 1844 di Marx. Lukács, nelle sue ultime opere, è ancora più lontano, rispetto alle sue prime opere, dal tener conto del feticismo e del lavoro astratto. Al contrario, fa un elogio del lavoro nella maniera più tradizionale possibile. Il lavoro gli appare come l'attività umana principale. Mentre Adorno, malgrado alcuni limiti, è molto più vicino alla concezione del feticismo della merce. Ecco anche perché Lukács, con la sua centralità del lavoro, arriva a quel che chiama una concezione antropomorfizzante dell'arte ed ecco perché critica l'arte non figurativa, mentre Adorno è più sensibile agli aspetti astratti della vita sociale. Nella sua Teoria Estetica, afferma che l'arte astratta dice più verità sulla società capitalista di quanto faccia una rappresentazione "realista" di eroi rivoluzionari.
M.L. - La concettualizzazione dell'Europa dell'Est è stata molto importante per Robert Kurz, già negli anni 1980, al tempo della nascita della Wertkritik. Ha analizzato le ragioni strutturali dell'inefficacia dell'economia del blocco dell'Est ed ha suggerito che la caduta dell'Unione Sovietica non è stata altro che la prima tappa della nuova crisi del capitalismo. Cosa pensa della posizione strutturale dell'Europa dell'Est di oggi?
A.J. - Lei parla evidentemente del libro Il Collasso della Modernizzazione di Kurz che è apparso nel 1991, quando l'Unione Sovietica esisteva ancora, ma era sul punto di esalare l'ultimo respiro. Quel che è stato rivoluzionario nel libro di Kurz, era il fatto che non analizzava l'Unione Sovietica come una società dominata da una burocrazia che però manteneva ancora una struttura socialista - come diceva, ad esempio, la critica trotzkista. Kurz non ci vedeva semplicemente un'altra forma di capitalismo, come facevano altri critici, come quelli della rivista Socialisme ou Barbarie, ma mostrava come l'Unione Sovietica avesse conservato le fondamenta della società capitalista, quindi il lavoro astratto, il valore ed il denaro, e che la forma super-statale non contraddiceva affatto la sua appartenenza alla società capitalista mondiale. Lo Stato ed il suo forte interventi non sono affatto incompatibili con la logica capitalista, ed hanno spesso ugualmente caratterizzato gli Stati capitalisti, ad Ovest. Kurz soprattutto ha mostrato che l'Unione Sovietica è crollata perché non poteva resistere alle altre forme più competitive della stessa società mondiale di mercato. Il paradosso della società sovietica è stato quello di volere una società di mercato senza mercato. Kurz ha analizzato la realtà sovietica come il risultato di una "modernizzazione di recupero", la quale doveva colmare il ritardo iniziale. La Russia era rimasta indietro dopo la prima ondata dell'industrializzazione partita dai paesi occidentali. Perciò, questo paese aveva bisogno di uno spazio protetto ed autarchico per poter installare in maniera forzata ed accelerata le sue industrie - non solo in termini materiali, ma anche per quel che concerne la trasformazione delle mentalità e delle forme di vita. L'economia sovietica è stata sempre molto meno produttiva di quella dei paesi occidentali, ma era protetta ed i suoi prodotti non soffrivano la concorrenza dei paesi occidentali. Allo stesso tempo, Kurz aveva già previsto che dopo il crollo dell'Unione Sovietica e degli altri paesi dell'Est non sarebbe arrivata la prosperità capitalista promessa. Il capitalismo non è il modello "giusto", "appropriato", che basta mettere al posto del modello sbagliato, come vogliono credere i liberali che pensano che il sistema socialista non funziona perché non motiva le persone a sufficienza e perché sarebbe contrario alla natura egoista dell'essere umano. Per cui basterebbe, secondo i liberali, sostituire il cattivo modello con il modello giusto in cui ciascuno dà il meglio di sé, e la mano invisibile del mercato farebbe finalmente arrivare la ricchezza per tutti. I liberali avevano promesso che la Russia sarebbe diventata ricca come la Germania, o altri paesi. Ma il capitalismo globale è un sistema concorrenziale dove i primi paesi che sono entrati in gara - prima l'Inghilterra, poi la Francia, la Germania ecc. - hanno sempre mantenuto la loro maggior competitività schiacciando le altre economie che non riuscivano a svilupparsi alla stessa velocità. Ciò vuol dire che più tardi un paese entra nell'economia mondiale, più si ritrova in un contesto in cui le opportunità e le nicchie sono già occupate. Quindi non è stato più possibile avere un'industria locale una volta che l'isolamento dell'Unione Sovietica era stato abolito. La Russia si viene dunque rapidamente a trovare nel classico ruolo di un paese del Terzo Mondo. Cioè a dire che essenzialmente fornisce delle materie prime, soprattutto gas naturale e petrolio a basso prezzo, in cambio dei prodotti finiti - e cari - dei paesi occidentali. Si fonda anche su qualche prodotto particolare, come gli armamenti. Questa produzione non ha evidentemente una struttura equilibrata, e quello che è nato in Russia non è un capitalismo stabile, ma piuttosto una sorta di cleptocrazia, una regime di cricche mafiose che vive essenzialmente dello sfruttamento delle materie prime del paese. Durante la presidenza di Boris Eltsin, la Russia sembrava si stesse completamente disintegrando. In seguito è tornata ad un regime autoritario, quello di Putin. Quindi, non è affatto vero che l'introduzione del capitalismo alla fine sfocerà nella democrazia. Al contrario, il capitalismo, per sopravvivere ha la tendenza a riprendere delle forme autoritarie. Gli altri paesi dell'Europa dell'Est ora vivono come paesi semi-colonizzati, soprattutto da (e per) l'economia tedesca.
M.L. - Nella Wertkririk, la teoria della crisi del capitalismo gioca un ruolo centrale. Si tratta del carattere autodistruttivo del sistema, dei limiti e delle contraddizioni interne... Voi parlate anche dell'imbarbarimento, della crisi della civiltà intera. Tuttavia, la Wertkritik viene spesso attaccata come una sorta di "catastrofismo" e come una "profezia gnostica dell'auto-annichilimento del mondo" ecc. C'è per esempio una discussione fra i teorici della Nuova Lettura di Marx e la Wertkritik.
A.J. - Neue Marx-Lektüre...Penso che si riferisca ad autori come Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt et Michael Heinrich... Essa, in generale rimane in una prospettiva molto universitaria, di esegesi e di filologia marxiana. Ha dato a volte importanti risultati, ma ha portato anche a delle impasse teoriche. Si è interessata molto poco a ciò che Marx ci può insegnare sul mondo di oggi. Al contrario, la Wertkritik fa riferimento soprattutto al capitalismo contemporaneo, che è diverso dal capitalismo conosciuto da Marx. All'epoca di Marx, la tendenza autodistruttrice del capitale era ancora poco visibile. Mentre oggi occupa ampiamente la scena, soprattutto perché - come aveva già dimostrato Marx - è solo il lavoro vivente a creare il valore, nel momento in cui il capitalismo tende a sostituire il lavoro vivente con le macchine, diminuendo in tal modo la creazione del valore. Marx ha visto che questa contraddizione a lungo termine costituisce per il capitalismo un fattore potenziale di crisi, ma lui pensava che la rivoluzione proletaria sarebbe arrivata assai prima che il capitalismo raggiungesse il limite della sua capacità di creare valore a sufficienza. Questa desustanzializzazione del valore alla fine ha avuto luogo, ed a partire dagli anni 1960, con l'informatizzazione del lavoro, ha compiuto un salto qualitativo. E' a partire da quel momento che il capitalismo si trova in una crisi permanente, e non solo congiunturale. La critica del valore non è apocalittica per partito preso, ma in quanto tiene conto dell'esaurimento di quella che è la logica di base stessa del capitalismo. Gli ultimi decenni hanno ampiamente confermato la teoria della crisi della Wertkritik. Sono quarant'anni che si aspetta il nuovo ciclo di crescita promesso dagli economisti borghesi. Abbiamo visto solo la crescita dei mercati finanziari. Non si tratta di prevedere una grande crisi futura, ma di parlare della crisi cui già stiamo assistendo. In realtà, la società del lavoro si trova già in una grave crisi. C'è anche la crisi del denaro e questo vuol dire che c'è una diminuzione del valore ed una perdita di sostanza da parte del denaro. Ma molte correnti teoriche, anche a sinistra, continuano a dire che il capitalismo sta andando sempre molto bene.
M.L. - La Wertkritik è nata in un paese sviluppato. Ma la tesi secondo la quale la proporzione del lavoro vivente diminuisce, può essere applicata anche ai paesi della periferia e della semi-periferia, o addirittura a livello globale? Ci sono delle nuove tendenze di espansione del capitale e d'industrializzazione...
A.J. - E' un argomento che viene spesso ripetuto: non ci sarebbe una diminuzione del lavoro globale, dal momento che a ciascun posto di lavoro che viene perso in Europa corrisponderebbe un nuovo posto di lavoro, o più di uno, in Cina, in India o in Indonesia. Si tratta di un argomento fallace in quanto ciò che conta per l'accumulazione del capitale non è semplicemente il numero dei lavoratori sfruttati. Il valore che tali lavoratori producono dipende largamente dalle tecnologie utilizzate. Per dirlo in breve: dei lavoratori indiani che lavorano a due dollari al giorno, con delle macchine da cucire, per fare delle camicie, possono creare un grande profitto per i loro particolari datori di valore - ma tutti insieme creano meno valore aggiunto di quanto ne crei un operaio high-tech in una fabbrica in Europa. Queste grandi masse di lavoratori ultra-sfruttati contribuiscono molto poco alla massa globale di valore. Ci sono dei meccanismi di ridistribuzione del valore sul mercato mondiale che fanno sì che i capitali più tecnologici - quindi quelli che contribuiscono maggiormente alla diminuzione globale del valore - siano paradossalmente quelli che ottengono la fetta più grande di ciò che rimane della torta, anche se la torta diminuisce. Perciò l'idea secondo la quale la Cina sta salvando il capitalismo non supera un vero esame dei fatti. La Cina dipende dall'esportazione verso i vecchi paesi capitalisti. E se, ad esempio, gli Stati Uniti non possono più comprare, anche l'economia cinese viene a trovarsi in grandi difficoltà. Intorno al Pacifico, esiste un circuito di deficit che è anche un circuito di simulazione.
M.L. - C'è un'altra critica molto diffusa nei confronti della critica del valore. La critica del valore ha sempre rifiutato il marxismo del movimento operaio (Arbeitersbewegunsmarxismus) e le varie ricerche dei soggetti rivoluzionari. Oggi si può ancora parlare, tuttavia, in un certo senso di lotta di classe? Anche se ci rifiutiamo di intendere i residui di una classe operaia come una quasi-casta semi-moderna con un'identità socio-culturale, si può ancora parlare, oggi, di classi e di lotta di classe?
A.J. - Le lotte di classe ovviamente esistono, dal momento che il capitalismo è una società che si basa sulla concorrenza - c'è sempre una lotta intorno alla distribuzione del valore. Ma oggi questa lotta non ha più - ed in passato l'ha avuto raramente - il carattere di una lotta per o contro il capitalismo. I partecipanti a questa lotta hanno quasi sempre presupposto o accettato l'esistenza del valore, del denaro e della merce. Quindi, si tratta in gran parte di lotte all'interno della sfera della circolazione. Certamente, queste lotte di classe hanno rivestito una grande importanza storica ed hanno permesso a numerose persone di vivere un po' meglio. Ma il loro orizzonte, salvo rari momenti, non è stato quello dell'emancipazione dalla forma sociale feticista. Si era già accettata l'esistenza e la presunta necessità del lavoro. Le azioni rivendicative dei lavoratori volevano semplicemente liberare il lavoro dai "parassiti" che venivano individuati nella sfera della circolazione (proprietari di fabbrica o banchieri). Con il declino del proletariato classico, la sinistra ha indicato molti altri possibili "soggetti rivoluzionari" - che fossero i lavoratori informatici, i lavoratori precari, le donne, o ancora una volta le popolazioni del terzo mondo ecc.. Ma si è visto che nessuna categoria che partecipa al ciclo del lavoro e del capitale, in quanto tale, non si colloca fuori dal capitale. I loro membri non sono interessati, per il solo fatto di appartenere ad una classe sociale, all'abolizione di queste forme sociali o del valore. Allo stesso tempo, questo non vuol dire che non vi sia alcun conflitto sociale. Al contrario, il capitalismo crea ogni giorno delle situazioni invivibili sul piano economico ed ecologico, sul piano urbanistico, su quello della vita quotidiana... Il capitalismo viene continuamente contestato sia in termini impliciti che espliciti. Ma questi conflitti rimangono assai spesso nel quadro della logica astratta della valorizzazione. questa vuole sottomettere tutte le esigenze umane alla sola logica del profitto e si viene a trovare in conflitto con la buona vita e perfino con la sopravvivenza dell'umanità. Questo genere di conflitti non possono più essere letti attraverso il prisma delle classi sociali già costituite. Quel che rimane del vecchio strato operaio di fabbrica è spesso diventato un gruppo sociale molto conservatore che vuole solo difendere i suoi interessi materiali immediati.
M.L. - E ora qualche parola a proposito delle possibili alternative... Anche se nel Capitale non ci sono molti dettagli sulla società a venire, possiamo tuttavia ricostruire in Marx quanto meno la cornice della società del domani. Ad esempio, il libro di Peter Hudis ("Marx’s concept of the Alternative to Capitalism"), ha ricostruito nel dettaglio l'immaginazione marxiana. Inoltre, mi sembra che ci sia una sorta di rinascita dell'immaginazione di modelli alternativi (Lebowitz, McNally ecc.).
A.J. - La critica del valore ha spesso criticato le facili alternative - e lo ha fatto per diverse ragioni. Per riassumere brevemente, da un lato, possiamo sicuramente sperimentare, in una certa misura, delle forme alternative di vita all'interno del quadro capitalista. Ma la logica capitalista possiede una tendenza a schiacciare tutto e tutto trasformare in fonte di profitto, e non tollera la nascita di un'altra forma di vita. Dobbiamo perciò prevedere una fase di conflitti e di lotte. Nel capitalismo, tutto ciò che esiste viene considerato solo come una porzione di valore che conosce solo delle relazioni quantitative. Il primo requisito di un'alternativa dovrebbe essere quello di restituire dignità a tutti gli oggetti che vengono creati e non permettere più che siano trasformati in merce. Questo vorrebbe dire anche non avere più una forma di scambio di merci basata sulla quantità di lavoro. Allo stesso tempo, è necessario che tutte queste nuove forme vengano praticate su una scala più ampia possibile. Diversamente, una fabbrica autogestita o una semplice impresa rischierebbe di doversi affermare in un mercato anonimo e concorrenziale che la sottometterebbe alle medesime esigenze di redditività e di profitto di tutte le altre imprese. Si dovrebbero organizzare immediatamente degli scambi non di mercato fra le diverse attività. La fine del capitalismo non sarà una fine pacifica; in effetti, la tendenza all'imbarbarimento cresce dovunque. Le forze post-mercato e non barbare dovrebbero trovare dei modi di reagire alla logica mafiosa e criminale che non mancherà di diffondersi. Ci sarà anche un aumento della violenza come già vediamo nelle numerose guerre civili nel mondo.
M.L. - Qui si potrebbe aggiungere anche la nostalgia per il welfare.
A.J. - Sì. In Europa occidentale è molto diffusa, in quei paesi che hanno conosciuto il welfare più di altri. Ma era legato ad un breve momento del capitalismo, quando lo sviluppo economico aveva permesso di ridistribuire il valore all'interno della società capitalista. Storicamente, si è trattato di un'eccezione che viene chiamata "les Trente glorieuses", "il miracolo economico"....Ma questo è per lo più quello che è rimasto nelle teste come il "vero" capitalismo, che sarebbe "umano" in rapporto a tutte le forme che sono venute dopo. Queste altre forme vengono interpretate come delle degenerazioni che potrebbero essere attribuite a dei fattori esterni, ad esempio alle banche, o ai politici corrotti..., con l'idea che si potrebbe tornare a questa specie di capitalismo idealizzato, che sarebbe sano. Ovviamente, la critica del valore non è affatto di tale avviso. La crisi che è venuta dopo il boom fordista non è stata la deregolamentazione di un sistema "sano", ma fa parte della natura stessa del capitalismo. Non si può tornare alle vecchie ricette keynesiane-fordiste perché non si può abolire la tecnologia che sostituisce il lavoro vivente. E non possiamo dimenticare che è contro la società triste di quell'epoca che si sono sollevati i movimenti del 1968! E' inconcepibile averne nostalgia.
- Intervista preparata e realizzata nel 2015 da Mark Losoncz (Istituto di filosofia e di teoria sociale, Università di Belgrado) -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme