C'è una sequenza, nel film "La vida sublime" di Daniel Villamediana, in cui ha luogo una conversazione a proposito delle "pellicole immaginate". Film che avrebbero meritato di essere girati, e che per qualche motivo non lo sono mai stati. E forse, in fondo, anche lo stesso "La vida sublime" è un film che avrebbe meritato di essere girato, nel suo muoversi al confine fra documentario e finzione, fra verità e fantasia. Racconta un viaggio e, allo stesso tempo, ne propone quasi un "remake"! Victor Vàzquez si muove verso il sud della Spagna, nel tentativo di ripercorrere il viaggio che suo nonno, "El Cuco" torero anarchico di Valladolid, misteriosamente intraprese a guerra civile spagnola finita, nel 1939. Il nipote, come posseduto dal fantasma del nonno, si mette sulle tracce del mito. Fra verità e fantasia, per l'appunto. Non è a caso che il titolo appaia a due terzi del lungometraggio, nel momento in cui Vàzquez decide di ripetere i gesti - veri o presunti del nonno. Scrivere appassionate lettere d'amore su tovaglioli di carta, seduto ad un bar. Toreare in una piccola arena con una bestia un po' malconcia. Abbuffarsi, per scommessa, di novanta sardine. In mezzo e intorno, il paesaggio, ad inframmezzare e a riverberare del passato, il presente. Ci si perde, nel paesaggio, come ci si perde in chiacchiere. Amabilmente. La follia fertile della campagna di Siviglia e il dissidio fra comunisti e anarchici, il colore della terra di Spagna e la frontiera americana. Luminosamente.
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