A martedì!
Solo un blog (qualunque cosa esso possa voler dire). Niente di più, niente di meno!
giovedì 24 febbraio 2011
mercoledì 23 febbraio 2011
tigri
Il debito - se di debito si tratta - più che con Salgari, Taibo c'è l'ha con Philip J. Farmer. E lo ammette, da subito, fin dall'introduzione, questo debito. "Solo l'inconscio è democratico" - laddove, si sa, 'inconscio' è una parola un po' più ricercata, da usare, per 'anima'. E, nell'anima, i personaggi cosiddetti di fantasia hanno altrettanta cittadinanza dei personaggi realmente esistiti. Non c'è da stupirsi, dunque, se Yanez intrattiene una corrispondenza epistolare con Engels, o se il Moriarty di Conan Doyle, avversario di Sherlock Holmes, sia l'antagonista di Sandokan. Le tigri della Malesia ritornano (e, forse, non sono mai andate via) nel libro di Ignacio Paco Taibo II, e vengono a ricordarci come ci sentivamo, da ragazzi, a leggerle, le tigri, di notte, fino a tirar mattina. Tornano, le tigri, e tornano in un momento in cui un mondo altro dal nostro si sta infiammando di rabbia e di sdegno. Tornano, acciaccati e in là con gli anni, forse simili a quel che siamo, forse per cercare, un po' furbescamente, di rimanerci vicino, di non allontanarsi troppo, invecchiando insieme a noi. Negli anni, anch'esse, le tigri, hanno imparato a conoscere ed amare quello che anche noi abbiamo imparato. E ce ne parlano, in questo libro. C'è un pianoforte, portato sulle barricate della Comune, c'è una poesia di Louise Michel, e c'è altro, tanto altro. C'è, soprattutto, un appello, una chiamata a ricostruire l'idea.
"L'idea di Mompracem, la leggenda di Mompracem, l'isola degli uomini liberi in un oceano di padroni e schiavi."
E per farlo, serve più - per dirla con Taibo - un antimperialismo dal sapore salgariano di un antimperialismo dal sapore leninista, come - sempre con Taibo - serve di più l'aver letto la storia di Edmond Dantes, che Marx!
Paco Ignacio Taibo II
Ritornano le tigri della Malesia
Tropea Editore - 16 euri e 90
martedì 22 febbraio 2011
Madrid sin gobierno
Diario di un miliziano anonimo della CNT
Madrid, 20 nov 1936
Da quando abbiamo lasciato l'Aragona, fino ad oggi, non ho potuto scrivere niente sul diario. Cercherò di fare una sintesi di tutti gli eventi occorsi da quando abbiamo lasciato il fronte d'Aragona fino ad oggi.
Madrid, alla fine di ottobre, è sul punto di cadere, il governo non confida nella sua salvezza e preparava la fuga per Valencia. Ma prima di scappare, Caballero, presidente del consiglio e ministro della guerra, cerca di legare tutti i fili sciolti, e il più importante è la CNT. Nel suo incontro con il presidente Manuel Azaña, gli espone che la CNT deve entrare nel governo, dapprima Azaña rifiuta categoricamente, ma il giorno dopo accetta senza tanti giri di parole, lasciando stupefatto Largo Caballero. Il piano è tracciato. Alla CNT vengono concessi quattro ministeri senza portafoglio, che sarebbe andati a quattro compagni scelti dall'organizzazione. Questi ministri anarchici sono Juan López (Commercio), Federica Montseny (Salute), Juan Peiró (Industria) e Garcia Oliver (Giustizia). La CNT maggioritaria fra la popolazione, però minoritaria nelle decisioni di stato, torniamo a cedere un altro pezzo di terreno, come stiamo facendo dal 19 luglio sotto gli slogan incolori di resistir, no pasarán, unidad antifascista…
Il 4 novembre si accetta l'ingresso della CNT nel governo della Repubblica e il 5 di novembre i nostri quattro compagni partecipano al loro primo consiglio dei ministri, ma qual è la sorpresa. Largo Caballero annuncia che il governo si trasferisce a Valencia. Ai nostri quattro compagni si sbianca il viso. Ora capiscono qual è il gioco di coloro che sono sempre stati i nostri nemici, la fuga da Madrid, però accompagnata da una rappresentanza della CNT di modo che il disonore cada anche sulla nostra organizzazione. I nostri compagni si oppongono energicamente. García Oliver, prende la parola a nome dei quattro ministri della CNT: "Andiamo via? Ma se siamo appena arrivati! No!. Il governo deve rimanere a Madrid e i ministri, come autentici commissari, devono essere gli animatori della lotta, ed anche combattere sulle barricate". Queste parole riempiono di orrore gli altri ministri, compresi i comunisti, che guardavano Garcia Oliver come fosse un pazzo che li stava spedendo in prima linea. Tutti gli sguardi deviarono rapidamente verso Largo Caballero, e questi invitò alla calma i ministri della CNT e a "comportarsi ragionevolmente", perché non c'era tempo e la decisione doveva essere presa all'unanimità. Garcia Oliver ratificò quanto aveva detto prima, e Caballero chiese che i quattro ministri della CNT si incontrassero in privato per deliberare con più calma sulla situazione in cui si trovava il governo. I quattro ministri tornarono a ratificare ancora il rifiuto di lasciare Madrid. Allora gli altri ministri cominciarono a togliersi le maschere. Quelli del partito di Azaña a gran voce dicevano a Largo Caballero "Guardate voi stesso i pazzi che ci ha portato ne"l governo! Caballero disse ai cenetisti che o accettavano si o si sarebbe aperta una crisi di governo e, in questo momento, sarebbe stata la fine di tutto. I cenetisti tornarono a riunirsi, ma risolsero che per uscire da quella situazione avrebbero chiamato il Comitato Nazionale della CNT per comunicare lo stato in cui erano. Horacio M. Prieto, del Comitato Nazionale della CNT, disse loro, "Votate, poi tornate immediatamente a Madrid."
Quando Garcia Oliver entrò per comunicare il risultato ci fu un silenzio di tomba, e in mezzo a questo silenzio annunciò che la CNT aveva votato per il trasferimento del governo a Valencia. Si dice che più di uno sudava, personalmente ritengo che più di uno se la sia fatta sotto pensando di andare al fronte. Da quel momento tutti i ministri che avevano sudato tanto in attesa della decisione della CNT, ora correvano come matti: vai, vai, scappa via il più presto possibile da Madrid.
Ma per le strade della capitale, il popolo madrileno era in contrasto con il governo che lo abbandonava. In ogni angolo della città la gente si preparava alla resistenza, la CNT e l'UGT aveva lanciato un manifesto a tutto il popolo di Madrid che si riassumeva in queste parole: "Libertà o Morte!" Nelle strade tutti preparavano le armi, armi per difendersi dal fascismo che è alle porte di Madrid. Al calar della notte, il 6 novembre, il governo prese la fuga per la strada che porta a Valencia, via Tarancón. A quel punto vennero fermati dalle unità anarchiche del compagno Villanueva che presidiavano la posizione. Questi aveva ricevuto ordini da Madrid di lasciare passare i ministri, e con riluttanza obbedì agli ordini. Prima di partire, Largo Caballero diede al generale Miaja una busta sigillata con la raccomandazione di "non aprirla prima delle 6 di mattina del 7 novembre". La busta conteneva la nomina del generale Miaja come capo della difesa di Madrid.
Nella notte del 7 novembre, i combattimenti si fecero molto duri, e per la prima volta i miliziani non retrocedettero e combatterono come veri leoni. La Federazione locale dei sindacati della CNT lanciò un appello via radio:
"Madrid, libera da ministri, commissari e "turisti", si sente più sicura nella sua lotta (...) Il popolo, la classe operaia madrilena, non ha bisogno di tutti questi turisti che sono partiti per Valencia e per la Catalogna. Madrid, libera dai ministri, sarà la tomba del fascismo. Avanti, miliziani! Viva Madrid senza un governo! Viva la rivoluzione sociale!".
A Valencia, la dichiarazione che venne resa pubblica dalla CNT e dalla FAI è stata ancora più radicale:
L'8 novembre, i Mori e legionari riuscirono a sgattaiolare lungo le rive del fiume Manzanare nella Casa de Campo e nella città universitaria. Il governo da Valencia suggerisce alla Generalitad della Catalogna la necessità di trasferire forze dal fronte aragonese a Madrid. Il ministero della Difesa convoca una riunione d'emergenza, cui partecipano rappresentanti di tutte le forze politiche e sindacali, insieme a Federica Montseny, come ministro della Repubblica, e ai rappresentanti delle colonne che operano in Aragona. Il nome che viene fuori è quello di Durruti e della sua colonna. Durruti riunisce tutta la colonna e spiega la situazione: non possiamo andare tutti in difesa di Madrid e lasciare il fronte senza protezione, perciò solo una parte della colonna si trasferirà. In totale saranno circa 1.400 gli uomini che partiranno per Madrid.
Prima, siamo andati a Barcellona, nel porto ci aspettava una nave proveniente dal Centro America, carica di armi. Subito, cominciamo a scaricare il contenuto che depositiamo nei carri ferroviari che partiranno immediatamente per Madrid. Le armi sono di fabbricazione svizzera e messicana, si tratta di un armamento che i russi hanno comprato, pagandolo a peso d'oro, ma in realtà è pura spazzatura. Durruti non ha avuto l'opportunità di poter testare il materiale a Barcellona, ma una volta a Madrid, ha realizzato la cattiva qualità delle armi, ha telefonato ad Abad de Santillan dicendo "che i fucili che gli avevano dato se li poteva cacciare nel culo ... ", e chiedendo di inviare con urgenza trentacinquemila bombe a mano, le cosiddette"FAI".
Nella notte del 13 novembre siamo stati trasferiti a Valencia su un treno merci, da 48 ore senza sonno, senza riposo. A Valencia siamo arrivati a mezzogiorno del 14 novembre e sul marciapiede della stazione ci aspettava Durruti, con Garcia Oliver, che aveva lasciato Barcellona in aereo accompagnato da Yoldi y Manzana. Durruti ci comunicò che il resto del viaggio fino a Madrid lo avremmo fatto su autobus e camion, dal momento che la ferrovia era stata in parte distrutta da un bombardamento nemico. Concluse dicendo che, al fine di preparare l'arrivo della colonna, sarebbe andato in aereo a Madrid insieme a García Oliver.
Durruti arrivò a Madrid lo stesso giorno 14, nel pomeriggio. Questo fece sì che si spargesse la voce che la Colonna Durruti era già a Madrid, confondendo la nostra colonna con un altra, composta anch'essa da catalani, ma organizzata dal PSUC, la "Libertad-López Tienda". La nostra colonna arrivò a Madrid il 15 novembre, entrando dal Puente de Vallecas, la gente ci applaudiva ringraziandoci per essere venuti. A sera, siamo stati alloggiati in una scuola per bambini con l'intenzione di passare lì la notte e riposare adeguatamente prima di entrare in combattimento. Ma poco dopo l'arrivo, un veicolo privato arrivò alla porta della nostra caserma improvvisata, ne scese Federica Montseny, nervosa, e con voce energica ci disse: "Compagni, i mori sono al Paseo de Rosales. Si richiede che queste forze vadano là immediatamente se non vogliamo provare l'amarezza di vedere Madrid è invasa dai Mori già da questa sera."
Liberto Ros e José Mira risposero: "Durruti ci ha detto che in nessun caso dobbiamo muoverci da qui. Come potrete capire, dobbiamo aspettare il suo arrivo, che non tarderà." Federica Montseny augurò buona fortuna a tutti noi, e risalì sulla macchina che partì a tutta velocità.
Pochi minuti dopo arrivò Durruti, che ci riunì tutti, spiegandoci la necessità di salvare Madrid, e concluse con le seguenti parole: "Capisco cosa significhi per voi andare subito a combattere, senza tregua, affaticati per il duro viaggio, ma è necessario farlo. Io sarò alla vostra testa, a lottare con voi contro l'invasore".
Senza discussioni ci siamo preparati per entrare in combattimento. Al tramonto ci siamo diretti al fronte, lì ci aspettavano alcuni compagni di Madrid inviati da Cipriano Mera e da compagno chiamato Timoteo. Questi compagni conoscevano bene il terreno e ci facevano da guida.
Quasi all'alba del 16 novembre siamo entrati in combattimento, stanchi e senza nessun apporto di forze fresche, mentre le altre forze politiche le avevano. L'aiuto che ci era stato promesso dagli internazionali di Kleber non arrivò quando ci era stato detto, restammo asserragliati davanti al nemico, mentre i nostri uomini, i nostri compagni, i nostri amici cadevano uno dopo l'altro difendendo Madrid, la Madrid abbandonata dal governo della repubblica che da Valencia chiamava alla resistenza. Maledetti, e sia maledetta tutta la vostra razza dannata!
Alla mezzanotte fra il 17 e il18 novembre, Durruti è stato finalmente in grado di riunire i delegati di Centuria della Colonna presso la Facoltà di Scienze. Avevamo combattuto senza sosta per 36 ore e la situazione della colonna era terrificante. Dei circa 1.700 uomini - contando anche i compagni di Madrid - che erano entrati in combattimento, ne erano rimasti solo 700, e in condizioni precarie dal momento che da 36 ore non avevano mangiato niente, nemmeno un sorso di caffè. Il freddo e la pioggia ci intridevano fino all'osso, in una situazione dove la morte per una pallottola o per una baionetta potevano sorprenderci in qualsiasi momento.
Di tutte le forze in lotta nella città universitaria, eravamo gli unici ad avere tutti gli uomini impegnati nel combattimento. All'alba del 18 novembre Durruti vide con i propri occhi come gli internazionali di Kleber erano stati rimpiazzati in parte dalla XII Brigata Internazionale, così come era avvenuto con altre unità.
Durruti era di pessimo umore per quello che stava accadendo. Si mise in contatto con il compagno Eduardo Val, del Comitato di Difesa del Centro, per cercare di sostituire gli uomini che non erano in condizioni di combattere. Val ci provò con ogni mezzo, ma scoraggiato dovette comunicare a Durruti che non c'era alcun modo per rimpiazzare gli uomini, perché tutti i compagni erano mobilitati, e molti di loro combattevano con unità non della CNT.
Durruti poi si incontrò urgentemente con Vicente Rojo e col generale Miaja al Ministero della Guerra. Li informò della situazione in cui si trovava la colonna, o quel che restava di essa - non rimanevano più di 400 uomini. Questi risposero a Durruti che avrebbero cercato con tutti i mezzi di sostituire i suoi uomini il giorno successivo, 19 novembre. Ma dovevano resistere fino ad allora. Impadronirsi, se possibile, dell'Ospedale Clinico, e mantenere il fronte nella città universitaria. Se i miliziani erano in grado di mantenere un cerchio di ferro, inchiodando i fascisti nella città universitaria per le prossime 24 ore, Madrid sarebbe stata salvata.
All'alba del 19 novembre ci ordinarono di prendere l'Ospedale, il combattimento fu senza quartiere, corpo a corpo, ed è quando sono stato ferito. Mentre cercavo di liberarmi del nemico in una lotta alla baionetta, un altro mercenario alle mie spalle mi infilò la sua, di baionetta, fra le costole, per fortuna due compagni della Colonna arrivarono in quel momento, sparando e uccidendo il nemico . Da quel momento non ricordo altro. Per il resto, non sono stato cosciente, e ho trascorso il tempo in un angolo con la ferita che mi era stata fasciata da un compagno, fino a quando sono stato finalmente evacuato.
Oggi, 20 novembre 1936, Madrid è salva, ma a quale prezzo. La nostra colonna è stata quasi spazzata via e il dolore per la perdita di tanti compagni è enorme tra coloro che sono rimasti in vita. In questo momento, mentre scrivo queste parole ci danno un altra dura notizia, nello stesso ospedale giace il corpo di uno che ha dato il nome alla nostra gloriosa Colonna Buenaventura Durruti.
Entro pochi giorni verrò trasferito a Barcellona. Ho promesso ai miei compagni che, una volta ristabilito, tornerò con loro sulla prima linea del fronte.
Ora ho bisogno di riposare ...
http://insumision.blogspot.com/2007/06/diario-de-un-miliciano-annimo-de-la-cnt.html
lunedì 21 febbraio 2011
Parla Durruti
Era il 4 novembre del 1936 e c'era molta attesa per il discorso che Durruti avrebbe tenuto alla Radio CNT-FAI, e che sarebbe stato trasmesso in tutta la Spagna. Quello stesso giorno, la stampa aveva dato la notizia della nomina di quattro ministri anarchici nel governo di Madrid. La Colonna Durruti non era riuscita a liberare Saragozza. Il problema principale, al fronte, era dato dalla difficoltà di approvvigionamento di armi. Durruti aveva fatto ricorso a tutti i metodi disponibili. Ai primi di settembre, aveva perfino mandato a Sabadell un commando di miliziani per farsi consegnare delle armi che erano state nascoste in vista di formare una colonna che non era mai stata creata. C'era anche da dire che, il 24 ottobre, la Generalidad aveva approvato il decreto di militarizzazione delle milizie che rimetteva in vigore il vecchio Codice di Giustizia Militare, a partire dal 1° novembre. Tanto gli amici, quanto i nemici, attendevano di sapere cosa avrebbe detto Durruti. Ben prima che cominciasse la trasmissione, la gente aveva cominciato ad affollarsi intorno agli altoparlanti dislocati per le ramblas, in attesa che la radio annunciasse: "Parla Durruti."
Il decreto di militarizzazione era stato oggetto di accesi dibattiti nella Colonna Durruti, che aveva deciso di rigettarlo, dal momento che non riusciva affatto a migliorare il controllo dei volontari del 19 luglio nelle milizie, né a risolvere la cronica mancanza di armi. Durruti aveva firmato, a nome del Comitato di Guerra, una lettera di rifiuto della militarizzazione indirizzata al Consiglio dei Ministri. La Colonna negava la necessità di una disciplina da caserma, e le opponeva la superiorità della disciplina rivoluzionaria; "Miliziani si; soldati mai!".
Alle 21:30 Durruti cominciò a parlare.
Aveva parlato per un'ora, Durruti, con la consueta energia e chiarezza. Aveva lanciato un allarme. Ricordava ai lavoratori la loro condizione di militanti rivoluzionari. Dava per scontato che i miliziani, che si opponevano al fascismo sul campo di battaglia, non dovessero essere disposti a rinunciare a lottare per l'emancipazione del proletariato e per la rivoluzione sociale. Non venne pronunciata una sola frase demagogica, o retorica, ma ogni cosa andò al suo posto. Ce n'era per tutti. Per chi stava in alto e per chi stava in basso. Per gli operai e per i gerarchi della CNT appoltronati ai posti di comando, per i cittadini comuni e per i consiglieri della Generalidad e per i ministri anarchici nuovi fiammanti. Contro la deriva burocratica, contro la politica del governo. Mentre, nella retroguardia, si confondeva il dovere con la carità, l'amministrazione con il comando, la funzione con la burocrazia, la responsabilità con la disciplina, l'accordo con il decreto e l'esempio con l'ordine e il controllo.
La minaccia di "tornare a Barcellona" fece tremare i rappresentanti politici della borghesia, anche se era troppo tardi per correggere l'errore imperdonabile, e ingenuo, di luglio, quando la rivoluzione venne rimandata "fino a dopo la liberazione di Saragozza".
La conseguenza immediata del discorso radiofonico fu la convocazione, da parte di Companys, per l'indomani, il 5 novembre alle undici di sera, di una riunione straordinaria presso il Palazzo della Generalitad di tutti i ministri e di tutti i rappresentanti delle organizzazioni politiche e sindacali, per affrontare la crescente resistenza all'esecuzione del decreto di militarizzazione delle milizie, e lo scioglimento dei comitati rivoluzionari. Durruti era causa e oggetto del dibattito, ma tutti evitavano di pronunciare il suo nome. Companys sollevò la necessità di farla finita con "los incontrolados" che, indipendentemente da ogni organizzazione politica e sindacale, "disfanno tutto e tutti ci compromettono". Comorera (PSUC) dichiarò che l'UGT avrebbe espulso dai suoi ranghi coloro che non rispettano i decreti, ed ha invitato le altre organizzazioni a fare altrettanto. Marianet, segretario della CNT dopo essersi vantato del sacrificio dimostrato dagli anarchici con la loro rinuncia ai propri principi ideologici, si lamentò della mancanza di tatto nell'applicare immediatamente il Codice di Giustizia Militare, e aggiunse che dopo il decreto di scioglimento dei comitati, e grazie agli sforzi della CNT, ci sarebbero stati meno incontrolados.
E che non si trattava tanto di gruppi da espellere, quanto di resistenze da vincere, senza provocare ribellioni, e di individui da convincere. Nin (POUM), Herrera (FAI) e Fabregas (CNT) elogiarono gli sforzi fatti da tutte le organizzazioni al fine di normalizzare la situazione dopo il 19 luglio, e rafforzare il potere dell'attuale Consiglio di Governo. Nin mediò nella disputa tra Sandino, capo della Difesa, e Marianet sulle cause della resistenza alla militarizzazione, dicendo che "sostanzialmente siamo tutti d'accordo" e che c'era qualche timore tra le masse "di perdere ciò che avevano vinto", ma" la classe operaia s'impegna a formare un vero e proprio esercito". Nin vede la soluzione del conflitto in corso nella creazione di un commissario di guerra che rappresenti tutte le organizzazioni politiche e sindacali. Per Comorera, molto più intransigente di Companys, il problema fondamentale risiede nella mancanza di autorità del governo: "gruppi di incontrollati continuano a fare quello che vogliono", non solo per la questione della militarizzazione e della condotta della guerra, ma anche per lo scioglimento delle commissioni e dei consigli, o per quel che riguarda l'approvvigionamento di armi nella retroguardia, o per la mobilitazione al fronte. Mancanza di autorità che, per Comorera, si estendeva anche alle collettivizzazioni, "che continueranno ad essere effettuate per capriccio, senza essere sottomettesse al decreto che le regola". Companys accettò la possibilità di modificare il codice militare e di creare un commissario di guerra. Comorera e Andreu (ERC) insistettero sulla necessità di rispettare e far rispettare i decreti. L'incontro si concluse con un indirizzo unitario al popolo catalano per l'adesione disciplinata a tutti i decreti del Governo, e con l'impegno di tutte le organizzazioni a dichiarare il loro supporto per mezzo della stampa a tutte le decisioni del governo. Nessuno si oppose alla militarizzazione: il problema per i politici e per i burocrati era solo quello di trovare il modo per farsi obbedire.
Il 6 novembre il Consiglio dei ministri della Repubblica decideva, con voto unanime (che comprendeva i quattro ministri degli anarchici), la fuga del governo da una Madrid sotto l'assedio delle truppe fasciste. Il disprezzo della Federazione locale della CNT di Madrid si esprimeva in un manifesto bellissimo pubblico che dichiarava:
"MADRID, LIBERA DAI MINISTRI, SARA' LA TOMBA DEL FASCISMO. AVANTI MILIZIANI! VIVA MADRID SENZA GOVERNO! VIVA LA RIVOLUZIONE SOCIALE!".
Il 15 novembre una parte della colonna Durruti combatteva già a Madrid, sotto il comando di Durruti. Il 19 novembre, sul fronte di Madrid, un proiettile, vagante o non, lo colpisce.
Muore il giorno seguente.
Domenica 22 novembre, a Barcellona, una moltitudine, interminabile, caotica e disorganizzata, un corteo funebre. Avanza lentamente. Le due bande musicali non riescono a suonare all'unisono, aumentano la confusione. La cavalleria e le truppe motorizzate che dovevano precedere il corteo sono rimaste bloccate dalla folla. Le auto che trasportano le corone procedono a marcia indietro. Il corteo era guidato da molti politici e burocrati, ma i ruoli ufficiali se l'erano accaparrati Companys, presidente della Generalitad, Antonov-Ovseenko, console sovietico e Juan Garcia Oliver, ministro anarchico della Giustizia della Repubblica, che presero la parola sotto ill monumento a Colombo. Garcia Oliver anticipò gli stessi argomenti di sincera amicizia e di fratellanza tra antifascisti che avrebbe usato nel maggio 1937 per aiutare ad abbattere le barricate dei lavoratori in rivolta contro lo stalinismo. Il console sovietico dette inizio alla manipolazione ideologica di Durruti trasformandolo in un campione della disciplina militare e del comando unico. Companys gli rivolse il più vile degli insulti quando disse che Durruti "è morto ucciso alle spalle come muoiono i codardi ... o come muoiono coloro che vengono assassinati dai codardi". I tre sono concordi nell'esaltare soprattutto l'unità anti-fascista.
Il catafalco di Durruti era già la tribuna della controrivoluzione.
Tre oratori, alti rappresentanti del governo borghese, dello stalinismo e della burocrazia anarchica, si sono disputati la popolarità di un pericoloso incontrollato di ieri che oggi è un eroe imbalsamato . Quando la bara, otto ore dopo l'inizio dello show, e senza il corteo ufficiale, ma ancora accompagnato da una curiosa moltitudine, ha raggiunto il cimitero di Montjuic, non ha potuto essere interrata fino al giorno successivo perché centinaia di corone ostacolavano il cammino. La fossa scavata era troppo piccola, e una pioggia torrenziale impediva che venisse allargata. Non si sa come morì Durruti, dal momento che ci sono sette o otto versioni diverse e contraddittorie, ma è assai più interessante chiedersi perché morì due settimane dopo aver parlato alla radio. Il discorso alla radio di Durruti venne percepito come una pericolosa minaccia, e richiese una risposta immediata, con la riunione straordinaria del governo, e soprattutto con la brutalità dell'intervento di Comorera, appena temperato dalla CNT e dal POUM, ed infine con l'assunzione del compito comune di applicare e far rispettare i decreti.
La sacra unità antifascista tra burocrati operai, stalinisti e politici borghesi non poteva tollerare degli incontrollati della stazza di un Durruti: è per questo che la sua morte era urgente e necessaria. Nell'opporsi alla militarizzazione delle milizie, Durruti personificava l'opposizione e la resistenza rivoluzionaria alla dissoluzione dei comitati, al comando della guerra da parte della borghesia e al controllo statale delle imprese espropriate nel mese di luglio. Durruti è morto perché era diventato un ostacolo pericoloso alla controrivoluzione in marcia. E per la stessa ragione, Durruti doveva essere ucciso due volte.
Un anno dopo, nella commemorazione dell'anniversario della sua morte, la potente macchina di propaganda stalinista del governo di Negrin lavorò a pieno regime per attribuirgli la paternità di uno slogan, originariamente inventato da Ilya Ehrenburg, e approvato in seguito dalla burocrazia dell'alto comitato della CNT-FAI, con cui gli fanno dire il contrario di quello che aveva sempre detto e pensato: "Abbiamo rinunciato a tutto tranne che a vincere". Cioè, che Durruti rinunciava alla rivoluzione. Non esiste più nemmeno la versione completa e precisa del suo discorso irradiato il 4 novembre 1936, dal momento che la stampa anarchica del tempo aveva ammorbidito e censurato Durruti quando era in vita.
Una volta morto, Durruti, avrebbe potuto essere Dio. E fino a Tenente Colonnello dell'Esercito Popolare!
(materiale tratto da http://www.kaosenlared.net/noticia/habla-durruti )
venerdì 18 febbraio 2011
Ispansi!
Subito dopo l'inizio della Guerra Civile Spagnola, nel 1936, la Repubblica decise di inviare 3.000 bambini in Unione Sovietica, per proteggerli dai bombardamenti franchisti. I primi a partire sarebbero stati gli orfani. Beatrice, cresciuta in una famiglia ricca, il padre e il fratello falangisti, ha avuto la fortuna di essere rimasta incinta di un uomo che ha rifiutato di sposarla. Vittima della sua propria ideologia - non ha potuto né abortire né farsi carico della maternità fuori dal matrimonio - ha affidato la sua creatura ad un orfanotrofio di Madrid. Quando realizza che il bambino sta per lasciare la Spagna, diretto in Russia, assume l’identità di una repubblicana morta, Paula, in modo da potersi offrire come volontaria per scortare i bambini, e intraprende così un terribile viaggio, insieme al figlio, circondata dai suoi nemici naturali, che la porta a migliaia di chilometri lontana dal suo paese e dalla sua gente. E' il giugno del 1941, quando Hitler invade l'Unione Sovietica, e nel mese di settembre l'esercito nazista si trova a sedici chilometri da Mosca. I bambini spagnoli vengono evacuati da Stalingrado. Ma il viaggio è ostacolato dalla necessità dei sovietici di fare affluire nuove truppe per la difesa di Mosca. Durante una di queste soste forzate, si unisce a loro un commissario politico del Partito Comunista di Spagna, Alvaro, diretto a Samarcanda per curare le sue ferite di guerra.
Titolo: Ispansi (Españoles)
Regia: Carlos Iglesias
Sceneggiatura: Carlos Iglesias
Attori: Esther Regina, Carlos Iglesias ed Eloisa Vargas
giovedì 17 febbraio 2011
enigma
E' il 1939, centinaia di migliaia di rifugiati dalla guerra civile spagnola languono nei campi profughi francesi. Fra questi, un veterano della campagna dell'Ebro che sta cercando inutilmente di contattare dei suoi conoscenti francesi. Ci prova di nuovo, seguendo un percorso clandestino. Il giorno seguente, due militari francesi di alto rango arrivano in macchina, minaccia il comandante del campo costringendolo ad aprire e a farli entrare. Cercano il veterano, lo trovano e se lo portano via, mentre alcuni dei rifugiati si interrogano sul fatto accaduto. Un traditore della Repubblica, secondo alcuni, altrimenti, se no, perché i francesi avrebbero mostrato tanto interesse?
L'uomo era Antonio Camazón. La sua abilità? Decifrare codici.
La storia di Camazón è affascinante, e ancora oggi rimane un enigma. Nato a Valladolid al 1901, studiò matematica a Madrid. Si arruolò nella polizia, dove divenne commissario, e successivamente passò ai servizi segreti. Il suo lavoro nel nord Africa lo mise in contatto con un collega francese, Gustave Bertrand. Quando, dopo tre anni di guerra, dovette attraversare il confine, nel 1939, Bertrand lo stava aspettando. Adesso era il comandante del servizio di criptoanalisi dello Stato Maggiore francese. Bertrand chiese a Camazón che lo aiutasse a mettere in piedi un servizio di intercettazione e la decifrazione. Camazón accettò.
La loro destinazione era una castello a nord-est di Parigi, chiamato PC (Posto di Comando) Bruno. Quando arrivò lì, Camazón insierme ad altri 6 spagnoli formò il Team D. Ufficialmente erano arruolati nella Legione Straniera, ma il fatto che fosse stato il Generalissimo Gamelin a dare la sua benedizione ai nuovi arrivati rendeva chiaro che non si trattava di comuni reclute. Più tardi si unì a loro un gruppo di immigrati polacchi, la squadra Z, composta di criptoanalisti polacchi fuggiti dalla Polonia occupata dai nazisti. I loro nomi, Rejewski, Rozycki, Zigalski, sono ben noti perché furono i primi a decifrare il codice militare tedesco Enigma. A Bruno, polacchi e repubblicani spagnoli, battuti ma non sconfitti, continuarono a combattere un nemico comune.
Dopo la caduta della Francia nel 1940, Bertrand ed i suoi compagni continuarono la loro opera di spionaggio in clandestinità. Sparirono allo sguardo di Vichy e si stabilirono nel sud della Francia, in un nuovo Quartier Generale, chiamato Cadix. Le segnalazioni raccolte e decifrate venivano mandate in Inghilterra, dove gli Alleati ne avrebbero fatto buon uso. Dopo, quando la Francia "non occupata" venne occupata, Cadix fu smantellata ed i suoi membri inviati in fretta in Algeria. Il gruppo polacco alla fine riuscì a raggiungere l'Inghilterra, ma di Camazón e dei suoi uomini non si è saputo più nulla per 60 anni: come se fosse stato inghiottito dalla terra.
Solo oggi sono stati trovati, e messi insieme, alcuni pezzi del puzzle. o Camazón e il gruppo degli spagnoli decisi a continuare ad aiutare la causa, si erano nascosti fino a quando finalmente riuscirono a contattare le truppe alleate sbarcate nel Nord Africa. Quindi, passarono in Italia, fino in Germania, accompagnando i soldati che combattevano contro il nazismo in Europa. A guerra finita, le persone come lui erano molto apprezzate, e subito accettò un impiego in Francia, al Ministero degli Esteri, che ovviamente non aveva niente a che fare con la burocrazia. Un giorno, due rappresentanti nordamericani si presentarono a casa sua per tentarlo con un'offerta migliore. Camazón fu quasi sul punto di accettare, ma decise di rimanere fedele al paese che lo aveva accolto e con cui aveva condiviso tanta fatica. Gli americani insistettero, ricordandogli che la Francia non era il suo paese; ma l'aragonese rispose chiaramente: "Non verrò negli Stati Uniti, perché nemmeno quello è il mio paese."
I rimanenti anni di Camazón sono avvolti dall'oscurità. Si ritiene che continuò a lavorare nei servizi di decifrazione del governo francese. In tutto quel tempo, non dimenticò mai la sua appartenenza politica. Esiste una lettera, firmata di suo pugno nel 1956, che dimostra il suo impegno per i resti della Repubblica spagnola in Francia. Si ritirò nel 1966 e tornò in Spagna. Anche se la polizia lo sottopose ad un accertamento, nessuno sembrava avere nulla contro di lui, e poté sistemarsi tranquillamente con la sua famiglia a Jaca. Lì visse gli ultimi anni della sua vita, fino alla morte avvenuta il 19 ottobre 1982.
Recentemente, l'Università di Saragozza ha presentato in forma ufficiale un fondo documentale a lui dedicato. La tematica di quei libri suggerisce che il suo proprietario era stato una spia o un diplomatico. Tanto che ha ricevuto il nome, non ufficiale, di "Biblioteca della spia."
Abbiamo appreso ora che si tratta di una parte della biblioteca di Antonio Camazón, un uomo che parlava più di una dozzina di lingue. La biblioteca della Spia è un tributo alla statura culturale del suo ex proprietario. Consiste di più di 800 dizionari, grammatiche, lessici e vocabolari di quasi duecento lingue del mondo, dal bretone al sanscrito, dal nepalese al tuareg, dal maori al finlandese. Comprese lingue assai poco crittografiche, come il sumero e maya.
Senza dubbio, però, Camazón si è portato i suoi miglior segreti nella tomba. Presso l'Università di Saragozza si può trovare un libro sulla crittografia scritto da lui stesso, ma poco altro. I suoi quaderni pieni di annotazioni sono finiti nella pattumiera, e anche la sua corrispondenza. I suoi libri sulla crittografia sono scomparsi. Il suo lavoro come criptoanalista nelle due guerre cui prese parte continua ad essere segreto. E, dopo tre quarti di secolo, questo franco-aragonese continua ad essere indecifrabile!
(info tratte da http://amazings.es/2011/02/17/los-siete-de-camazon/ )
mercoledì 16 febbraio 2011
Squamish Five
E' un posto apparentemente pacifico, il Canada degli anni '80 del secolo scorso. Forse troppo, mentre negli Stati Uniti sono ancora attive le Pantere Nere e la California, più a sud, è scossa dalle bombe dell'attivismo anti-militarista. Ed è in tale contesto che i cosiddetti cinque di Vancouver decidono di passare alla clandestinità e di costituirsi nella "Wimmen's Fire Brigade" (laddove "wimmen", nato dalla fusione di "man" e "wife" è una sorta di neologismo per includere uomini e donne) per poter scuotere la politica canadese. La lezione repressiva è stata appresa. Sulla costa Est degli Stati Uniti operano il Black Liberation Army, l'United Freedom Front e l'Armed Resistance Mouvement, con attacchi a edifici governativi e con obiettivi aziendali. Sulla costa ovest, il symbionese Liberation Army e il New World Liberation Front assaltano banche, collocano bombe e rapiscono la ricca ereditiera Patricia Hearst. Ci sono anche molti piccoli gruppi autonomi, come quello di Bill Dune e Larry Giddings, due anarchici che sono a tutt'oggi ancora in carcere, dopo essere stati arrestati nell'ottobre del 1979, in seguito ad una sparatoria che ebbe luogo per le strade di Seattle, quando cercarono di far evadere un loro compagno. Il più noto di questi gruppi era la George Jackson Brigade, costituita da anarchici e da marxisti, che portò a termine una serie di azioni, spesso a sostegno del movimento dei prigionieri, molto forte in quegli anni.
In Canada, tre riviste ("Open Road" a Vancouver, "Bulldozer" a Toronto e "Resistance" iniziata a Toronto per poi trasferirsi a Vancouver) si impegnano a coprire la resistenza armata negli Stati Uniti, e la successiva repressione: pubblicavano i comunicati che spiegavano le azioni, fornivano sostegno alla difesa, e davano uno sbocco agli scritti dei combattenti che erano stati catturati. La copertura divenne tanto più importante quando vennero sciolte le organizzazioni che davano sostegno negli Stati Uniti e quando la maggioranza del movimento intese prendere le distanze, per quanto poteva. I "5" furono il prodotto dell'ondata di lotta armata negli USA.
Nella primavera del 1982, una bomba distrusse quasi interamente la sottostazione idraulica di Cheekeye-Dunsmuir. Contro quel progetto c'era stata una forte opposizione dei residenti locali. Si riteneva che avrebbe portato all'industrializzazione dell'isola di Vancouver e alla costruzione di centrali nucleari per esportare energia negli Stati Uniti. Cento chili di dinamite misero fine a tale piano.
L'azione, avvenuta in un parco naturale, lontano da qualsiasi centro abitato non ebbe alcuna risonanza e venne fatta passare sotto silenzio. L'azione successiva non lo sarebbe stata!
Nel tardo pomeriggio del 14 ottobre 1982, un camion esplode davanti al settore impianti della Litton, a Rexdale, nordovest di Toronto. Milioni di dollari di danni, sette operai feriti, uno in pericolo di vita. Il comunicato che segue, dopo pochi giorni, fa autocritica per aver sopravvalutato le guardie di sicurezza e la polizia.
Doveva essere semplice: guidare un camion rubato, imbottito di dinamite, attraverso i cancelli della Litton, fino al parco antistante l'edificio. Abbandonarlo, e farlo esplodere dopo 35 minuti. Per essere sicuri che la cosa fosse presa sul serio, il camion viene lasciato di fronte alla cabina di controllo delle guardie. Solo che le guardie non se ne accorgono.Poi, la telefonata di allarme non viene capita. Eppure sul camion era stata posta una scatola, dipinta con vernice fluorescente arancione con sopra un foglio di carta che dava informazioni e istruzioni! Per sottolineare la gravità della situazione, era stato posto un candelotto di dinamite sulla scatola. Era stato un altro errore: le guardie non sapevano che il candelotto fosse disinnescato e se ne erano tenute lontane. L'evacuazione comincia solo venti minuti dopo che era stata ricevuta la telefonata. La bomba esplode prima del previsto, probabilmente attivata dai segnali radio provenienti dalle macchine della polizia che stavano arrivando nella zona.
Errori e perquisizioni non impediscono tuttavia che l'11 novembre 1982, meno di un mese dopo l'attacco, abbia luogo la più grande manifestazione mai organizzata contro la Litton: l'azione armata sortisce l'effetto di dare maggior incremento e visibilità alle altre forme di protesta, invece di renderle meno credibili.
La Wimmens' Fire Brigade non si ferma e attacca, di lì a poco, tre negozi della "Red Hot Video", catena che produceva videocassette a contenuto pornografico. Secondo la rivista "Open Road", "molti dei film non contenevano solo scene di sesso esplicito, ma le donne venivano imbavagliate, legate, picchiate, violentate e torturate, subivano dei clisteri per mano di persone armate, ed altre forme di degrado".
E' l'ultima azione, i cinque verranno catturati il 20 gennaio 1983. Intercettati dalla polizia, mentre su un furgone si stanno dirigendo a Vancouver. Il processo che ne seguirà si concluderà con pesanti condanne.
martedì 15 febbraio 2011
Ritmi
Manca solo il ronzio del gatto che fa le fusa. Poi, il catalogo è completo!
"Se tutto potesse essere cantato nella progressione tipica del Rock and Roll - accordi in Do, La minore, Fa, Sol - allora tutto sarebbe semplice. Quante variazioni su un unico tema. Il più grande assolo di batteria che io abbia mai sentito lo produsse il lembo allentato di un'incerata in cima alla mia macchina che tagliava il vento a centotrenta all'ora. Al secondo posto metterei i tergicristalli sotto la pioggia, ma è un ritmo più astratto, meno animale. Come il ritmo di un coniglio che si gratta il mento. I ritmi della visione sono nitidi come la picchiata di un falco e l'immersione di un cigno. Ritmi di movimenti lenti nello spazio. Ritmi di scavo come di pale e badili e zappe e rastrelli e spazzaneve. I ritmi di un martello pneumatico fanno sembrare Ginger Baker e Keith Moon due povere teste di legno. Ritmi di una lattina d'olio, ritmi di una chiave dentata. Carte da gioco tra i raggi della bicicletta. Una fila di cartucce, ritmi da petardo. Ritmi dell'elica. Ritmi dei grilli. Artigli di cane che ticchettano sui pavimenti di legno. Sveglie. Ritmi di pistoni. Rubinetti che gocciolano. Latta contro latta nel vento. L'acqua che schiaffeggia le rocce. La carne che schiaffeggia la carne. I ritmi della boxe. I ritmi delle corse. Ruscelli turbinosi. Il ronzio statico della radio in una macchina quando è il motore che comanda. Le frecce dell'automobile. Le luci al neon lampeggianti. Freccette gialle che lampeggiano. Le pompe d'acqua. Il ronzio del frigorifero. I sistemi di riscaldamento controllati dal termostato. Gli ascensori che tintinnano mentre i numeri si accendono a ciascun piano. I serpenti che strisciano nell'erba. In realtà qualsiasi animale nell'erba. Di notte. Le luci delle boe. I segnali delle navi. I segnali aerei. I campanelli d'allarme. I ritmi del clacson di una macchina bloccato. I ritmi del mangiare. I ritmi del masticare. Il ruminare di una mucca. Il rimastichio di un cavallo. L'affilatura dei coltelli. Le seghe a nastro. Il seghetto meccanico. Le seghe circolari. Le seghe elettriche. Qualsiasi ritmo di sega. Martello e chiodi. Il denaro sonante nel gioco del poker. Il mescolare le carte. I tassametri. I ritmi dell'acqua che bolle. Lo scatto delle penne a sfera. Lo schiocco dei fermagli di metallo. I ritmi della ruota della roulette che gira. I ritmi dei pneumatici. Tagliuzzare. Cucire. Battere a macchina. Il tintinnio dei ferri da calza. I pappagalli che aguzzano il becco sul legno. Il razzolare dei polli. Cani che scavano i buchi delle talpe. Gli uccelli che si puliscono le penne. Alzare il cane dei fucili. Far scorrere il tamburo delle pistole. Bulloni. Leve. Schiocco di unghie. Far schioccare le dita. Far schioccare le ossa. Scorreggiare. Sputare. Cacare. I ritmi della scopata. Sbattere gli occhi. Soffiarsi il naso. Tossire senza controllo. I ritmi del tremolio di una candela. Di case che scricchiolano. Del disgelo del ghiaccio. E tu saresti un batterista?"
- Sam Shepard - da "La Luna del Falco" -
lunedì 14 febbraio 2011
Il 18 Brumaio di Hosni Mubarak
Le giornate di febbraio miravano in origine a una riforma elettorale, per cui la cerchia dei privilegiati politici in seno alla classe abbiente stessa doveva essere allargata, e il dominio esclusivo dell’aristocrazia finanziaria doveva essere rovesciato. Ma quando il conflitto scoppiò per davvero, quando il popolo salì sulle barricate, quando la Guardia nazionale rimase passiva, l’esercito non oppose nessuna resistenza seria e la monarchia prese la fuga, allora la repubblica sembrò imporsi da sé; ogni partito la interpretò a modo suo. Poiché essa era stata conquistata dal proletariato con le armi in pugno, questi le impresse il suo suggello e la proclamò repubblica sociale. Così venne additato il contenuto generale della rivoluzione moderna, contrastante nel modo più singolare con tutto ciò che, dato il grado di educazione raggiunto dalla massa, date le circostanze e le condizioni del tempo, poteva essere messo in opera lì per lì col materiale esistente. D’altro lato, le pretese di tutti gli altri elementi che avevano cooperato alla rivoluzione di febbraio trovarono un riconoscimento nella parte leonina ch’essi ricevettero nel governo. In nessun periodo troviamo quindi una miscela più eterogenea di frasi alate e di indecisione e goffaggine reali, delle più entusiastiche aspirazioni di rinnovamento e del dominio più solido del vecchio trantran, della più apparente armonia di tutta la società e dell’antagonismo più profondo fra i suoi elementi. Mentre il proletariato di Parigi si inebriava ancora nella visione della grande prospettiva che gli si apriva dinanzi e si abbandonava a gravi discussioni sui problemi sociali, le vecchie potenze della società si erano raggruppate, riunite e messe d’accordo, e trovarono un appoggio inatteso nella massa della nazione, nei contadini e nei piccoli borghesi, i quali, cadute le barriere della monarchia di luglio, si precipitavano tutti ad un tempo sulla scena politica.
- Karl Marx - da "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte" -
venerdì 11 febbraio 2011
metropolis
La metropoli è ovunque in quanto non c'è più città. In questo spazio indeterminato della folla, alcuni superuomini vivono senza morale, ed esercitano il loro potere sotto gli occhi di tutti. Sono fragili, ma come il monarca barocco, sono protetti dal fatto che a nessuno sia ancora venuta l'idea della loro decapitazione.
Stanno, pertanto, acquartierati nell'indifferenza delle loro vittime. Questo è il sistema chiamato "campo di concentramento", progettato da Hitler e da Stalin nella sua fase primitiva, e portato a perfezione da parte delle democrazie tecno-nichiliste. La visibilità assoluta della metropoli (essa è ovunque perché non c'è più la città), dove nulla sfugge all'occhio elettronico e al suo display immediato per le masse, crea un campo di oscurità all'esterno della metropoli.
Il mondo esterno viene dipinto, simbolicamente, di altri colori e di altre religioni: è un mondo nero, indù, cinese o islamico, è il mondo delle tenebre e dell'opacità. Non costituisce una minaccia in quanto i suoi abitanti vogliono soltanto entrare nella zona visibile in modo che possano relazionarsi con gli uni e con gli altri, al fine di distruggersi reciprocamente.
- Felix de Azua -
giovedì 10 febbraio 2011
E’ così che sanno che sono vivo
L'uomo di pietra: sono di pietra. "L'Uomo di Pietra Vivente" è così che mi chiamano. Anzi mi chiamavano. Al Pacific Ocean Park. Mi hanno portato qui dalla Malesia. E' così che mi hanno trovato. Sdraiato là dritto e stecchito. Rigido come un'asse. "La Rigidità Vivente". Subito dopo la macchina dello zucchero filato che avvolge della roba rosa intorno a un disco di alluminio. E' lì che avreste potuto comprare un biglietto. Mi hanno messo in una roulotte. Dello stesso tipo di quelle che espongono con stufetta a butano con doppio bruciatore e letti smontabili. Questa espone la mia fotografia. Istantanee in bianco e nero che mi mostrano in diverse posizioni di rigidità. In una sono sdraiato dritto e orizzontale su una seggiola. Come se fossi in levitazione salvo che c'è una seggiola. E in realtà talvolta mi mettono in mostra così. Solo i miei occhi si muovono. E' così che sanno che sono vivo. Mi danno da mangiare con un tubo. Latte, minestra, rossi d'uovo, roba del genere. All'entrata della roulotte distribuiscono degli spilli semmai qualcuno non credesse che sono davvero "L'Uomo Pietrificato". Talvolta mi pungono ma il più delle volte hanno troppa paura. Vedono i miei occhi che si muovono, che li guardano. Hanno troppa paura. I miei occhi un giorno smisero di muoversi ma loro continuarono a tenermi in mostra lo stesso. Continuarono a pungermi con degli spilli. Anzi adesso che i miei occhi avevano smesso di muoversi c'era più gente che mi pungeva con gli spilli. Io gli spilli potevo ancora sentirli anche se i miei occhi si erano fermati.
- Sam Shepard - da "La luna del falco" -
mercoledì 9 febbraio 2011
vivo come una statua
A Parigi, era il 4 giugno del 1899, quando venne inaugurata la statua di Charles Fourier sul Boulevard de Clichy. Opera dello scultore anarchico Emile Derré, il monumento era frutto di una sottoscrizione avviata tre anni prima dai membri della Scuola Societaria e dall'Unione Falansteriana, che aveva beneficiato, fra l'altro, dell'apporto delle cooperative di produzione e consumo, nonché di alcune femministe. La statua poi, come molte altre della capitale francese durante l'occupazione nazista, venne abbattuta e fusa. Rimase solo la base. Fino al 10 marzo del 1969, quando una replica, in gesso bronzato, non del tutto identica alla statua precedente, venne posta sul basamento da un gruppo di persone che apponeva anche una targa: "A Charles Fourier, i rivoltosi di rue Gay-Lussac". La seconda statua viene rimossa, due giorni dopo, dalla polizia. Ultimamente, è apparsa una sorta di parallelepipedo di vetro, dotato di una scala, opera di un gruppo di artisti, il Gruppo Airborne. Evidentemente, il "sognatore sublime" continua a far sognare.
martedì 8 febbraio 2011
L’uomo che aspettò Godot
Amava ridere, Samuel Beckett. Rideva e costruiva buffi giochi di parole, quasi per sorprendersi, più che per sorprendere. Aveva copiato il suo aspetto e la sua pazienza da quelli di uno spaventapasseri, quasi. E, con pazienza, i suoi primi diritti d'autore li aveva ricevuti ad un'età assai vicina ai cinquanta. Probabilmente l'avrebbe data vinta all'inedia, se non fosse stato per Suzanne, la sua minuta complice, e per le sue lezioni di piano. Durante la guerra, s'era fatto sistemare una tenda, nella mansarda, dove si era ritirato vivendo come un personaggio ... beckettiano. Aveva un solo polmone. Un giorno, nella stazione del metrò, un barbone mezzo ubriaco lo aveva accoltellato. Qualche tempo dopo, Beckett era andato dal suo aggressore, in galera, a chiedergli la ragione di quel gesto. "Io so?" - aveva risposto, beckettianamente, il clochard!
lunedì 7 febbraio 2011
sublime, il cinema
C'è una sequenza, nel film "La vida sublime" di Daniel Villamediana, in cui ha luogo una conversazione a proposito delle "pellicole immaginate". Film che avrebbero meritato di essere girati, e che per qualche motivo non lo sono mai stati. E forse, in fondo, anche lo stesso "La vida sublime" è un film che avrebbe meritato di essere girato, nel suo muoversi al confine fra documentario e finzione, fra verità e fantasia. Racconta un viaggio e, allo stesso tempo, ne propone quasi un "remake"! Victor Vàzquez si muove verso il sud della Spagna, nel tentativo di ripercorrere il viaggio che suo nonno, "El Cuco" torero anarchico di Valladolid, misteriosamente intraprese a guerra civile spagnola finita, nel 1939. Il nipote, come posseduto dal fantasma del nonno, si mette sulle tracce del mito. Fra verità e fantasia, per l'appunto. Non è a caso che il titolo appaia a due terzi del lungometraggio, nel momento in cui Vàzquez decide di ripetere i gesti - veri o presunti del nonno. Scrivere appassionate lettere d'amore su tovaglioli di carta, seduto ad un bar. Toreare in una piccola arena con una bestia un po' malconcia. Abbuffarsi, per scommessa, di novanta sardine. In mezzo e intorno, il paesaggio, ad inframmezzare e a riverberare del passato, il presente. Ci si perde, nel paesaggio, come ci si perde in chiacchiere. Amabilmente. La follia fertile della campagna di Siviglia e il dissidio fra comunisti e anarchici, il colore della terra di Spagna e la frontiera americana. Luminosamente.
venerdì 4 febbraio 2011
persistenza
Lo scarto. Credo che lo scarto sia dato, e provenga, dalla morte, altrui. La morte è sempre altrui. Evento impossibile che sfugge il pensiero stesso. Impossibile proprio in quanto può essere sempre e solo altrui, la morte; e per questo estranea. Un breve lungo momento, quello in cui riusciamo a prenderla su di noi, quando ci viene consegnata da chi si assenta, morendo. La prendiamo in consegna, questa morte, e, nel farlo, ci mettiamo fuori di noi stessi. Per continuare a vivere.
giovedì 3 febbraio 2011
cercando un altro egitto
E' un documento dell'epoca, un papiro che risale a 1.155 anni prima di Cristo (qualcosa come tremiladuecentoanni fa), a raccontare quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato come il primo sciopero operaio della storia. Siamo a Deir el Medina, ai tempi di Ramses III. Per l'esattezza, è' il ventunesimo giorno del secondo mese del ventinovesimo anno del regno di Ramses III. Il faraone è impegnato nel combattere tutta una serie di guerre, da una parte, e in una vasta campagna di costruzione di grandi opere, dall'altra (in fondo non è cambiato mai molto). Sono passati diciotto giorni, dall'ultima volta che gli operai, impegnati nella costruzione della gigantesca tomba, hanno ricevuto le loro razioni. Così, decidono di fermarsi e smettono di lavorare. Sono tutti artigiani, per eredità di classe, da generazioni e generazioni. Lo scenario della lotta è quella Valle dei Re che al giorno d'oggi attrae turisti da tutte le parti del mondo. Il papiro che racconta tutta la "vertenza", vergato dallo scriba Amennakhte di Deir el Medina, ci informa nel dettaglio sulla lotta dei lavoratori e sulla corruzione che inficiava l'amministrazione di quei tempi. Il cosiddetto "Turin Strike Papyrus" può essere letto nella sua interezza a http://nefertiti.iwebland.com/texts/turin_strike_papyrus.htm .
Intanto il mondo continua a girare.
mercoledì 2 febbraio 2011
Forse
Arthur Cravan, pugile e poeta. E forse qualcosa di più. E ciascuno racconta la sua, di Arthur Cravan! Se la prende larga, quando scoppia la guerra, quella che viene chiamata "grande". Lui, che non sa bene se essere inglese, svizzero o francese, sa bene invece che quando la viltà si impone s'ha da essere codardi. Ragion per cui se ne va un po' a spasso per il mondo, e per il mondo viene visto e riconosciuto: su un transatlantico, a conversare di politica con Leone Trotsky, ma anche barbone a Central Park, dopo essere stato conferenziere scandaloso a New York, ma forse era prima che passasse la frontiera canadese, travestito da donna, autostoppista. Girovagando – sempre prima o dopo - finisce in Spagna, e a Barcellona sembra aver fama di grande pugile, inglese. E qui organizza il match del secolo. Jack Johnson passava di lì, aveva dovuto assentarsi dagli Stati Uniti, per un problema di colore, pare. Jack Johnson: bisognerà aspettare Cassius Clay (o Mohammed Alì che dir si voglia) per farlo smettere di essere il più grande pugile di tutti i tempi! Sei riprese di tre minuti ciascuna, e un borsa enorme, da dividersi, il vincitore e il perdente. Finisce al tappeto al sesto, ma c'è anche chi dice che, i due contendenti, dovessero abbandonare il ring di gran fretta. La gran folla che si era radunata per l'incontro del secolo non aveva gradito troppo il fatto che Cravan si buttasse ai piedi di Johnson, implorandolo di non picchiarlo. Sparisce, dopo, o forse prima. In Messico, sembra. Aveva messo in acqua una barchetta a remi, con cui intendeva recarsi a Buenos Aires, per ricongiungersi al suo amore perduto. Forse non ci arrivò mai. Forse.
martedì 1 febbraio 2011
Se gira la palla
"Se gira la palla, le bocce ed i cappellucci devono andare per aria", parole fatali - pronunciate da tale Carmelo Giordano nel gennaio del 1850, mentre usciva da una taverna. Parole che il commissario Caciolla - trovandosi per caso a passare - sentì e interpretò: "Riflettendo che quelle parole - se gira la palla - possono alludere a cambiamento di politica, e quell'altre - le bocce ed i cappellucci per aria - sembrano riferirsi alle teste degli uomini attaccati al Governo, ho creduto mio dovere fare arrestare...".
A Bronte, la palla avrebbe girato, dieci anni e mezzo più tardi. La storia di quel "giramento di palla" sarà, fra le altre cose, oggetto di un film di Florestano Vancini, alla cui sceneggiatura, ispirata in qualche modo ad un racconto di Verga, parteciperà anche Leonardo Sciascia.
Bronte: Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.
Quel giorno d'estate del 1860 ( e Sciascia fa notare come l'estate sia una dimensione psicologico-climatica di tutti i fatti rivoluzionari siciliani e spagnoli) cominciava l'Italia, questa Italia. Fino a
quando la palla non tornerà a girare.