mercoledì 5 agosto 2015

C'era una volta la sinistra

korsika

"Critica e Dogmatismo"
- Intervista di Anej Korsika a Moishe Postone - inizio del 2011 -

Korsika: Professor Postone, nella sua innovativa monografia, "Time, Labor and Social Domination", ci fornisce una rilettura approfondita della critica dell'economia politica di Marx. A partire da una riflessione dell'evoluzione del suo pensiero, sulla base degli eventi e delle tradizioni teoriche dell'Università di Chicago, prima, e dell'Università di Francoforte, dopo, quali sono le motivazioni che l'hanno spinta verso questo progetto fondamentale?

Postone: Quand'ero uno studente presso l'Università di Chicago, mi sentivo teoricamente intrappolato fra due interessi ed intenzioni. Sebbene considerassi me stesso una persona decisamente di sinistra. me sembrava che il marxismo avesse troppo in comune sia con il positivismo che con una nozione ottocentesca di progresso. Allo stesso tempo, ero assai più colpito dalle critiche conservatrici rispetto alla modernità. Ritenevo che queste cogliessero i problemi della modernità più pienamente di quanto facesse il marxismo. Ciò in parte avveniva perché a quel tempo. a Chicago, c'erano molti studenti emigrati, fuggiti dalla Germania nazista, che portavano con sé tutta una serie di discorsi intellettuali, di diversa provenienza, critici delle varie forme di positivismo, che trovavo essere molto potenti.
Il mio atteggiamento nei confronti di Marx cominciò a cambiare quando mi si resero noti i Manoscritti Filosofico-Economici, i quali ebbero un forte impatto negli Stati Uniti, a metà degli anni 1960. A quel punto, mi resi conto che c'era stato un giovane, ed assai interessante Marx, ed un Marx più vecchio, che purtroppo era diventato un vittoriano, avendo passato troppe ore al British Museum.
Un ulteriore cambiamento, per me, è collegato ad un grande sit-in all'Università di Chicago, nel 1969. Dopo il sit-in, gli studenti che avevano partecipato si divisero in un certo numero di gruppi di lettura. I due gruppi principali di cui mi ricordo, erano "Youth as a Class" [Gioventù come classe] (di cui sicuramente non ho fatto parte) ed un altro su Hegel e Marx. E? stato lì che per la prima volta ho scoperto "Storia e Coscienza di Classe" di Lukács, che era del tutto sconosciuto qui. Fino al 1971 non è stato completamente tradotto in inglese . Anche se rispetto ad allora sono diventato molto più critico rispetto a Lukács, leggerlo fu una vera e propria rivelazione. La sua intuizione per cui che le categorie marxiane non sono categorie di una base economica che semplicemente si riflettono nella coscienza, ma forme reali dell'essere sociale che sono allo stesso tempo sociali e culturali, oggettive e soggettive, mi apparve come enormemente potente e soddisfacente. Permetteva di rapportarsi al pensiero in una maniera che era adeguata al pensiero e allo stesso tempo permetteva tuttavia di contestualizzarlo in una maniera non-funzionalista e non-strumentale. Lo trovai straordinariamente illuminante.
Più o meno nello stesso periodo, lessi un articolo di Martin Nicolaus, "Il Marx sconosciuto", un'introduzione ai Grundrisse che Nicolaus stesso stava traducendo. Lo trovai assolutamente affascinante! Mi sembrava che lo schema che continuava a passarmi per la mente, in cui distinguevo un un giovane Marx filosofico ed un vecchio Marx scienziato, fosse esploso a partire dai Grundrisse. Per cui, decisi di scrivere una tesi su questo. Uno dei miei relatori, Gerhard Meyer, un emigrato tedesco ed economista politico che aveva familiarità con la Scuola di Francoforte, mi suggerì di passare un po' di tempo in Germania. La mia non era una ricerca d'archivio, nondimeno egli sosteneva che avrei tratto un grande vantaggio dal livello di discussione presente in Germania, che era molto più avanzato rispetto agli Stati Uniti. Così me ne andai a Francoforte.

Korsika: Uno dei cardini della sua reinterpretazione consiste del concetto di marxismo tradizionale. Quali sono le principali caratteristiche di questa linea di pensiero?

Postone: Vorrei cominciare a rispondere a questa domanda, descrivendo cosa intendo per marxismo tradizionale. Non mi riferisco ad una tendenza specificamente identificabile dentro il pensiero marxista, tipo il marxismo della II Internazionale o il bolscevismo. Quello che intendo è una comprensione di Marx secondo la quale il lavoro non solo è sfruttato dal capitalismo, ma costituisce anche il punto di vista a partire dal quale la società (capitalismo) viene criticata. Il capitalismo viene essenzialmente in teso in termini di mercato e di proprietà privata; per cui il suo superamento viene visto nei termini del superamento dello sfruttamento del lavoro e della realizzazione del lavoro. Mi sembra che sia questo il nucleo del marxismo tradizionale. Questa descrizione racchiude una gamma molto ampia di teorie che differiscono le une dalle altre in maniera significativa. Tuttavia, creando questa categoria, ho cercato di specificare in maniera più precisa quello che stavo provando a fare con Marx, e come questo differisse rispetto a quella vasta gamma di teorie, ivi inclusa la Scuola di Francoforte.

Korsika: Anziché cercare di individuare cosa sia andato storto nel socialismo attualmente esistente e cosa avrebbe potuto esser fatto meglio, lei sostiene che questi sistemi non sono mai stati fuori dalla formazione sociale capitalista, ma hanno piuttosto rappresentato uno specifico momento storico dello sviluppo del capitalismo. Possiamo quindi parlare della socialdemocrazia in Occidente e dei regimi socialisti dell'Est come di due differenti espressioni della stessa storica formazione sociale?

Postone: Sì, e penso che più ce ne allontaniamo, più ci sembrano simili. Non intendo questo in senso politico, per cui uno varrebbe l'altro. Ci sono delle differenze significative - in particolare per quanto riguarda l'esperienza delle persone, non sto cercando di negarlo. Tuttavia, se si procede ad un più alto livello di astrazione, mi sembra che le economie della socialdemocrazia e del comando comunista sono realmente parte della stessa epoca storica del capitalismo. Esse si sono sviluppate più  meno allo stesso tempo, hanno raggiunto il loro culmine più o meno nello stesso tempo e sono entrate in crisi e sono decadute fra la fine degli anni sessanta ed i primi anni settanta. Anche se molti credono che la crisi dell'Unione Sovietica sia cominciata negli anni ottanta, io credo che la forma statale dell'economia si sia scontrata prima contro certi limiti che non poteva superare. Non mi sento ancora in grado di specificare quali siano stati questi limiti; la maggior parte degli studi esistenti sui limiti storici della configurazione post-bellica si focalizzano solamente sull'Occidente e sulla sua configurazione fordista/keynesiana. Io sono interessato ad una teoria che possa comprendere ed analizzare anche l'Unione Sovietica.
Retrospettivamente, una delle differenze fra il modello sovietico e la socialdemocrazia, è stata la proprietà nazionale radicale che comportava il socialismo reale. Questa era forse la sola strada, durante una certa epoca dello sviluppo del capitale, con cui una nazione periferica poteva essere in grado di sviluppare un capitale nazionale. Cioè, quello che è stato sviluppato era capitale nazionale, non socialismo. Forse il socialismo avrebbe potuto esser posto in essere se ci fosse stata una rivoluzione mondiale, ma mi sembra che il corollario del socialismo in un solo paese in realtà fosse nazionalismo in un paese. Questo ha anche influenzato profondamente la coscienza della sinistra la quale, almeno nella sua forma comunista ortodossa, è diventata una curiosa sorta di movimento nazionalista, relativo ad una nazione che stava altrove.

Korsika: La sua teoria sull'antisemitismo ed il nazionalsocialismo come un tipo di anticapitalismo peculiare e feticizzato, sviluppa una prospettiva radicalmente nuova sulla catastrofe dell'Olocausto. Cosa effettivamente si cercava di eliminare nei campi di sterminio e cosa possiamo fare rispetto alle forme contemporanee di antisemitismo?

Postone: Per quei lettori che non hanno familiarità con il mio lavoro - Io distinguo fra antisemitismo e le altre forme di razzismo. Sostengo che ci sia un profonda incomprensione riguardo l'antisemitismo (nella sua forma moderna). L'antisemitismo moderno non è affatto la teoria dell'inferiorità degli ebrei; è la teoria del potere degli ebrei. In quanto tale, ho dedotto che si tratta di una forma feticizzata di anticapitalismo. Cioè, la sensazione della perdita di controllo che le persone hanno per quel che riguarda le loro vite (che è reale), viene attribuito, non alle strutture astratte del capitale, che sono molto difficili da capire, ma alla cospirazione ebraica. Penso che questo aiuti a far luce sul programma nazista di sterminio. Anche se non fa alcuna differenza per le vittime, vorrei fare distinzione fra sterminio ed omicidio di massa. In Polonia, ad esempio, i nazisti uccisero migliaia e migliaia di persone, principalmente intellettuali ed altri leader sociali, come sacerdoti, intorno ai quali poteva coalizzarsi la coscienza nazionale polacca e la resistenza. Uccisero gli intellettuali ed i preti al fine di schiavizzare il resto della popolazione. Non volevano schiavizzare gli ebrei, volevano sterminarli. Su questo c'è un'incomprensione anche da parte di molti ebrei. Nel ghetto di Łódź, per esempio, molti ebrei lavoravano in fabbriche che erano importanti per la Wermacht. Essi erano sicuri che dal momento che svolgevano un lavoro importante per l'esercito tedesco, sarebbero stati risparmiati. Esprimevano una forma di razionalità - che tu non ammazzi la tua forza produttiva. Si sbagliavano.
Sto suggerendo che questo avviene in quanto, dentro il quadro d'insieme di questa visione del mondo, gli ebrei vengono visti come l'incarnazione del male, piuttosto che come inferiori. In quanto sono visti come una minaccia, devono essere eliminati. Nella mia comprensione, l'antisemitismo è quindi una forma populista reazionaria di anticapitalismo. Questo è, ed è stato, profondamente frainteso fa molta parte del pensiero della sinistra.

Korsika: Forse possiamo continuare a seguire questa linea di pensiero, soprattutto in riferimento al suo articolo "History and Helplessness", che lei ha scritto come riflessione sulla guerra in Iraq, in particolare per quel che concerne una certa paralisi in cui si è trovata la sinistra.

Postone: La faccenda è complicata ed un bel po' di persone si sono arrabbiata a causa di quell'articolo (sorride). Penso che le reazioni alla guerra in Iraq abbiano evidenziato una sorta di mancanza di orientamento di parte della sinistra. Quello che intendo è che, quanto meno, la sinistra avrebbe dovuto problematizzare la situazione come un dilemma: una potenza imperialista stava invadendo un paese controllato da una brutale dittatura fascista. Le reazioni di gran parte della sinistra indicavano che l'opposizione agli Stati Uniti era considerata un criterio sufficiente per essere di sinistra. E' come se nessuno avesse mai sentito parlare dell'era dello "antimperialismo" fascista negli anni 1930 e 1940. Giappone, Germania e i movimenti fascisti si opponevano dovunque agli Stati Uniti. Esisteva una forma fascista di "antimperialismo". Questo è stato rimosso dalla coscienza storica. Anch'io ero contro la guerra, ma non nei termini che hanno avuto diffusione. Ho trovato significativo che, per quanto ne sappia, nessuna delle gigantesche manifestazioni contro la guerra abbia mai identificato in Iraq una figura di opposizione, un uomo di sinistra, qualcuno che fosse critico sia degli americani che, soprattutto del regime di Ba'ath. Invece, tutto veniva presentato in termini di bianco e nero, strutturati da una forma reificata di anti-americanismo. Per me questa era l'indicazione della bancarotta dell'antimperialismo. Ciò che ho scritto in quell'articolo era che, per quanto ingenuo lo si possa oggi pensare, il movimento di massa contro la guerra in Vietnam era differente. Molti erano guidati dall'idea che in Vietnam si stesse costruendo qualcosa di progressivo, che gli americani cercavano di impedire. L'anti-americanismo era volto a supportare un ordine più progressivo, il socialismo.
Indipendentemente dal pensare che sia o no giustificato al momento, questo tema è stato del tutto abbandonato, specialmente riguardo al Medio Oriente. Trovo penoso che ci sia, a sinistra, chi lega la critica del regime di Mubarak all'anti-americanismo, riferendosi a Mubarak come ad un fantoccio americano. Gli americani, comunque sia, non hanno creato il regime. Mubarak lo  ha ereditato da Sadat che lo ha ereditato da Nasser. La sinistra ha teso ad escludere gli attualmente esistenti regimi nazionalisti arabi dalla propria competenza critica, cosa che credo abbia delle conseguenze negative per la sinistra stessa. Il fatto che - con la costernazione di molti progressisti in Medio Oriente - alcune persone di sinistra si sono allineate a forze reazionarie come Hezbollah ed Hamas, indica fino a che punto la sinistra abbia smarrito la sua bussola morale e politica.

Korsika: In opposizione agli autori del marxismo tradizionale i quali sostengono che sostanzialmente il lavoro abbia bisogno di essere liberato dal capitale, il suo approccio sottolinea come il lavoro stesso sia il problema centrale, dal momento che è una categoria specificamente storica.

Postone: Mi lasci entrare dalla porta di servizio. Una delle cose che ho trovato molto illuminante a proposito dei Grundrisse, per tornare all'inizio dell'intervista, è stato il fatto che Marx non era interessato semplicemente alla fine dello sfruttamento del lavoro proletario ma piuttosto all'abolizione di tale lavoro. La maggior parte delle interpretazioni del plusvalore non colgono questo punto. L'idea che Marx fosse interessato all'auto-abolizione del proletariato e non alla sua realizzazione, mi ha portato a ripensare fondamentalmente Marx. Più a fondo esploravo la sua opera, più realizzavo che lui non trattava la categoria del lavoro come se fosse un'attività che mediava l'interazione umana con la natura (il modo in cui la intende Habermas). Piuttosto, per Marx, il lavoro nel capitalismo è unico, in quanto costituisce una forma assai peculiare di mediazione sociale, una forma che è astratta, intangibile, universale e fuori dal controllo delle persone che la creano. Quindi, in un certo senso, l'analisi del lavoro fatta da Marx nella sua opera matura rappresenta un'elaborazione dell'idea di alienazione, presente nei suoi primi lavori. Penso che questo abbia delle implicazioni enormi, in quanto significa che il concetto che Marx ha della prassi sia fondamentalmente diverso dall'attuale modo comune di intendere la prassi in termini di immediatezza. Questo modo di intendere tende a riassumere l'antinomia della struttura rispetto all'azione. Per Marx, invece, la prassi porta a forme storicamente uniche di mediazione sociale che generano ciò che frequentemente vengono considerate strutture. Questa complessa configurazione va oltre l'opposizione fra strutturalismo e post-strutturalismo.
Inoltre, getta una nuova luce sulla problematica della storia. Il capitale, per Marx, è quello che lui chiama valore auto-valorizzante, è una categoria dinamica. Questo potrebbe suggerire che la teoria del capitale è una teoria dell'esistenza della logica storica. Dal punto di vista dell'analisi di Marx, il concetto di Hegel dello svolgimento della storia umana è una proiezione fatta sull'umanità di ciò che è attualmente valido per il capitalismo. Nietzsche ed i pensatori che lo hanno seguito, si focalizzano sulla contingenza della storia. Lo fanno, perché sono consapevoli del fatto  che l'idea di logica, per la storia, significa realmente una forma di eteronomia. Per salvare la possibilità di azione, negano, tuttavia, quel genere di vincoli reali nei confronti dell'azione che la logica del capitale attualmente rappresenta. Li dichiarano non-esistenti. Come risultato, il funzionamento del capitale viene oscurato. In nome di dare potenza alle persone, allora, si toglie loro potenza in quanto viene offuscata la logica del capitale. Quello che fa Marx, con il suo concetto di capitale, è rendere la storia, nel senso del dispiegarsi di una logica storica, storicamente specifica. In quanto essa è storicamente specifica, ha un inizio e può avere una fine. In questo è differente da Hegel. Il concetto di contraddizione, in Marx, guida questa dinamica, ma punta anche oltre essa. Naturalmente, cerco di riformulare questa contraddizione: essa non è fra capitale e lavoro (essendo il lavoro, nell'analisi di Marx, una forma di capitale), bensì fra il potenziale che il capitale genera e l'incapacità del capitale a far sì che tale potenzialità si realizzi. La contraddizione è temporale.

Korsika: Qual è la sua comprensione della nozione di proletariato che Lukacs identificava con il soggetto-oggetto della storia? Dal momento che oggi sembra che questa nozione venga vista come anacronistica, mentre prendono il suo posto vari altri concetti, come il lavoro cognitivo. Inoltre, come fare a comprendere la lotta di classe senza cadere in regressioni storiche?

Postone: Penso che la lotta di classe sia una dimensione intrinseca al capitale. Si tratta di una lotta in corso che è costruita sulle strutture del capitale. Per un po', le persone hanno pensato che, con il successo delle forme socialdemocratiche posteriori alla seconda guerra mondiale, la lotta di classe fosse una cosa del passato. Non è così. A partire dal disfacimento della sintesi fordista/keynesiana, il peso ora si trova dall'altra parte e la classe operaia ne viene schiacciata. Tuttavia, c'è una differenza fra dire che la lotta di classe è parte integrante del capitalismo e dire che essa punta al di là del capitalismo, nel senso che l'abolizione del capitale sarà la vittoria del proletariato. Penso che sia una grossa quota di difficoltà nel concettualizzare la necessità di supportare la lotta di classe, da una parte, mentre si realizza che un movimento anti-capitalista deve andare oltre la classe operaia. Il movimento della classe operaia è stato enormemente importante sotto diversi aspetti, il più evidente è quello che ha aiutato ad umanizzare il capitalismo mentre sviluppava forme di politica di massa e di pratica sociale. Che le persone abbiano o meno quel genere di rete di sicurezza sviluppata dalla socialdemocrazia fa la differenza rispetto a come la gente vive. Nondimeno, tuttavia, sebbene i movimenti della classe operaia abbiano grandemente umanizzato il capitale, essi sono stati anche parte del motore di sviluppo del capitale stesso. Nell'analisi di Marx della lotta per la giornata lavorativa di 10 ore, ad esempio, la vittoria della classe operaia porta a quello che egli chiamava plusvalore relativo, che è una forma più dinamica di capitale. C'è quindi una complessa relazione dinamica fra capitale e movimenti del lavoro; è un errore guardare a questo soltanto statisticamente e poi semplicemente dichiarare che i lavoratori hanno finito soltanto per rafforzare il capitale. In una simile prospettiva, capitale e lavoratori vengono come portati fuori dallo spazio e dal tempo.
Tuttavia, penso che ci troviamo di fronte ad una crisi che è fuori dal campo di visione delle persone che mi criticano per essermi lasciato dietro di me la classe operaia. Il capitale stesso sta riducendo le dimensioni della classe operaia ed abbiamo un surplus di popolazione sempre più crescente. I marxisti più ortodossi, solgono assumere che la classe operaia potrà solo continuare a crescere. Ancora oggi ci sono persone che stanno dicendo questo, e che anche se oggi negli Stati Uniti le dimensioni della classe operaia si assottigliano, stanno crescendo in Cina. Tuttavia, la mia interpretazione è che in Cina, negli ultimi 10 anni, i numeri della classe operaia sono rimasti statici. Se è così, non è corretto assumere che il declino del proletariato industriale in Occidente si accompagna ad una corrispondente crescita della classe operaia negli ex-paesi del Terzo Mondo, come la Cina. Quello che sta accadendo, non può essere pienamente compreso come un'esportazione di posti di lavoro. Il fattore principale è l'uso capitalistico della tecnologia ed i processi di razionalizzazione, che stanno annullando molti posti di lavoro. Penso che ci sia una corsa per il tempo e non credo che qualcuno abbia elaborato una visione politica che porti oltre il sistema basato sul lavoro proletario.

Korsika: Concludiamo con alcune domande circa la presente situazione politica. Per prima cosa, qual è il suo punto di vista sulla Cina come potenza globale emergente, soprattutto nel senso di quegli autori che sostengono che abbiamo a che fare con un nuovo tipo di capitalismo?

Postone: E' una forma molto interessante in quanto si è aperta al capitale globale. E' stata questa la differenza fra Deng Xiaoping e Gorbaciov. Gorbaciov voleva una riforma politica ma l'Unione Sovietica stava collassando economicamente. Deng, diversamente, aveva sviluppato delle riforme economiche che avevano attirato sulla Cina gigantesche quantità di capitale, mentre ne manteneva il controllo politico. Si tratta di una curiosa forma mista. La mia lettura è che più del 50% delle imprese cinese sono proprietà di capitale straniero, qualcosa che sarebbe stato del tutto impensabile solo una o due generazioni fa. Non credo che il Partito cinese consideri più questo come una minaccia. Lo sarebbe stato prima, all'inizio, perché avrebbe impedito lo sviluppo di capitale nazionale. Ora i cinesi non pensano che questo possa avvenire. Forse la formazione di una economia nazionale, da parte del partito, era un'importante precondizione per questo nuovo sviluppo, che io considero parte integrante dell'epoca neoliberista.

Ma la Cina è anche una potenza egemone in crescita, non credo che ci sia alcun dubbio su questo. E penso che questo sia diventato un fattore del pensiero strategico americano. Per esempio, direi che sta giocando un ruolo nella guerra americana in Iraq. L'esercito americano ritiene che fino a quando controlla il Golfo Persico, ostacola la trasformazione del suo maggior competitore economico (Cina) in competitore militare. Credo che la questione del controllo del Golfo abbia nel pensiero strategico americano un ruolo molto più importante rispetto a quello che scrivono personaggio come John Mearsheimer and Stephen Walt, i quali sembrano vedere ogni cosa, nel Medio Oriente, attraverso le lenti israelo-palestinesi. La politica americana nei confronti dell'Iraq dev'essere compresa nel contesto della rivoluzione islamica in Iran. Prima, gli americani potevano contare su due grandi potenze nel Golfo, l'Iran dello scià Reza Pahlavi e l'Arabia Saudita. Lo scià venne deposto e i sauditi cominciarono ad occupare una posizione ambigua, dato il loro supporto ai movimenti radicali islamisti. In questo contesto, ritengo che uno dei motivi dell'invasione dell'Iraq sia stato quello di creare uno Stato-cliente in Iraq. Hanno fatto così non tanto perché avessero bisogno di petrolio direttamente, ma perché volevano essere in grado di controllare il flusso di petrolio. Allo stesso tempo, i cinesi - a quanto ho capito - stanno costruendo una grande base navale in Pakistan, molto vicino all'imboccatura del Golfo Persico. Quindi, questo tipo di pensiero geo-strategico su grande scala sta guidando sia i cinesi che gli americani. (Al fine di aggirare gli americani, i cinesi stanno costruendo anche degli oleodotti attraverso tutta l'Asia).

Ciò che trovo molto triste, è che c'era una volta la Sinistra che cercava di comprendere i movimenti globali di potere.

Korsika: Dal 2008 in poi, il capitalismo sta affrontando la sua più grande crisi storica. Invece di portare alla riaffermazione delle sue argomentazioni storiche, sembra che la crisi abbia portato alla luce tutta la povertà e la regressione che la Sinistra ha accumulato in questi decenni. Sotto quest'aspetto, come interpreta le rivolte nei paesi arabi? Sembra che questi eventi siano stati ferocemente adottati dalla Sinistra e siano serviti a svolgere un ruolo di cortina fumogena per nascondere il vuoto della Sinistra.

Postone: Coltivo un punto di vista diverso circa le rivoluzioni arabe e le rivolte. Penso che indichino fino a che punto la sinistra occidentale abbia fatto bancarotta nella sua comprensione del Medio Oriente. Una cosa è essere critici dell'occupazione israeliane e della politica israeliana, e simpatizzare con il movimento palestinese per l'autodeterminazione, cosa che io faccio. Ma è tutta un'altra cosa avere investito nella linea nazionalista araba come la sola che muova le masse arabe, ed averlo reificato in qualcosa chiamato "Via araba". L'idea secondo cui tutti i problemi del Medio Oriente provengano dall'esterno, e che sono rappresentati soprattutto da Israele, è stata un'ideologia di legittimazione per il vari regimi autoritari. Questo ha portato all'indicazione per cui il solo problema per il Medio Oriente è Israele. E la sinistra occidentale ha investito completamente in questo e si è dimostrata disposta a trascurare (se mai ne è venuta a conoscenza) la soppressione dei movimenti progressisti nel mondo arabo da parte delle dittature anticoloniali. Non credo che le persone guardino davvero al nazionalismo arabo come ad una formazione. Per "nazionalismo arabo" non intendo l'dea del diritto ad una autodeterminazione nazionale. Mi riferisco al nazionalismo arabo "attualmente esistente". Mi riferisco ai regimi in Siria ed in Iraq, a Nasser/Sadat/Mubarak, alla Libia, alla Tunisia, all'Algeria, allo Yemen. Essi sono differenti gli uni dagli altri, ma penso che abbiano molto in comune. Sono del tutto autoritari e basati sulla polizia segreta. Ma dal momento che non sono regni, molti della sinistra li hanno considerati progressisti - i progressisti hanno sterminato i loro esponenti di sinistra.

Non voglio entrare in merito al ruolo negativo del blocco sovietico nel promuovere questo fraintendimento. Basta dire che quest'affermazione del nazionalismo arabo come progressista proviene dalla Guerra Fredda. Egitto e Siria erano diventanti Stati-clienti del Patto di Varsavia. Dopo la disfatta di questi accordi, nel 1967, l'Unione Sovietica spostò il proprio peso sui movimenti palestinesi. Il Medio Oriente venne interpretato secondo la logica della Guerra Fredda.Fra i molti effetti negativi di questo, uno è stato l'effetto sugli intellettuali. Prima c'erano intellettuali comunisti, come Dora Lessing, che erano nazionalisti dell'Unione Sovietica (successivamente, la Lessing si riferì a sé stessa, in questo contesto, come ad una "utile idiota"). Più recentemente, molti occidentali di sinistra sono diventati nazionalisti arabi. Una delle cose che trovo molto indicativa riguardo alla rivolte nel mondo arabo oggi, è che la questione centrale non è Israele/Palestina. Questo non significa che le persone siano indifferenti rispetto a questo, ma che, contrariamente a quanto abbiamo sentito per decenni sulla "Via Araba", questo non è un obiettivo primario delle rivolte. Quello che è centrale è la loro miseria, e questo non ha niente a che fare con gli americani. Questo ha a che fare con il neoliberismo, che ha reso intollerabile la repressione politica a causa della crescente differenziazione economica in corso in tutte queste società (sta accadendo anche in Israele). C'è un gap molto più grande fra ricco e povero. La sola cosa su cui sono un po' pessimista riguarda il fatto che non sono sicuro che questo possa essere risolto da una società democratica. E' questo che mi preoccupa.

Ma penso che le rivoluzioni arabe abbiano portato allo scoperto la sinistra antimperialista in Occidente. Credo che questo sottolinei il fatto che siamo testimoni di una grave crisi della sinistra. Il problema più serio non è semplicemente il fatto che la sinistra abbia fatto bancarotta, ma che essa abbia nascosto questa bancarotta a sé stessa, per mezzo del dogmatismo. Per decenni, è stato evidente che il classico socialismo della classe operaia non era la strada per il futuro. Per tutta una serie di ragioni, penso che sia stato molto difficile, per la sinistra, venir fuori con una diversa visione del mondo. Così, ad esempio, è diventato facile e comprensibile a molti, di fronte all'attuale crisi economica, ricadere semplicemente su una posizione anti-finanza. Ma le posizioni anti-finanza non sono rivolte contro le fonti della crisi, né indicano una soluzione alla crisi. Io non ho la soluzione, ma credo che la sinistra abbia rifiutato di vedere seriamente quanto sia stata problematica la sua situazione, a partire dalla fine degli anni sessanta. Una delle conseguenze è stata la tendenza, da parte di molti, a divenire dei dogmatici furiosamente antimperialisti. Questo ha reso la vita considerevolmente più facile - tutto ciò che ci serve è un solo criterio: se è contro gli Stati Uniti, noi ci siamo! Di conseguenza, gran parte della sinistra si ritrova a letto con un discreto numero di sgradevoli regimi autoritari. Il colonialismo era brutale ed orribile, ed in Libia, per esempio. gli italiani hanno ucciso un gran numero di persone, ma non penso che questo possa servire a giustificare Gheddafi. La sinistra deve uscire da questa prospettiva manichea, che è servita da ideologia di legittimazione Penso che in Algeria questo si sia reso chiaro. Sì, il colonialismo francese era estremamente brutale, ma il carattere brutale del FLN veniva semplicemente ignorato, anche durante gli anni 1990, quando più di duecentomila algerini sono stati uccisi nel corso della guerra civile.


fonte: ScriboMan

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