venerdì 31 maggio 2013

latinoamericana

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All'età di 22 anni, l'argentino Dardo Cúneo oscillava fra l'attività di studente ed il mestiere di giornalista, quando gli arrivò, fra capo e collo, un'esclusiva a risolvergli il problema: l'equipaggio del Sant Tomé si ammutinò in alto mare, i marinai si erano rifiutati di sbarcare alle Canarie - lo scalo previsto - dal momento che queste erano cadute in mano ai franchisti che si erano sollevati contro la repubblica spagnola. Dardo Cúneo pubblicò su "Critica" un articolo in cui raccontava la storia di quella nave che alla fine sarebbe approdata in Senegal: del resto, lui si trovava a bordo! Quella fu solo la prima delle sue cronache in cui si raccontava la guerra civile spagnola di Dardo Cúneo, un giornalista che apparteneva a quella razza che ha l'intuito per trovarsi dove deve essere e che sa quello che c'è da sapere.
Dardo Cúneo è uno dei 200 argentini che compaiono nella collana "Hispanoamérica y la guerra civil española", un ambizioso progetto che riporta alla luce l'impatto che ebbe la guerra civile spagnola, in America Latina. Diciannove volumi, il risultato di otto anni di ricerche, che provano come il conflitto spagnolo venne vissuto come proprio, nei diversi paesi del Sudamerica, dove ci furono mobilitazione e campagne a favore degli uni e degli altri. Riferite alla Spagna, vennero rispolverate espressioni come "madre patria", ritenute stantie, che divennero invece patrimonio dei progressisti latinoamericani. Mai nei paesi del Sudamerica si era scritto tanto della Spagna: poesie, opere teatrali, opuscoli, articoli, relazioni, saggi. Tutti a favore della causa repubblicana, e qualcuno, in proporzione assai minore, in favore di Franco. "¡Cuídate, España, de tu propia España!”, ammonì il peruviano César Vallejo nel suo "España, aparta de mí este cáliz" - il libro di poesie che scrisse nel 1937, un anno prima di morire, a Parigi.
Il Cile ferveva di attività per la Spagna, soprattutto grazie a María Zambrano, che ne era il vero e proprio motore. " Generales/ traidores:/mirad mi casa muerta, mirad España rota" - gridava Neruda. Nei turbolenti anni '30, il consolato del Cile, a Madrid, era diventato una vera e propria sorta di porta girevole, attraverso cui passavano futuri premi Nobel. Nel 1935, Neruda (Nobel nel 1971) andava a sostituire Gabriela Mistral (Nobel nel 1945), che veniva destinata a Lisbona, dopo che aveva espresso un giudizio assai poco diplomatico sugli spagnoli. Comunque, la Mistral si commosse talmente al cospetto del dramma dei bambini baschi evacuati nei paesi europei, che destinò loro il profitto del suo libro, "Tala".
"Nell'ampiezza fisica e nella generosità naturale del nostro continente, vi è abbondanza di spazio per poter riceverli tutti, evitando loro quei paesi dalle lingue impossibili, i climi aspri e le razze strane" - argomentava nel suo libro di poesie, dove ringraziava Victoria Ocampo, un'altra letterata latinoamericana, argentina, che nelle prime settimane della guerra si era unita ad un comitato francese di aiuto alla repubblica, firmandone il manifesto. Anche la causa fascista trovò una piccola eco, in America Latina, seppure il numero e la reputazione dei suoi sostenitori non fosse paragonabile a quella dei difensori della repubblica. L'ecuadoriana Hortensia Pagés organizzò un comitato d'aiuto. In Argentina, risuonò la voce del figlio di Leopoldo Lugones, poeta modernista e primo intellettuale fascista del paese; mentre il padre taceva, asserendo che gli argentini non dovessero opinare sopra le questioni straniere, il figlio Polo (che era stato capo della polizia durante la dittatura di José Félix Uriburu) scrisse al governo di Franco, nel febbraio del 1939, una lettera in cui rigettava l'accoglienza ai rifugiati repubblicani: del resto, era già passato alla storia, assai meno letterariamente del padre, per aver perfezionato la tortura a mezzo delle scariche elettriche e del "techo" (bagno con le feci).

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E nel mezzo, Borges, che scrisse un necrologio per Unamuno, colui che per primo salutò la ribellione militare e che poi la condannò. Nel necrologio, evitò però di rammentare le circostanze dei suoi ultimi mesi di vita, nel 1936. E quando gli domandarono se l'arte doveva porsi al servizio dei problemi sociali, rispose: “E' una notoria ed insipida verità, quella che l'arte non deve essere al servizio della politica. Parlare di arte sociale è come parlare di geometria vegetariana, o di artiglieria liberale, o di pasticceria endecasillaba".

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