martedì 24 maggio 2016

Le metafore del presente

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«All’origine della guerra – o del seguito di guerre – che insanguinò il mondo greco per quasi trent’anni, e che la Storia chiama guerra del Peloponneso, vi fu un turbinio davvero notevole di passioni, tanto più violente perché a lungo frenate: mille forme diverse di gelosia, d’invidia e d’odio, ma tra tutte e che tutte superava in virulenza, gli odi partigiani, in ciascuna città il partito preso – senza pietà – pro o contro la democrazia. Il duello tra Sparta e Atene aveva al più alto grado questo senso passionale, giacché Sparta era, nella sua rudezza, l’incarnazione perfetta dell’ideale oligarchico, Atene dell’ideale democratico, al quale il suo splendore accordava un fascino senza pari».

Jules Isaac (1877-1963), storico e autore di storie universali per le scuole, scrisse nel 1942 questo «inno alla divina libertà perduta» mentre viveva alla macchia, durante l’occupazione nazista della Francia. «Originalissimo esperimento di storia parziale» lo definisce Luciano Canfora, nell’Introduzione al volume in cui passa in rassegna la adozione, da parte di storici novecenteschi, dell’Atene classica «come viva metafora del presente». L’autore, ebreo francese, antifascista, racconta, seguendo Tucidide e Senofonte, la eversione oligarchica che gettò Atene nella guerra civile alla fine del V secolo a.C., e traccia un parallelo con il tradimento antipatriottico dei collaborazionisti di Vichy. Più che mai il presente come storia e la storia come presente.

(dal risvolto di copertina di Jules Isaac: "Gli Oligarchi. Saggio di storia parziale", pagg. 392 14 euro)

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Atene come metafora
- di Luciano Canfora -

1. Parliamo di un libro di storia, scritto “alla macchia”, durante l’occupazione tedesca della Francia, da un professore ebreo mentre le donne della sua famiglia venivano annientate ad Auschwitz. Parliamo di un libro che parla di Atene ma intende parlare della caduta della Francia, di un libro che apparentemente non fa che raccontare con passione di parte quello che soprattutto Tucidide e Senofonte ci hanno lasciato scritto intorno all’oligarchia ateniese al potere.
Prima diremo molto brevemente della forza di Tucidide come ispiratore – nel turbine novecentesco – di storici che hanno parlato del loro presente. È la “grande guerra” innanzi tutto che sospinge i grandi studiosi, e non solo loro, verso Tucidide. Per Wilamowitz, che perde l’unico figlio subito all’inizio della guerra, sul fronte russo, è dapprima l’Iliade, il libro di guerra per eccellenza, l’oggetto di una rinnovata riflessione; ma poi daccapo Tucidide. Curiosa combinazione: egli studia i capitoli complicati e in parte oscuri sulla tregua annuale intervenuta tra Sparta e Atene (423), proprio nell’anno in cui, rettore a Berlino, sarà incaricato di una missione segreta per una pace di compromesso, che fallirà. Eduard Schwartz, che perde entrambi i figli l’uno all’inizio, l’altro alla fine della guerra, scrive in quegli anni, e pubblica nel ’19 uno dei libri capitali su Tucidide (Das Geschichtswerk des Thukydides). E Hans Delbrück nella sua Weltgeschichte paragonerà alla spedizione ateniese contro Siracusa la scelta incauta di Tirpitz e dell’Alto comando di dare avvio alla guerra sottomarina per interrompere l’aiuto USA all’Inghilterra (causa perciò dell’intervento, alla fine risolutivo, degli USA in guerra): anche l’attacco a Siracusa aveva provocato l’entrata in guerra contro Atene di un’altra grande potenza e, in ultima analisi, il collasso ateniese.
E potremmo ricordare ancora il libro di pochi anni successivo (1922), La campagne avec Thucydide, di Albert Thibaudet, l’autore della République des professeurs (1927), ma anche di studi su Maurras (1920) e Barrès (1921), nonché assiduo collaboratore della «Nouvelle Revue Française» di André Gide e Jean Schlumberger.
È dunque del tutto comprensibile che la nuova guerra divampata nel ’39 – che non a torto parve a molti un riaccendersi della precedente – abbia riportato ancora verso Tucidide, teorizzatore al tempo suo dell’appartenenza ad un unico conflitto, ora aperto ora latente, dei conflitti che occuparono quasi per intero l’ultimo trentennio del V secolo a.C. Ma questa volta è il Tucidide studioso dell’intreccio tra guerra esterna e guerra civile che sembra focalizzare l’attenzione. E può essere usato in modi opposti. Jules Isaac (1877-1963), di cui diremo più oltre, lo rilegge per mettere in luce il criminale anti-patriottismo degli oligarchi (aprire le porte al nemico per abbattere finalmente il regime democratico). Georges Méautis (1890-1970) adopera le stesse pagine del libro VIII per attaccare – sulla stampa svizzera – la Resistenza francese (il «maquis») come «terrorismo pre-rivoluzionario» mirante ad annientare un’intera classe sociale (Le terrorisme prérévolutionnaire, «Le Journal de Genève», lunedì 3 gennaio 1944, p. 1). Scriveva sulla stampa di Ginevra ed era, allora, grecista a Neuchâtel, rettore nel 1939-41. Non s’era accorto che la Svizzera stava allontanandosi dalla sudditanza all’Asse.

2. Atene è una vitale metafora del presente.
Nel 1909 Pierre Lasserre (1867-1930), aderente all’Action française e docente di filosofia all’École des Hautes Études, pubblicò un pamphlet contro Alfred Croiset historien de la démocratie athénienne, corredato da una violenta prefazione di Charles Maurras (1868-1952). In stile Action française, il libro vuol essere un attacco ai “valori repubblicani”, ma la materia del contendere è, all’apparenza, Atene. Il clima circostante era quello, a cavallo tra Otto e Novecento, del degrado, e conseguente discredito, del parlamentarismo; della corruzione politica; del diffondersi della critica “elitistica”; del disprezzo verso la carente qualificazione politica delle masse: disprezzo il cui libro simbolo diverrà, ben oltre i confini della Francia, il fortunato pamphlet di Gustave Le Bon, La psycologie des foules (1895). È la rivincita della Francia che non aveva mai accettato la Rivoluzione, assurta intanto, dopo un secolo (1891), a disciplina sorboniana con l’istituzione di una cattedra di Storia della Rivoluzione francese. Contro François Aulard, primo titolare di tale cattedra, voluta dalla municipalità di Parigi sin dal 1885, si scatena il pamphlet di un altro simpatizzante “maurrassien” quale René Benjamin (1885-1948): La Farce de la Sorbonne (Fayard, Paris 1921), autore, tra l’altro, nel ’24 di Valentine ou la folie démocratique e di un Soliloque de Barrès.
Per Lasserre, allora “maurrassien”, l’Atene da apprezzare e amare è quella dei grandi Eupatridi, lontani e non di rado bersaglio della «canaille» tendente alla infatuazione demagogica e alla tirannide.
Nella sua prefazione in forma epistolare, Maurras commenta le pagine di Pierre Lasserre cavandone anche il succo politico. Il punto di partenza è che la scoperta e pubblicazione (1891) della Costituzione degli Ateniesi di Aristotele ha confermato le intuizioni di Fustel de Coulanges (Cité antique) e ha “sgominato” la visione filodemocratica, in particolare di Maurice Croiset, delle democrazie antiche. Aristotele confermerebbe con la sua autorità il giudizio sprezzante che Lasserre e Maurras condividono sulla deriva democratica moderna. L’«aristocratie athénienne» resse a lungo e «prit la succession de Codrus», cioè subentrò alla monarchia (forma politica ideale per Maurras). Perché dunque non è accaduto lo stesso a noi «à la chute des rois»? E invece è subentrata al potere, usurpandolo, una casta di «métèques, juifs, barbares et demi-barbares» come «i tre Reinach [Joseph, Salomon, Théodore], i Monod [“dinastia protestante”], i Croiset: “nos étrangers de l’intérieur”».

3. Atene è entrata in gioco anche nello scontro tra fascismo e antifascismo durante l’agonia della Terza Repubblica francese.
Consideriamo due libri apparsi a non molta distanza l’uno dall’altro: Athènes, une démocratie de sa naissance à sa mort (Fayard, Paris 1937) di Robert Cohen (1889-1939) per un verso, e per l’altro il libro che qui presentiamo: Les oligarques. Essai d’histoire partiale (Les Éditions de Minuit, Paris 1946) di Jules Isaac. Il primo, dovuto ad uno studioso che, con Gustave Glotz, ha redatto l’Histoire grecque (1925) dell’Histoire générale delle P.U.F., traccia un profilo della storia di Atene dall’epoca regia fino al dominio romano (la gran parte del racconto va da Pisistrato [metà VI secolo a.C.] a Demostene [322 a.C.]). Il secondo si concentra sugli anni 415-401 a.C., cioè sul quindicennio in cui l’attacco oligarchico alla democrazia ateniese si fece più forte, divenne operativo e due volte riuscì a prevalere anche a costo di gettare la città nella guerra civile. Isaac dichiara già nel titolo la sua “parzialità”, cioè la propria scelta di campo ma soprattutto la volontà di parlare del presente – la caduta della Francia nel giugno 1940 e la nascita dello «Stato nazionale» di Vichy – attraverso il racconto della sconfitta di Atene nel 404 a.C. e la conseguente nascita di una repubblica oligarchica nella città sconfitta dal nemico di sempre.
Cohen non lo dichiara nel titolo, ma compie una operazione analoga. Il suo obiettivo è di mostrare, attraverso la parabola di Atene, l’inevitabile fallimento di ogni regime “popolare”. La prefazione è datata «novembre 1936». Fu scritta cioè nel momento in cui già cominciava a scricchiolare il governo di Léon Blum, formatosi nel giugno 1936 dopo la vittoria elettorale del Fronte Popolare (3 maggio ’36). L’allusività del libro di Cohen viene prontamente esaltata dal «Gringoire» del 19 marzo 1937, periodico di area Action française.
Cohen militava allora nella Fédération Républicaine, partito di destra guidato da Louis Marin, ostile al Fronte e, a suo tempo, addirittura schierato contro la revisione del processo a Dreyfus. [*1] (Della militanza di Cohen nella Fédération parla, con paternalistico sussiego, Jérôme Carcopino in un documento pubblicato da Claude Singer nel 1992 e risalente agli anni in cui Carcopino si rendeva strumento della persecuzione antiebraica del regime di di Vichy).[*2] Il volume di Cohen su Atene esce all’inizio del ’37 e viene ristampato ancora nel ’38 (quando ormai l’esperienza del Fronte è andata in pezzi) e ancora – dopo la morte dell’autore – nel gennaio ’41, sempre presso Fayard, quando ormai la Francia è per metà occupata dai tedeschi e per metà governata da Pétain e Laval.
Scriveva dunque Cohen nel novembre ’36, fornendo in prefazione una chiave di lettura del suo libro su Atene: «Nei tempi tumultuosi che stiamo vivendo, ho ritenuto che non sarebbe stato privo d’interesse, per tutti coloro i quali pensano che le lezioni del passato illuminano talvolta, e sia pure di flebile luce, gli avvenimenti del presente, trovare, raccontata nella forma più semplice possibile, la storia della prima [la più antica] repubblica della storia. Così è nato questo libro, scritto in purezza di cuore (qui est de bonne foi). Mi si rimprovererà ch’io mescoli troppo spesso, parlando di Atene, biasimi ed elogi. Il fatto è che io ho voluto essere innanzi tutto sincero. Noi abbiamo difetti che rassomigliano ben singolarmente ai difetti degli antichi Greci. Esattamente come loro, noi ci appaghiamo di parole; volentieri scambiamo per fatti concreti ciò che è solo parola o agitazione; non ci dispiace nascondere il nulla di una decisione dietro una formula roboante» (pp. 9-10). Nonostante la promessa di «bonne foi», il linguaggio che Cohen adopera nel raccontare la storia ateniese è spiccatamente allusivo. Clistene viene definito «illustre représentant de la plus ancienne dynastie républicaine du monde» (p. 55). Il VII capitolo s’intitola: «Périclès et les origines du socialisme d’état». L’VIII si apre con un rimbrotto a George Grote e agli storici inglesi che non hanno mai smesso di «témoigner d’une sympathie parfois excessive pour Athènes».
La fase apertamente oligarchica della politica ateniese – il governo dei Quattrocento – viene presentata come il risultato della «sconfitta della democrazia» sotto le mura di Siracusa (p. 189: «Il est indéniable que, cette fois, c’était bien la démocratie, avec sa fringale de conquêtes, qui avait été battue à Syracuse»). E la storia della democrazia ateniese successiva alla «restaurazione democratica» del 403 viene definita (cap. XII) «La victoire de la démagogie». Che dunque Cohen sia stato – come è ormai noto – anche l’autore occulto («le nègre») del Demosthène di Clemenceau3– «le Tigre», tutt’altro che a suo agio nel regime parlamentare – non stupisce affatto (fermo restando il suo giacobinismo retroattivo di stampo nazionalistico).

4. La vita di Robert Cohen fu breve e segnata anche da una pesante menomazione dovuta a una grave ferita subita al fronte nel maggio del ’18. (Della “grande guerra” egli si fece anche storico con una brillante «brochure de divulgation»). Morì in tempo (8 gennaio ’39) per non vedere né «drôle de guerre» né capitolazione né persecuzione vichysta degli ebrei francesi.
La vita di Jules Isaac fu molto più lunga. Era nato dodici anni prima di Cohen e poté vedere tanta parte del dopoguerra (1963). Aveva perso moglie e figlie ad Auschwitz, cadute in una retata della polizia francese al servizio dei nazisti. Visse alla macchia fino alla liberazione di Parigi (agosto ’44). Nel ’46 pubblicò, col curioso pseudonimo di Junius già adoperato da Rosa Luxemburg nel 1916, Les oligarques. Essai d’histoire partiale. Dai primi anni Venti era stato autore e coautore di fortunati e più volte aggiornati e ristampati manuali di storia per ogni ordine di scuola e per tutte le classi d’insegnamento, che dimostravano consumata familiarità con lo studio totale della storia (ormai in via di smarrimento grazie alla cosiddetta specializzazione), dalla protostoria all’età contemporanea. Nel dopoguerra, e fino alla fine, Isaac si dedicò alla causa del riavvicinamento tra ebrei e cattolici, agevolato in tal proposito, alla fine, dall’iniziativa di Giovanni XXIII di indire il Secondo Concilio Vaticano, nel cui ambito – e non senza il significativo apporto di Isaac – cominciò a sgretolarsi l’accusa antiebraica di “deicidio”. Parliamo ora più nel merito di quest’opera.

a) Nel capitolo introduttivo (Présentation des oligarques), Jules Isaac traccia un profilo ammirativo-simpatetico (un po’ oleografico) della «democrazia ateniese». Nel descriverne il funzionamento dà giusto rilievo all’istituzione e agli effetti dell’e?sf??? (p. 30). E non resiste, ovviamente – come molti – alla tentazione di interpretare Tucidide, II, 37 come “manifesto” della democrazia. Il ritratto di Cleone è quasi in stile Rettung. È da chiedersi quanto egli fosse consapevole dei due importanti antecedenti pro-cleoniani (Droysen, nella prefazione ai Cavalieri,4e Grote, History of Greece).5 Va anche rilevato che Droysen “salva” – nello sforzo di comprensione storica di Cleone – anche il “modello” Robespierre: archetipo negativo per Isaac, che infatti lo adopera per delineare il dottrinarismo fanatico di Antifonte.

b) Un aspetto del libro in cui Isaac si mostra succubo delle visioni tradizionali è l’aspro e sommario giudizio sulla sofistica. In questo, egli mostra di non tener conto (o di ignorare) la proposta storiografica espressa in un classico quale i Griechische Denker di Theodor Gomperz, il quale pone la sofistica sullo stesso piano, come ricchezza di intuizioni e efficacia liberatrice, del “movimento dei lumi” nel XVIII secolo. Per Isaac – che legge i sofisti attraverso il prisma platonico pur considerando anche Platone come un nemico della democrazia – i sofisti ebbero un solo orientamento: furono soltanto, alla Callicle, predicatori di violenza e teorizzatori della “forza” che deve avere la meglio sulla “legge”. Ma anche Socrate lo imbarazza perché critico della democrazia non meno dei sofisti.

c) L’operazione che Isaac compie è a prima vista sconcertante: polemizza non solo con Tucidide per i giudizi troppo positivi sui capi dell’oligarchia, ma polemizza contro i personaggi stessi (per esempio con Antifonte). Antifonte è “robespierrista” ma senza l’onestà di Robespierre: se infatti persegue con coerenza il suo obiettivo, imbarca però traditori e voltagabbana «touchés de la grâce oligarchique» (p. 62). Calzante è, senza dubbio, il itratto di Teramene, assunto come leader dall’«aristocratie loyaliste» (p. 62): concetto interessante e ben espresso. Teramene: un Nicia malfido. Una definizione che è indizio di approfondita riflessione sulle fonti. Dal celebre?a?ep?? ??? ?? etc. (Tucidide, VIII, 68, 4) Isaac deduce che Tucidide intende dire: gli ultras non ce l’avrebbero potuta fare con le loro sole forze se non si fosse unito loro Teramene, il quale si portava dietro «l’aristocratie loyaliste». Tucidide non lo dice. Ma che così stessero le cose, che quello fosse l’equilibrio delle forze, lo si può arguire dal fatto che, quando Teramene ha cambiato atteggiamento, il governo dei Quattrocento è crollato.

d) Grande merito della trattazione di Isaac è di aver scelto, come avvio della vicenda, gli scandali sacrali del 415. Si giova molto chiaramente – pur senza citarlo – dell’articolo di Henri Weil sugli ermocopidi (1900).6 Weil difendeva con argomenti decisivi l’interpretazione – corrente sin da subito in Atene – di quella vicenda come complotto oligarchico. Isaac adopera lo stesso luogo tucidideo del III libro messo a frutto da Weil a proposito della “necessità” per i congiurati di macchiarsi dello stesso crimine per rimanere solidali e evitare defezioni o tradimenti. Già Hatzfeld nel suo Alcibiade (1940) aveva fatto propria la diagnosi suggerita da Weil e gliene aveva riconosciuto il merito. Isaac scrive nel 1942 e l’Alcibiade di Hatzfeld è, allora, una freschissima novità. Isaac, nel suo rigorismo tradizional-democratico, si colloca tra i disistimatori di Alcibiade (p. 28: «jeune seigneur impudent et cynique»). Reagisce così con fastidio al ritratto non condannistico abbozzato da Hatzfeld (e forse pensa anche a Houssaye). E ad Alcibiade rimprovera (p. 24, nota 2) l’uscita brutale contro la democrazia che Tucidide gli attribuisce (VI, 89: «una follia universalmente riconosciuta come tale»). Ma rispetto alla giusta diagnosi di Weil, Isaac – anche in ragione del suo argomento – formula un’osservazione molto opportuna: dal racconto di Andocide si ricava chiaramente che la sola eteria di Eufileto aveva organizzato l’operazione «ermocopidi», mentre alla vigilia della presa del potere nel 411 tutte le eterie si coalizzano (p. 43, nota 1).

e) Non può ovviamente ignorare la commedia politica di quegli anni (Eupoli e Aristofane innanzi tutto), ma non riesce ad attribuirle un obiettivo. «Les deux rivaux de gloire, Eupolis, Aristophane, s’en donnaient à cœur joie, plus soucieux de divertir que de réformer, d’être plaisants que d’être justes; mais, s’ils faisaient ainsi le jeu des oligarques, eux-mêmes se gardaient bien d’entrer dans le jeu, et de prendre parti» (p. 31). I casi andrebbero studiati singolarmente. Sommerstein sulla sortita filo-oligarchica delle Rane è indiscutibile, e i Cavalieri non possono essere sterilizzati giacché costituiscono un intervento direttamente politico e volto a obiettivi concreti e immediati.

f) Nel tracciare un profilo del tipo umano dell’oligarca, Isaac approda, com’è ovvio, al cosiddetto “vecchio oligarca”, opera che giustamente colloca nella cornice dei conversari segreti di un’eteria (pp. 32-39). È talmente persuaso dell’importanza, anzi centralità, di quello scritto, da comporne (paradossalmente) una sorta di continuazione di suo conio (pp. 36-39): un esperimento non privo di intelligenza, che vuol fare emergere ciò che in quel pamphlet è implicito. È anche questo un “riempire i silenzi del testo”.
Diamo inoltre atto ad Isaac di aver colto l’importanza del "vecchio oligarca", II, 20: l’attacco ai “signori” che si schierano col popolo. Isaac pensa che il bersaglio sia Pericle. «Eupatride passé guide de la démocratie» (p. 33 e nota 2). Secondo Ory,7 Isaac suggerisce – qui e altrove – un’implicita analogia tra Pericle e Léon Blum.

g) Isaac “parteggia” scopertamente anche rispetto ai fatti che narra. Lo si nota quando racconta l’agguato di Eleusi e assume senz’altro per buona la tesi secondo cui a Eleusi arruolavano mercenari, e precisa che verso “gli altri” (al di là dei capi fatti fuori nell’agguato) ci fu «clémence» (pp. 190-191). Ed è notevole come proprio l’agguato di Eleusi gli offra lo spunto per l’unica esplicita allusione alle vicende presenti: allusione minacciosa culminante nella promessa che non saremo, nella Francia di 2344 anni dopo, altrettanto «clementi» (p. 191). Ma lui non dice “noi”, dice «les méchants» perché pensa ai vilipesip??????dello pseudo-Senofonte.

5. Funziona l’analogia che sta alla base del libro di Isaac?
Il perno dell’analogia sta nel crollo del fronte interno. Ma, ovviamente, nell’analogia è implicita una diagnosi: una diagnosi sul crollo di Atene nel 404 e della Francia nel 1940. E la diagnosi è, per quel che riguarda Atene, quella tucididea, espressa dal grande storico e protagonista di quelle vicende, in una pagina che fu definita (con qualche ragione) l’ultima da lui scritta. Si tratta di quella in cui Tucidide prende spunto dalla finale vicenda umana e politica di Pericle per dire la sua conclusiva opinione su tutta la vicenda della guerra e sulle cause «vere» della sconfitta di Atene (II, 65). Tucidide non fa nessun nome, neanche quello, più ovvio, di Alcibiade: addebita la sconfitta alla conflittualità esplosa all’interno in assenza, ormai irrimediabile, di una figura dominante quale era stato Pericle. Ma, in questi termini, il parallelo con la caduta della Francia, erosa dall’interno dal cancro filofascista che di fatto spiana la strada all’ingresso trionfale delle armate naziste fino all’Arco di Trionfo, è ancora zoppo.
Neanche il racconto che si legge nelle Elleniche di Senofonte parla apertamente di tradimento e di intesa col nemico, anche se chiarisce bene il ruolo svolto da Teramene per costringere Atene alla resa. È la requisitoria di Lisia contro Eratostene (uno dei Trenta) che pone in primo piano l’opera di erosione dall’interno compiuta dalle eterie oligarchiche (Contro Eratostene, 43-44).
Ma Isaac non fa cenno a quel passaggio oscuro ma significativo della vicenda, segue Senofonte e Plutarco (e rifiuta Diodoro). La sua attenzione è rivolta alla vicenda vivente della Francia che non combatte e dal cui interno si manifesta una forte corrente politica desiderosa di accogliere il “nuovo ordine” hitleriano quantunque sotto la maschera dell’iper-nazionalismo alla Charles Maurras. E non è certo casuale che Maurras (Si le coup de force est possible, 1920), evochi il «détraquement» (il caos che subentra a una sconfitta militare: Waterloo o Sedan) come «prétexte» per l’azione. (Non evoca un testo sommamente istruttivo in questo senso quale la Costituzione di Atene attribuibile a Crizia che teorizza la necessità di aprire le porte al nemico per abbattere l’odiata democrazia).
Ma c’è un punto di forza in questa grande analogia diagnostica che, nel baratro della Francia e del regime di Vichy, porta Isaac a rileggere analogicamente il 411 e poi la caduta di Atene e il regime dei Trenta: il ruolo dei capi popolari passati all’estrema “destra”, allora come ora. Allora Pisandro, l’elemento più prezioso, per gli oligarchi operanti nell’ombra, al fine di indurre l’assemblea popolare al suicidio politico (Tucidide, VIII, 53-54; 65; 68, 1); ora Jacques Doriot (1898-1945).
Nel racconto tucidideo della presa del potere da parte oligarchica, il ruolo di Pisandro appare fondamentale. È lui che caldeggia, affrontando più e più volte l’assemblea, la proposta di ridurre la cittadinanza a soli cinquemila pleno iure; è lui che si spinge a promettere «tanto una volta ottenuto l’aiuto persiano possiamo sempre tornare indietro» (53, 3); è lui che abbatte il regime popolare in varie città alleate (65, 1); è lui che propone di nominare i «nomoteti» cui affidare la riforma costituzionale (67, 1); è lui che fa passare la proposta di affidare tutto il potere ai Quattrocento (67, 3). Tucidide sa anche – e lo rivela – che il vero ideatore retroscenico della trama era stato Antifonte (68, 1), ma riconosce a Pisandro il protagonistico ruolo di artefice palese del sovvertimento costituzionale. I demagoghi rinnegati sono preziosi: conoscono meglio di chiunque altro la psicologia delle masse.
Non meno rilevante fu, nell’affermarsi del regime vichysta, il ruolo di Jacques Doriot, operaio e figlio di operai, militante socialista sin dall’adolescenza e poi comunista sin dalla scissione di Tours (1920), grande agitatore e buon parlatore, inviato a Mosca per due anni alla scuola di partito, al ritorno (1923) capo della gioventù comunista e deputato del PCF dal 1924, per quasi dieci anni rivale di Maurice Thorez, espulso nel giugno ’34, fondatore nel ’36 del Parti Populaire Français (PPF), e come tale animatore del collaborazionismo coi nazionalsocialisti (1941) e, dopo un periodo come combattente volontario contro l’URSS, rifugiato in Germania con i capi di Vichy in fuga. La presa di Doriot sulla base popolare che continuò a eleggerlo sindaco di Saint-Denis in opposizione al candidato ufficiale del PCF fu grande. E l’apporto suo – come del resto anche di socialisti alla Angelo Tasca – al consolidamento della cosiddetta “rivoluzione nazionale” di Vichy non fu fenomeno secondario.
Si può ben dire che il ritratto che Isaac traccia di Pisandro è pensato anche per Doriot: «Un démagogue de sa trempe se doit de passer d’un extrême à l’autre; celui-là, s’il flétrit les tares de la démocratie, on peut lui faire confiance: il est expert» (p. 68); «agitateur et agité, meneur et mené, il se pousse au premier plan; derrière lui, dans l’ombre, on aperçoit, toujours plus fort que lui, aujourd’hui Alcibiade, demain Antiphon. Il est ardent, brutal, décidé, et de vues courtes. Vieux routier de la Pnyx, il excelle à manier le peuple assemblé, il brisera donc le seul instrument dont il joue bien» (p. 68). In questo ritratto ogni parola è al suo posto.
Ovviamente il gioco delle analogie non si esaurisce qui. Non ha torto Ory quando intravede Maurras dietro il ritratto tucidideo di Antifonte (VIII, 68, 1) «doctrinaire ranci» e Léon Blum dietro il ritratto di Pericle «Eupatride passé guide de la démocratie»; o anche quando suggerisce un parallelo tra le formule (Révolution nationale per un verso e Patrios politeia per l’altro). Ma un punto non va perso di vista quando si considera questo originalissimo esperimento di «histoire partiale». Isaac non è un garrulo idolatra del parlamentarismo in quanto tale. In un passo rilevantissimo dello scritto sul Paradosso sulla scienza omicida (1923), scrive con lucidità diagnostica pari alla forza di una previsione che ha trovato nel tempo nostro definitiva conferma: «Probabilmente all’interno degli Stati, sotto la spinta delle masse operaie sempre crescenti, il regime rappresentativo si è democratizzato: trasformazione illusoria perché, nello stesso momento, il capitalismo, giunto all’egemonia sociale, ha privato le istituzioni democratiche del loro contenuto».

***

In conclusione, questo libretto è un brillante tentativo di storia allusiva. L’autore dice «storia parziale», ma intende, con tale termine, soprattutto lo sforzo di provare a parlare del presente attraverso un grande e assai remoto antecedente storico. Ory si perde in tentativi poco chiarificatori della definizione, voluta da Isaac, «storia parziale», e si arrovella intorno al concetto di “parzialità” (ma non “faziosità”) in campo storiografico. In realtà si tratta di un esperimento volto a tradurre in racconto storiografico la visione (o presupposto filosofico) della «contemporaneità» della storia, di qualunque storia.
Si tratta certo della continuità dei meccanismi e del linguaggio della politica. Ma il concetto crociano di «contemporaneità» di ogni storia è sterile se si contiene dentro la formulazione, vera ma inerte, dell’efficacia determinante delle categorie mentali dei “moderni” che, di epoca in epoca, pensano il passato. In tanto ciò accade in quanto continuità sostanziali sussistono realmente. E non v’è dubbio che lo stesso Croce pensa essenzialmente alla storia politica quando parla di storia.

L. C.

1 Cfr. Frank Wende (hrsg. von), Lexikon der Geschichte der Partein in Europa, Kröner Verlag, Stuttgart 1981, p. 190.
2 C. Singer, Vichy, l’Université et les juifs, Les Belles Lettres, Paris 1992, p. 252. Ironia della storia: in quel documento, Carcopino avallava la condanna della sorella di Robert Cohen, nonostante i meriti patriottici dell’ormai defunto fratello.
3 Cfr. su ciò B. Hemmerdinger, Le «Démosthène» de Clemenceau (et Robert Cohen), «Quaderni di storia» 36, 1992, pp. 146-152.
4 J.-G. Droysen, Des Aristophanes Werke, I, Veit, Leipzig 18692 [1837], pp. 79-96.
5 G. Grote, History of Greece, Murray, London 18622 [1846-1856], cap. XLVI, pp. 356-358; 434-435, e 538.
6 Les hermocopides et le peuple d’Athènes, in Études sur l’antiquité grecque, Hachette, Paris 1900, pp. 282-288.
7 J. Isaac, Les oligarques. Essai d’histoire partiale, Préface de Pascal Ory, Calmann-Lévy, Paris 1989, p. X.

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