«Uberizzazione»: cosa si nasconde dietro la parola che fa furore
- di Rachida El Azzouzi, Mathilde Goanec, Dan Israel e Martine Orange -
Cos'hanno in comune Uber, Airbnb o Blablcar? Queste tre piattaforme sono i fiori all'occhiello della "economia della condivisione", la nuova torta alla crema di un mondo economico che si vive come "uberizzato" a gran velocità. Ma qual è la realtà dietro le parole?
Da poco meno di un anno ha la sua pagina su Wikipedia ma non ha ancora fatto il suo ingresso nel Larousse e nel Robert. Dovrebbe, considerato che in pochi mesi si è imposto un po' dappertutto, e finendo per diventare fuorviante, abusato. Dopo che Uber, la start-up californiana specialista in VTC, ha fatto diventare pazzi i tassisti di tutto il mondo, il neologismo "uberizzazione" fa furore. E' LA parola dell'anno 2015 (e di quelli successivi) che fa tremare imprese e lavoratori.
"Uberizzazione" del settore immobiliare, delle farmacie, delle banche, degli idraulici, dell'istruzione, del diritto, del marketing, del sesso...
Provate a scrivere il termine su qualsiasi motore di ricerca e scoprirete qual è la sua portata e qual è l'estensione dei sudori freddi che provoca in tutti i settori di attività dell'economia tradizionale. La parola rimanda anche all'attualità, dallo sciopero dei tassisti che accusano Uber di dissanguarli, alle guerre interne ai governi, per sapere se i lavoratori di questo settore emergente avranno diritto ad uno statuto a parte, oppure ad una protezione sociale specifica.
Il primo ad aver creato questo verbo che fa scorrere tanto inchiostro in Francia? Maurice Lévy, il padrone di Publicis, nel corso di un'intervista rilasciata al Financial Times nel dicembre del 2014: "Tutto il mondo comincia a temere di essere uberizzato. E' questa l'idea che viene a chi si sveglia e scopre che le sue attività storiche sono scomparse... I clienti non sono mai stati così confusi o preoccupati per quel che riguarda il loro marchio ed il loro modello economico", ha dichiararo il direttore generale della multinazionale pubblicitaria. Nel timore di essere inghiottiti da "uno tsunami digitale", Maurice Lévy esorta a "reagire" e dà una prima definizione della uberizzazione, la paura del futuro digitale da parte dei giganti della vecchia economia obsoleta. E collega la uberizzazione ad un antro concetto inglese inventato da un uomo d'affari (il capo della TBWA), "disruption": quanto un'impresa dominante si vede superata da una start-up innovatrice che tesse la sua tela nel digitale, sconvolgendo la prassi consolidata e praticando dei prezzi più bassi.
Uber, l'applicazione che con i suoi autisti individuali non salariati ha cortocircuitato un settore ultra-regolamentato, dal punto di vista finanziario è altrettanto potente della General Motors (valutata più di 50miliardi di euro), ha dato il suo nome ad un concetto che è diventato un guazzabuglio volto a definire tutte queste nuove piattaforme online, che mescolano condivisioni e transazioni fra individui. Da Airbnb, l'albergatore senza alberghi, a Deezer e Spotify per la musica, Drivy per l'affitto di autovetture, oppure KissKissBankBank per il sostegno finanziario, non c'è un settore che venga risparmiato da questa economia tanto sconcertante quanto controversa.
"L'uberizzazione della società evoca l'accelerazione del mondo digitale, e il ruolo sempre più importante che esso occupa nel dominio dell'impresa. Una cifra ci permette di comprendere questa improvvisa emulazione: nel 2008, un titolo borsistico cambiava di mano ogni due mesi, mentre oggi un tale cambiamento avviene in media ogni 25 secondi", viene sottolineato sul sito Internet "L'Osservatorio della Uberizzazione" (http://www.uberisation.org/).
Il fenomeno ha il suo osservatorio in Francia. Nato lo scorso ottobre sotto la spinta di due imprese, definisce questo concetto come un "rapido cambiamento dei rapporti di forza grazie al digitale" e prepara delle riunioni in primavere che coinvolgano sindacati, politici, padroni.
Il suo obiettivo è quello di "formulare delle proposte che rispondano al meglio alle sfide del domani in materia sociale, fiscale, giuridica ed economica". Questo nuovo modello infatti fa esplodere tutte le regole, a cominciare dai codici sociali, i principi del tradizionale lavoro salariato, la definizione di lavoro tradizionalmente accettata, e annuncia nuove forme di micro-lavoro o di lavoro semi-amatoriale. E dietro questo neologismo, oggi utilizzato in tutte le salse, ci sono due estremi. Da un lato, un'economia finanziaria predatrice incarnata da Uber o Airbnb, e dall'altro la bella utopia dell'economia collaborativa chiamata condivisione, spinta dai "commoners", coloro che sostengono i "beni comuni", e cercano di sfuggire alla via capitalista.
Un mondo "uberizzato", tentativo di cartografia
In sostanza, di chi, di quali imprese, si parla quando si evoce la "uberizzazione"? Che cosa hanno in comune tutti quegli attori che si richiamano più o meno apertamente all'economia della condivisione? Cosa c'è in comune fra Uber, Drivy, Zilok o una piattaforma di donazione di oggetti?
Per vederci più chiaramente, Mediapart (https://www.mediapart.fr/) propone un tentativo di classificazione. Secondo due assi: il servizio è a pagamento o è gratuito? E quello che lo propone sta facendo il suo lavoro, oppure lo propone durante il suo tempo libero? Il risultato permette di comprendere le somiglianze e le differenze fra gli attori di questo mondo "uberizzato".
Drivy, o anche Ouicar, Koolicar... Piattaforma di affitto di automobili fra individui. Risponde ad una delle domande dell'economia collaborativa: evitare la moltiplicazione dei beni di consumo più inquinanti. Permette al proprietario di recuperare una parte dei suoi costi affittando la sua autovettura. Il settore viaggia col vento in poppa, Drivy ha fatturato 8milioni di euro nel 2015 ed ha acquisito Buzzcar, il suo principale concorrente. La piattaforma prende il 30% su ogni transazione.
Zilok, o anche Allovoisins...
Si presenta come "il luogo del mercato dell'affitto". Permette di affittare online degli oggetti, da individuo ad individuo o da professionisti ad individuo. La piattaforma incassa una commissione per ogni transazione, ma anche al momento in cui l'oggetto viene proposto online, pur impegnandosi a mantenere bassi i prezzi. Nel suo discorso si mescola la "voglia di lusso" allo "slancio ecologico". I creatori di Zilok hanno creato anche Ouicar, dedicato alle automobili.
LeBoncoin, o anche e-loue.com ...
Acquisto e vendita online. Un po' d'economia collaborativa gli conferisce l'aspetto di un gigantesco mercato delle pulci fra individui, un po' "uberizzato", dal momento che attualmente vi si può vendere la propria forza lavoro pubblicando delle offerte di impiego, o perfino diventare "venditore individuale". Per l'utente è tutto gratis, il sito si sostiene per mezzo della pubblicità e dei servizi a pagamento che vengono fatturai ai professionisti. L'investimento iniziale, realizzato da Ouest France e da un gruppo editoriale norvegese, si differenzia anche dalla modalità start-up rivendicata dalla maggior parte delle piattaforme.
Airbnb, ou anche Homelidays, Clévacances…
Sito di affitto di case vacanza fra individui. Valutato più di 25miliardi di dollari, pratica l'ottimizzazione fiscale, che cosa rimane dello spirito collaborativo? Si è allontanato dal sistema iniziale (accogliere un viaggiatore a casa propria in cambio di una piccola retribuzione), fino ad arrivare a competere con tutta la sua forza sul settore di mercato per mezzo di una differenziazione sempre più sfumata fra amatoriale e professionale. I preesistenti siti alternativi (Couchsurfing) si sono coalizzati per contrastare il monopolio di Airbnb (Guesttoguest ou Nightswapping), al fine di "reinventare lo scambio della casa".
BlaBlaCar, ou anche Allostop, La roueverte…
Piattaforma di car-pooling, leader mondiale. Precedentemente comunitaria (covoiturage.fr), BlaBlacar è diventata a pagamento nel 2011, con un compendo che può cambiare seconfo il tipo di prenotazione. Se il modello è quello dell'economia collaborativa, il sito è cresciuto talmente da attirare le critiche: aumento delle tariffe, presenza sulla rete di falsi carpoolers che sono veri autisti, posizione monopolistica, opacità azionaria... Da qui il ritorno in forze di siti di car-pooling gratuiti a commissione fissa.
Donnons.org, o anche Recupe.net…
Sito di dono e di recupero oggetti online. Completamente gratuito, il sito vive di pubblicità in virtù del traffico che genera. Per ottenere l'oggetto desiderato, basta andarlo a cercare. 100% collaborativo, impegnato nel riciclaggio, attira anche le persone in difficoltà finanziarie. La proprietà del sito è di un'associazione e dei volontari si occupano della sua animazione.
Jeveuxaider.com, ma anche Tousbenevoles.org…
Raccoglitore gigante ed organizzato di tutte le associazioni francesi che hanno bisogno di sostegno. Il sito permette soprattutto a quelli che vogliono agire come sostenitori di unirsi ai 14milioni di volontari francesi per informarsi e trovare ciò che corrisponde ai loro bisogni, alla loro disponibilità e alla loro localizzazione.
Uber, ma anche Allocab, Chauffeur-privé, Snpacar…
Applicazioni per la richiesta di autovetture con autista, su prenotazione o immediatamente. Lanciata nel 2010 negli Stati Uniti e sbarcata in Francia alla fine del 2011, Uber è il successo più emblematico dell'economia cosiddetta collaborativa. Presente in 60 paesi e in dieci città in Francia, ha sconvolto dappertutto la legislazione, imponendosi sul mercato dei taxi o proponendo con UberPop a dei singoli individui di trasformarsi in autisti (Servizio proibito in Francia).
Etsy, piattaforma di acquisto di prodotti di design.
Il sito è una delle rare piattaforme totalmente internazionali. Mette in relazione acquirenti e venditori (in Francia, auto-imprenditori, artigiani, lavoratori autonomi) di prodotti fatti a mano, nuovi o "vintage", spesso pezzi unici. Ogni annuncio paga 0,20 centesimi di dollari al sito e il 3,5% al momento della transazione. Il sito vuole "reinventare il commercio per creare un mondo più giusto e più sostenibile". Molti auto-imprenditori iscritti ne traggono solo un reddito di complemento. Da due anni, il sito autorizza i venditori ad impiegare del personale e ad utilizzare dei produttori esterni.
Jemepropose.com, ma anche Frizbiz, JobiJoba…
Si presenta come LeBon Coin del "jobbing", e vuole mettere in relazione colore che cercano un aiuto e quelli che propongono i loro servizi, per lo più a pagamento. Trasporti, coaching, lezioni individuali, pulizia, viene proposto tutto. Vanta 250.000 membri iscritti in tutta la Francia. Una settore "collaborativo" permette di scambiare competenze o servizi, senza scambio di denaro.
Le parole dell'economia collaborativa
Ecco alcune parole per zoomare sulle sfide di questo nuovo mondo in formazione.
CONDIVISIONE
E' a questo vocabolo che si richiamano i piccoli ed i grandi dell'economia collaborativa. La condivisione, virtù cardinale di un'economia da "pari a pari", orizzontale, che ritiene che il consumatore non possegga più bensì "utilizzi" un bene, e lo mette in comune. Casa, auto, know-how o lavatrice, tutto è ormai a portata di mano del vicino virtuale, nella misura in cui si accetta di giocare al gioco della fiducia reciproca.
Tranne per il fatto che il collaborativo ha le spalle larghe, e spesso aggiunge mele e carote. "Questa definizione non ci dice niente sui fini e sulle forme giuridiche, patrimoniali e di governance che può assumere", ha ricordato recentemente (http://rue89.nouvelobs.com/2016/01/03/leconomie-collaborative-accroit-les-inegalites-patrimoniales-262256) a L'OBS Hugue Sibille, presidente del Labo dell'economia sociale e solidale. Il caso Uber è sintomatico. Se si mettono in relazione un cliente ed un autista, dove sta la condivisione? Gli altri giganti, Airbnb, Blablacar o Etsy, hanno sempre le parole solidarietà e comunità sulle labbra ma realizzano milioni in commissioni, per mezzo di una creazione di valore assai limitata (la gestione e la comunicazione del sito). Il modello capitalista di queste bandiere del collaborativo si basa, in maniera del tutto tradizionale, sulla concentrazione nelle mani di pochi dei frutti della messa in comune. Come caricatura, si potrebbe dire che la condivisione dei risultati non riguarda la moltitudine che si trova in basso.
Inoltre, riprendendo spesso delle vecchie ricette, le nuove tecnologie ed internet hanno permesso a queste imprese di moltiplicare i punti di contatto, di accrescere la loro portata e la loro infiltrazione. In funzione dell'utilizzo (perché funzioni una piattaforma di intermediazione, il suo numero di membri è determinante), vi si sono installati dei potenti monopoli, assai lontani dallo spirito di condivisione che rivendicano. La battaglia attorno ai dati parla di questa dualità. I grandi siti collaborativi maneggiano miliardi di dati (i nostri indirizzi, le nostre abitudini, i nostri modelli di consumo, le nostre mail...) che oramai valgono oro e sbarrano l'accesso alla concorrenza.
Come risposta, i militanti della prima ora dell'economia collaborativa soffrono tutte le pene del mondo per cercare di recuperare il concetto (vedi la guerra che oppone i "puri", utenti della prima ora di BlaBlaCar, a coiveturage.fr oppure la battaglia fra Airbnb ed il couchsurfing) e per far tornare l'economia di condivisione nel campo dell'economia sociale e solidale. La loro battaglia si muove in parallelo a quella del rinnovo delle cooperative, dei movimenti ambientalisti, del cohousing o della decrescita. E paradossalmente, come sottolinea Matthieu Lietaert, autore di "Homo cooperans 2.0", "Questa lotta ideologica sembra aver creato un relazione simbiotica fra gli attori. Malgrado le loro differenze, beneficiano tutti del generale entusiasmo intorno all'economia collaborativa".
LAVORO
L'uberizzazione non ha inventato la frammentazione del lavoro. I contratti a tempo determinato, l'interim, il lavoro indipendente, l'auto-imprenditorialità, o addirittura il lavoro a cottimo, esistevano molto prima che Uber sbarcasse sul mercato. Ma le piattaforme di intermediazione in linea utilizzano, in misura diversa, tutte le possibilità per derogare al lavoro salariato autorizzato dal diritto francese. Rimettono in discussione il rapporto di subordinazione, che viene sostituito da uno strumento che mette in una relazione orizzontale al servizio di una comunità di lavoratori e di consumatori. Il lavoro indipendente, per molto tempo limitato alle professioni liberali qualificate (architetti, medici, avvocati, ecc.), trova qui una forma low-cost, assai più potente nella misura in cui non mette barriere all'ingresso.
Queste piattaforme, in pieno sviluppo, non hanno tutte grandi possibilità di sopravvivere. Ma hanno offerto un'insperata promozione all'ibridazione, spingendo, spesso con il pretesto della modernità, ad un nuovo "status di attività", l'avvento del "lavoro post-salariato", di un uomo libero, a partire dallo stato deleterio del mercato del lavoro e della disoccupazione di massa. Le piattaforme offrirebbero, grazie all'effetto moltiplicatore di Internet, attività e clientela a tutti gli esclusi dal posto di lavoro. E quando il governo parla di assicurare dei percorsi professionali, per mezzo della creazione di un conto personale di attività, pensa agli innumerevoli lavoratori a tempo determinato, ma anche ai 2,3 milioni di lavoratori indipendenti, ai milioni di auto-imprenditori, e a tutti coloro che combinano queste diverse attività. Oggi, un indipendente su dieci ed un auto-imprenditore su tre hanno un lavoro salariato (secondo l'INSEE).
Più prosaicamente, l'uberizzazione assomiglia, strettamente sul piano del lavoro, ad una società di "micro-franchigia", giuridicamente indipendenti ma subordinati a degli operatori economici spesso monopolisti. I suoi attori sono dei cottimisti, che vendono i loro servizi su Internet, degli scippatori, campioni di accumuli, consenzienti o meno, certamente degli imprenditori, ma sotto la pressione effettiva della piattaforma alla quale pagano una commissione.
Di qui, tutto può cambiare: la qualifica necessaria per entrare su un mercato, la valutazione delle conoscenze professionali, la modalità di remunerazione, le regole che disciplinano il tempo di lavoro, le modalità di contribuzione alla previdenza sociale (vedi sotto).
Infine, nella grande pentola comune dell'economia collaborativa, dove inizia l'occupazione? Siamo in tanti a "completare" i nostri salari per mezzo dei siti collaborativi, navigando su Airbnb, su BlaBlaCar oppure su Le Bon coin. Generando un attività economica, l'utente di queste piattaforme si attiva per realizzare un profitto, va a cercare un pacchetto, gestisce dei messaggi, pulisce il suo appartamento, o si dispone a rendere un servizio a dei "pari". Questo servizio, a pagamento, verrà valutato, ed in qualche modo, monetizzato. Lavoro?
Previdenza
Il modello della uberizzazione è innanzitutto segnato dall'esplosione interna di tutto il modello di previdenza sociale: le piattaforme che mettono in relazione non sono legate a niente, né partecipano ad alcun momento di finanziamento della previdenza sociale. Esse impiegano assai poco personale, alcuni sviluppatori, qualche responsabile della comunicazione: Uber in Francia impiega 68 persone, secondo le ultime cifre pubblicate nel settembre 2015. La maggior parte dei servizi proposti viene realizzata da lavoratori affiliati, che però non vengono considerati come salariati, ma come dei fornitori di servizi, dei subappaltatori. Perciò la previdenza sociale è a loro carico - assicurazione sanitaria, mutua, pensione, pagamento dei contributi, assicurazioni sui veicoli ed altro.
Al momento della loro affiliazione a Uber, la maggior parte dei candidati assumono lo stato di auto-imprenditore (ora vengono chiamati micro-imprenditori). Questo status, creato nel 2009 e modificato nel 2015, ha lo scopo di favorire la sistemazione di persone che esercitano un'attività artigianale o commerciale, facendoli beneficiare di dichiarazioni semplificate. Inoltre, anche le persone che affittano il loro appartamento attraverso piattaforme come Airbnb possono beneficiare di questo status, nel limite di un volume di affari annuale di 32.900 euro.
Le persone che optano per questo status vengono assoggettate a dei costi sociali forfettari, calcolati sui redditi dichiarati. Questi sono pari al 13,3% per gli artigiani ed i commercianti e al 22,9% per i proprietari di servizi e per i locatori di appartamenti. Essendo il sistema dichiarativo, praticamente nessun auto-imprenditore dichiara la totalità dei suoi redditi, al fine di diminuire la quantità delle sue imposte e dei suoi costi sociali.
Nel 2005, è stato creato un fondo sociale unico, il sistema sociale degli indipendenti (RSI), per raggruppare le diverse casse degli artigiani, commercianti e professionisti. Il fine è quello di attuare dei risparmi. Dieci anni dopo, il ministro dell'economia, Emmanuel Macron, ha definito un "errore" la creazione di tale cassa. In un rapporto pubblicato nel 2014, la Corte dei Conti ha parlato, da parte sua, di "catastrofe". Contribuzione insufficiente, squilibrio del sistema sanitario, minacce sul sistema degli affitti, ritardi nei versamenti, complessità di gestione: il sistema fa acqua da tutte le parti. In maniera abbastanza prevedibile, la cassa del sistema generale rischia di essere chiamata a contribuire, in nome della solidarietà. Tanto più che il deficit continua a crescere. Questo sistema di evasione mina le basi morali e finanziarie di tutto il sistema di previdenza sociale. Nel 1978, i contributi sociali che finanziano i regimi obbligatori di base della previdenza sociale ed i regimi complementari rappresentano l'83,5% dei ricavi totali del sistema. Nel 2013, hanno costituito solamente poco meno del 60%, ci rammenta la Corte dei Conti in un rapporto del settembre 2015. Ben lungi dal fluidificare il mercato del lavoro, come pensano alcuni economisti, questo modello rischia di irrigidirlo ancora di più. Mentre si è già venuta a creare una profonda cesura fra i salariati che beneficiano di un contratto a tempo indeterminato, ed i salariati che usufruiscono del tempo determinato, di stage, di lavoretti saltuari, la comparsa di questa nuova categoria di lavoratori che di imprenditori hanno solamente il nome, esclusi da ogni sistema di protezione e che si assumono tutti i rischi, presi nella trappola della precarietà e della povertà, configura delle nuove rotture nel mercato del lavoro. Il governo pensa di poter rimediare instaurando un regime universale, dove i diritti saranno individuali e non più legati al settore, all'impresa, o al lavoro svolto.
Imposte
Pagare o non pagare le proprie tasse e le proprie imposte? La questione fa parte della posta in gioco nascosta dell'esplosione dell'economia collaborativa. Sia che questo riguardi i singoli individui o le grandi imprese che si sviluppano grazie alle piattaforme digitali che esse creano. Per molto tempo, i primi hanno beneficiato dell'indeterminatezza che circonda questa nuova economia e della scarsa conoscenza in materia da parte delle autorità. Naturalmente, i "jobbers" e gli altri "slashers" che offrono le loro capacità in cambio di una remunerazione su dei siti dedicati sono stati sempre tenuti a dichiarare i propri redditi. Come i proprietari di un appartamento che lo affittano tramite Airbnb. Ma la tentazione di dimenticare alcune centinaia o migliaia di euro al momento di riempire la propria dichiarazione dei redditi, era molto forte, e senza grandi rischi. Era molto difficile, per lo più, che l'amministrazione fiscale se ne potesse accorgere. Ma i parlamentari hanno messo fine a questa indeterminatezza, a metà dicembre. Era arrivato il momento di chiudere "un buco nella racchetta fiscale", secondo l'espressione di Christian Eckert, segretario di Stato al bilancio. A partire dal 1° gennaio, le piattaforme come Airbnb, Drivy ed altre sono tenute ad informare i loro membri circa le somme che devono dichiarare alle imposte. I senatori avevano votato il principio di una franchigia di 5mila euro, ma il governo e l'Assemblea lo hanno soppresso. Solo gli individui proprietari di automobili che propongono il carsharing e ricevono denaro a titolo di partecipazione ai loro costi, rimangono esenti da tasse. Diversamente, gli auto-imprenditori, i quali formano la più parte dei lavoratori dell'economia collaborativa, sono esentati dal pagamento dell'IVA fino ad 82.200 euro di entrate da commercio, oppure fino a 32.900 euro per quelle da servizi e da libere professioni (ma il governo intende alzare questo secondo limite). Ormai, la legge quindi mira esplicitamente ai consumatori ed ai produttori dell'economia collaborativa. La cosa funziona diversamente per alcune piattaforme che su questo hanno realizzato i loro profitti. Due delle più emblematiche, Uber e Airbnb, in Francia dichiarano solo una modesta frazione della loro attività reale nel paese e quindi non possono essere tassate al livello dei benefici che ne possono trarre. Le due imprese utilizzano modalità di ottimizzazione fiscale assai classiche, che sulla carta sono sempre legali.
Uber invia i suoi profitti reali alle Bermuda per mezzo di una catena di società attraverso i Paesi Bassi, le Antille e il Delaware, lo Stato che fa da paradiso fiscale per gli Stati Uniti. Per il 2014, hanno quindi dichiarato in Francia un volume d'affari di 6 milioni di euro, mentre secondo le stime hanno superato i 15 milioni. Quanto ad Airbnb, dopo che è passata dall'Irlanda per evitare la maggior parte delle imposte che avrebbe dovuto pagare in Europa, l'impresa ha messo su un circuito ancora più sofisticato che passa per Jersey, l'isola della Manica specializzata nel segreto fiscale in tutte le sue forme.
Stato
Se c'è un riferimento rispetto al quale gli attori di ogni tipo di economia collaborativa si tengono accuratamente lontano, questo è quello dell'onnipotente Stato sociale. Nei discorsi degli adepti del carsharing, della donazione di oggetti o del lavoro a cottimo, il potere pubblico ed i suoi poteri di regolazione hanno ben poco posto.
E, come dimostrato dalle ricorrenti manifestazioni dei taxi allarmati per la concorrenza di Uver ed altre app presenti sul loro mercato, si può dire che lo Stato stesso ha affrontato lentamente e maldestramente tali questioni. Il governo Fillon nel 2008 aveva fatto dire a Jacques Attali che era necessario togliere le barriere per funzionare come taxi, senza ottenere risultati. Il governo socialista ha dovuto varare d'urgenza un accordo arraffazzonato, una legge Thévenoud le cui numerose disposizioni sono state invalidate dalla Corte costituzionale ed i cui principi chiave oggi semplicemente non vengono applicati dagli autisti VTC. Anche nei confronti di Airbnb, il potere pubblico da tempo lascia fare. Parigi, che al momento è la città dove il sito ha il più alto numero di annunci di affitto di appartamenti (circa 50.000), ci ha messo degli anni prima di cercare di limitare gli abusi da parte di alcuni multi-proprietari, che avevano trovato una nuova attività nell'affittare degli appartamenti a destra e a manca, in barba a tutte le norme che regolano la professione di albergatore. Certo, la città ha ottenuto che a partire dal mese di ottobre la potente piattaforma raccolga ed essa stessa paghi direttamente la tassa di soggiorno che tutti i proprietari di appartamenti in affitto sono obbligati a versare, ma della quale l'immensa maggioranza finora ignorava l'esistenza. In tre mesi, sono stati pagati non meno di 5milioni di euro. Ma in questo bisogna vedere soprattutto un gesto di buona volontà da parte dell'azienda americana, che Parigi difficilmente avrebbe potuto costringere a far pagare. E' sul terreno della legislazione sociale che finalmente l'esecutivo ha deciso di concentrare la sua risposta. Ma non si sa ancora quale sarà l'ampiezza. Il ministro del lavoro, Myriam El Khomri, nel mese di marzo ha preparato una legge che dovrebbe, a suo dire, "inquadrare giuridicamente" lo status del lavoratori di questa nuova economia. Farà in modo, ha assicurato, che i siti di collaborazione partecipino alla "previdenza" degli indipendenti che fanno lavorare, come ha recentemente suggerito il Consiglio sul digitale. "Quando esiste un legame di dipendenza economica dei lavoratori indipendenti, è legittimo chiedersi se la piattaforma non abbia la responsabilità sociale di partecipare alla loro protezione, ad esempio finanziando la formazione", ha detto in occasione della presentazione del rapporto. Ma c'è un problema, Bercy si oppone a tale idea, negando che le piattaforme abbiano qualcosa da sborsare. Il ministero dell'economia si rifiuta anche di creare uno statuto su misura per questi lavoratori di nuovo tipo. E questo in nome di un principio semplice, difeso a spada tratta da Emmanuel Macron: regolare, significa eliminare la flessibilità e vincolare le capacità di adattamento dell'economia collaborativa. Detto in altri termini, per il ministro, mettendo il naso in questo nuovo settore, lo Stato impedirebbe a queste imprese di svilupparsi, di assumere e di contribuire ad abbassare la disoccupazione. E non importa il modo in cui i loro dipendenti vengono trattati.
Affitto
In un libro pubblicato nel 2013, "La nuova società a costo marginale zero", l'economista americano Jeremy Rifkin ha teorizzato l'economia della condivisione e la fine del capitalismo. Ha spiegato che dappertutto milioni di persone, avendo sia lo statuto di produttori che quello di consumatori, collaborano gratuitamente sui social network, elaborano nuove tecnologie informatiche, nuovi software, nuove forme di intrattenimento, nuovi strumenti didattici, nuovi media, nuove energie verdi, nuovi prodotti. Vanno a sostituire poco a poco con un'economia di condivisione, di scambio, il modello capitalista finanziario.Ma contrariamente a quanto sostengono i promotori, a cominciare dai responsabili delle imprese coinvolte, la "uberizzazione" non costituisce affatto un nuovo modello economico, un'economia condivisa. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un nuovo modello di consumo che permette, grazie ad Internet e alle tecnologie della comunicazione, di mettere più velocemente in comunicazione l'offerta e la domanda. Nel peggiore dei casi, nei fatti non è altro che la messa in opera del vecchio sistema del lavoro in affitto, presentato con abiti nuovi. Dal momento che questo fenomeno non si trova all'origine di nuovi servizi, di nuove creazioni, non è portatore di una visione a lungo termine. Si accontenta di sfruttare l'esistente sotto una forma diversa. Proporre dei servizi di taxi, trasportare dei passeggeri lungo un tragitto facendoli pagare, affittare un appartamento per le vacanze, sono tutti dei servizi che esistono da lunga data, anche se passano per altri canali. Per partecipare a questo nuovo modello con la speranza di trarne dei sussidi, bisogna che si possegga già qualche bene: un'automobile per fare da taxi o per il car-pooling, un appartamento o una casa da proporre sul sito Airbnb, un set per fonduta da affittare o da vendere. In qualche modo, lo spirito dei tempi della finanza si è impossessato di tutti i partecipanti: bisogna soprattutto non lasciar dormire il capitale, di farlo rendere al massimo con tutti i mezzi. Il non detto del sistema, che si suppone innovativo, si basa sull'accettazione della rinuncia a qualsiasi miglioramento, a qualsiasi prosperità futura. In un certo senso, si adatta perfettamente a questi tempi di deflazione economica mondiale. Sottintende l'accettazione di una stagnazione economica e di una regressione sociale.
Economia collaborativa o economia predatoria?
Le numerose start-up di questa nuova economia si vantano di giocare un importante ruolo sociale in un contesto di penuria di posti di lavoro, di record della disoccupazione. I loro oppositori ribattono che si tratta solamente di briciole, di un lavoro sempre più precarizzato. E' questa l'economia della condivisione? L'avvento di una nuova società dove saremo tutti dei lavoratori autonomi su richiesta? E qual è il ruolo delle piattaforme così tanto di moda in questa trasformazione sociale?
- di Rachida El Azzouzi, Mathilde Goanec, Dan Israel e Martine Orange - pubblicato il 26.1.2016 su Mediapart
fonte: Réseau des Démocrates