Il Climax del Capitalismo
- Breve sintesi della dinamica storica della crisi -
di Robert Kurz
Nella crisi, ci troviamo già dopo la crisi. E' questo il messaggio proveniente dal pensiero positivo a partire dal collasso di Lehman Brothers. Perché mai il più grande crollo finanziario mai avvenuto dopo gli anni 1930 avrebbe dovuto spingere ad una qualche sorta di riflessione sulla teoria della crisi? A volte si sale, a volte si scende. Tutto si trasforma, in un modo o nell'altro: ma soltanto così tutto rimane sempre uguale. Le crisi vanno e vengono, ma il capitalismo resta per sempre. Perciò non ci interessa la crisi in sé, ma soltanto quello che viene dopo, quando la crisi finisce, come tutte le noiose crisi precedenti. Chi andrà su e chi scenderà nella nuova era? Finalmente arriverà il miracolo economico africano, sarà il turno del Pacifico con la Cina come nuova potenza mondiale, o ci sarà la rinascita degli Stati Uniti dello spirito del piccolo imprenditore? Forse assisteremo ad una rinata lira che assurge a moneta di riserva? Anything goes. Ebbene, occorre svolgere un'analisi un po' coraggiosa delle tendenze, visto che i mercati finanziari, da parte loro, tornano a farsi arroganti e vomitano nuvole di cenere, come fa l'Etna nei suoi giorni migliori.
Nessuno vuole più sapere niente del contesto storico relativo allo sviluppo capitalista: felice è colui che dimentica. Non si deve nemmeno pensare che nel 1982, con la prima insolvenza da parte del Messico, aveva potuto avere inizio un ciclo di crisi qualitativamente nuovo, che dura fino ad oggi, e che avanza dalla periferia verso il centro, divorando tutto quello che incontra sul suo cammini. La struttura della percezione postmoderna esclude qualsiasi punto di vista che va oltre quella che è la tendenza del momento. Quel che Marx aveva definito, nella prefazione al primo volume del Capitale, come condizione per la conoscenza nella teoria sociale, ossia la "capacità di astrazione", gode oramai da tempo della cattiva fama di essenzialismo. La micro-economia che domina il discorso non riconosce più alcuna società, ma soltanto gli individui, come diceva Margaret Thatcher. Laddove tutto è economia, anche la relazione con il proprio Io, lo spazio ed il tempo sono ridotti all'orizzonte del click del mouse e dell'esperienza dello shopping. Non si parlare del Tutto negativo, di modo che esso possa rimanere nella più amabile invisibilità. Molti di quelli che mettono la testa nella sabbia eventualmente chiedono: quale fallimento della Lehman Brothers? E' successo prima o dopo la prima guerra mondiale? Chi si muove nello spazio mediatico, soltanto fra eventi disconnessi, senza coscienza né del passato né del futuro, riesce a rimuovere la crisi perfino dal pensiero, fino a quando i soldi continuano a fuoriuscire dal bancomat.
Ma a poco a poco la faccenda comincia a puzzare di bruciato, cosicché anche il valore di intrattenimento degli analizzatori di tendenze in quanto aruspici comincia a crollare, Nel nuovo secolo, sembra che la crisi sia venuta per rimanere. Ad una recessione, e ad un falso fine allarme, ne segue un'altra, mentre i guardiani del sistema bancario globale vorrebbero contare i loro scheletri nell'armadio e soprattutto buttar via la chiave. Nemmeno lo sciovinismo esportatore tedesco è del tutto sicuro che la Germania stia giocando davvero da sola, in un campionata del tutto diverso da quello del resto della zona Euro. Nessuno sa sotto quale tetto scoppierà l'incendio domani, o più tardi. Ma tutti sanno che il fuoco è in agguato ovunque e che gli incendi sono collegati fra loro in maniera misteriosa. La fondamentale fiducia postmoderna nel capitalismo si sfalda, anche se vergognarsene per ora non è diventato il tema centrale.
Perfino la sinistra foucaultiana comincia a rendersi conto di capire di economia politica quanto Karl Marx capiva di motociclismo. Perciò la crisi, nonostante tutto, deve portare il discorso su un terreno che finora è stato accusato di essere "economicista", e fondamentalmente evitato. Cosa sta succedendo allora con il capitalismo? Purtroppo, Marx non ci ha lasciato una comoda teoria della crisi sotto forma di libro tascabile. La pressione ad aderire alla perdita decostruttivista della realtà e alla riscoperta, a buon mercato, dell'economia volgare conduce, nella migliore delle ipotesi, a cercare versioni alquanto superficiali della tradizioni marxista.
Secondo tali versioni, di quando in quando il capitale entra in una fase di cosiddetta sovraccumulazione. Gran parte del capitale accumulato non riesce a continuare a valorizzarsi a sufficienza, dal momento che il plusvalore prodotto non può più essere trasformato nella sua forma denaro, ovvero "realizzato", a causa della mancanza di potere d'acquisto da parte della società. Gli investimenti in macchinari ed in forza lavoro sono stati troppo elevati per quella che è la capacità del mercato, c'è un eccesso di capacità di produzione, dappertutto ci sono merci invendibili, il capitale denaro fugge verso i mercati finanziari dove si formano così delle bolle. Il capitale eccedente, in tutte le sue componenti (capitale reale, forza lavoro, capitale merce, capitale denaro), deve ora essere svalorizzato dalla crisi. Dopo di che tutto può ricominciare dal principio.
Per la perniciosa ideologia postmoderna, questa versione è quella più gustosa. Dal momento che qui la crisi nasce come un evento astorico, in un eterno ritorno dello stesso. Di modo che, di tanto in tanto un aggiustamento fa bene al capitalismo, come una bella sudata. La crisi fa parte del suo meraviglioso modo di funzionamento, come sa da molto tempo la sinistra illuminata. Espansione e contrazione si alternano in una successione infinita, senza che si possa riconoscere un processo coerente e progressivo.
Ma in Marx si trovano anche riflessioni del tutto differenti. Secondo le quali, sul lungo termine, il problema non è l'insufficienza periodica della realizzazione di plusvalore sul mercato, bensì, assai più fondamentalmente, la mancanza stessa della sua produzione. Il capitale è l'autocontraddizione in processo in quanto, da una parte, ha come unico obiettivo l'accumulazione incessante di valore, ovvero "ricchezza astratta" (Marx), ma, dall'altro lato, la concorrenza obbliga, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, a rendere superflua la forza lavoro, la quale è l'unica fonte di questo valore, e a sostituirla con dispositivi tecno-scientifici.
Tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive non è l'eterno ritorno dello stesso, bensì un processo storico irreversibile. Come mostra Marx nei Grundrisse, questo porta ad una situazione in cui i prodotti sono di fatto beni utili, ma non possono più rappresentare nella merce una quantità sufficiente di energia lavorativa umana. Questo non è un aggiustamento, ma un "limite interno" (Marx) del capitale. Quest'aspetto della teoria di Marx era inaccettabile per il marxismo tradizionale, dal momento che ciò che ad esso importava era la "pianificazione del valore" e non la sua abolizione. Per una coscienza che ignora completamente la storia e non riesce a formulare un qualsivoglia concetto del valore, ma che va a sbirciare un evento dopo l'altro e gli piacerebbe convincersi che la coazione all'autovalorizzazione sia una libertà senza limiti, tano meno è possibile pensare ad un limite oggettivo per questa forma di esistenza.
Ora, il capitale non dipende semplicemente soltanto dal valore, ma anche dal plusvalore, prodotto dalla forza lavoro al di là dei suoi propri costi. Lo stesso sviluppo delle forze produttive che rende la forza lavoro sempre più superflua svaluta il costo della forza lavoro ancora utilizzata. Così, aumenta la quota parte di plus valore rispetto al tempo di lavoro totale speso. Ma la massa di plusvalore della società dipende non solo dalla sua quota parte per lavoratore, ma anche dal numero di lavoratori utilizzabili ad un determinato standard di produttività.
Marx ha formulato questo problema nel terzo volume del Capitale, come teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto. La parte di capitale reale nel capitale denaro aumenta continuamente, mentre continuamente diminuisce anche la forza lavoro mobilitabile per mezzo di esso. Questo può essere letto indirettamente nelle statistiche borghesi, nel fatto che storicamente i costi preliminari di un posto di lavoro sono aumentati in maniera inesorabile, in quanto per poter impiegare un lavoratore dev'essere utilizzato un aggregato sempre maggiore di macchinari, di infrastrutture, ecc.. Dal momento che solo la forza lavoro produce nuovo valore, il profitto medio del capitale denaro anticipato deve abbassarsi su scala sociale, sebbene aumenti la quota parte di plusvalore nella produzione di valore per ciascun lavoratore.
Il risultato sociale dipende dalla relazione di grandezza di due tendenze opposte. Insieme alla teoria di una svalorizzazione storica fondamentale, che si legge nei Grundrisse, l'argomentazione qui svolta contraddice talmente la comprensione astorica del capitale visto come eterno alternarsi fra espansione e contrazione che la nuovissima Nuova Lettura di Marx, per precauzione, ha dichiarato che la caduta tendenziale del saggio di profitto sia solo un semplice prodotto dell'immaginazione di Marx.
Di fatto, la caduta del saggio di profitto può essere compensata fino ad un certo punto dall'aumento della massa di profitto, se il modo di produzione capitalista come tale si espande e viene quindi applicato produttivamente più capitale denaro. Esternamente, quest'espansione si è esaurita con la "valorizzazione" di tutto lo spazio terrestre. Ci sono diversi concetti di espansione interna qualitativa, e sono tutti riferiti all'economista borghese Joseph A. Schumpeter. Questi descrive lo sviluppo capitalista come creazione periodica di nuovi prodotti e rami produttivi. Di conseguenza, l'espansione viene supportata da alcuni cicli di prodotti, fino a quando questi entrano in stagnazione e imprenditori innovativi vi pongono fine per mezzo di nuovi prodotti per nuove necessità. Nella fase della "distruzione creativa" avviene la contrazione. Il nuovo ciclo di prodotti diventa sostenibile solo gradualmente, e può cominciare l'espansione rinnovata su una base modificata.
La teoria di Schumpeter ha il piccolo difetto estetico di non relazionarsi in alcun modo con il contesto dello sviluppo delle forze produttive e con la produzione sostanziale di plusvalore. Così come in tutta l'economia politica, si considera la superficie del mercato come l'unico oggetto valido della scienza economica. E' in questo modo che la creazione di nuovi rami di produzione e di nuove necessità emerge automaticamente come base della ripresa capitalista, senza che nemmeno venga posta la questione delle condizioni concrete della valorizzazione attraverso la sostanza lavoro, in uno standard modificato di produttività. E' proprio per questo che la sinistra postmodernizzata raccoglie con così tanto gusto l'idea di Schumpeter ed i relativi teoremi, per completare Marx per mezzo di un po' di belletto anti-sostanzialista. Nuovi rami di produzione, nuovo successo della valorizzazione, poi la massa di energia lavorativa spesa possibilmente non svolgerà alcun ruolo troppo importante, se in quattro e quattr'otto si potrà fare download di soldi così come lo si può fare di tutto il resto. Si potrà poi scegliere se l'area di attività per il prossimo boom verrà creata adesso attraverso produzione di mostri di ingegneria genetica, o di reti di amici su Internet, o di biocombustili piuttosto che attraverso produzione di pane per il mondo o attraverso il salvataggio degli orsi polari.
Nella corrente sotterranea delle argomentazioni di Marx, le cose si presentano in maniera diversa. Quale che sia il contenuto della produzione, al capitale interessa solamente la quantità di forza lavoro creatrice di valore che può essere utilizzata. Questa deve crescere in termini assoluti, se si vuole che il fine in sé dell'accumulazione venga raggiunto. Ora, la creazione di nuovi rami di produzione, o l'ingresso nella produzione di massa di prodotti che prima erano di lusso, può compensare la razionalizzazione tecnologico-scientifica della forza lavoro solo per un periodo di tempo storicamente limitato. Il capitalismo raggiunge il suo culmine quando l'espansione interna viene raggiunta e superata per mezzo dello sviluppo delle forze produttive. Mentre la caduta relativa del tasso di profitto si trasforma in una caduta assoluta della massa sociale di plusvalore e quindi di profitto, mandando a sbattere così la valorizzazione del valore presunta come eterna contro la sua svalorizzazione storica.
Si può produrre qualche prova di come lo sviluppo capitalista sia entrato in questo stato a partire dagli anni 1980, con la terza rivoluzione industriale. Il culminare della contraddizione interna viene modificato e filtrato per mezzo dell'espansione storica del sistema creditizio, che riflette in maniera speculare la stagnazione ed il declino di massa del lavoro produttore di valore. Già il permanente aumento relativo del capitale reale aveva progressivamente spinto i costi morti anticipati fino ad un'altezza tale che questi costi potevano essere finanziati dai profitti correnti solamente per una parte sempre più ridotta. Il credito si è trasformato da elemento propulsore coadiuvante la produzione di plusvalore nel suo sostituto. L'accumulazione è alimentata da allora sempre meno dalla sostanza del valore reale e sempre più dall'anticipazione di lavoro immaginario futuro. Investimenti e posti di lavoro senza alcuna base reale, vengono finanziati per mezzo di un debito globale senza precedenti e delle bolle finanziarie che ne derivano. Questa è stata anche la condizione della possibilità sociale per un il trionfo delle ideologie virtualiste e decostruzioniste. Tuttavia, nonostante le apparenze temporanee, non si accumula capitale, come si è visto nell'industria delle costruzioni di molti paesi, dopo lo scoppio delle bolle immobiliari.
Alla superficie del mercato mondiale, il consumo sempre più anticipato di profitti e salari futuri ha assunto la forma assurda di una divisione di funzioni fra paesi in surplus e paesi in deficit. Gli uni comprano dagli altri, con denaro proveniente da entrate future, merci la cui produzione è stata finanziata attraverso il ricorso ad entrate future. Si apre un buco nero, che si allarga, fra la creazione passata di valore reale e una creazione futura, anticipata in maniera fittizia. Questo costrutto di una situazione globale di deficit avviene in due principali aeree: una maggiore, il circuito del deficit del Pacifico, fra Cina/Asia Orientale e Stati Uniti, r un altro, minore, in Europa, fra la Germania ed il resto dell'Unione Europea, o meglio della Zona Euro. L'occupazione così mobilitata, ad esempio in Cina, è altrettanto impraticabile di quanto lo sia stata l'attività di costruzione a seguito del boom immobiliare. In un caso, l'Asia ha accumulato riserve di valuta in dollari ad un ordine di grandezza astronomica, nell'altro caso, il sistema bancario internazionale aveva finanziato deficit altrettanto elevati dentro la zona monetaria comune. Questi famigerati "squilibri" sono incompatibili perfino con i manuali di Economia Politica che, in ogni caso, nessuno ha mai preso sul serio.
Dopo un susseguirsi ravvicinato di crisi finanziarie, che negli ultimi trent'anni hanno colpito paesi e settori economici isolati, il crollo finanziario del 2008 ha assunto, per la prima volta, una dimensione globale. La rottura delle catene di credito ha messo all'ordine del giorno il grande scoppio della svalorizzazione. Gli Stati, già di per sé altamente indebitati, hanno fermato la valanga per mezzo di iniezioni magiche di credito addizionale ed emissione monetaria. Si è immaginato, quanto meno, che non ci si trovava alla fine di una tempesta purificatrice, ma che erano le luci del capitale mondiale che si trovavano sul punto di spegnersi. Così, con l'aiuto delle garanzie degli Stati, i crediti in sofferenza vennero interrati come fossero scorie nucleari, le capacità industriali eccedenti vennero mantenute per mezzo di enormi sovvenzioni, e la congiuntura economica venne alimentata artificialmente con programmi statali. In particolare, il capitalismo di Stato cinese forzò il suo sistema bancario, basato su un patrimonio di debito, a finanziare investimenti rovinosi, sotto forma di città fantasma, aeroporti fantasma, fabbriche fantasma, ecc., gonfiando così la madre di tutte le bolle finanziarie.
Con tutte queste misure avventuriste non è stato risolto assolutamente niente, il processo di svalorizzazione è stato solo rimandato e si dislocato sugli Stati il problema del mercato finanziario. Era prevedibile che la boccata d'aria dei programmi statali si sarebbe esaurita rapidamente. E' cominciato nella Zona Euro, in quanto anello più debole della catena, ma anche tutte le altre finanze statali oscillano e corrono il rischio di innescare reazioni a catena. Così, la montagna di dollari cinesi si dissolverà in fumo, se gli Stati Uniti finiranno per ammettere che non hanno un soldo. I debiti pubblici ingestibili si assommano ai crediti inesigibili dei mercati finanziari: si avvicina la fusione nucleare del sistema creditizio. Il futuro del capitalismo, oramai consumato, è diventato il presente. La Grecia mostra in maniera esemplare come le persone debbano smettere di vivere per anni per poter continuare a soddisfare i criteri capitalistici.
Nel momento in cui l'emissione monetaria non si limita più a rinviare la svalorizzazione dei titoli di debito, ma va ad alimentare direttamente la congiuntura economica per mezzo di denaro senza sostanza attraverso la simulazione del credito, lo stesso mezzo del denaro in sé si svalorizza. Anche l'inflazione ha un percorso storico preliminare. Se era quasi sconosciuta dall'industrializzazione alla prima guerra mondiale, le economie di guerra potevano essere finanziate solo attraverso l'emissione monetaria, irregolare in termini capitalistici. Ma dopo la guerra mondiale, il fantasma dell'inflazione divenne il compagno costante del capitalismo, dal momento che i sistema di credito espanso divenne costitutivo anche per la produzione ordinaria di merci. Oggi, i pacchetti di salvataggio hanno già superato le dimensioni dell'economia di guerra e l'inondazione diretta di denaro da parte delle banche centrali si rivela essere l'ultima risorsa. Perfino una riforma monetaria radicale, che annullasse tutti i patrimoni e i crediti, non porterebbe ad un punto zero e ad un nuovo inizio. In quanto l'aggregato di conoscenza della società, che non permette più una produzione sufficiente di plusvalore, è ineludibile. La svalorizzazione continuerà a ripetersi, solo che lo farà ad intervalli più brevi.
Avvenga quel che viene. Nonostante tutto la coscienza da esperienza mediatica non vorrebbe perder tempo con fastidiose realtà. La fine del mondo, annunciata dal calendario Maya per il 2012, è più un motivo di svago. L'importante è che la carta di credito non venga annullata. Anche per tutta la sinistra postmoderna, riconvertita alla socialdemocrazia, è più facile immaginare un capitalismo senza mondo che un mondo senza capitalismo. L'autodecostruzione finale viene definita come un assunto eccitante. Non succede tutti i giorni che uno possa permettersi un simile lusso.
- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Konkret del 02/2012 -
fonte: EXIT!
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