Valore senza crisi - Crisi senza valore?
- Sull'assenza di una teoria della crisi in Moishe Postone -
di Richard Aabromeit
"Una nuova interpretazione della teoria critica di Marx" è il sottotitolo del libro di Moishe Postone "Tempo, Lavoro e Dominio sociale" del 1993 [*1]. Questa bella dichiarazione fa venire l'appetito e se, come ho fatto io, si comincia a leggerlo pieni di grande aspettativa e poi, in seguito, si partecipa anche ad un seminario per poter completare la discussione del libro in un circolo di lettura, con partecipazione attiva - e sì, allora probabilmente quanto meno alcuni desideri si avverano, e vuol dire che in questo paese l'elaborazione della teoria critica non è poi messa tanto male... Eravamo fiduciosi, fin dall'inizio della nostra lettura e della nostra discussione cominciata più di un anno fa, che, al di là della definizione o della reinterpretazione di molte categorie sociali, come il genere, il valore, il lavoro, il denaro, il capitale ecc., il testo si sarebbe pronunciato circa quello su cui si può basare una prospettiva che punti al superamento della formazione sociale capitalista o del patriarcato produttore di merci: fornire, fra le altre cose, una teoria (radicale) della crisi. Tale teoria della crisi, da un lato, dovrebbe riferirsi ai frammenti in tal senso ammissibili di tutta l'opera di Marx, in particolare ai tre volumi del Capitale, ai Grundrisse e al Contributo alla Critica dell'Economia Politica. Dall'altro lato, si dovrebbe condurre la discussione anche nel senso di unire, collegare e trasformare questi frammenti, con l'obiettivo di effettuare il completamento e l'attualizzazione di tale teoria. Dopo la morte di Marx nel 1883, com'è noto, questi tentativi vennero intrapresi varie volte, ma in realtà più sporadicamente, fra gli altri da Rosa Luxemburg, Karl Korsch ed Henryk Grossmann. Dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, la questione della teoria della crisi scomparve quasi del tutto dal discorso sociale. Anche i/le pochi/e marxisti/e che provarono ad intervenire rinunciarono il più possibile a questo tema oppure si riferirono alle dichiarazioni di Marx sull'assunto in termini generali. Fu solo nel 1980 che presero la parola i rappresentanti del cosiddetto Circolo di Göttingen della Gioventù Socialista del SPD, con le loro "II Tesi di Göttingen", ossia più o meno in contemporanea con il momento clou della terza rivoluzione industriale. Sulla scia, emergono nuovamente testi da prendere sul serio che erano in relazione con la teoria della crisi o del presunto collasso e che riprendevano ancora una volta il filo sottile della teoria marxista della crisi. Tuttavia, questi sforzi rimasero essenzialmente limitati ad "Initiative Marxistische Kritik" (più tardi gruppo "Krisis", ed ora gruppo "EXIT!"). Al contrario, sia l'economia politica e la sociologia borghese che i marxisti tradizionali, la "Nuova Lettura di Marx" e, naturalmente, anche la sinistra del movimento tentarono, dapprima, di nascondere completamente il tema della crisi o della spiegazione della crisi, o di bandirlo dalla loro elaborazione teorica; successivamente, quando questo non poteva più essere plausibilmente giustificato, a causa dei dati empirici disponibili, si cominciò a polemizzare a tutti i livelli contro qualsiasi teoria della crisi. A partire dalla pretesa, di cui abbiamo detto all'inizio, di Moishe Postone, ci si sarebbe aspettato da parte sua un contributo ragionevolmente significativo a tale tematica - quanto meno, sarebbero stati opportuni alcuni riferimenti, oppure l'annuncio di successivi tentativi di voler riprendere nuovamente quest'insieme di problemi, vista la loro rilevanza. Purtroppo, né nel libro che abbiamo utilizzato come punto di partenza e come base per il seminario a Dresda si trova niente in questo senso, né Postone è tornato sul tema in qualche dichiarazione successiva, se non con qualche frase superficiale.
Al di là di tutti i meriti che devono senza dubbio essere riconosciuti al contributo di Postone alla discussione intorno al nuovo approccio della critica sociale radicale, la mancanza di una teoria della crisi getta un'ombra scura sulla qualità dei risultati ottenuti da Postone. Infatti, egli riconosce che ci deve essere una qualche sorta di crisi; ad esempio, scrive: "Il concetto qui delineato della complessa dinamica del capitalismo, è di grande rilevanza per la doppia crisi oggi imminente [sic] - la distruzione dell'ambiente ed il declino della società del lavoro" (Postone, 2013). Ma chi si aspettava che Postone ora entrasse nel concetto di "crisi" si ingannava; subito dopo, Postone prosegue soprattutto con il problema della "crescita": "Essa [la concezione di Postone] permette una critica sociale [piuttosto che tecnologica], che ha come oggetto il percorso della crescita e la struttura della produzione nella nostra società moderna." (ivi). E continua, affrontando da vicino il tema della crescita e non il tema della "crisi". Allontanandosi ancora di più da una teoria della crisi, formula: "Al contrario delle analisi di Robert Kurz, tuttavia, non credo che questi sviluppi portino necessariamente al collasso del capitalismo, anche se la dinamica di espansione comincia a paralizzarsi. Gli attuali sviluppi della crisi potrebbero, al contrario, portare alla costruzione di Stati altamente militarizzati, dove un gran numero di persone diventa obsoleto e viene mantenuto l'ordine attraverso misure repressive autoritarie. Questo è uno scenario molto sgradevole, ma, anche in questo modo, il capitalismo potrebbe sopravvivere" (Postone, 2012). Con queste indicazioni Postone abbandona, purtroppo, il suo livello di critica fondamentale del valore così meticolosamente elaborato; si immerge in una definizione statalista ed in un politicismo, per mezzo dei quali si può di fatto arrivare a descrivere le azioni minacciose dei detentori del potere, ma non riesce ad arrivare alla comprensione concettuale della situazione sociale. Così si rafforza il sospetto o che Postone non disponga nemmeno di una teoria della crisi, oppure che rifiuti assolutamente una simile teoria.
Cercare nel suo libro tracce di una teoria della crisi diventa estremamente difficile. Infatti anche Postone, come la maggior parte dei marxisti, cita il famoso passaggio dei Grundrisse di Marx ("Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo...". Ma, anziché coglie l'opportunità per sviluppare, almeno qui, una teoria della crisi, cosa che di fatto Marx ha potuto fare solo frammentariamente nel corso di tutta la sua opera, o quanto meno dare dei segnali in tal proposito, Postono si rivolge immediatamente ad uno dei suoi temi favoriti (qui: il lavoro). Ma il fatto che proprio questa citazione dei Grundrisse sia una dei più importanti riferimenti dello stesso Marx alla "questione di vita e di morte" del modo di produzione capitalista sembra del tutto sfuggire a Postone. Così dovrà andare a cercare un'altra possibilità che punti al di là della nostra formazione sociale, ed è quello che fa nel suo libro. Solo una pagina dopo la citazione del frammento delle macchine dei Grundrisse, Postone dice: "Il suo modo di intendere [di Marx] della contraddizione fondamentale del capitalismo non si riferisce essenzialmente alla contraddizione fra produzione sociale ed appropriazione priva [fin qui d'accordo; R.A.], me semmai alla contraddizione all'interno della sfera della produzione stessa, sfera che include il processo di produzione immediato e le relazioni sociali costituite nel capitalismo attraverso il lavoro" (Postone, 2003). Ma qualche pagina dopo, leggiamo: "Una teoria critica del capitalismo e delle possibilità del suo superamento, pertanto, dev'essere anche una teoria della costituzione sociale di tali necessità e forme d coscienza - una teoria che riesca ad affrontare i cambiamenti storici qualitativi della soggettività ed a comprendere conformemente i movimenti sociali presenti. Essa potrebbe gettare una luce nuova sul concetto marxiano di auto-abolizione del proletariato e svolgere un buon servizio ai fini dell'analisi dei movimenti sociali degli ultimi decenni." (Postone, 2003). Qui abbiamo il proletariato (oltre agli altri "movimenti") come attore: questo nel suo insieme costituisce una moltitudine socialmente rivoluzionaria, che Postone preferisce considerare, anziché formulare una teoria della crisi.
A questo punto, molti, fin dall'inizio scettici oppure ostili riguardo allo studio di Postone, potrebbero dire: quindi anche Postone è, in fondo, solo una specie di lottatore di classe in ritardo, oppure un rappresentante degli interessi degli oppressi e degli svantaggiati, solo ad un livello più nobile, a partire dal quale si può dedurre la critica del valore, e a partire dal quale, al di là di questo, si impedisce che il soggetto rivoluzionario (ad esempio, la classe lavoratrice insieme agli intellettuali e alle nuove classi medie, o la moltitudine [vedi Hardt/Negri, 2004] si focalizzi con troppa forza sulla questione della proprietà. Sì, quelli che pretendono di fare semplicemente questo, possono metter via sia il libro di Postone che questo testo e continuare come se niente fosse. Ma, per valutare adeguatamente l'importanza di Postone, vale la pena quanto meno un po' più di ricerca!
Infatti, anche se Postone rifiuta l'enfasi ortodossa sulla classe dei lavoratori (in senso tradizionale: tutti i lavoratori produttivi del capitale o della valorizzazione) come soggetto rivoluzionario al fine di rovesciare il capitalismo, dimostrando come la contraddizione di classe fra borghesia e proletariato sia una contraddizione puramente immanente a questa formazione sociale (cfr. Postone, 2003), tuttavia, attraverso il riferirsi a differenti "movimenti" sociali (ad esempio, movimenti di donne, movimenti di minoranze, fra gli altri), così come l'esaltazione implicita di quelli che, anche in un periodo post-capitalista, devono assicurare la necessaria "interazione dell'umanità con la natura" (Postone, 2003), egli ha costruito le basi per un altro soggetto rivoluzionario, non delineato con precisione, che ha il compito di abolire il valore e la classe lavoratrice. Si noti solo di passaggio che, curiosamente, Postone nel suo libro non tematizza per niente né lo statuto né il ruolo della borghesia - neppure come controparte dei movimenti sociali, come oppositrice al rovesciamento del capitalismo, né in alcun altro modo. Come può essere tutto questo che abbiamo appena menzionato, quando Postone rifiuta ripetutamente ed espressamente il marxismo tradizionale e del movimento operaio? Come può essere questo, quando egli ha ancora tanti meriti per quel che riguarda la reinterpretazione critica del valore di Marx ed il chiarimento della specificità storica del capitalismo? E per quale motivo non percepisce l'importanza di una teoria radicale della crisi, nonostante il fatto che pure i suoi meriti per quel che concerne la chiarificazione della dialettica della produzione delle merci patriarcale capitalista siano incontestabili?
Qui di seguito si tenta di trovare alcune delle ragioni (certamente non tutte) per colmare questa lacuna e mostrare cosa questo possa significare per il dibattito teorico: inoltre si mostrerà la rilevanza di una teoria radicale della crisi ai fini della comprensione della situazione attuale nella sua interezza.
La dialettica di trasformazione e di ricostituzione
La prima indicazione del fatto che Postone si sottrae dal riconoscere un limite interno, ossia, un ostacolo finale che rende impossibile al capitalismo di continuare ad esistere per sempre come "soggetto automatico" (Marx) e, pertanto, di superare la sua propria crisi finale, si trova nel capitolo "La dialettica di trasformazione e ricostituzione" (Postone, 2003). Essa mostra come il capitale, in un processo permanente di trasformazione, tenda ad una velocità di innovazione sempre più elevata e ad aumentare continuamente la produttività materiale nel processo di valorizzazione. Così, secondo Postone, dapprima aumenta la massa di valore sociale globale; ma una volta generalizzato il nuovo livello di produttività, in forza della concorrenza sul mercato, e diventando così ora il nuovo livello normale, medio, la massa di valore torna a cadere al livello precedente. In questo modo si sarebbe pertanto ricostituita la forma valore della ricchezza sociale. Postone scrive: "A questo punto posso aggiungere che essa [la legge del valore; R.A.] implica categorialmente la pressione per dei livelli di produttività sempre crescenti, che trasformano in maniera permanente la vita sociale nella società capitalista e ricostituiscono continuamente le sue forme sociali di base" (Postone, 2003). Invece di analizzare la scala sempre più sviluppata di questi processi, egli insiste sul loro semplice permanere. Questi processi potrebbero ancora essere disturbati solo attraverso influenze esterne, come l'intervento della politica, o di gruppi sovversivi, o a causa di problemi ecologici nel metabolismo con la natura. Quindi, le possibilità di superare la nostra formazione sociale sarebbero limitate alle attività sovversive di gruppi volti a far questo (movimenti sociali nel senso più ampio) oppure a fattori naturali (degrado ambientale, ecc.). Postone, passando dalla porta di servizio, probabilmente senza rendersene conto, si avvicina in maniera sospetta alle posizioni del marxismo tradizionale e del movimento operaio, così come a quello di altri gruppi di protesta. Una configurazione cosciente di una società transcapitalista non può essere realizzata da partiti sovversivi e/o critici e/o rivoluzionari della popolazione, ma solamente da tutti - e quindi tutti dovrebbero essere coinvolti nella costruzione di una nuova società!
La dialettica del modo di produzione capitalista reclamata da Postone non si mostra solamente nelle circostanze da lui descritte, a ragione, come "effetto tapis roulant" [treadmill effect]" (Postone, 2003); in considerazione di tale "effetto" viene deliberatamente da lui ignorato "che l’aumento di produttività deve logicamente arrivare a un punto in cui sarà dispensato più lavoro astratto di quello che potrà essere addizionalmente mobilitato ancora dall’espansione dei mercati e della produzione. Dunque anche l’aumento di plusvalore relativo per lavoratore individuale non è di alcuna utilità, perché il numero dei lavoratori nell’insieme utilizzabili diminuisce troppo. Si può dimostrare che questo punto astrattamente anticipato da Marx è storicamente e concretamente raggiunto con la terza rivoluzione industriale. Se così non fosse il capitale avrebbe potuto mobilitare bastante lavoro astratto sulla base dei suoi stessi fondamenti produttivi, e aumentare la produzione di valore reale, invece di sostituirla su una scala senza precedenti, attraverso il debito, le bolle finanziarie e il credito pubblico." [*2]. Nessun aumento. Il concetto summenzionato di "effetto tapis roulant" in Postone porta a colmare lo sviluppo della contraddizione interna del modo di produzione capitalista. Per il fatto che, nell'opinione di Postone, la valorizzazione del valore si ricostituisce continuamente, come in un tapis roulant - per sempre? - tutte le crisi che possono nascere saranno, in linea di principio, superabili, seppure, possibilmente, con gravi problemi. Da questo punto di vista, ogni e qualsiasi crisi, in un modo o nell'altro, non è altro che una fase della sovraccumullazione o del sottoconsumo, e a queste crisi seguono sempre, dall'inizio del capitalismo ad oggi, fasi di prosperità - ergo: perché ci sarebbe bisogno e perché dovrebbe servire una teoria della crisi, tanto più una teoria della crisi che parla di un limite assoluto - che di fatto, per Postone, non può essere raggiunto? Vista così, la posizione di Postone non appare certo migliore, ma sembra più comprensibile.
Il concetto ambiguo del lavoro - e quello del valore
Un secondo indizio circa il motivo dell'assenza di una teoria della crisi in Postone, potrebbe essere il fatto per cui egli non affronta con rigore il concetto di lavoro. Da un lato, rifiuta ben a ragione un'ontologizzazione di questo concetto e, pertanto, la sua rilevanza trans-storica: "Il fatto che Marx tratti il valore come una categoria storicamente specifica di uno specifico modo di produzione e non solo come una categoria di distribuzione indica - e questo è fondamentale - che il lavoro che costituisce il valore non dev'essere identificato con il lavoro in un senso trans-storico. Invece, esso rappresenta una forma storicamente specifica che, con l'abolizione del capitalismo, verrà abolita e non realizzata" (Postone, 2003); dall'altro lato, questo concetto di "lavoro" scivola ripetutamente verso il trans-storico, ad esempio: "La possibilità che il lavoro sociale in una società post-capitalista possa essere più interessante e gratificante non significa, tuttavia, un'utopia del lavoro. Non si lega alla nozione della centralità del lavoro rispetto alla vita sociale. Si basa invece sulla negazione storica del ruolo socialmente costitutivo che il lavoro occupa nel capitalismo" (Postone, 2003). Oppure: "La necessità trans-storica ha il suo fondamento nella vita umana stessa, nel fatto che le persone sono parte della natura - seppure solo indirettamente, nella misura in cui esse controllano il loro 'metabolismo' con la natura attraverso il lavoro" (Postone, 2003). Se Postone, quindi, ammette una qualità trans-storica del lavoro, di qualsiasi tipo essa sia, oppure solo la insinua, ontologizzando in tal modo più o meno questo concetto, allora emergono una quantità di problemi. Il concetto di lavoro viene attribuito alla natura dell'essere umano stesso, oppure viene inteso equivocamente con una propria natura (che nel capitalismo avrebbe solamente assunto una cattiva forma che dovrebbe essere preferibilmente soppiantata); di conseguenza, i diversi periodi storici fanno soltanto rispettivamente da sfondo ai diversi stadi di sviluppo, o forme sociali, del lavoro. Così, il "lavoro" (concreto) può essere considerato di per sé solamente rivoluzionario o sovversivo e i suoi prestatori (oggi il proletariato ed i suoi alleati) come coloro che decono passare il testimone della storia - detto in altre parole, devono effettuare la liberazione finale del lavoro da tutte le sue catene storiche. Ecco che il lavoro non può più continuare ad essere concepito come specificamente capitalista. Ma, su un simile sfondo, non si può neanche più assumere una qualità del lavoro costitutiva della sostanza del valore (che sarebbe specificamente capitalista). Alla fine, rimane senza risposta la domanda che chiede di sapere da dove provenga il valore - questione che, del resto, già David Ricardo non si era posto, cosa che era stata commentata con disprezzo da Marx. Se la formazione del valore continua a dover essere chiarita, o rimane poco chiara, allora dover formulare una teoria della crisi non è per niente facile. Possibile che Postone abbia semplicemente deciso di eluderla.
Ma la concezione di valore e, quindi, anche la sua spiegazione e quella della sua origine è di grande importanza per il proseguimento del modo di produzione capitalista e per le sue crisi: l'innovazione dei capitali individuali, costretti dalla concorrenza ad un movimento di realizzazione - un movimento che avviene al livello della totalità - e sempre in accelerazione, porta in primo luogo a che per ciascuna unità di tempo possano essere create ogni volta sempre più unità materiali. Ceteris paribus, pertanto, per pezzo fisico di prodotto c'è una quantità sempre minore come quota-parte del valore della produzione del valore sociale totale. Mentre a causa dell'espansione interna ed esterna può essere ancora sottomessa più forza lavoro al modo di produzione capitalista che compensa l'eccedenza superflua con l'aumento della produttività, questo in realtà non appare e ha come conseguenza che, nonostante tutto, viene ancora prodotta una massa di plusvalore sufficiente a motivare investimenti di capitale nell'industria. Tuttavia, almeno a partire dal culmine della terza rivoluzione industriale nei decenni del 1970/1980, questo si ottiene sempre meno. In altre parole: la massa di plusvalore (a livello mondiale) si mantiene costante o comincia a diminuire - a misura che sempre più forza lavora viene rimossa dal processo di produzione. Ma, mentre continua ad aumentare la produttività (vedi sopra), la massa di plusvalore per unità fisica di prodotto tende a zero. Così, vale sempre meno la pena di un investimento nella produzione industriale di merci; il che è empiricamente verificabile senza difficoltà, in quanto diventa sempre più evidente nella dislocazione di parti di capitali che vengono liberati per opportunità di investimenti lucrativi, ossia redditizi, soprattutto nei costrutti finanziari vecchi e nuovi.
Teoria senza empirìa?
Un terzo indizio del motivo per cui Postone si astiene da una teoria della crisi può essere il fatto per cui egli rinuncia quasi completamente a riferirsi a dati empirici e ad interpretarli oppure li spiega usando le sue conclusioni. Ora, ovviamente, si deve concedere ad un libro che expressis verbis pretende di contribuire all'elaborazione teorica fra marxisti per cui il fuoco della discussione non può essere costituito da esami in serie né da inchieste a lungo raggio. Ma, purtroppo, le relazioni sociali non si esprimono insieme ai loro concetti di per sé nella realtà fisicamente percepibile. Al contrario, sono i dati empirici e statistici che descrivono caso per caso le attuali situazioni, sviluppo e forme di movimento nelle numerose contraddizioni. Questi dati sono di fatto sempre largamente mediati, confusi e travisati, a volte anche falsificati; nonostante questo, essi sono tuttavia l'espressione visibile della situazione sociale attuale. L'aforisma "La teoria è empirica e l'empirìa è teorica" potrà forse sembrare banale - ma esprime assai bene quello che si vuol dire qui. In primo luogo, le crisi possono essere lette come dati di realtà che muta. E' chiaro che solo attraverso lo studio delle cifre e dei fatti più recenti di per sé non si ottiene una spiegazione di ciò che realmente avviene - ma anche senza il loro studio non si ottiene niente. Pertanto, potrebbe benissimo darsi che Postone, anche a causa della rinuncia a tali dati, potrebbe essere stato portato a non riconoscere sufficientemente la crisi, ad includerla in maniera molto banale nella serie di crisi storiche a partire dal 1825, non arrivando in questo modo a pensare più profondamente su tutto questo, di modo da potersi indirizzare verso un tipo di teoria della crisi. Questa sua omissione di empirìa porta anche, in seguito, all'enfasi esagerata della mediazione sociale - che finisce per arrivare alle conseguenze summenzionate.
La vecchia questione fondamentale della sostanza del valore
Il quarto ed ultimo punto, volto a giustificare l'assenza di una teoria della crisi in Postone potrebbe essere spiegato in poche parole con il malinteso, da parte sua, nell'approccio alla sostanza del valore, o al lavoro astratto. Mi riferisco qui espressamente alle osservazioni di Robert Kurz fatte in EXIT! 1 e in EXIT! 2, sul tema La sostanza del capitale (Kurz, 2004 e 2005).
Come già riferito nella sezione precedente, "Il concetto ambiguo di lavoro - e quello di "valore", la sostanza che rappresenta il valore è formata dal dispendio di lavoro astratto della forza lavoro applicata alla valorizzazione del valore. E' vero che questa formazione della sostanza avviene nella sfera della produzione, ossia, nella mediazione sociale della relazione di capitale - fin qui possiamo seguire Postone - ma questo fatto non spiega che il dispendio di lavoro astratto abbia un aspetto quantitativo, espressamente della sostanza; la cui "quantità" non può di fatto apparire solo di per sé. Ma, una volta che essa arriva ad esistere solo per mezzo del dispendio di lavoro socialmente necessario nel corso di un certo periodo di tempo, il suo presupposto è qualitativo (la relazione di mediazione sociale) e quantitativo (la durata del dispendio di forza lavoro astratto socialmente necessario). Attraverso l'unico criterio della determinazione della sostanza del valore ammesso da Postone, ossia, quello della mediazione sociale, può essere spiegato solamente il lato qualitativo del valore. Ma dal momento che la crisi attuale mostra che la sostanza del valore, vista a livello mondiale, si sta evidentemente dissolvendo - in altre parole, si sta quantitativamente riducendo - Postone qui deve abbassare le vele (o nemmeno arrivare ad alzarle) e rinunciare preventivamente a qualsiasi teoria della crisi.
Conclusione
La contraddizione invocata da Postone fra ricchezza materiale e ricchezza astratta - in contrasto con il "marxismo tradizionale" che vede la contraddizione principale del modo di produzione capitalista fra lo stato delle forze produttivo e quello delle relazioni di produzione (e, pertanto, presenta il lavoro sfruttato in una contraddizione fondamentale e storica con i proprietari di capitale che si arricchiscono) - è logicamente corretta, ma non è sufficiente a postulare un momento che mira a superare la nostra formazione sociale. Anche la contraddizione - in sé analizzata in maniera pertinente - fra la trasformazione permanente e la ricostituzione continuata non punta al di là del capitalismo. Al contrario, non si può escludere che questa contraddizione costituisca un campo permanente di tensione in cui si dispiegano i conflitti sociali che permettono sempre una potenziale soluzione compatibile con il sistema; i fondamenti del capitalismo, pertanto, non sono minacciati fondamentalmente, ma solo ripetutamente messi in un pericolo che si afferma regolarmente attraverso la violenza delle crisi e delle sue forme di movimento. Una teoria radicale della crisi, al contrario, deve stare nella posizione di dimostrare che il capitalismo, con il suo "movimento in sé" (Marx), distrugge la sua stessa base e, in questo modo, può essere soppiantato dall'azione storica socialmente cosciente dell'umanità. Ma Postone non vuole pensare fino a questo punto.
- Richard Aabromeit - dal Seminario di lettura della critica della dissociazione-valore sul tema "Moishe Postone, fra la critica del valore ed il marxismo tradizionale", Dresda, maggio 2014 -
NOTE:
[*1] - Pubblicato nella traduzione tedesca nel 2003. Postone, prima dell'edizione americana del 1993, aveva scritto una dissertazione che precorreva il libro.
[*2] - Robert Kurz - intervista ad Ulrich Leicht del 13/5/2010
fonte: EXIT!
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