La dérive: superamento dell’arte o opera d’arte?
- di Anselm Jappe -
Tracciare i confini tra la «deriva» di origine situazionista, la flânerie, la passeggiata, la città come soggetto artistico e l’urbanismo sembra facile. Ecco allora il passare comodamente da un tema all’altro, da Debord a Walter Benjamin, da Baudelaire all’arte razionale, dall’esplorazione delle catacombe parigine alla Land Art. In questo testo propongo di concentrarmi sul rapporto tra deriva situazionista ed alcune pratiche artistiche contemporanee e di interrogarmi sulla filiazione.
Quando oggi parliamo di artisti che fanno appello all’esperienza situazionista, li collochiamo, in effetti, affianco al «détournement», alla «deriva» e alla «psicogeografia», all’esplorazione urbana. A tale proposito vengono citati dei gruppi come quello italiano, Stalker (1), e artisti del calibro di Philippe Vassort, Gabriel Orozco, Francis Alys, oltre a coloro le cui opere sono state esposte, nel 2003, al Palais di Tokyo in occasione della mostra «Global Navigation System». Le derive psicogeografiche, insieme al détournement, in Italia, negli anni Novanta, erano ugualmente al centro delle prime attività del gruppo Luther Blisset. Al di là del contesto artistico, sembra che la psicogeografia sia diventata, soprattutto in Gran Bretagna, un punto di riferimento nel campo dell’arte, della letteratura, dell’architettura, delle manifestazioni, del cinema e del militantismo politico-sociale; come dimostra Will Self, autore di romanzi popolari con la sua rubrica PsychoGeography, pubblicata inizialmente sulla rivista della British Airways, adesso sul quotidiano The Indipendent. (2)
Parlando di esperienze simili, il riferimento ai situazionisti, ai lettristi e alla deriva che hanno inventato, appare quasi inevitabile, è d’obbligo. Ma è appropriata questa filiazione, è giustificata? Il fatto stesso di porsi la domanda potrebbe stupire. Sarebbe in effetti paradossale ricorrere al principio di autorialità e giudicare gli artisti di oggi sulla base della loro fedeltà allo spirito situazionista – tanto più che, in genere, questi artisti non pretendono affatto di riprodurre l’esperienza situazionista. Vogliono semplicemente prenderla come punto di partenza per farne qualcos’altro. Senza contare che spesso sono i critici d’arte o i media ad attribuire l’appellativo «situazionista» a degli artisti che non immaginano di farlo di propria iniziativa. Il valore delle pratiche artistiche che si vogliono figlie della deriva situazionista, o che sono considerate tali dalla critica, non si discute.
Tuttavia è possibile analizzare le innegabili differenze tra la deriva originale e le pratiche contemporanee – non per distribuire il marchio di autenticità, bensì per evitare di far annegare la specificità situazionista nel calderone. A parte camminare in città, siamo di fronte allo stesso progetto? Oppure, in altre parole, l’esperienza situazionista è stata necessaria affinché esista oggi la passeggiata come attività artistica? Possiamo dire che, nonostante un certo rigoglio di artisti contemporanei che passeggiano, la deriva dei situazionisti e dei lettristi è rimasta priva di eredi, così come molte altre cose che hanno fatto? Se un simile approccio non dirà niente sul valore delle pratiche comparate, aiuterà forse a comprendere un po’ meglio la differenza tra due epoche, e di conseguenza anche tra le pratiche culturali nate nel mentre.
La deriva, così come è stata sviluppata a partire dal 1953 dai «giovani lettristi» (e soprattutto da Guy Debord e Ivan Chtcheglov), non era concepita come una forma artistica. Si trattava di inventare un nuovo tipo di vita, e in questo senso la deriva si collocava all’interno della tradizione surrealista – del primo surrealismo, quello degli anni venti, che voleva inventare un nuovo modo di esistere nel quotidiano, anziché produrre degli oggetti artistici. Tutt’al più i protagonisti scrivevano sulle proprie esperienze. Per Debord ed i suoi amici, la deriva era un modo di vita permanente, piuttosto che un’esplorazione temporanea della città. Poteva durare dieci giorni o qualche mese. Ecco allora che acquista un senso diverso, ovvero quello di una fetta di vita errabonda, estremamente intensa. Nel 1954, sulla rivista dell’Internazionale lettrista Potlatch si leggeva: «Arthur Cravan è psicogeografico nella pressante deriva» (3), nella sua deriva durata quasi per tutta la sua breve vita, soprattutto in quanto «disertore di diciassette nazioni», come lo ricorderà in seguito Debord (4). Allo stesso modo, i giovani lettristi vedevano nel romanzo Sotto il vulcano di Malcom Lowry, molto ammirato, il racconto di una deriva su un fondo d’alcool. (5) La loro attività, nell’insieme, era una deriva, e Debord stesso lo affermò venticinque anni dopo: «La formula per capovolgere il mondo non l’abbiamo cercata nei libri, bensì errando. Era la deriva delle grandi giornate, quando niente assomigliava al giorno prima, e non si arrestava mai. Incontri sorprendenti, ostacoli significativi, tradimenti grandiosi, incantesimi pericolosi, non mancava niente nella ricerca di un altro Graal funesto, voluto da nessuno» (6).
La deriva porta molto meno all’esplorazione di qualcosa di completamente nuovo, e un po’ più verso un’osservazione diversa di ciò che si conosce già, al limite può consistere nel passare da un bar a quello accanto, o nel limitarsi in uno spazio stretto come quello della stazione di Saint-Lazare (7). Il nomadismo è al contempo mentale, e possono farne parte delle letture, delle discussioni, delle fantasticherie e soprattutto delle bevute. Si potrebbe dire che le derive «esplicite», con un inizio ed una fine, come quelle raccontate da Debord nei «Due resoconti di una deriva» (8), non sono che i punti culminanti di un’esistenza condotta come un’eterna deriva. Nel 1959, Debord afferma che «le esperienze di deriva, di fatto, sono state fatte, e sono state lo stile di vita dominante di qualche individuo per diverse settimane o mesi» (9). In seguito, Constant, membro dell’I.S. dal 1958 al 1960, ha elaborato il progetto per la sua ben nota città utopica Nuova Babilonia, all’epoca fortemente influenzato da Debord. Si pensava dovesse servire per una «deriva continua» degli abitanti su scala mondiale. Si sarebbe dovuta chiamare infatti Deriveville. (10)
La deriva lettrista non era compatibile con uno stile di vita borghese e «il sentimento della deriva si ricollega naturalmente ad un modo più generale di affrontare la vita» (11). Faceva parte di un progetto di vita globale, non lo si poteva esercitare soltanto durante delle ore prestabilite per poi ritornare a lavoro. Non generava alcuna rendita economica, non era soggetta a ricevere l’ammirazione «del mondo dell’arte» e non si sottoponevano i risultati raggiunti alla commissione urbanistica del comune. L’esplorazione urbana non era che una parte della «ricerca del passaggio a nord-est» che avrebbe dovuto condurre alla «vera vita» – metafora utilizzata a più riprese da Debord, tratta a sua volta dalle opere dello scrittore inglese Thomas de Quincey. La deriva fa parte di un’attitudine sovversiva permanente che, tra le altre cose, vuole uscire dall’arte così come da ogni altra forma di alienazione della società borghese. Era anzitutto una condizione d’animo che acconsentiva a delle esplorazioni urbane che non erano soltanto delle semplici passeggiate o flâneries. Nel suo testo programmatico «Teoria della deriva», pubblicato nel 1956, Debord in effetti si preoccupa di stabilire questa distinzione fin dall’inizio: «tra le diverse norme situazioniste, la deriva si definisce come tecnica di passaggio prematuro attraverso vari ambienti. Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscimento degli effetti della natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico-creativo, cosa che si oppone totalmente alle nozioni classiche di viaggio e passeggiata» (12). Questi ultimi infatti, contrariamente alla deriva, non portano ad un atteggiamento ludico-creativo, restano piuttosto nella pura contemplazione, nell’inattività, nel godimento estetico. Tutti gli sforzi situazionisti miravano invece ad uscire dalla contemplazione socialmente organizzata – che chiamano spettacolo – per andare verso la realizzazione di quel contenuto che l’arte si limita a guardare impotente. La città rappresentava per loro un «teatro delle operazioni» (13), un terreno d’intervento.
La deriva non era soltanto un’osservazione di ciò che esiste già. I deriveurs si consideravano piuttosto degli esploratori, dei «giovani persi» sempre pronti a lanciare un attacco, e proprio quell’attacco diventava la trasformazione di ciò che esiste già. Le metafore militari – tanto care a Debord – rivelano un rapporto aggressivo con il mondo circostante e il desiderio di intervenire in maniera forte. Il centro d’interesse era piuttosto la città così come potrebbe essere, oppure, come sostenevano i situazionisti, un «paesaggio da inventare» (14). Del resto, le proposte utopiche come il Formulario per un nuovo urbanismo si Ivan Chtcheglov (15) e l’idea di Urbanismo unitario rivelavano, affianco al loro innegabile lato ludico, il progetto di ricostruire in lungo e in largo le città, poiché quelle esistenti sono il testimone di una cattiva storia, scritta dai poteri del posto. La critica risoluta all’urbanismo, che ha costituito uno degli elementi più caratteristici dell’agitazione situazionista negli anni ’60, era evidentemente una conseguenza delle perlustrazioni psicogeografiche degli anni ’50, oramai private della parte «costruttivista» e ludica.
Si può constatare che tra i situazionisti, e già tra i giovani lettristi, l’aspetto «poetico», vale a dire «magico» della città e della sua scoperta era nettamente meno importante rispetto ai surrealisti. Per Debord e i suoi, il contesto doveva essere ben più «materialista»: è l’ambiente a fare gli uomini, bisogna dunque agire sui luoghi per creare delle nuove situazioni – in un primo tempo a piccoli gruppi, in seguito a livello della società intera. Ecco il rimprovero generale che i situazionisti indirizzavano ad altri situazionisti: di meravigliarsi troppo davanti al mondo, anziché intervenire.
A partire già dal 1954, Debord parla di un’«etica della deriva» (16). Non è dunque né «un’esperienza estetica» («il nostro tempo vede morire l’Estetica» scrive Debord in uno dei suoi primi testi (17)), né una «tecnica» applicabile a qualsiasi ambiente o contesto. Quando nel 1960 un gallerista tedesco propose ai situazionisti di organizzare una deriva nella città di Essen – una città industriale della Ruhr, senza memoria né storia – Debord rispose sostenendo che quella città era «inappropriata per la deriva» (18). Il misero piano psicogeografico di Parigi che concepì poco più tardi, nel 1988, indica che perfino la Ville-Lumière non è più adatta alla deriva, o quasi, e da oramai tanto tempo (19). Amsterdam, al contrario, almeno negli anni ’60, era considerata dai situazionisti una città degna di essere esplorata da gruppi di deriveurs muniti di strumenti tecnologici come dei walkie-talkies. Tuttavia il progetto della deriva che si sarebbe dovuta tenere nel 1960 in occasione di un’esposizione sul labirinto progettata dai situazionisti in un museo di Amsterdam fu infine annullato – probabilmente anche perché avrebbero corso il rischio di far entrare la deriva nel mondo dell’arte (20). Ed è stato proprio a partire da quel momento – da quel pericolo scampato – che Debord ha spinto definitivamente verso una rottura con ogni pratica artistica, consacrata dall’I.S. nel 1962.
Sebbene non si situasse in una prospettiva artistica, la deriva non era totalmente estranea all’arte: si trattava fin dall’inizio di praticare il «superamento dell’arte», anche se Debord non utilizzava ancora questa parola di origine hegeliana. L’idea era tuttavia presente già nel 1954: la storia dell’arte si è conclusa, si tratta adesso di realizzarne il contenuto nella vita quotidiana, nella situazione costruita, in nuovi comportamenti e negli ambienti propizi a stimolarli. Le arti tradizionali, dal teatro all’architettura, dovevano contribuire a creare le condizioni materiali e spirituali di un’altra vita. La deriva trae dunque il proprio senso inserendosi in questo progetto grandioso.
La deriva lettrista e situazionista non era artistica in senso abituale, la sua forza risiedeva piuttosto nella combinazione di due aspetti. Da un lato, quello che si potrebbe dire «scientifico» e che si esprimeva attraverso delle osservazioni sistematiche e si ripeteva nella produzione di piani psicogeografici. Dall’altro lato, la componente «avventura», più prossima allo spirito surrealista. Qui come altrove, i lettristi ed i situazionisti volevano essere dei surrealisti più «razionali», materialisti e politici, come lo erano nei loro «progetti di abbellimento razionale della città di Parigi» (21), détournement delle possibilità di «abbellimento irrazionale di una città» proposta venticinque anni prima dal gruppo surrealista. Vediamo qui la capacità di trasfigurare la realtà, che può ricordare quella dei bambini per i quali un colore diventa un passo di montagna pericoloso e la cantina di un palazzo si trasforma nella grotta di Ali Babà. La carta di Parigi di Ivan Chtcheglov (22)– o dei pezzi di carte geografiche di paesi esotici come l’Alaska o l’Africa vengono incollati su un piano di Parigi – lo dice chiaramente: si trattava di attraversare i diversi luoghi di Parigi come se fossero il paese più esteso e avventuroso del mondo. Senza alcun bisogno di incorrere in avventure pericolose in senso tradizionale e letterale del termine (come fanno ad esempio gli speleologi(23)): chi sa vedere la città in maniera differente – e lo sa fare poiché vive in maniera differente – può percorrere le strade attorno a Place Contrescarpe nel V arrondissement come se si trattasse di un continente i cui contorni si scoprono man mano (24). La rivolta dei sensi, ottenuta soprattutto grazie all’alcool, aiutava a mettersi nella giusta predisposizione d’animo. Ma fino ad ora non si è sottolineato abbastanza il lato «infantile» di questa trasfigurazione della realtà, al quale i surrealisti erano forse più sensibili («Ogni mattina dei bambini escono tranquilli. Tutto è vicino, le peggiori condizioni materiali sono eccellenti. I boschi sono bianchi o neri, non si dormirà mai […].Lo spirito che si immerge nel surrealismo rivive con esaltazione la parte migliore della propria infanzia. […] È forse l’infanzia che più si avvicina alla “vera vita” […] Grazie al surrealismo, sembra che ritornino le sue possibilità. È come se si corresse ancora per salvarla, o perderla. Si rivive, nell’ombra, un terrore prezioso […]. Si attraversa con un trasalimento ciò che gli occultisti chiamano dei «paesaggi pericolosi» (25) si legge nel primo Manifesto Surrealista – le parole paesaggio pericoloso sono sottolineate da Breton). I situazionisti, al contrario, non hanno mai fatto riferimenti positivi all’infanzia.
I lettristi e i situazionisti non sono stati gli inventori di quello sguardo trasfiguratore che «raddoppia» la realtà. Lo si ritrova, ad esempio, in un racconto di Edgar Allan Poe, I ricordi di M. Auguste Bedloe, che Debord amava molto (26) così come in alcune poesie di Rimbaud. Ma i situazionisti ritenevano possibile passare alla realizzazione di quei sogni diurni – e non soltanto in quanto destino individuale, bensì sotto forma di rivoluzione sociale, o di un’altra forma di avventura collettiva. Ecco perché avevano vissuto le loro derive, fin dall’inizio, come una ripresa delle erranze dei cavalieri nella foresta, di cui parlano i racconti medioevali. Deriva non significa abbandonarsi al caso, ma calcolare verso quali impressioni e quali situazioni si vuole andare, l’avventura per loro non era da subire bensì da costruire. In uno dei suoi primi testi, Per una costruzione delle situazioni, scritta nel 1953, a 21 anni, Debord proclama: «la nostra influenza nelle arti non è che l’abbozzo della superiorità che intendiamo avere sulle nostre avventure, destinate a degli azzardi comuni» (27). La deriva doveva vivere dell’unità contraddittoria della sregolatezza e della sovranità.
Tuttavia Debord, ben presto, accantona le inclinazioni mistiche nonché sentimentali – diciamo troppo «poetiche» – di Chtcheglov per dare un carattere più sistematico, razionale e «scientifico» alla deriva, senza tuttavia dimenticare l’effetto di «spaesamento» personale. Nel 1959 scrive per Constant delle note sul rapporto tra ecologia e psicogeografia (per ecologia all’epoca si intendeva una sociologia urbana di origine americana, rappresentata in Francia soprattutto dalle ricerche del sociologo Chombard de Lauwe, citato a più riprese nelle pubblicazioni situazioniste). Scrive Debord: «l’ecologia propone lo studio della realtà urbana di oggi e ipotizza qualche riforma necessaria per armonizzare il contesto sociale che conosciamo. La psicogeografia, che non ha senso se non come dettaglio di un’impresa di rovesciamento di tutti i valori della vita attuale, si colloca sul terreno della trasformazione radicale dell’ambiente. Lo studio di una “realtà urbana psicogeografica” non è che un punto di partenza per le costruzioni più degne di noi». E ancora: «leghiamo l’urbanismo ad una nuova idea di piacere e, più in generale, esaminiamo l’unità di tutti i problemi di trasformazione del mondo; non riconosciamo la rivoluzione se non nella sua totalità». È dunque, a ragione, la prospettiva della totalità a distinguere la psicogeografia dall’ecologia, o meglio dalla sociologia urbana. Ed è legata al proseguo della società esistente, con il lavoro e i divertimenti, senza riuscire a immaginarne un cambiamento radicale. Scrive di nuovo Debord: «l’ecologia è rigorosamente prigioniera dell’habitat e dell’universo del lavoro […] l’ecologia coglie infatti soltanto la pseudo-libertà del divertimento che è il sottoprodotto necessario al mondo del lavoro» (28). Frasi che suonano ancora attuali!
Lo spaesamento personale e la ricerca di un urbanismo psicogeografico sono dunque due aspetti della deriva. In «Teoria della deriva», Debord fa l’esempio del taxi: prenderlo durante una deriva significa che il deriveur «si affeziona soltanto ad uno spaesamento personale. Se si tiene all’esplorazione diretta di un territorio, si mette al primo posto la ricerca di un urbanismo psicogeografico» (29). Questi due aspetti sono spesso uniti, ma nel corso degli anni è stato possibile osservare tra le derive proposte dai lettristi e successivamente dai situazionisti uno spostamento in favore del secondo aspetto. L’ultimo articolo consacrato esplicitamente alla psicogeografia è il «Saggio di descrizione psicogeografica del quartiere parigino Les Halles» dovuto a Abdelhafid Khatib e pubblicato nel 1958 sul primo numero dell’Internazionale Situazionista. Tende piuttosto all’aspetto «ecologico».
Ci si potrebbe quasi sorprendere del fatto che già da piccolo Debord combinasse l’aspirazione a elaborare una nuova vita su scala globale – a un’altra civilizzazione – con delle preoccupazioni psicogeografiche talvolta davvero minuziose. Ma per lui, come spesso sosteneva, tutto serve a «elaborare comportamenti totalmente nuovi» (30). È proprio questa coesione tra l’azione concreta e la prospettiva universale ad essere cambiata nel tempo. La deriva, all’epoca, non era una pratica artistica né anti-artistica o semplicemente sociologica, non era neppure soltanto un divertissement, ma costituiva un primo abbozzo di superamento dell’arte, di quella soppressione e realizzazione dell’arte per tutto il tempo creduto possibile dai situazionisti.
- Anselm Jappe - Pubblicato su Millepiani/Urban n°5 del 2013 -
Note
1. Vedi in proposito Anselm Jappe, «Stalker: l’Art en marche», in LAURA n.8, cttobre 2009.
2. Secondo http://en.wikipedia.org/wiki/Psycogeography, visitato il 3.11.2010
3. Potlatch n.2 (1954), in Guy Debord, Oeuvres, Gallimard, collection Quarto, Parigi, 2006, p. 136
4. In Girum imus nocte et consumimur igni (1978), in Oeuvres, p. 1362
5. Si veda la lettera di Guy Debord a Patrick Straram del 31.10.1960 in Guy Debord, Correspondance, vol. II, Fayard A., parigi, 2001, pp. 37-42
6. In Girum imus nocte et consumimur igni (1978), in Oeuvres, p. 1378
7. Théorie de la dérive, pubblicata in “Les lèvres nues” n. 9, (1956), in Oeuvres, p. 254
8. Deux compte-rendusde dérive, pubblicati in “Les lèvres nues” n. 9, (1956), in Oeuvres, p. 257-263
9. “Écologie, psychogèographie et transformation du milieu humain”, (1959), in Oeuvres, p. 457
10. Guy Debord, Correspondance, vol I, A. Fayard, Paris, 1999, p. 336
11. “Théorie de la dérive”, in Oeuvres, p. 257
12. “Théorie de la dérive”, in Oeuvres, p. 251
13. Titolo di un passo della sezione francese dell’I.S. (1958), in Oeuvres, p. 354
14. Cahiers pour un paysage à inventer era il nome di una rivista nella quale Patrick Staram, ex membro dell’Internazionale Lettrista, ha pubblicato in Canada, nel 1960, una serie di testi situazionisti (c.f. Internationale Situationniste n.5, p.10)
15. Riprodotto in Internationale Situationniste n. 1 (1958)
16. «Risposte dell’Internazionale lettrista a due inchieste del gruppo surrealista belga» (1954), in Oeuvres, p. 121
17. “Manifeste pour une construction de situations”, (1953), in Oeuvres, p.105
18. Die Welt als Labyrinth, in “Internationale Situationniste”, n. 4 (1960), p. 7
19. In Oeuvres, p. 1652-53
20. Die Welt als Labyrinth, in “Internationale Situationniste”, n. 4
21. Progetto d’abbellimento razionale della città di Parigi, (1955) in “Potlatch” n. 23, in Oeuvres, pp.213-216
22. Riprodotto in Figures de la négation. Avant-gardes du dépassement de l’art (organizzazione Yan Ciret), Museo d’arte moderna Saint-Étienne, 2004, p.23
23. Progetto d’abbellimento razionale della città di Parigi, (1955) in “Potlatch” n. 23, in Oeuvres, pp.213
24. Guy Debord Position du Continent Contrescarpe, in “Les Lèvres nues” n. 9 (1956), in Oeuvres, p. 264
25. André Breton, Manifeste du surrealisme (1924), Gallimard, collection Folio, Paris, 1988, pp.13-14 e 52
26. Lettera a Ivan Chtcheglov del 1954, in Guy Debord, Le Marquis de Sade a des yeux de fille, Fayard A., Parigi, 2004, p. 173
27. In Oeuvres, p. 107
28. “Écologie, psychogéographie et transformation du milieu humain” (1959), in Oeuvres, p. 457- 462
29. In Oeuvres, p. 254
30. “Risposte dell’Internazionale lettrista a due inchieste del gruppo surrealista belga” (1954), in Oeuvres, p. 119.
Traduzione a cura di Martina Tempestini
fonte: Undo.net
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