Il capitalismo come patriarcato produttore di merci ed il protagonismo delle donne nel Movimento dei Lavoratori Disoccupati
- di Facundo Nahuel Martín -
Contesto
La possibilità di quest'articolo nasce dall'incrociarsi di esperienze teoriche e pratiche [*1]. Da un lato, ovviamente, questo lavoro non sarebbe stato possibile senza le opere di Roswitha Scholz, Norbert Trenkle ed il gruppo Krisis [*2]. Se non fosse stato per tali letture, non sarei arrivato a comprendere la natura specifica del patriarcato nel capitalismo ed il suo legame con la costruzione delle identità operaie maschili. Dall'altro lato, quest'elaborazione nasce come riflessione in seno alla pratica politica. Durante un seminario di formazione politica insieme ad un vecchio compagno del Movimento dei Lavoratori Disoccupati di fine anno novanta, ho imparato che, per organizzare assemblee di base, per creare mense, cooperative, ecc., era fondamentale convocare "le donne" dei quartieri. L'osservazione a proposito dell'importanza di convocare "le donne" (madri, che sono spesso anche capifamiglia) nella militanza territoriale e generale, venne fatta più di una volta. Mentre la maggior parte dei "referenti" pubblici e mediatici del movimento continuavano ad essere uomini, nella quotidianità dell'organizzazione di base, erano le donne degli slum che si erano organizzate e politicizzate fin dall'inizio e con decisione.
La storia del rapporto fra la politica femminista e le organizzazioni sociali che provengono dalla militanza territoriale, inoltre, è complessa e richiederebbe di per sé uno o più studi. Questi raggruppamenti sociali e politici si caratterizzano in generale per una speciale enfasi sulle problematiche di genere. In questo lavoro, tuttavia, non intendo riportare le elaborazioni (in sé ricche ed ampie) delle organizzazioni stesse. Invece, cercherò di riflettere sul legame fra protagonismo delle donne, crisi del lavoro salariato (e i suoi modelli maschile di soggettività) e sperimentazione di forme autogestionarie dell'organizzazione della produzione. Sosterrò che si può stabilire una relazione interna fra il lavoro senza padrone svolto dal MLD e la crisi della soggettività operaia ereditata, costruita sulla divisione capitalista fra un lavoro salariato mascolinizzato, gerarchizzato, ed un lavoro riproduttivo femminilizzato, svalorizzato.
Patriarcato produttore di merci e divisione del valore
Dobbiamo sbarazzarci della solita rappresentazione secondo la quale la svalutazione sociale della donna è innanzitutto un residuo feudale, un resto delle forme di dominio precapitalista che la modernità del capitale verrebbe a bandire. Questa rappresentazione da noi ereditata suppone, più o meno, che la società capitalista è egualitaria nelle sue fondamenta, per cui la sparizione finale del dominio di genere è in definitiva solo una questione di tempo: lo "sviluppo" del capitale porrebbe, a lungo termine, le condizioni per la liberazione femminile. Il patriarcato sarebbe semplicemente un residuo dei tempi passati in via di sparizione. Pensarla in tal modo è abbastanza comune: questa lettura si basa, seppure in maniera ideologica, su determinazioni reali della logica capitalista che, a differenza di altre forme storiche di dominio, è compatibile - paradossalmente - con l'uguaglianza formale delle persone. Secondo Moishe Postone, con il capitalismo avviene un passaggio da forme di dominio personali o dirette a forme di dominio impersonali e quasi-oggettive. La società assume in tal modo la forma di una totalità semovente, che si oppone ai singoli come se fosse un'oggettività aliena, dotata di un movimento automatico: "la società, come un altro quasi-indipendente, astratto ed universale che si oppone agli individui ed esercita una coazione impersonale su di essi, si costituisce come una struttura alienata per mezzo del carattere duplice del lavoro nel capitalismo" (Postone). Queste strutture quasi-oggettive, mediate dal lavoro astratto, si costituiscono sulla base della dissoluzione delle forme precapitaliste di dominio, basate su gerarchie dirette o personali di gruppi o di individui su altri. La trasformazione della logica fondamentale del dominio fa sì che l'uguaglianza si converta in un principio giuridico normale nel capitalismo. In altre parole, il dominio specifico del capitale appare come il dominio per mezzo di strutture universali ed anonime che sopprimono le forme dirette di potere personale. "Il sistema monetario [capitalista], è in ogni caso il sistema dell'uguaglianza e della libertà" (Marx).
Malgrado la correlazione fra le forme di socialità del capitale e la diffusione dell'uguaglianza formale fra le persone, il dominio patriarcale appare insistere decisamente sulle nostre società. Il patriarcato, apparentemente "premoderno e precapitalista", sembra persistere nonostante la supposta tendenza del capitale all'uguaglianza formale, garantita dalla dissoluzione dei legami tradizionali di dipendenza personale. E' proprio il femminismo marxiano di Roswitha Scholz che permette di interpretare questa "persistenza" tenace del dominio sulle donne, mostrando che non si tratta di una reliquia del passato, ma che il capitale genera una forma di patriarcato che gli è caratteristica. Roswitha Scholz, basandosi a sua volta sulle proposte di Frigga Haug ed articolandole con la critica del valore, sostiene che il capitalismo è una forma storicamente specifica del patriarcato, che potremmo chiamare "patriarcato produttore di merci". Il suo punto di partenza coincide con quello di Postone, circa la mutazione storica delle forme di dominio nel capitalismo: "Nelle società premoderne, al contrario, si produceva nel contesto di altre relazioni di dominio (personali anziché reificate dalla forma merce) e soprattutto ai fini dell'uso" (Scholz). Nel capitalismo, il dominio si fonda sulla subordinazione delle persone alla dinamica "tautologica" del capitale che si autovalorizza, come "soggetto automatico" basato su "ciechi meccanismi anonimi" (Scholz), piuttosto che sulla violenza fisica diretta esercitata da un gruppo. La peculiarità femminista della sua analisi si radica nella critica del valore e nella critica della scissione del valore [Wert-Abspaltung]:
Con il valore o con il lavoro astratto non viene specificata a sufficienza la forma fondamentale del capitalismo in quanto relazione feticista. Bisogna anche dare conto del fatto che nel capitalismo hanno luogo attività riproduttive che vengono realizzate soprattutto dalle donne. Di conseguenza, la scissione del valore si riferisce al fatto che le attività riproduttive identificate sostanzialmente come femminili, così come i sentimenti, le caratteristiche e le attitudini ad essi associate (emotività, sensualità, cura, ecc.), rimangono scisse proprio dal valore/lavoro astratto. Pertanto, il contesto di vita femminile, le attività riproduttive femminili hanno nel capitalismo un carattere diverso da quello che ha il lavoro astratto; quindi non possono essere sussunte sotto il concetto di lavoro. (Scholz)
La costituzione della logica "astratta", anonima e quasi-oggettiva del dominio nel capitalismo, che può essere collegata alla proclamazione universale dell'uguaglianza formale nella modernità, tuttavia, viene montata su una forma specificamente capitalista di dominio patriarcale. Questo dominio si struttura a partire dalla "scissione del valore", che maschilizza e gerarchizza il lavoro salariato nel mentre che femminizza e svalorizza le attività riproduttive. Marx ed Engels, da parte loro, gettarono le basi della critica del valore ma ignorarono la sua articolazione in questa divisione, che è alla base della riproduzione della forza lavoro e pertanto fa parte delle condizioni di possibilità dell'accumulazione di capitale. Il dominio patriarcale ha, chiaramente, una storia premoderna, però "con l'universalità della forma merce raggiunse una qualità del tutto nuova" (Scholz). Il capitalismo si costruisce su una divisione patriarcale delle attività umane, che associa il lavoro creatore del valore alla mascolinità (e ad una serie di valori socialmente maschilizzati, come l'efficienza, la competitività, l'aggressività); mentre degrada e femminilizza le attività riproduttive, le quali contribuiscono in maniera indiretta alla riproduzione di capitale e si associano ad una serie di valori considerati femminili, come la cura, la tenerezza, l'affetto e perfino l'irrazionalità. Il capitalismo può così essere considerato come un patriarcato produttore di merci, che costruisce un completo progetto civilizzatore di dominio maschile:
Si potrebbe parlare in maniera piuttosto esagerata del genere maschile come del "genere del capitalismo"; e, partendo da questa premessa, si potrebbe dire che la concezione dominante che si ha del genere nella modernità, è una comprensione dualistica della mascolinità e della femminilità. Il modello civilizzatore produttore di merci ha la sua condizione di possibilità nell'oppressione delle donne (Scholz).
La divisione del valore, principio strutturante della società capitalista, evidentemente non è statica, ma assume una serie di forme storiche variabili. Negli attuali tempi "postmoderni", ad esempio, le donne si vedono sottomesse ad una "doppia socializzazione": pur essendo responsabili delle cure e delle attività riproduttive in casa, partecipano anche al lavoro salariato fuori di casa. Questo non mette in discussione la radice delle relazioni capitaliste di genere, ma la flessibilizza in un quadro che non altera le basi formali della scissione strutturale del valore [*3].
Identità maschili e lavoro salariato.
Nella sezione precedente ho cercato di ricostruire la relazione interna fra la costituzione del valore (basato sul lavoro astratto) come mediatore sociale e la scissione del valore che femminizza le attività riproduttive, degradandole, e mascolinizza il lavoro salariato, gerarchizzandolo come superiore. Ora cercherò di delineare alcune considerazioni sulla relazione fra il lavoro salariato e la costruzione moderna del genere maschile.
La critica del valore, a differenza del marxismo tradizionale, mette al centro la forma capitalista del lavoro, come lavoro creatore di valore e come lavoro diviso in un aspetto concreto ed uno astratto. Questa categoria viene quindi compresa come specificamente capitalista e non come trans-storica. La critica del capitale, in questo contesto, è la critica della forma capitalista del lavoro, ovvero del lavoro non più visto come attività umana in generale ma come una categoria sociale capitalista (Kurz e Trenkle, 1999). Il lavoro capitalista si caratterizza come attività separata dal resto, in cui il lavoratore deve disporsi alla sottomissione agli obiettivi imposti dalle esigenze di auto-riproduzione del capitale (vale a dire, non determinate in maniera cosciente e collettiva). "Lavorare", in senso capitalista, non è trasformare la natura secondo fini umani o modellare le materie prime affinché soddisfino necessità delle persone, ma sottomettere le proprie capacità e la propria attività agli scopi e alle necessità del capitale. La critica del capitale, in questo quadro, coincide con la critica del lavoro, inteso come lavoro specificamente capitalista, diviso in un aspetto concreto ed uno astratto, e costitutivamente sottomesso agli imperativi feticisti della riproduzione del valore.
Liberarsi dal capitale, secondo questo modo di porsi, significa liberarsi dal lavoro creatore del valore. Ciò mette in discussione un'identificazione immediata fra il movimento operaio, storicamente auto-costituito, e la critica del capitale. In effetti, la critica del capitale non è volta ad assicurare la posizione dei lavoratori in seno al capitalismo, ad affermare la loro identità ed a rafforzare la loro posizione socialmente costituita [*4]. L'affermazione del lavoro aspira in quanto tale alla - fragile, non sempre possibile, però spesso desiderata - complementarità fra lavoro e capitale. Questa complementarità non è meramente contingente (secondo la critica del valore) ma si basa sulla "identità interna fra lavoro e capitale" (Kurz e Trenkle, 1999: 1), cioè, sul fatto che la categoria moderna del lavoro (e, insieme ad essa, la "classe lavoratrice") è costituita sotto i parametri storici e logici del capitalismo. Ne consegue, quindi, che la critica del capitale non aspira alla "realizzazione del proletariato" ma al suo superamento storico, ai fini di una società senza lavoro capitalista [*5].
La costituzione delle identità e soggettività maschili nella modernità, a sua volta, ha a che fare con la gestazione del lavoro capitalista. "La crisi del lavoro è la crisi della mascolinità moderna. In quanto l'uomo borghese moderno è costituito e strutturato nella sua identità, in maniera fondamentale, come uomo lavoratore" (Trenkle, 2008: 1). "Crisi del lavoro" si riferisce alla crescente incapacità della società capitalista a riprodurre i suoi stessi fondamenti nel valore e nel lavoro. Nei fenomeni della disoccupazione di massa si manifesta, quindi, la coincidenza fra crisi del capitale (disallineamento della valorizzazione rispetto alle condizioni che essa stessa genera) e crisi del lavoro.
Trenkle spiega il legame fra la costruzione della soggettività maschile moderna e le esigenze del lavoro capitalista. Come abbiamo visto, nel cuore del dominio del capitale c'è una scissione del valore fra il lavoro (maschile e che produce valore) e le attività riproduttive (femminili e che non valorizzano direttamente il capitale). Quindi, le determinazioni simboliche e soggettive della mascolinità moderna si costituiscono a partire dalle esigenze del lavoro salariato. La mascolinità si definisce attraverso la disciplina sul proprio corpo, l'oggettivazione distanziata degli altri; la natura, e i propri sentimenti e l'assunzione di una razionalità strumentale che massimizza il calcolo mezzi-fini, trattando la realtà esterna ed il proprio soggetto come oggetto di una manipolazione fredda e distanziata. "Un 'vero uomo' dev'essere duro, con sé stesso e con gli altri" (Trenkle, 2008: 2). L'autodisciplina sul corpo e sulle emozioni, ma anche la disposizione ad imporsi in maniera competitiva sugli altri, costituiscono la spina dorsale della configurazione moderna della mascolinità, corrispondentemente alle esigenze soggettive del lavoro sottomesso al capitale. "La moderna identità maschile corrisponde esattamente alle esigenze del lavoro nella società capitalista, basata sulla produzione universale di merci. In quanto il lavoro nel capitalismo è essenzialmente un'attività desensualizzata e desensualizzante" (Trenkle, 2008: 2). In altre parole, nel corso delle mutazioni storiche della divisione del lavoro, si è data una costruzione correlativa fra le esigenze soggettive del lavoro capitalista (predisposizione a trattare il proprio corpo come uno strumento, disciplina per scopi alieni, violenza contro la propria sensibilità, tendenza alla concorrenza rispetto agli altri) e la costruzione delle identificazioni moderne della mascolinità.
Infine, la scissione del valore costruisce le determinazioni della soggettività femminile in opposizione simmetrica (e complementare) alla mascolinità dominante. Ragion per cui il femminile, così come è costituito in termini capitalisti, non è in quanto tale un serbatoio di valori di emancipazione, ma il complemento svalorizzato della mascolinità borghese. La costruzione della mascolinità moderna "non poteva trionfare senza la creazione di una contro-identità femminile" basata su "la costruzione di un 'altro' femminile, nella donna sensuale, emotiva ed impulsiva che non può pensare logicamente" (Trenkle, 2008: 5). L'identificazione maschile con le qualità dominanti nella società del lavoro salariato corrisponde all'identificazione del femminile con la sensibilità, l'irrazionalità, la suscettibilità emotiva, la debolezza a fronte degli impulsi e perfino l'animalità o la ricaduta nella natura. Queste qualità, allo stesso tempo, corrispondono alla divisione del valore, che soggettivizza le donne per le attività riproduttive e l'erogazione sensibile di cure per gli altri: "L'uomo viene così visto come uomo/spirituale/vincitore del corpo; la donna al contrario, come non-uomo, come corpo" (Scholz, 2014: 7).
Lavoratori disoccupati: mettere in discussione le soggettività ereditate
Ora, che cosa ha a vedere tutto questo con la storia delle donne e con il movimento piquetero? Se la costruzione delle soggettività maschili e femminili non è estranea alla logica del capitale, ma è strutturalmente articolata con essa; allora i movimenti che cercano di mettere in discussione il lavoro capitalista sono irrimediabilmente attraversati dalle problematiche di genere.
L'espressione "lavoratori disoccupati" contiene un evidente contraddizione nei termini: se sono disoccupati, non sono lavoratori. Evidentemente, la persistenza del significante "lavoratore" rimanda ad un'ascrizione di classe: sebbene siano disoccupati, appartengono alla classe operaia, nel senso ampio di coloro che sono privi dei mezzi di produzione, quelli che non sono proprietari di capitale. L'espressione inoltre si complica se aggiungiamo "lavoro senza padrone". Secondo l'analisi precedente, il lavoro senza padrone, non orientato alla logica del profitto che riproduce valore, non è lavoro nel senso capitalista. Effettivamente, possiamo dire che il lavoro senza padrone è un tentativo (socialmente minoritario) di mettere in discussione qui ed ora il lavoro capitalista come tale. Le organizzazioni cooperative, che praticano il lavoro senza padrone, politicizzano questo concetto quando parlano di prefigurazione del socialismo nella costruzione del potere popolare [*6]. Prefigurazione, si riferisce al tentativo, parziale, limitato e tronco nei limiti dell'esistente, di organizzare l'attività umana in un modo che non sia quello del lavoro capitalista. Il lavoro senza padrone si installa, quindi, come un tentativo, un'anticipazione o un desiderio - necessariamente incompleto, dato il contesto in cui nasce - di superare il lavoro capitalista. La contraddizione fra la persistenza dell'identità operaia (costituita in termini capitalisti) e il suo superamento possibile (con un'attività "senza padrone" che non sarebbe più lavoro nel senso moderno) segna la tensione costitutiva di ogni tentativo di autogestione della produzione che prefigura il socialismo [*7]. Da una parte, si tratta di un'attività svolta da lavoratori (separati dai mezzi di produzione). Dall'altro lato, mette in discussione la forma capitalista del lavoro (creatore di valore) ed esplora la possibilità di un'attività umana che non sia più lavoro in senso capitalista.
Infine, è possibile abbozzare un'ipotesi a proposito del protagonismo delle "donne" nella costruzione storica del Movimento dei Lavoratori Disoccupati. Se c'è una relazione interne, come abbiamo visto, tra soggettivazione maschile e lavoro salariato, possiamo immaginare il fatto che i maschi abbiano più difficoltà rispetto alle donne ad assumere sé stessi come disoccupati. Infatti, assumere l'identità del lavoratore disoccupato implica l'accettazione traumatica del proprio fallimento come uomo in senso capitalista. Non essere impiegato, non poter vendere la nostra forza lavoro, non è bene per "l'uomo" in quanto mette in discussione un pilastro dell'identificazione maschile moderna come tale. Se le identificazioni maschili borghesi si costituiscono a partire dal lavoro e dalle sue esigenze, assumere sé stesso come "lavoratore disoccupato" implica l'abbandono di una parte di tali identificazioni costitutive e della quota di potere sociale che ne deriva. Un maschio senza lavoro è un maschio fallito, non solamente in senso economico ma nel nocciolo della sua mascolinità. Da qui l'ipotesi che l'assunzione militante e la politicizzazione dell'identità di "disoccupato" comporta un capovolgimento, un mettere in crisi la soggettività maschile capitalista.
La depatriarcalizzazione dei soggetti non ha una relazione causale con l'autogestione della produzione, con il lavoro senza padrone e con i movimenti dei lavoratori disoccupati. Si tratta, tuttavia, di un'esigenza politica e di una potenzialità di emancipazione che sono implicite nella messa in discussione del lavoro salariato visto come garanzia di sussistenza, ma anche come veicolo di integrazione sociale e di dignità personale. Ne consegue che è obbligatorio che il movimento del lavoro senza padrone si assuma in pieno come anti-patriarcale e combatta tutti gli elementi del dominio maschile che persistono o riappaiono al suo interno. Senza femminismo, non v0è prefigurazione del socialismo: il legame fra le due cose è interno, non casuale. Comprendere la logica della scissione del valore nel patriarcato capitalista dovrebbe permetterci di fare luce su questo legame.
Nel contesto qui descritto è comprensibile, anche, come le donne assumano un protagonismo speciale al momento di organizzare il Movimento dei Lavoratori Disoccupati nei quartieri. La doppia socializzazione contemporanea delle donne (che impone loro i lavori riproduttivi a casa ed il lavoro salariato) le aveva obbligate a sostenere economicamente le loro famiglie, mentre veniva meno il fatto che si esperisse l'assunzione della propria identità di "disoccupata" come fallimento sociale e soggettivo. Le donne erano soggettivamente meglio preparate ad organizzarsi attivamente come disoccupate e a lanciarsi nella critica pratica del lavoro salariato, anche quando i loro motivi immediati avevano a che fare più con la sussistenza familiare che con il mettere in discussione il capitale e le sue relazioni di genere. Per i maschi, l'accettazione della condizione di "disoccupato" e, in più, la politicizzazione conflittuale, implicava un processo difficile a partire dalla loro identità maschile; processo che per le donne non avveniva alla stessa maniera. Ne consegue che, per condurre un'assemblea o organizzare una cooperativa, le "donne" risultavano essere più ricettive: preoccupate per il sostentamento della famiglia, erano allo stesso tempo meno provate a causa della destituzione soggettiva implicita alla disoccupazione.
Le donne, per la loro preesistente posizione sociale, sono state in grado di svolgere il ruolo di avanguardia di un movimento sociale le cui possibilità liberatorie non vanno a riaffermare il maschile ed il femminile così come esistono, ma mettono in discussione la divisione dei generi attualmente costituita (legata al lavoro capitalista). La critica del capitale, teorica e pratica, oggi non può esistere senza critica del lavoro salariato che sia simultaneamente critica della gerarchia dei generi. I movimenti che, come quello del lavoro senza padrone, esplorano alternative di esistenza e di socialità a fornte delle forme di capitale e di lavoro, mobilitano questo spazio di contraddizione fra la possibilità di una modernità futura, oltre il capitalismo ed il patriarcato, e la persistenza del capitale, della scissione del valore e della sua logica totalizzante di dominio.
- Facundo Nahuel Martín - Pubblicato su "Revista Herramienta" N° 57 Trabajo - Primavera 2015 -
NOTE:
[*1] - Un ringraziamento speciale a Gabriela Mittidieri, Adriana Pascielli, Norbert Trenkle e Marcela Zangaro per i loro commenti al manoscritto originale.
[*2] - Per questo devo ringraziare soprattutto José Antonio Zamora e Jordi Maiso. Studiando con loro nel seminario “En el horizonte de la crisis: nuevas lecturas de Marx y crítica radical del capitalismo”, nel 2014 all'Università Complutense di Madrid, ho conosciuto per la prima volta i lavori che cito in quest'articolo, che sono stati indispensabili per la mia stessa formazione teorica e politica.
[*3] - Evidentemente, si può dire che il capitalismo ha fatto ricorso a diverse forme di lavoro salariato femminile assai prima dell'attuale "doppia socializzazione" postmoderna. Questo non toglie che esista una scissione del valore, e che normalmente il lavoro delle donne è stato meno valorizzato (e peggio pagato) in rapporto a quello degli uomini.
[*4] - In questo articolo, non è possibile discutere in maniera approfondita la "critica del lavoro" e la sua relazione con la lotta di classe. Ho sviluppato una discussione dettagliata di tale problema in "Marx de vuelta. Hacia una teoría crítica de la modernidad" (Martín, 2014: cap. 7).
[*5] - Lo stesso Lukàcs, nonostante sia stato sotto vari aspetti il principale teorico del "mito" del proletariato come soggetto-oggetto identico della storia, in "Storia e coscienza di classe" avverte che la peculiarità della lotta contro il capitale ha le sue radici nella dissoluzione della classe proletaria, e non nel consolidamento della sua posizione storica.
[*6] - Per un'elaborazione sul potere popolare nelle recenti lotte in Argentina, vedi Mazzeo (2007).
[*7] - Per non deformare l'esperienza da cui parto e per non arrogarmi attribuzioni che non mi competono, devo fare la seguente avvertenza. Non si può dire che il movimento dei disoccupati abbia realizzato in ogni caso, e neppure in maniera dominante, una critica cosciente ed articolata del lavoro che converge con quella del gruppo Krisis o con quella di Postone. Al contrario, assai spesso ha mantenuto una richiesta "per il lavoro" ed un'identità affermativa come lavoratori. Da qui la mia proposta (il lavoro senza padrone non è propriamente lavoro) non può essere presa come una rappresentazione di accordi collettivi, ma come un'elaborazione individuale, che cerca di introdurre categorie teoriche a partire dalla pratica militante, ma che però non ha pretese usurpatrici di rappresentare i movimenti, i quali in ogni caso non hanno bisogno di rappresentanti intellettuali.
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
Nessun commento:
Posta un commento