William Morris e la critica del lavoro
- di Anselm Jappe -
William Morris nasce nel 1834, nei pressi di Londra, in una famiglia agiata. Cresce in un ambiente rurale che conserva ancora degli elementi di autarchia e del quale conserverà sempre un ricordo nostalgico. In gioventù, conosce gli artisti legati al movimento dei Preraffaeliti e comincia a pubblicare delle poesie che celebrano il Medioevo. Influenzato da John Ruskin, constata la decadenza dell'arte e dell'artigianato del suo tempo e fonda un'impresa di arte e design che ottiene un notevole successo. Di temperamento focoso, inizia la sua carriera di polemista e conferenziere a partire dalla protesta contro la moda di restaurare gli edifici medievali, da lui giudicata disastrosa. A tal fine, fonda la Società per la protezione degli edifici antichi. E' il 1880 quando scopre il socialismo, nella sua versione marxista, e partecipa a diverse organizzazioni radicali, alcune vicine all'anarchismo. Si trasforma in un instancabile agitatore della causa socialista, di cui spesso discute per strada, arrivando a farsi arrestare dalla polizia. I suoi discorsi infuocati vengono diffusi sotto forma di opuscoli, ma la sua più importante opera di critica sociale è un romanzo utopico, "Notizie da nessun luogo" (1890) [*1], in cui viene descritta la società felice dell'inizio del 21° secolo... Tuttavia, non smette di scrivere poesia, di tradurre dal greco, dal latino e dall'islandese, e di sperimentare nuove forme di artigianato di qualità, soprattutto tipografico. Muore, per sfinimento, il 3 ottobre 1896.
E' sempre un po' banale presentare un autore del passato sottolineando la sua "attualità". William Morris è rimasto inattuale per molto tempo, rubricato nella categoria degli "utopisti" che sono apparsi ai margini del grande movimento operaio d'ispirazione marxista. Certo, non è mai stato dimenticato il ruolo avuto da Morris nella storia del design, l'impulso da lui dato al movimento Arts and Crafts e la sua difesa di un artigianato di qualità. Ma gli scritti in cui ha espresso la sua visione della società sono stati riscoperti in Francia solo negli ultimi decenni, più che altro nel quadro dell'ambientalismo e della decrescita, della critica anti-industriale e dell'eco-socialismo [*2]
Effettivamente, oggi è abbastanza normale ammettere che la questione sociale e la questione ecologica siano strettamente legate. Per questo, molte delle critiche sociali che sono state espresse negli ultimi due secoli ci appaiono come largamente deficitarie, in quanto sono assai poco o per niente sensibili alla distruzione della natura. Essenzialmente, raccomandano una perpetuazione della società industriale, reclamando solamente una più giusta distribuzione dei ruoli fra coloro che vi contribuiscono. D'altronde, per molto tempo la critica radicale della società industriale è stata considerata con disprezzo, soprattutto a sinistra, "conservatrice" o, nel migliore dei casi, un "anticapitalismo romantico". Leggere oggi William Morris, ci pone di fronte ad un auto cha ha mostrato la massima sensibilità per tutt'e due le questioni insieme. La sua demolizione di tutta la "civiltà" capitalista va ben oltre, e parla alla nostra epoca molto più di quanto faccia tutta una parte della tradizione cosiddetta marxista. Per "civiltà", Morris intende sempre la civiltà della sua epoca, che si oppone sia alla società medievale [*3] che al socialismo futuro. Secondo tale accezione negativa del termine, l'ordine sociale capitalista ed il sistema tecnico vengono considerati come le due cause principali e convergenti della moderna infelicità, qualificata altresì come società feticista: una società impotente di fronte alle forze che essa stessa ha creato.
Perciò, quando Serge Latouche presenta Morris come un "precursore della decrescita" [*4], ha delle buone ragioni per farlo. In effetti, i punti di convergenza fra il pensiero di Morris e quello della decrescita sono numerosi. A differenza di molti altri critici del progresso industriale, sia la decrescita che lo stesso Morris si basano in parte sulla teoria di Marx. Morris riprende da Marx l'importanza della lotta di classe ed il rifiuto della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma troviamo in lui anche una critica della merce e del valore di scambio, della distruzione della natura, dell'urbanismo capitalista, delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, delle forme artistiche create dal capitalismo, della pubblicità (che muoveva allora i suoi primi passi...), della creazione di falsi bisogni e desideri, dello spirito di concorrenza universale, del colonialismo, del nazionalismo, del militarismo, dello Stato, della politica, del riformismo tiepido - e tutto ciò con un'acutezza che a volte supera quella dello stesso Marx e, soprattutto, quella dei marxisti. Trova un vero e proprio eco solamente quasi un secolo più tardi, quando, a partire dalla fine degli anni 1950, emergono nuove forme di contestazione della totalità della vita capitalista [*5].
Se al giorno d'oggi è facile fare riferimento a Morris per combattere l'identificazione della causa del progresso sociale con l'industrializzazione ed il progresso tecnico, c'è un altro aspetto del suo pensiero che difficilmente ottiene un consenso unanime, dal momento che è in contrasto sia con la transizione marxista che con il pensiero borghese (che in quest'occasione rivelano la loro identità profonda): la critica del lavoro. Effettivamente, è significativo come in Morris l'elogio dell'attività manuale ed artigianale non vada di pari passo con il culto del lavoro e della fatica. Né, inoltre, la sua critica del lavoro si accompagna ad un ingenuo entusiasmo per delle macchine che "farebbero il lavoro al nostro posto". Qui come altrove, Morris ha saputo evitare il falso dilemma teorico in cui ben altri autori si dibattono ancora oggi.
Morris ha letto Il Capitale nello stesso anno cui è morto Marx, nel 1883. Ma diceva, quasi con orgoglio, che non aveva capito granché delle parti più teoriche del libro [*6]. Ne aveva tuttavia colto intuitivamente, a partire dalla propria pratica artistica, uno degli aspetti più importanti: la differenza fra il lavoro concreto ed il lavoro astratto - una distinzione cui ben poche persone, ivi inclusi i marxisti più "ortodossi", avevano allora prestato attenzione (e non lo avrebbero fatto ancora per molto tempo). Morris lo sottolinea a partire dal titolo della sua conferenza "Lavoro utile e bisogno inutile", che si conclude così:
"Abbiamo visto come il dogma quasi teologico del lavoro in quanto beneficio per il lavoratore, quali che siano le circostanze, sia ipocrita e falso; ma come, da un altro lato, il lavoro sia buono quando si trova associato alla legittima speranza di riposo e di godimento." [*7]
Morris compie la scelta più semplice e più rara della modernità: pensa il lavoro a partire dal risultato e non a partire dalla sua quantità. Non si deve lavorare per lavorare, per creare lavoro e denaro, né per ottenere la più grande massa di "valore d'uso" possibile, bensì per produrre dei begli oggetti trasformando per quanto possibile la sofferenza in godimento e limitando la sofferenza inevitabile al minimo indispensabile - liberi di ricorrere alle macchine, se necessario. Si tratta de "la civiltà che decreti 'Evitate le sofferenze', quello che implica che gli altri vivano al vostro posto. Io dico, e lo devono dire i socialisti: 'Prendete la sofferenza e trasformatela in godimento'" [*8]. Come per Charles Fourier, quello che bisogna abolire è la differenza stessa fra lavoro e godimento: "L'essenza del godimento si trova nel lavoro se esso viene svolto nel modo appropriato" [*9]. E' il superamento di tale opposizione che rappresenta per Morris il vero fine della "conquista" della natura: "La natura non sarà conquistata del tutto fino a quando il lavoro non parteciperà del godimento della vita" [*10]. Non basta che il lavoratore riceva il pieno prodotto del suo lavoro e che il riposo sia abbondante, bisogna anche che il lavoro sia piacevole. Il riposo, agli occhi di Morris, non serve solamente a recuperare le forze per poi poter tornare al lavoro. Al contrario, rappresenta la vera e propria finalità del lavoro. Morris afferma con forza che in un regime capitalista, lo scandalo non consiste solo nello sfruttamento del lavoro, ma nella natura stessa del lavoro. Una gran parte del lavoro è inutile e vengono prodotti soprattutto degli oggetti dannosi o di cui nessuno ha bisogno. Praticamente tutto quello che fanno le classi medie (le "professioni liberali") è inutile agli occhi di Morris, così come una parte del lavoro delle classi lavoratrici - soldati, venditori, tutti quelli che sono obbligati a fabbricare dei prodotti di lusso o del makeshift ("espediente" o "surrogato") [*11]. Quindi, l'avvento del socialismo non comporterà il fatto di lavorare di più, come immaginavano Lenin, Ebert, Gramsci e molti altri capi delle fila del "movimento operaio". Secondo Morris, al contrario, "non avremo più da produrre delle cose per cui non vogliamo affatto lavorare" [*12].
Nella società del futuro immaginata da Morris, si lavorerà forse quattro ore al giorno, ed anche quel lavoro necessario non sarà sempre una semplice manutenzione delle macchine, ma verrà eseguito a rotazione e nella maniera meno dolorosa possibile [*13]. Morris si dimostra particolarmente sensibile agli effetti dannosi della divisione del lavoro e chiede che venga ristabilita l'unione fra la mano ed il cervello che, secondo lui, caratterizzavano il Medioevo. Quest'esigenza era rara a quei tempi ed assume un sapore del tutto particolare se si considera che queste conferenze sono contemporanee agli inizi della "taylorizzazione", cioè a dire agli studi dell'ingegnere americano Frederick Taylor volti a ridurre in maniera efficace l'operaio al rango di macchina. Il taylorismo, attuato nelle fabbriche di Henry Ford, sarebbe stato indubbiamente oltre la comprensione di un Morris convinto del prossimo superamento della divisione del lavoro, che secondo lui era arrivato al suo ultimo stadio. In questo, come in altro, il rimprovero più grande che può essere fatto a Morris, è quello di aver peccato di ottimismo. Però, da parte loro, Lenin e Gramsci non nascondono di essere affascinati dai metodi di Ford...
Morris esprime la sua critica in nome dei lavoratori, e non in nome del lavoro, come fanno i marxisti tradizionali. Egli comprende il carattere largamente tautologico ed autoreferenziale del lavoro moderno che viene svolto soltanto in vista dell'accumulazione di questa ricchezza astratta che è il valore. Morris non formula le sue osservazioni nel linguaggio della critica dell'economia politica, ma nella descrizione della società capitalista del 19° secolo, offerta da uno dei personaggi di "Notizie da nessun luogo", riassume bene la natura del lavoro astratto (soprattutto nell'ultima frase):
"Nell'ultimo periodo della civiltà, gli uomini s'erano cacciati in un circolo vizioso, quanto alla produzione delle merci. Essi aveano raggiunta una facilità meravigliosa di produzione, e per darle uno sviluppo sempre maggiore, aveano a grado a grado creato (o piuttosto permesso che si facesse strada) tutto un sistema complicato di compera e di vendita, ch'era detto il mercato del mondo. Questo mercato, presa l’aire, costrinse gli uomini a produrre mercanzie sopra mercanzie, occorressero o no. Onde, mentre è fuor di dubbio ch’essi non potevano esimersi dal produrre le cose necessarie alla vita, venivano anche creando una infinità di oggetti inutili, o resi convenzionalmente necessarî; i quali sotto l’impero della legge di ferro del mercato anzidetto, acquistavano un’importanza uguale a quella degli oggetti necessarî. In questo modo si caricarono d’una immensa mole di lavoro al solo scopo di far perdurare quel disgraziato sistema." [*14]
Ma Morris supera veramente il concetto borghese di lavoro? Analogamente al movimento operaio del suo tempo, conserva una visione morale del lavoro, laddove esso è "utile": "In primo luogo, nessun uomo onesto o lavoratore dovrebbe vivere nella paura della povertà" [*15]. Si impegna in una polemica costante contro i "parassiti" e la "speculazione" che a volte ricorda quella assai spesso nefasta che si esprime all'interno dei movimenti sociali quando criticano la finanza solo in nome del "lavoro onesto"; in quanto evidentemente una tale critica rischia di essere recuperata da un certo "anticapitalismo" di destra.
Un altro aspetto sempre attuale delle diatribe di Morris è la sua denuncia degli effetti disastrosi della concorrenza, questo sacrosanto pilastro della visione economistica della vita umana. Ai suoi occhi, la concorrenza non è un elemento naturale di ogni società umana che spinge a migliorare la vita; essa caratterizza la sola "civiltà" capitalista. Gli operai la subiscono, ma cercano di sottrarvisi:
"Allo stato attuale delle cose, i lavoratori sono parte integrante delle aziende concorrenti. Sono un'appendice del capitale. Ma lo sono solo in quanto costretti; e, anche se non ne hanno coscienza, si battono contro una simile costrizione e contro le sue immediate ripercussioni, la riduzione dei loro salari e del loro livello di vita [...] Ciò che è necessario all'esistenza dei lavoratori, è l'associazione, e non la concorrenza; mentre, per i profittatori, l'associazione è impossibile, e la guerra necessaria." [*16]
Per Morris, le società precedenti non erano affatto basate sul "sistema della concorrenza illimitata, che ha rimpiazzato il sistema medievale secondo il quale la vita veniva regolata per mezzo di una concezione dei doveri fra gli uomini e verso le potenze invisibili." [*17]
L'articolazione del rapporto fra critica sociale e critica ambientalista sembra meglio riuscita in Morris, piuttosto che in molti altri autori che vi si sono in seguito misurati e che, quasi sempre tutti, propendono per una parte o per l'altra. Morris non rifiuta l'idea stessa di progresso, ma identifica il vero progresso con una "spirale", e non con una linea retta [*18]. Anche l'idea di "dominio della natura" non è per lui sempre negativa - ma afferma che tale dominio è arrivato ad un grado sufficiente per potersi ora riposare, e pensare alla felicità [*19]. Nota, con una perspicacia rara per la sua epoca, gli effetti disastrosi che il dominio della natura ha sulla natura stessa - una delle prime osservazioni che fanno i protagonisti di "Notizie da nessun luogo", quando si risvegliano nel 21° secolo, è che il Tamigi è pulito, che sono tornati i salmoni e che le fabbriche inquinanti sono scomparse. Morris riconosce anche gli effetti disastrosi sugli esseri umani e propone sarcasticamente: "Allora beviamo! mangiamo! poiché domani saremo morti, soffocati dalla sporcizia" [*20]. Tuttavia, come osserva Serge Latouche, Morris non arriva a mettere in dubbio uno dei presupposti del pensiero economico: il teorema della scarsità necessaria delle risorse naturali e la concezione della natura come "avara matrigna" [*21]. In realtà, nel corso della storia, le situazioni di scarsità sono sempre state in gran parte dovute a dei fattori sociali.
E' evidente che per Morris le macchine non siano affatto "neutre": hanno una struttura propria che impone un certo uso e in una società socialista non possono essere utilizzate così come sono. Allo stesso tempo - e ancora una volta, sembra sfuggire in anticipo a certe impasse del dibattito contemporaneo - non crede che questa struttura sia totalmente autonoma e resisterebbe ad ogni trasformazione sociale. Rispetto a certe forme abbrutenti del lavoro, le macchine rappresentano un male minore: "Le macchine più ingegnose e più accettate verranno utilizzate quando si renderà necessario, ma soltanto per economizzare il lavoro umano" [*22]. Il male non sono le macchine in quanto tali; "oggi, si attenta alla bellezza della vita essenzialmente quando si permette alle macchine di essere le nostre padrone, mentre invece dovrebbero servirci". Piuttosto che bandire immediatamente ogni tecnologia recente, "il riordino della società condurrebbe verosimilmente a dare inizio ad una fioritura di macchine destinate a dei lavori veramente utili dal momento che si avrà ancora a cuore svolgere tutti i compiti necessari alla sopravvivenza della società". Sarà allora che si potrà scoprire come spesso sia preferibile il lavoro manuale - "la complicatezza stessa delle macchine porterà ad una semplificazione della vita, e perciò ad un ruolo più limitato delle macchine" [*23]. Il problema è che nel regime capitalista, "le meravigliose macchine che, affidate ad uomini giusti e lungimiranti, avrebbero permesso di ridurre il lavoro faticoso e di dare godimento", non hanno fatto altro che aumentare la sofferenza [*24]. In una società emancipata, una gran parte del macchinario verrà semplicemente abbandonato, sia perché non ci sarà più necessità di produrlo, sia perché si preferirà eseguire manualmente il lavoro che crea prodotti ritenuti desiderabili: "Fra le cose più importanti, alcune macchine verranno notevolmente perfezionate mentre la maggior parte diverranno inutili" [*25]. Per lui, non si tratta di abolire la ferrovia, ma di poter scegliere fra la ferrovia e il carro [*26].
Ciò che colpisce nel percorso di Morris, è l'unità fra vita e opera. Egli ha cercato di realizzare nella sua vita quello che proclamava nei suoi scritti, e soprattutto ha preso sul serio i suoi sogni di gioventù circa un Medioevo ideale. Tuttavia non sempre è stato mosso da sentimenti di gioia. A volte, prevaleva l'odio:
"In particolare, ciò che motiva il mio impegno come socialista è quest'odio della civiltà. Il mio ideale di una nuova società non si potrà realizzare senza la distruzione della civiltà". [*27]
Allo stesso tempo, Morris si tiene lontano dal rancore e dal risentimento che hanno minato dall'interno tanti movimenti di protesta:
"Non è una vendetta, quel che noi desideriamo per i poveri, è la felicità. Infatti, come vendicare i millenni di sofferenze che sono stati loro inflitti?" [*28]
Così, il desiderio di distruzione dell'ordine esistente ed il desiderio costruttivo, in lui, sembrano avere parti uguali - un fatto assai raro nella critica sociale moderna. Il suo odio e la sua capacità d'indignarsi infatti derivano dal suo amore per la bellezza e per l'arte. Questa combinazione costituisce la vera originalità della sua critica: "Lo studio della storia, l'amore e la pratica delle arti mi hanno imposto di prendere in odio la civiltà" [*29]. In sostanza, quest'affermazione costituisce un bellissimo omaggio all'arte e alla bellezza, lontano dai dolciastri cliché abituali circa il loro ruolo nella vita! L'arte non è una sovrastruttura" in Morris. In tal modo, sembra rifiutare il "materialismo storico" codificato dai marxisti "ortodossi" i quali attribuiscono poca importanza alla cultura. Ma allo stesso tempo è stato uno dei pionieri di una storia materialista dell'arte, associandola strettamente alle sue condizioni concrete di produzione, piuttosto che spiegarla per mezzo dell'azione di "geni" ispirati dalle muse. Per esempio, insiste sul ruolo svolto dalle corporazioni medievali per lo sviluppo dell'arte gotica (che Morris considera come l'apogeo della storia della cultura), e sottolinea come esse siano nate dall'emancipazione dei servi della gleba ed abbiano avuto all'inizio un carattere democratico. Invece, le opere create dagli sfruttati e dagli oppressi recano sempre il marchio di tale sfruttamento:
"La regola vuole che tutte le cose fabbricate dall'uomo per il proprio uso quotidiano siano brutte e indegne, e non fanno altro che sporcare la bellezza del mondo. E d'altra parte, è senz'altro giusto e buono che esse siano brutte e indegne, in quanto così, non faranno altro che testimoniare la sofferenza e la servitù sopportata dalla maggior parte dell'umanità". [*30]
Può sembrare problematico fare di quest'idea una regola generale, quando si parla di opere del passato; Morris, coerentemente con i suoi principi, su questo punto non esita a prendere le sue distanze anche rispetto all'Antichità ed al Rinascimento. Come per il suo rifiuto della "civiltà" moderna, anch'esso viene formulato nel nome "del godimento della vita":
"Da più di trecento anni, la società del commercio e della concorrenza si è estesa a detrimento del godimento della vita. Ma questa società competitiva si è sviluppata a tal punto che il cambiamento non è così lontano, e che, diciamolo, la sua morte si avvicina; il segnale di questo cambiamento, è che la distruzione del godimento della vita comincia a sembrare a molti di noi, non come una fatalità, ma al contrario come qualcosa da combattere." [*31]
Questo riferimento ai "piaceri della vita" non equivale ad una semplice difesa del modo di vita tradizionale delle classi superiori inglesi, poco sensibili alla sofferenza delle classi popolari, come quella che poteva provenire da un Thomas Carlyle. La critica di Morris non ha niente del "bobo" (N.d.T.: termine francese per indicare i sinistroidi amanti del lusso, più o meno simile a "radical chic"). Non sopporta la "situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra", e promette la "guerra di classe" alla borghesia (vale a dire la sua propria classe). A differenza di Ruskin - che per altri aspetti egli venerava - e a differenza di una parte consistente della critica del progresso enunciata nel corso degli ultimi due secolo - troppo spesso ancorata ai suoi presupposti conservatori o reazionari - egli non sogna affatto un ritorno alle gerarchie medievali e all'ordine feudale. L'uguaglianza sociale è per lui la conditio sine qua non di una società migliore.
Ma pur essendo questa condizione necessaria, essa non è sufficiente. Quel che importa è cambiare il contenuto della produzione attuale. Perciò non basta appropriarsene in una maniera più equa, "si tratta di far capire alle persone che la presenza di profittatori privati non è affatto una necessità per il lavoro, ma che costituisce un ostacolo al suo sviluppo. E la ragione non è solo, o principalmente, che essi sono quel che sono, quelli che vivono di rendita in maniera permanente del lavoro altrui, ma lo spreco che implica necessariamente la loro esistenza in quanto classe." [*32]
Morris si domandava, più di quanto facessero la maggior parte degli autori della sue epoca e di quanto avrebbero fatto quelli dei successivi cinquant'anni, quale fosse l'impatto della produzione sulla natura e sull'uomo. Egli sottolinea continuamente lo spreco di materiale e di lavoro, ma a differenza di alcune correnti ambientaliste di oggigiorno, non predica la "semplicità volontaria". Ciò che critica, anche qui in anticipo sui suoi tempi, sono i falsi bisogni e la creazione artificiale dell'offerta e della domanda. L'uomo, secondo Morris, non si deve sacrificare, non deve privarsi di tutto per amore della natura. L'essenziale è concepire la ricchezza in maniera diversa:
"Anche sulla base di un lavoro così mal diretto qual è quello di oggi, una ripartizione equa delle ricchezze di cui disponiamo assicurerebbe a ciascuno una vita relativamente confortevole. Ma cosa sono queste ricchezze in confronto a quelle di cui potremmo disporre se il lavoro venisse ben diretto?" [*33]
In questo modo, Morris si oppone sia all'ascetismo che al falso lusso che non rende felici: nella civiltà moderna, anche la vita dei ricchi, afferma, non è invidiabile.
Del resto i ricchi non sono davvero onnipotenti. Anche se in Morris manca una concezione esplicita del feticismo della merce, egli si guarda bene dal presentare il capitalismo come se fosse esclusivamente il risultato di una cospirazione delle classi dominanti. Riconosce che il potere accumulato attraverso lo sviluppo capitalista sfugge anche alle classi borghesi. Perciò, ci ricorda che le "classi medie" - la borghesia - dispongono di un potere enorme e che hanno conquistato il mondo, ma "la loro propria creatura, questo Commercio di cui tanto si inorgogliscono, è diventato il loro padrone. Tutti noi che apparteniamo alle classi agiate siamo costretti ad ammetterlo, alcuni con gioia trionfante, altri con cupa soddisfazione, altri ancora con la morte nell'anima; l'uomo è stato fatto per il Commercio, invece di aver fatto il Commercio per l'uomo". [*34]
Altri aspetti del suo pensiero stupiscono ancora per la loro attualità, sia che si tratti della polemica contro il restauro degli edifici del passato e a distruzione del patrimonio architettonico in nome della sua salvaguardia, promosso dai sedicenti "esperti", o del suo disprezzo per gli "esperti" in generale. Ugualmente, rifiuta lo Stato e la politica [*35], pur dichiarando che la sua frequentazione degli ambienti anarchici gli hanno fatto capire l'impossibilità dell'anarchia [*36]. Prende posizione contro la possibilità di un "socialismo di Stato" assai prima che questo divenga una realtà. Bisogna "formare dei socialisti", insiste, e intende dire delle persone (anche se ce ne sono molto poche, deve ammettere) disposte a fare a meno del padrone: "Realizzerei così il mio sogno dell'avvenire: la prova che non siamo dei folli sarà quella che non avremo più padroni" [*37].
Ma se l'arte costituisce il criterio che permette di prendere coscienza delle brutture della società borghese mentre allo stesso tempo serve come modello per una società futura, ci si può domandare: quale arte? Qui si toccano i limiti del contributo di Morris. Egli ha consacrato la maggior parte della sua vita a scrivere delle poesie in uno stile molto tradizionale, a volte arcaizzante, poco apprezzato dalle generazioni successive, così come l'ha dedicata alla produzione artigianale nei diversi settori (architettura d'interni, tappezzeria, tipografia, ecc.). Queste ultime creazioni sono state molto apprezzate dai suoi contemporanei e gli hanno permesso oggi un posto nella storia dell'arte - ed egli era infastidito dal fatto che i suoi clienti fossero quei ricchi che detestava, e che tuttavia gli fornivano le risorse per poter fondare un atelier modello dal punto di vista delle condizioni di lavoro e per finanziare il movimento socialista.
Tuttavia, la sua concezione dell'arte e della letteratura rimane molto - troppo - vicina alla arti decorative. Per lui l'arte è necessariamente legata al piacere dei sensi. Questi sono oggetto di un suo continuo elogio, in particolare il senso della vista, e la sensualità in generale, e vale tanto per l'arte quanto per la letteratura. La sua polemica contro l'eccesso di parole prende a volte una piega anti-intellettuale. Nella società di Notizie da nessun luogo, le persone dedicano molta più attenzione alla scultura del legno che allo studio della storia.
Ma se Morris rimane estraneo all'arte moderna, questo avviene senza dubbio perché in lui è assente il pensiero del negativo. Nel decretare che l'arte è impossibile in un società dove regna l'infelicità, rifiuta in anticipo la creazione di quelle avanguardie che emergeranno ben presto in un mondo di dolore [*38]. L'arte cosiddetta moderna si è rivoltata con forza contro l'art nouveau ispirata in gran parte da Morris. E' comprensibile: se si dovesse vivere eternamente in degli interni "Arts and Crafts", si finirebbe senza dubbio per dar ragione ad Adolf Loos, il quale nel 1908 esclamò che l'eccesso di ornamento costituisce un "crimine"! [*39]
Alla fine quest'assenza del negativo spiega forse anche quest'ottimismo a volte naïf, un po' "belle époque" di Morris. Per quanto sia pertinente la sua rabbia per le condizioni del mondo, egli sembra sottovalutare la forza di resistenza della "civiltà" capitalista - che non si riassume nell'azione di una piccola casta che difende i propri privilegi. Per Morris, la società futura "ignora il significato di parole come ricco e povero, il diritto di proprietà, le nozioni di legge, legalità o nazionalità: è una società liberata dal peso di un governo. L'uguaglianza sociale è naturale; nessuno acquisisce il potere di nuocere agli altri come ricompensa per i servizi resi alla comunità. In questa società, la vita sarà semplice, più umana e meno meccanica, in quanto avremo rinunciato in partenza a dominare la natura, accettando in tal senso qualche sacrificio. Questa società sarà divisa in piccole comunità, le cui dimensioni varieranno secondo l'etica sociale di ciascuno, ma non lotteranno per la supremazia e si terranno lontani con disgusto dall'idea che vi sia una razza eletta". [*40] Si è tentati di dire che se tutto questo sembra così bello, così semplice, perché non è stato ancora realizzato? Il destino degli utopisti è quello per cui spesso la loro critica del sistema da distruggere è più pertinente di quanto lo sia la loro utopia positiva. Eppure, ancora più spesso è nello scarto fra la loro utopia positiva e la realtà imposta dalla storia che risiede, ancora oggi, la forza della critica che Morris fa del capitalismo.
- Anselm Jappe - Prefazione a "La civilisation et le travail", di William Morris - 2013
NOTE:
[*1] - William Morris, "Notizie da nessun luogo", anche col titolo "La terra promessa". (Si può leggere/scaricare qui).
[*2] - Nel loro libro di riferimento sul "romanticismo rivoluzionario", "Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-courant de la modernité", Payot, Paris 1992, Michael Löwy e Robert Sayre classificano Morris come il più marxista fra i critici romantici della modernità, sottolineando come "Per molto tempo Morris venne totalmente respinto dal campo marxista a causa di questo suo punto di vista non ortodosso".
[*3] - E' moneta corrente, dire che Morris idealizzi il Medioevo. Tuttavia, studi storici successivi hanno dimostrato che nell'Inghilterra del 14° secolo (alla quale si riferisce principalmente Morris), il benessere delle classi popolari si trovava al suo apogeo in rapporto ai cinquecento anni successivi.
[*4] - Serge Latouche, « Un précurseur de la décroissance : William Morris ou l’utopie réalisée », introduction à "William Morris, Comment nous pourrions vivre", Le Pré-Saint-Gervais, Le passager clandestin, 2010.
[*5] - Ricordiamo quest'enunciato di Guy Debord, fondatore dell'Internazionale situazionista e Daniel Blanchard, membro di Socialisme ou Barbarie: "Questo non significa che, da un giorno all'altro, tutte le attività produttive diventeranno appassionanti. Ma lavorare per renderle appassionanti, attraverso una riconversione generale e permanente dei fini nonché dei mezzi del lavoro industriale, sarà in ogni caso la passione minima di una società libera". (P. Canjuers [Daniel Blanchard] et G. E. Debord, «Préliminaires pour une définition de l’unité du programme révolutionnaire », 1960, ora in Guy Debord, Œuvres, Paris, Gallimard, 2007).
[*6] - William Morris, « Comment je suis devenu socialiste », in Contre l’art d’élite (traduit de l’anglais par Jean-Pierre Richard), Paris, Hermann, 1985, p. 170.
[*7] - « Travail utile et vaine besogne », p. 60
[*8] - William Morris, « La Société de l’avenir », in L’âge de l’ersatz, et autres textes contre la civilisation moderne (traduit de l’anglais par Olivier Barancy), Paris, L’Encyclopédie des Nuisances, 1996, p. 69.
[*9] - William Morris, « Les Arts appliqués aujourd’hui », in ibid., p. 107.
[*10] - « Travail utile et vaine besogne », p. 43.
[*11] - Secondo la scelta - certo discutibile del traduttore dell'Encyclopédie des Nuisances.
[*12] - « Travail utile et vaine besogne », p. ? ?
[*13] - « A Factory as It Might Be », in William Morris, Selected Writings (publiés par George Douglas Howard Cole), Londres, Nonesuch Press, 1934, p. 650.
[*14] - William Morris - Notizie da nessun luogo
[*15] - « Des origines des arts décoratifs », p. 90
[*16] - William Morris, Comment nous pourrions vivre, op. cit., p. 57. Morris paragona costantemente il commercio alla guerra.
[*17] - « Des origines des arts décoratifs », p. 87
[*18] - .William Morris, « Les Arts appliqués aujourd’hui », in L’âge de l’ersatz, op. cit., p. 105. Tuttavia, Morris rifiuta in maniera categorica l'idea di una "missione civilizzatrice del capitale" cui, purtroppo, lo stesso Marx non è stato sempre insensibile. Uno dei grandi meriti di Morris consiste nel rifiutare ogni nazionalismo ed esprimere il suo orrore di fronte alla sorte che gli europei hanno riservato ai popoli extra-europei nel nome del progresso.
[*19] - Ivi, p.106
[*20] - William Morris, « Art et socialisme », in Contre l’art d’élite, op. cit., p. 100.
[*21] - Serge Latouche, « Un précurseur de la décroissance : William Morris ou l’utopie réalisée » in William Morris, Comment nous pourrions vivre, op. cit., p. 24.
[*22] - William Morris, « A Factory as it might be » in William Morris, Selected Writings, op. cit., p. 649-650.
[*23] - William Morris, Comment nous pourrions vivre, op. cit., p. 75
[*24] - .William Morris, « Art et socialisme », in Contre l’art d’élite, op. cit., p. 94.
[*25] - William Morris, « La Société de l’avenir », in L’âge de l’ersatz, op. cit., p. 70.
[26] - Certo, per i marxisti tradizionali, questa critica del macchinismo andava già troppo lontano: Arnold Hauser, nella sua "Storia sociale dell'arte", ammette che Morris comprende assai meglio di Ruskin le cause della decadenza dell'arte nel capitalismo, ma aggiunge che rimane quanto meno troppo critico nei confronti delle macchine. (Arnold Hauser, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur [1953], Frankfurt, Büchergilde Gutenberg, 1970, p. 873.
[*27] - William Morris, « La Société de l’avenir », in L’âge de l’ersatz, op. cit., p. 65.
[*28] - William Morris, Comment nous pourrions vivre, op. cit., p. 42.
[*29] - William Morris, « Comment je suis devenu socialiste », in Contre l’art d’élite, op. cit., p.173.
[*30] - « Des origines des arts décoratifs », p. 89
[*31] - William Morris, « Architecture et histoire », in L’âge de l’ersatz, op. cit., p. 56-57.
[*32] - William Morris, Comment nous pourrions vivre, op. cit., p. 77.
[*33] - Ivi, p.59 (traduzione modificata).
[*34] - William Morris, « Art et socialisme », in Contre l’art d’élite, op. cit., p. 99.
[*35] - Morris critica sia i riformisti all'interno del movimento socialista inglese che gli istigatori di disordini violenti.
[*36] - William Morris, « Comment je suis devenu socialiste », in Contre l’art d’élite, op. cit., p.170.
[*37] - William Morris, « La Société de l’avenir », in L’âge de l’ersatz, op. cit., p. 81.
[*38] - "La mancanza di entusiasmo per il doloroso, il tragico e l'oscuro dell'anima umana gli impedisce di contemplare la sofferenza nell'arte e lo mantiene in un'attesa di riposo e di godimento", Estela Schindel, « Introducción » in William Morris, Cómo vivimos y cómo podríamos vivir suivi de El arte bajo la plutocracia et de Trabajo útil o esfuerzo inútil, Logroño, Pepitas de calabaza, 2013 (4e édition), p. 34.
[*39] - Adolf Loos Ornement et Crime, et autres textes (traduit de l’allemand par Sabine Cornille et Philippe Ivernel), Paris, Payot et Rivages, 2003.
[*40] - « La Société de l’avenir », in L’Âge de l’Ersatz, op. cit., p. 78.
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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