Capitalismo senza Plusvalore?
di Robert Kurz
L'attuale collasso della crescita economica mondiale ci pone di fronte all'incognita delle sue conseguenze. E' chiaro che le élite economiche, politiche e scientifiche si sono trovate impreparate di fronte alla crisi secolare del capitalismo. Dopo il crollo dell'economia pianificata della burocrazia statale dell'Est, qualsiasi alternativa sociale veniva considerata come una cosa del passato.Si confidava ciecamente nell'eterna capacità di rigenerazione delle "forze del mercato" in crescita autosufficiente. Nonostante la situazione attuale, le istituzioni ufficiali continuano ad attenersi alla consegna: "Chiudere gli occhi e andare avanti". Con l'aiuto dei pacchetti di salvataggio, dei programmi di appoggio congiunturale e con un po' di regolamentazione, si spera che la fini della crisi arrivi velocemente per - come dice Angela Merkel - "uscirne rafforzati" e tornare a trovare di nuovo la strada della crescita. Una tale opzione, è talmente priva di qualsiasi fondamento da non avere alcuna credibilità.
Contro tale "ripresa della crescita", e sotto l'effetto della crisi, si fa sentire, con veemenza, una critica alla logica stessa della crescita. Una crescita illimitata e perenne sarebbe impossibile. Questo punto di vista non è del tutto nuovo. Già nel 1972, il "Club di Roma" pubblicò un famoso studio di Donella e Dennos L. Meadows sui "Limiti dello Sviluppo". Le sue argomentazioni erano principalmente centrate sul consumo delle riserve di materie prime, non solo a causa del loro esaurimento da parte dell'industria agraria, come sostenuto da Marx, ma anche per la distruzione dell'ambiente. In un mondo limitato non è possibile un aumento infinito dell'utilizzo delle risorse. Questo studio, profondo e a lungo termine, venne ignorato dai "gestori" dell'economia, orientati, come si sa, verso il breve termine, nonostante le richieste da parte dei movimenti ambientalisti. Oggi, le limitazioni alla dilapidazione delle risorse naturali (così come le catastrofiche alterazioni climatiche) si sono rese evidenti.
Oggi, tuttavia, l'esaurimento delle risorse energetiche e la crisi ecologica si combinano con una nuova crisi economica mondiale e, simultaneamente, segnalano una nuova barriera economica al modo di produzione imperante. Questa doppia crisi esige una critica dei presupposti economici della crescita costante; critica che finora è stata portata avanti male. E' per questo motivo che nasce l'idea di una "economia senza crescita". La crisi dovrebbe essere intesa come una "opportunità" in tal senso. Invece di risolvere il problema di trovare una soluzione alle necessità vitali di 7 miliardi di persone del pianeta sottomesse alla logica della crescita astratta, col pretesto della "carenza di risorse" si cerca di soggiogarle ancora di più.
Se la crescita finora è andata di pari passo con la povertà, la sua limitazione cosciente può avvenire solo con maggior povertà.
La questione dei criteri economici potrebbe suggerire un ritorno alla critica dell'economia politica di Marx, oggi dimenticata. Ma invece, il programma della "economia senza crescita" ricorda, in gran parte, un aspetto dell'economia keynesiana. In generale, a Keynes viene attribuita la responsabilità di aver salvato la crescita economica per mezzo di iniezioni statali congiunturali. Ma, oltre questo, nella decade degli anni '30, aveva formulato una teoria di stagnazione che prevedeva una diminuzione significativa della crescita e, alla fine, un'assenza di crescita del capitalismo "maturo", in quanto lo stock di capitale non può essere aumentato arbitrariamente. Di recente, l'economista critico Karl Georg Zinn, per esempio, si è riferito a questa teoria. Tuttavia, per Keynes, quest'ipotesi non era la ragione per mettere in crisi le categorie economiche. Contro la minaccia della disoccupazione di massa, a causa della mancanza di crescita, Keynes aveva semplicemente suggerito la riduzione dell'orario di lavoro, al fine di mantenere i posti di lavoro. Ma, per il capitale non si tratta semplicemente dell'impiego, ma della produzione di plusvalore a livello di produttività richiesta dalla concorrenza ed in costante aumento, la quale (come ben sapeva Keynes) rende superflua la forza lavoro in progressione crescente. La conservazione del posto di lavoro è possibile solo per mezzo della produzione addizionale di plusvalore, che presuppone uno stock di capitale sempre crescente e, conseguentemente, anche crescita economica, cosa che comporta una consumo di risorse in aumento permanente. Improvvisamente, Keynes aveva argomentato seguendo il "senso comune", senza tener conto della logica interna della valorizzazione del capitale.
In sostanza, tali considerazioni apparentemente plausibili implicano, come è normale nella scienza economica, che si tratti "realmente" di soddisfare delle necessità e che le moderne categorie economiche sono solo "leggi naturali" di un tale supposto fine che dovrebbe configurarsi secondo le sue proprie forme di sviluppo. Ma, in realtà, la soddisfazione delle necessità è un mero sottoprodotto della "valorizzazione del valore" astratto, come fine sociale in sé.
La finalità della produzione non è produrre una quantità sufficiente di beni d'uso ma, al contrario, è "lavoro astratto" per la "ricchezza astratta", ossia, per la trasformazione del denaro in più denaro; come bene si può intendere leggendo Marx. Pertanto, il mercato non serve per lo scambio di beni d'uso, ma si riferisce solamente alla sfera di realizzazione del plusvalore, ossia, della trasformazione delle merci in denaro (aumentato). Tutta l'occupazione, tutte le questioni, tutti i processi del mercato sono dipendenti dal successo nella produzione di plusvalore, il quale soggiace alla necessità della crescita. Queste categorie di base del capitale, a loro volta, non sono in alcun modo sensibili alle situazioni sociali o ambientali. Esse sono, di per sé, indifferenti a qualsiasi questione; come si può egualmente capire a partire dalla lettura di Marx.
La critica superficiale della crescita, purtroppo, ignora il contesto del funzionamento capitalista ed il carattere distruttivo delle sue categorie. Essa pretende un capitalismo senza plusvalore, che è come chiedere la quadratura del cerchio. Tuttavia, è proprio il capitalismo che mette fine alla sua crescita quando rende superfluo il "lavoro astratto" e ne fa conseguire la paralisi reale del plusvalore, che riesce a mantenere una vita fittizia solo per mezzo del credito e delle bolle finanziarie che poi finiscono per scoppiare. Questo porta, di fatto, ad una paralisi dell'utilizzo delle risorse e delle emissioni contaminanti, non per una decisione cosciente della società ma come processo cieco della crisi, così come è già in parte avvenuto nel collasso delle industrie dell'Est. Il prezzo è la miseria sociale di massa. La crisi non porta a produrre "col senso comune" ma porta semplicemente a paralizzare la produzione, poiché non è più in grado di soddisfare l'obiettivo della rivalorizzazione del capitale.
L'imposizione di una crescita capitalista controllata e senza crescita reale è solo uno scenario di catastrofe.
Per poterla ottenere, senza fare agonizzare la vita sociale, la riproduzione dovrebbe essere liberata dai dettami del plusvalore astratto. Per questo, innanzitutto, la merce forza lavoro dovrebbe smettere di esistere e, perciò, dovrebbe smettere di esistere anche il mercato del lavoro, la produzione dovrebbe perdere il suo carattere di "lavoro astratto" ed il contesto sociale dovrebbe smettere di esistere sotto forma di denaro, di mercato e di concorrenza. Affinché l'umanità non muoia sotto le rovine di queste categorie economiche, nonostante tutte le risorse disponibili, bisogna darsi il compito, postulato da Marx, della "amministrazione delle cose". Un progetto sociale avrà senso solamente quando sarà riferito al contenuto materiale e sociale, e smetterà di includere alimenti e beni culturali dentro una forma di valore che si rende inaccessibile a causa della mancanza di capacità di acquisto.
Keynes immaginò la fine della crescita come un avvenimento relativamente pacifico. Se lo Stato non può continuare a stimolare la crescita, questa deve essere semplicemente sostituita dai "beni pubblici". Keynes lasciò nella penombra il fatto che il finanziamento di tali beni fosse dipendente dalla valorizzazione del capitale e, pertanto, dalla crescita, dal momento che considerava il credito dello Stato quasi inesauribile. Il "lavoro astratto", noto anche come occupazione, le prestazioni in denaro ed il mercato universale, avrebbero dovuto continuare ininterrottamente nel futuro, con l'appoggio dello Stato, anche senza la condizione delle sue possibilità capitalistiche. Questo programma dalla vista corta rischia di fare una ben misera figura nella nuova crisi economica mondiale. Tuttavia, la critica alla crescita forzata è inconfutabile. Nonostante ciò, bisogna concretizzarla in una critica delle forme economiche presupposte ciecamente, dal momento che nessuno può uscire sotto la pioggia senza bagnarsi.
- Robert Kurz - Pubblicato sul settimanale FREITAG del 24/7/2009 -
FONTE: EXIT!
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