"Malgrado il suo aspetto semplice, questa Guida è una delle mie composizioni più intricate." - con queste parole, Vladimir Nabokov prepara il lettore, consigliandogli in qualche modo di "armarsi", prima di affrontare le cinque sezioni della sua breve, e apparentemente semplice, "Guida di Berlino". La storia, del 1925, si riferisce alla conversazione fra lo scrittore ed un suo amico abituale compagno di bevute, Joseph Roth. In una sorta di linearità, il narratore racconta, poco a poco, al suo amico da dove è passato camminando per Berlino, e cosa ha visto.
L'intrigo comincia ad emergere quando Nabokov inizia a mischiare la sua percezione geografica della città a quella temporale. Berlino non è solamente la città che vediamo oggi, sembra dire indirettamente Nabokov, ma anche tutte le sue versioni anteriori, vissute da altri, insieme alle sue versioni a venire, che altri vivranno. Così la Guida diventa un pezzo di fantasia che si distende simultaneamente su tre livelli: a) lo stile, la prosa squisita che guadagna sempre più forza, man mano che il narratore si ubriaca b) la geografia della città che viene condivisa, e la particolare mappa che il narratore, la nostra guida, traccia c) il tempo, la sovrapposizione eterogenea di tempi diversi sullo spazio urbano: ieri, oggi e domani combinati dentro una "semplice" progressione narrativa.
"Tornare a casa" - scrive Nabokov - "significa compilare una descrizione delle vie della Berlino del passato. Tutte le cose, anche le più piccole inezie, diventano preziose e piene di significato." "Tutto viene nobilitato e legittimato dall'età." Poi continua, "Credo che in questo risieda il senso della creazione letteraria: ritrarre gli oggetti banali come se si riflettessero negli specchi benevoli del tempo futuro; trovare negli oggetti che ci circondano quella tenerezza profumata che solo la posterità saprà distinguere e apprezzare in quei giorni lontani dove ogni insignificanza della nostra vita quotidiana diverrà strana e festosa: in un'epoca in cui un uomo che indossa il cappotto più ordinario sarà pronto a partecipare ad un elegante ballo in maschera."
Vabbé, leggetelo, se ne avete voglia
GUIDA DI BERLINO
di Vadlimir Nabokov
Questa mattina sono stato allo zoo e adesso sto entrando in un pub con un mio amico, nonché abituale compagno di bevute. L'insegna azzurro cielo porta la scritta «lowen-brau» accanto al ritratto di un leone che fa l'occhiolino e stringe nella zampa un boccale di birra. Ci sediamo e io comincio a parlare di tubature, tram e altre cose importanti.
LE TUBATURE
Davanti a casa mia, lungo il bordo esterno del marciapiede, giace una tubatura nera, gigantesca. A qualche decina di centimetri di distanza, parallelamente alla prima, ce n'è un'altra, quindi una terza, e una quarta: sono le viscere di ferro della terra, ancora inoperose, in attesa di essere calate nel terreno, ben al di sotto del livello dell'asfalto. Nei primi giorni, quando le avevano appena scaricate dai camion con un clangore sordo, i ragazzi si divertivano a corrervi sopra, avanti e indietro, e a strisciare carponi dentro quei tunnel circolari; ma dopo una settimana non vi giocava più nessuno e scendeva, invece, una fitta nevicata; e adesso, quando, tastando cautamente con il massiccio bastone dalla punta di gomma l'infida superficie vitrea del marciapiede, esco nella monotona luce grigia del primo mattino, una striscia uniforme di neve fresca si allunga sul dorso nero di ogni tubatura mentre sulla pendenza interna, proprio all'imboccatura del condotto prossima alla curva delle rotaie, balena il riflesso di un tram ancora illuminato, simile a un lampo estivo di un vivido color arancione. Oggi qualcuno ha vergato con il dito «Otto» sulla striscia di neve vergine e io ho pensato che quel nome, con le due morbide o a proteggere la coppia di delicate consonanti, si adattava magnificamente allo strato di neve silente steso su quella tubatura con i suoi due orifizi e il suo tacito tunnel.
IL TRAM
Fra circa vent'anni il tram elettrico scomparirà, come è scomparso quello a cavalli. Mi pare che abbia già un'aria antica, una specie di fascino fuori moda. Tutto lì è un po' goffo e traballante, e quando il tram prende troppo velocemente una curva, e il trolley scatta fuori dalla linea di alimentazione, e il conducente, oppure un passeggero, si sporge dall'estremità posteriore della carrozza, guarda in alto, e fa dondolare il filo fino quando l'asta di presa di corrente non è tornata al suo posto, mi immagino sempre il cocchiere delle diligenze di un tempo, a cui a volte sarà caduta la frusta e che, tenendo a freno il tiro a quattro, avrà mandato a raccoglierla il ragazzo in livrea dalle lunghe falde che gli sedeva accanto a cassetta e traeva squilli acuti dal corno mentre la diligenza attraversava veloce un villaggio sferragliando sull'acciottolato.
Il bigliettaio ha mani molto insolite. Si muovono svelte come quelle di un pianista, ma invece di essere molli, sudaticce e con le unghie delicate, sono talmente ruvide che quando gli mettiamo le monete nel palmo e capita di sfiorarlo, ci sembra sia coperto di una dura crosta chitinosa, e proviamo una sorta di disagio morale. Sono mani straordinariamente leste ed efficienti, nonostante la ruvidezza e lo spessore delle dita. Lo osservo incuriosito mentre con le unghie larghe e nere stringe il biglietto in una morsa e lo punzona due volte, rovista nella borsa di cuoio, dà uno strattone alla corda della campanella; oppure quando, con una spinta del pollice, apre la finestrella speciale della porta davanti per distribuire i biglietti ai passeggeri della piattaforma anteriore. E per tutto il tempo il tram continua a oscillare, i passeggeri in piedi nel corridoio si afferrano alle maniglie a pendaglio e ondeggiano avanti e indietro; eppure l'uomo non fa cadere una sola moneta né un biglietto strappato dal rotolo. In questi giorni invernali, la metà inferiore della porta sul davanti è stata schermata con una tenda di stoffa verde, i finestrini sono annebbiati dal gelo, gli alberi di Natale in vendita ingombrano il bordo dei marciapiedi a ogni fermata, i piedi dei passeggeri sono intorpiditi dal freddo, e talvolta una manopola grigia di lana pettinata copre le mani del conducente. Al capolinea la vettura di testa si sgancia, si inserisce su un binario di raccordo, gira attorno a quella rimasta ferma e le si accosta da dietro. Qualcosa ricorda una femmina sottomessa nel modo in cui la seconda vettura aspetta che la prima, il maschio, lanciando verso l'alto una piccola fiammata crepitante, si avvicini e si accoppi. E (senza la metafora biologica) mi sovvengo del modo in cui, circa diciotto anni fa, a San Pietroburgo, si sganciavano i cavalli per farli girare attorno al panciuto tram blu.
Il tram a cavalli è scomparso, e scomparirà anche il tram elettrico e, se un eccentrico scrittore berlinese negli anni Venti del ventunesimo secolo vorrà descrivere il nostro tempo, visiterà un museo della tecnica e cercherà una vettura tranviaria di cent'anni prima, gialla, sgraziata, dai sedili curvi e antiquati, e anche un museo del costume, dove andrà a scovare una divisa da conducente, nera e con i bottoni lucenti. Poi tornerà a casa per mettere assieme una descrizione delle strade di Berlino in giorni remoti. Ogni cosa, anche la più insignificante, sarà preziosa ed essenziale: la borsa del conducente, il cartello pubblicitario sopra il finestrino, quel movimento peculiare a scossoni che i nostri pronipoti forse riusciranno a immaginare - tutto sarà nobilitato e giustificato dall'età delle cose.
Secondo me, in questo sta il senso della creazione letteraria: descrivere gli oggetti comuni com'essi appariranno riflessi nello specchio benevolo dei tempi futuri; trovare, negli oggetti che ci circondano, la tenerezza fragrante che solo i posteri sapranno discernere e apprezzare in tempi lontani, quando ogni inezia della nostra semplice vita quotidiana sarà considerata mirabile e gaia, come in effetti è: tempi in cui un uomo che indossi la più banale giacca dei nostri giorni sarà abbigliato come per un elegante ballo in maschera.
IL LAVORO
Ecco alcuni esempi di vari tipi di lavoro che osservo dal tram affollato, dove posso sempre contare su una donna compassionevole che mi ceda il posto vicino al finestrino... sforzandosi di non scrutarmi con troppa insistenza.
A un incrocio, il manto stradale è stato spaccato vicino alle rotaie; a turno, quattro operai colpiscono un picchetto di ferro con i mazzuoli; il primo colpisce e il secondo abbassa già il suo mazzuolo con un movimento rotatorio del braccio, ampio e preciso; il secondo mazzuolo si abbatte e poi si solleva mentre il terzo e il quarto colpiscono il picchetto in successione ritmica. Ascolto il metodico e pacato clangore, simile a quattro note ripetute di un carillon metallico.
Un garzone di fornaio dal berretto bianco saetta accanto al tram sul suo triciclo; c'è qualcosa di angelico in un ragazzo impolverato di farina. Un furgone ci sorpassa tintinnante, sul ripiano casse con file ordinate di vuote bottiglie smeraldine, luccicanti, ritirate dalle osterie. Un lungo larice nero ci passa accanto, misterioso, su un barroccio. L'albero è appoggiato orizzontalmente; la cima tremola lieve, mentre le radici coperte di terra, avvolte in robusta tela di sacco, formano, alla base, un'enorme sfera beige simile a una bomba. Un postino, che ha sistemato l'imboccatura di un sacco sotto una cassetta postale color cobalto, la assicura dal basso e segretamente, invisibilmente, con un fruscio precipitoso la cassetta si svuota e il postino chiude con un colpo secco le fauci quadrate del sacco, ora colmo e pesante. Ma forse la cosa più bella sono le carcasse, giallo cromo a macchie rosa, e arabescate, che si ammonticchiano su un carro, e l'uomo con grembiule e cappuccio di cuoio dalla lunga falda che scende fin sul collo, il quale solleva una carcassa per volta sulla schiena e, piegato sotto il peso, la trasporta, attraverso il marciapiede, nella rossa bottega del macellaio.
EDEN
Ogni grande città ha il proprio Eden in terra, costruito dall'uomo.
Se le chiese ci parlano del Vangelo, gli zoo ci ricordano l'inizio solenne e pervaso di tenerezza del Vecchio Testamento. L'unico aspetto dolente è che questo Eden artificiale si trova per intero dietro le sbarre, quantunque, senza recinzioni, il primo dingo cui capitassi a tiro mi attaccherebbe con ferocia. E tuttavia è pur sempre l'Eden, per quanto agli umani è dato riprodurlo, ed è quindi per fondate ragioni che il grande albergo vicino allo zoo di Berlino si chiama come quel giardino.
Durante l'inverno, quando gli animali tropicali sono stati messi al riparo, consiglio di visitare i padiglioni degli anfibi, degli insetti e dei pesci. File di espositori illuminati dietro schermi di vetro nella sala immersa in un fioco chiarore somigliano agli oblò attraverso i quali il Capitano Nemo, dall'interno del suo sottomarino, scrutava le creature del mare fluttuanti tra le rovine di Atlantide. Al di là del vetro, in recessi luminosi, pesci trasparenti scivolano via tra uno scintillio di pinne, i fiori marini respirano e, su una chiazza sabbiosa, è adagiata una stella marina a cinque punte, color cremisi, viva. É qui, allora, che il famoso simbolo ha avuto origine - nelle profondità dell'oceano, tra le tenebre di Atlantidi sommerse che in tempi lontani sopravvissero a sconvolgimenti d'ogni genere baloccandosi con topiche utopie e altre insensatezze che oggi ci paralizzano.
Oh, non perdete il pasto delle grandi tartarughe. Quelle antiche, massicce cupole cornee provengono dalle isole Galapagos. Con una sorta di decrepita circospezione, una testa piatta e rugosa e due zampe del tutto inutili emergono con movimenti lenti da sotto il quintale della cupola. E con la lingua spessa e spugnosa che ricorda un po' quella di un idiota cacologico che vomita lento il suo favellare mostruoso, la tartaruga infila la testa in un mucchio di vegetali bagnati e ne sgranocchia disordinatamente le foglie.
Ma quella cupola che ha sopra... ah, quella cupola, quel bronzo consunto, opaco, senza età, quel magnifico fardello del tempo...
IL PUB
«È una guida scadente» dice, accigliato, il mio solito compagno di bevute. «A chi vuoi che interessi se hai preso il tram e sei andato a visitare l'acquario di Berlino?».
Il pub nel quale ci troviamo è diviso in due parti, una ampia, l'altra più piccola. Un tavolo da biliardo occupa il centro della prima; negli angoli alcuni tavolini; di fronte all'entrata c'è il bar, e le bottiglie sono allineate sui ripiani dietro al bancone. Alla parete, tra due finestre, pendono, come bandiere di carta, riviste e quotidiani montati su aste di legno consunte. In fondo alla stanza c'è un corridoio ampio, oltre il quale si intravede una stanzetta stipata di mobili, con un divano verde sovrastato da uno specchio dal quale pencola un tavolo ovale, coperto da un'incerata a quadretti, che si materializza davanti al divano. Quella stanza appartiene all'umile appartamento dell'oste. Lì la moglie, dall'aspetto avvizzito e dai grossi seni, sta facendo mangiare la minestra a un bambino biondo.
«Non è per niente interessante» afferma il mio amico con uno sbadiglio afflitto. «Che cosa c'entrano tram e tartarughe? E comunque è tutto una gran noia. Una città straniera e noiosa dove, per giunta, la vita è cara...».
Vicini come siamo al bar, possiamo distinguere chiaramente il divano, lo specchio e il tavolo sullo sfondo, oltre il corridoio. La donna sta sparecchiando. Appoggiato sui gomiti, il bambino osserva attento le illustrazioni di una rivista montata sul suo inutile sostegno.
«Cosa vedi là in fondo?» chiede il mio compagno e si gira lentamente, con un sospiro, e la sedia cigola stridula sotto il suo peso.
Laggiù, sotto lo specchio, il bambino siede ancora tutto solo. Ma adesso guarda verso di noi. Da quel punto può vedere l'interno del locale: l'isola verde del tavolo da biliardo, la palla d'avorio che gli è proibito toccare, la patina metallica del bar, un paio di camionisti grassi seduti a un tavolino e noi due a un altro. Si è abituato da tempo a questa scena e la sua vicinanza non lo sgomenta. Eppure io so una cosa: qualunque corso prenderà la sua vita, ricorderà sempre la scena che ha visto ogni giorno della sua infanzia dalla stanzetta in cui gli facevano mangiare la minestra. Ricorderà il tavolo da biliardo e il cliente notturno in maniche di camicia che arretrava il gomito bianco e aguzzo e colpiva la palla con la stecca, e il fumo grigiazzurro dei sigari, e il frastuono delle voci, e la mia manica destra vuota e la faccia sfregiata, e il padre dietro al bar che mi spilla un boccale di birra.
«Non capisco che cosa ci trovi d'interessante là in fondo» dice il mio amico, girandosi nuovamente verso di me.
Che cosa ci trovo d'interessante? Come faccio a spiegargli che ho intravisto i futuri ricordi di qualcuno?
- Vadlimir Nabokov -
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