Sanguinante e purulento da tutti i pori
di Robert Kurz
Nessun ordine sociale ha provocato in tutta la sua storia così tante guerre, guerre così estese e devastatrici, di quanto abbia fatto il capitalismo con la sua meravigliosa modernità. Nessun ordine sociale ha attirato su una così grande parte dell'umanità così tanta miseria materiale, producendo, allo stesso tempo, una ricchezza così notevole [Kurz distingue qui la ricchezza materiale dalla ricchezza sociale storicamente specifica al capitalismo, cioè il valore]. Parimenti, non è mai esistito un sistema sociale capace di condurre l'umanità più vicino alla distruzione delle sue infrastrutture naturali sul scala planetaria. Mai gli uomini sono stati più socializzati, intrattenendo tra di loro dei rapporti di dipendenza, di ripartizione delle funzioni e di mediazione mondiale, e mai gli individui sociali sono stati così atomizzati nelle loro strutture e mai si sono considerati l'un l'altro con così tanta indifferenza, come monadi astratte degli interessi.
Queste non sono né tesi né affermazioni che devono essere provate. Tutte queste manifestazioni negative, distruttrici e catastrofiche, sono visibili nella loro innegabile evidenza storica e strutturale. Questo non impedisce ai tranquilli apologeti democratici del capitalismo, come criminali recidivi, di contestare perfino ciò che è stato provato mille volte, e che è stato riconosciuto come evidente. Al giorno d'oggi, nei centri mondiali del "soggetto automatico" [che è il capitale], appartiene al senso comune di politici, scienziati, economisti e redattori di articoli bisbigliare continuamente, e con notevole ignoranza, le parole "civiltà" e "civilizzazione" alla vista delle masse dei poveri del mondo intero, dei paesi economicamente in rovina, dei continenti contaminati, delle riserve naturali in via d'esaurimento e dei rapporti competitivi da bestie feroci.
Il capitalismo nega la sua propria storia, le devastazioni causate dai suoi "rischi ed effetti secondari" quotidiani, il suo potenziale di pauperizzazione e di distruzione. Proietta la sua propria natura negativa su un "esterno" immaginario di dittature, di abissi amorali dell'anima umana e di malignità soggettiva; fenomeni, dei quali dice che gli sono estranei, ma che in realtà continuano ad uscire dal suo seno. Dice che tutto ciò che in questo pianeta c'è di povertà, di miseria, di violenza, non è mai dovuto a troppo, ma a troppo poco capitalismo - ecco l'infame deformazione dei fatti. Anche in materia di menzogna, d'impudenza, e pure di auto-inganno, l'ordine capitalista è storicamente imbattibile. Il capitalismo batte il record mondiale, il record storico ed il record umano di crisi, di distruzioni e di guerre sociali - esso è per Borges, la vera "storia universale dell'infamia".
La "civiltà del denaro" è una contraddizione in sé, perché il potere delle cose morte sotto forma di soggetto automatico materializzato non può affatto creare una civiltà umana e sociale. L'essenziale di quel che emana dalle istituzioni e dai mandarini del capitale sotto forma di moralità di facciata, regolamentazioni astratte e divieti permanenti che esortano al rispetto reciproco, alla dignità umana e alla gentilezza ecc. proviene dalla religiosità delle società agrarie premoderne; come ha mostrato acutamente Marx, la religiosità, con il capitalismo, è diventata un affare personale che non vincola in nessun modo. Nel capitalismo l'uomo dev'essere buono, non a causa, ma nonostante l'ordine sociale strutturale che si basa sulla più vile concorrenza, quella di tutti contro tutti. Gli ideali che il capitalismo ha evidenziato, come la libertà individuale e la sovranità della ragione umana, sono sempre stati una compilazione di formule pompose che servono a designare il "libero" nell'ambito di quella lacerazione che consegna gli esseri umani alla concorrenza economica odiosa e alla "libertà dell'uomo solvibile", da una parte, e all'autosottomissione senza condizioni alle pseudo leggi naturali concrete del soggetto automatico, dall'altra - quindi esattamente il contrario della libertà, della ragione e della sovranità.
L'uomo capitalista è stato affrancato dalla strettezza e dai vincoli degli ordini agrari e religiosi, consanguinei ed altri, non positivamente, ma negativamente: cioè come soggetto astratto e disinibito di una lotta permanente, alimentata artificialmente, per la sopravvivenza sociale. Una socializzazione così potente, basata sull'insocievolezza dei suoi membri, reca necessariamente nella sua propria struttura un potenziale di barbarie. Per ironia della sorte, gli imperi occidentali del capitale hanno preso in prestito dall'antichità, l'idea di barbarie e di barbaro, per denunciare, come gli arroganti imperi di una volta, qualsiasi carattere sociale che non corrispondesse alla loro natura, per distanziarsene. Però, il capitalismo supera di gran lunga in crudeltà, in disumanizzazione e, allo stesso tempo, in infantilismo, tutte le culture dell'età della pietra, dei popoli cosiddetti primitivi, delle tribù e tutti i grandi re e re-divinità della storia.
E cosa avrebbe detto Marx di questa tirata? Il Marx essoterico [quello del marxismo] si sarebbe coperto il volto con le mani e avrebbe invocato - ancora una volta - quell'istanza inventata per la prima volta dalla filosofia borghese dei Lumi e dal liberalismo: la "necessità storica". "Noi gustiamo il nettare nel cranio dei vinti". Questo progresso realizzato calpestando campi di rovine e di cadaveri, questo progresso che oggi si ricomincia a chiamare - fino al punto di essere moralmente disgustoso - il "prezzo sociale inevitabile della modernizzazione", deve essere pagato, se possibile, da "gli altri", quali che siano. Ancora una volta, di fronte a questa grande festa borghese della mitologia del progresso, il Marx esoterico si contrappone al teorico essoterico della modernizzazione, non lasciandosi per niente accecare da una pretesa ineluttabilità storica, denunciando senza risparmiarsi la detestabile barbarie del capitalismo.
Se si prende sul serio questa critica della barbarie capitalista che traspare in Marx attraverso l'indignazione storica nonché attraverso l'analisi del concetto di feticismo moderno, questo sistema capitalista di produzione di merci (fine in sé) non appare più come una tappa inevitabile, anche se rimane una tappa negativa e distruttrice e appare come la sola forma possibile di sviluppo delle forze produttive nel processo storico teleologico. Ora però che appare come un errore evolutivo o come un grave incidente della storia, il peggiore che si possa immaginare, il superamento del capitalismo allora non è più il coronamento della storia del progresso e, quindi, il culmine della mitologia della storia dell'illuminismo, liberale e borghese nelle sue proprie categorie (fra le quali c'è il completamento del prossimo stadio più elevato "oggettivamente" atteso, secondo le leggi storiche astratte), ma piuttosto, in qualche modo, sarebbe come azionare il freno d'emergenza, metafora che si ritrova nella filosofia della storia, negativa, di Walter Benjamin.
Tuttavia, in questo giudizio del principio storico indiretto del capitalismo, una cosa viene esclusa dal Marx esoterico: la trasfigurazione romantica, e letterariamente reazionaria, delle società agrarie pre-capitaliste con le loro strutture di dipendenza personale e con le loro forme di feticismo sociale trasmesso per mezzo della religione. Su un tale punto, il Marx essoterico con la sua eredità liberale agisce come correttivo che impedisce alla critica del capitalismo di cadere nell'irrazionalismo romantico e soprattutto autoritario. Si può dire solo una cosa: un proseguimento - forse più lento, ma più circospetto - dello sviluppo delle forze produttive, come aveva già avuto luogo precedentemente al capitalismo, non avrebbe avuto forzatamente bisogno della logica demente di un capitalismo in quanto fine in sé; le numerose battaglie difensive sociali dei tempi moderni avrebbero potuto, in linea di principio, orientare la storia in un'altra direzione. La vittoria del "fattuale" vincente per forza - che ci preoccupa - non è un argomento contro una possibilità alternativa che non ha mai potuto concretizzarsi e che è ancora inedita nel fattuale della storia. Certo, la ruota del tempo non può e non dev'essere invertita, ma forse bisogna rifiutare ogni legittimità sorica del capitalismo, negare totalmente il preteso progresso che ci sarebbe stato comunque, per potersene sbarazzare per sempre.
L'avvento del capitalismo fu ben lungi dall'essere idilliaco, filantropico e pacifico. E' questo che ci mostra Marx nel celebre capitolo del "Capitale" su quello che egli chiama "l'accumulazione primitiva", che precede il modo di produzione capitalista a partire dal XVI secolo e che crea le condizioni della sua comparsa. Lontano dalla mitologia ufficiale, oggi ancora in vigore, di un capitalismo nato da un'estensione pacifica e amichevole del commercio e della circolazione del denaro, "che favoriva la prosperità", Marx disegna un'immagine completamente opposta: quella della storia violenta, sanguinosa e crudele di uomini separati dai loro mezzi di produzione, dell'espulsione della popolazione contadina cacciata letteralmente dalle proprie case e dalle loro fattorie per essere trasformati in "poveri" sradicati e, infine, in operai salariati potenzialmente "liberi".
La storia della costituzione del capitale è fatta dei crimini perpetrati al fine di potersi costituire. E' qui che si trova il nucleo della violenza della società moderna. Non è scomparsa con le democrazie della fine del XX secolo e continua ad esistere nell'amministrazione democratica degli uomini, assicurata in ultima istanza dalla forza dello Stato. Il compito essenziale di questa amministrazione consiste nel mantenere gli individui separati dai mezzi di produzione da lungo tempo socializzati e a conferire al capitale il suo aspetto oggettivo. E questo crimine originale capitalista, come "congelato" in questa oggettivizzazione, si perpetua ancora oggi, giorno dopo giorno, nelle grandi regioni della periferia capitalista, nel "far sud" e nel "far est" del capitale mondiale. Questa violenza immediata e palese dell'accumulazione primitiva proliferante costituisce il primo livello della barbarie capitalista. Il secondo livello è determinato dalla barbarie strutturale del capitalismo nel suo corso "normale" delle cose, sul terreno della sua situazione già consolidata ed interiorizzata. Questa barbarie strutturale da una parte nasce indirettamente e involontariamente dalla concorrenza cieca dei mercati e dalla razionalità della gestione d'impresa, essa è la conseguenza dei rischi e degli effetti secondari legati alla lotta concorrenziale universale e permanente. Ogni giorno ci sono masse di persone che soffrono privazioni per la sola ragione che la loro esistenza non è interessante per i mercati. La fame e la miseria, malgrado una riserva mai raggiunta prima di mezzi di produzione, di mezzi tecnici, mezzi sanitari ed altro, sono di una barbarie tanto più atroce quanto più manca un colpevole. D'altra parte, questa barbarie strutturale ha anche un aspetto soggettivo: è quello della delinquenza legale (per esempio, il lavoro minorile rimane accettato nel capitalismo mondiale, ed è perfino riapparso nei centri industriali) come quello della mescolanza fra capitalismo e crimine organizzato. Una tendenza che non ha smesso di crescere nel corso della storia e che sembra aver raggiunto oggi un punto culminante. Per aver fatto del "sempre più", l'essenza dell'aspirazione umana e della concorrenza di tutti contro tutti, una situazione normale, il capitalismo non può fare altro che incoraggiare e far prosperare il crimine, quale che sia.
Il terzo livello della barbarie capitalista è costituito da quello che si chiama , dalla fine del XIX secolo, "stato d'eccezione", "stato d'assedio" o "stato d'urgenza". Un tal sistema feticista paranoide non cessa di causare crisi e catastrofi, scoppi sociali, violenti conflitti interni ed esterni, ecc., è periodicamente obbligato ad esteriorizzare il suo nucleo di violenza e di manifestarlo. Allora, quando si attacca la sostanza, quando si attacca o si pretende di attaccare il modo di produzione capitalista stesso, i pilastri capitalisti della società, cioè a dire i notabili borghesi, non conoscono più né limite né pietà. Si trasformano in bestie feroci fino a calpestare ogni moralità, perfino la loro legge. Pinochet rappresenta il liberalismo in stato d'eccezione, dunque il suo vero volto. Questa storia della barbarie capitalista in stato d'eccezione o di crisi è stata, fino ad oggi, così spesso giocata che difficilmente ci si può aspettare altro dal futuro. Non ci consola molto vedere regolarmente le colonne della società, le élite di funzione del capitalismo, cannibalizzati allo stesso modo dagli spiriti che hanno invocato. Ma questi "fanatici della valorizzazione del valore" preferiscono lasciarsi massacrare dai demoni piuttosto che mettere in discussione la loro cecità sociale.
Tutto questo pone naturalmente il problema della responsabilità. La concezione semplice del mondo propria del marxismo del movimento operaio, distingueva ancora nettamente il "noi" e "gli altri", il "bene" a priori ed il "male" a priori in quello che volevano le classi sociali. Ma se il complesso comune costituito dal lavoro astratto, dalla forma merce, dalla cittadinanza, ecc. entra nel campo della critica, dove si trova allora la responsabilità? Si può ritenere, un insieme di strutture cieche, si può ritenere il soggetto automatico responsabile di qualche cosa, anche se si tratta del peggiore dei crimini? Inversamente: se alla fine la barbarie capitalista, in ultima analisi, è presente nei meccanismi silenziosi della concorrenza, le concussioni del manager senza scrupoli, del politico corrotto, del burocrate chiamato a gestire la crisi, del macellaio contaminato dal sangue dello stato d'eccezione, non sono forse allora tutti loro giustificati, in un certo qual modo, dal fatto di essere sempre e comunque condizionati e spinti dalle leggi strutturali della "seconda natura"?
Un simile argomentare dimentica che la nozione del soggetto automatico è una metafora paradossale per un rapporto sociale paradossale. Il soggetto automatico non è affatto un'esistenza separata che si trova al di fuori, da qualche parte, ma è la sfera d'influenza sociale che obbliga gli uomini a subordinare il loro proprio agire all'automatismo del denaro capitalizzato. Ma non sono sempre gli individui ad agire? La concorrenza, la lotta per una sopravvivenza suscitata artificialmente, le crisi, ecc. rendono manifesta la forza della barbarie. Tuttavia, in pratica, è necessario che questa barbarie sia protagonizzata da attori umani, quindi che essa passi attraverso la loro coscienza. Ecco perché gli individui sono soggettivamente responsabili delle loro azioni, tanto il manager ed il politico, quanto, dall'altra parte, il disoccupato razzista e la ragazza madre antisemita.
Ogni giorno bisogna superare l'enorme potenziale di paura e di minaccia che pesa su questa società. Ad ogni istante, gli individui prendono delle decisioni che non sono mai completamente prive di alternativa - né sulla piccola scala della vita quotidiana né sulla grande scala della società e della storia. Nessuno è solo una marionetta senza volontà, tutti devono liberarsi da contraddizioni impressionanti, dall'angoscia e dall'ansia derivanti da questa morsa di paura. Non c'è niente di assurdo nel concentrare l'indispensabile critica della società a livello di strutture sociali generali, sul lavoro astratto e sul soggetto automatico, ma, allo stesso tempo, bisogna rendere gli individui agenti, responsabili delle loro azioni, anche se il loro statuto sociale conferisce loro uno stato di irresponsabilità.
Marx ha evocato tutti i livelli della barbarie capitalista. Ma è solo il Marx esoterico, quello che associa la critica categorica delle forme sociali capitaliste all'indignazione provocata dagli atti di barbarie e che accusa con rara violenza i responsabili, a rendere così allarmante la sua lettura.
Infatti, è lì che ci rendiamo conto, con inquietudine, di che cosa sia il capitale, in quanto non è solamente un semplice rapporto soggettivo di volontà che, per il suo carattere di feticcio irrazionale, genera la cattiva volontà - l'irresponsabilità dei responsabili e la responsabilità degli irresponsabili.
- Robert Kurz -
(Estratto dall'introduzione al capitolo IV di "Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXI e siècle. Choisis et commentés par Robert Kurz)
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