lunedì 30 giugno 2014

Quietisti e non

postone

Note di lettura
Capitolo 1. Una critica del marxismo tradizionale, pagine 15-71
Moishe Postone - Tempo, lavoro e dominio sociale. Una reinterpretazione della teoria critica di Marx -

La crisi del marxismo tradizionale

Per Postone, l'espressione "marxismo tradizionale" si riferisce a tutti gli approcci teorici che analizzano il capitalismo dal punto di vista del lavoro e che definiscono questa società principalmente in termini di rapporti di classe, strutturati per mezzo della proprietà privata dei mezzi di produzione e dell'economia regolata dal mercato.
Così, il marxismo tradizionale si basa su un quadro organizzato intorno ai seguenti punti:
1. Il lavoro viene inteso in termine di attività sociale trans-storica che media i rapporti fra l'uomo e la natura, creando dei prodotti destinati a soddisfare dei bisogni umani determinati.
2. Le relazioni di dominio sono intese essenzialmente in termini di dominio di classe e di sfruttamento.
3. La demistificazione del capitalismo si basa quindi su una doppia affermazione: il lavoro è la sola fonte di ricchezza sociale, ma, allo stesso tempo, la classe capitalista si appropria del plus-prodotto creato dal lavoro, e dev'essere liberato da questa appropriazione.
4. La critica del capitalismo, in questo modo porta essenzialmente sulla distribuzione, e non sulla produzione. Il capitalismo viene interpretato come un modo di distribuzione di una ricchezza sociale su cui il marxismo tradizionale non si interroga.
5. La contraddizione del capitalismo viene interpretata come una contraddizione fra la sfera della produzione e quella della circolazione: lo sviluppo delle forze produttive (assimilate alla produzione industriale) che vengono assunte come eterogenee al capitalismo, viene frenato dal carattere avido e incapace del rapporto sociale, che solo esso viene assunto come specificamente capitalista (e basato, secondo il marxismo tradizionale, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul mercato).
6. Secondo questo approccio, il socialismo superando i rapporti sociali capitalisti interpretati in termini di modo di distribuzione, permetterà il pieno sviluppo delle forze produttive (industria), sopprimerà la dominazione di classe, e la classe operaia collettivizzerà i mezzi di produzione e si approprierà del surplus realizzato da essa stessa, ed organizzerà un modo di distribuzione regolato dalla pianificazione.

A partire da questa griglia di lettura, è stata costruita tutta una varietà di approcci teorici, metodologici, e politici. Questi approcci teorici hanno mostrato i loro limiti:
- Alla luce degli sviluppi in corso nei paesi del socialismo realmente esistente, e del loro crollo; ma anche per quanto riguarda l'evoluzione dei paesi occidentali, con il passaggio dal capitalismo liberale del XIX secolo al capitalismo fordista centrato sullo Stato, del XX secolo, e poi al capitalismo neoliberista attuale.
- Per quel che concerne i movimenti sociali e le idee non fondate sulle classi.
- Il lavoro vivo non è più la fonte principale della ricchezza materiale; la scienza, la tecnologia, il sapere, hanno occupato un posto di rilievo preponderante in questo dominio.
- Infine, si è sviluppato un malcontento profondo nei confronti del lavoro e delle sue condizioni, e sembra sempre più difficile sviluppare una teoria critica del capitalismo, dal punto di vista del lavoro.

Pertanto, la reinterpretazione fatta da Postone della teoria critica di Marx vuole essere da una parte una risposta alle nuove configurazioni del capitalismo, e dall'altra parte alle debolezze del marxismo tradizionale. Postone si basa sui Grundrisse come punto di partenza della sua reinterpretazione. Questa analisi mette in discussione le interpretazioni che privilegiano in modo unilaterale il mercato, il dominio di classe e lo sfruttamento. Poiché Marx, in realtà, voleva andare più lontano e mostrare che le categorie di base (merce, valore, denaro, lavoro, capitale) sono specifiche al capitalismo e non hanno niente di trans-storico. Fondamentalmente, la teoria critica del Marx della maturità è, per Postone, in modo molto esplicito, una critica del lavoro sotto il capitalismo e non una critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro; di conseguenza, le categorie della vita sociale sono le categorie del lavoro, del valore, del denaro, del capitale. "E' questo non va per niente da sé", avverte Postone, il quale ci invita ad un profondo riesame della teoria critica.

Il marxismo tradizionale pone al centro della sua critica il capitalismo che, obbedendo ad uno sviluppo tecnico, diventa incompatibile con il modo di produzione industriale, e dunque alle sue leggi fisiche, ed il valore, in tale prospettiva (nel suo doppio carattere di valore d'uso e di valore di scambio), appare come una semplice categoria di mercato. Però Marx, nelle sue opere della maturità, analizza lo scambio, non più a livello di mercato, ma a livello della produzione, "scambio di lavoro vivente contro lavoro oggettivato". Il valore è perciò inteso in primo luogo come una categoria della produzione. E' un punto molto importante. Conseguenza immediata: non c'è contraddizione (eppure questa è la contraddizione considerata fondamentale dal marxismo tradizionale) fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione; sono completamente legate gli uni con le altre. Ma c'è una cosa ancora più importante: "condizione implicita della produzione, è e rimane (è Postone che sottolinea) la massa del tempo di lavoro impiegato, la quantità di lavoro impiegato come fattore decisivo della produzione della ricchezza". Qui, non bisogna fare confusione fra valore e ricchezza materiale, perché con la grande industria, la creazione di ricchezza materiale dipende meno dal tempo di lavoro impiegato che dal livello generale della scienza e dal progresso della tecnologia. Inoltre, c'è opposizione fra valore e ricchezza materiale, perché il valore è sempre meno adeguato, come misura di ricchezza materiale. C'è dunque uno scarto tra la realtà della produzione ed il potenziale, potenziale che mette le basi, per Postone, per una nuova forma di produzione. Le conseguenze sono importanti: per il superamento del capitalismo, non basta attenersi all'espropriazione della proprietà privata e ad una riappropriazione del surplus da parte dello Stato, semplicemente meglio redistribuito, in un modo più giusto o più efficace, cos' come lo rivendica il marxismo tradizionale (la sinistra ha sempre avuto in bocca la giustizia economica e sociale all'interno delle forme di base del capitalismo); riappropriarsi del lavoro immediato, questo va molto più lontano: vuol dire cambiare soprattutto il lavoro concreto.

I rapporti sociali non possono essere afferrati pienamente in termini di rapporto di classe, in termini di dominio dell'uomo sull'uomo. I rapporti sociali sono costituiti dal lavoro, che impone il suo dominio sociale. Marx ha colto questo processo di creazione delle strutture sociale astratte di dominio, a partire dalle categorie di merci e di capitale. E questo dominio astratto (che si può inserire nella categoria del feticismo) orienta non solo il fine della produzione ma anche le forme materiali della produzione. Questo processo di dominio va a generare una scissione fra gli individui "impoveriti e spremuti" e l'enorme potenziale di sapere umano sviluppato, ma sotto una forma alienata all'interno del capitalismo. Nel post-capitalismo, Marx parla di passaggio dal lavoratore all'individuo sociale. Quest'idea non si riferisce all'individuo che lavora insieme ad altri, ma piuttosto all'individuo che potrebbe beneficiare delle conoscenze acquisite dalla società, superando così la frammentazione del lavoro sotto il capitale.Siamo molto lontani dal concetto di alienazione del marxismo tradizionale, che vuol dire solamente riappropriazione di un'essenza di lavoro (che sarebbe naturale, o trans-storico e preesistente al capitalismo) e di plus-lavoro alienato dal capitale!
"Gli uomini devono poter essere in grado di svincolarsi dal processo di lavoro immediato cui hanno finora partecipato ... Lungi dal comportare la realizzazione del proletariato, il superamento del capitalismo comporta l'abolizione materiale del lavoro proletario" (Postone).
Postone torna sul vero nucleo della contraddizione del capitalismo nella produzione. La sola forma di ricchezza che costituisce il capitale, è quella fondata sulla spesa del tempo di lavoro; rimane centrale e indispensabile e non ci può essere una nuova forma di ricchezza nel capitalismo. M, allo stesso tempo, questa spesa del tempo di lavoro viene resa sempre più anacronistica dallo sviluppo del capitalismo , come abbiamo visto prima (lo sviluppo della tecnologia/scienza della produzione). Tuttavia, la forma di ricchezza fondata sulla spesa del tempo di lavoro, malgrado la sua crescente inadeguatezza, rimane la condizione strutturale della società capitalista, la dinamica interna del capitalismo si muove dentro questa prigione e non può in alcun momento auto-superarsi costituendo una nuova forma di ricchezza. "Il capitalismo crea la possibilità della sua propria negazione, ma non si trasforma automaticamente in qualcos'altro". Perciò, ad una dinamica interna che bisognerà precisare (è l'oggetto della terza parte del libro) si oppone l'impossibilità di un auto-superamento. Questo punto è importante, perché spesso alcuni lettori precipitosi della "critica del valore", immaginano che basta aspettare che il capitalismo crolli da solo, per veder apparire una società post-capitalista, e si pensa, sbagliando, che la critica del valore difenda una posizione quietista.

Questa contraddizione fondamentale in seno a quel che costituisce il nucleo del capitalismo, e questo punto è importante, non dev'essere identificata con i rapporti sociali del conflitto di clasee, o come una contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive ed i rapporti sociali di produzione, né come una contraddizione tra l'appropriazione privata e la produzione socializzata, ma come una contraddizione nel seno stesso della sfera della produzione. Questa "contraddizione sociale interna crescente", genera una tensione interna, una dinamica contraddittoria e genera la possibilità immanente di un nuovo ordine sociale. Marx ha cercato di cogliere il corso dello sviluppo capitalista come uno sviluppo a doppia faccia, sia arricchente che impoverente. Quest'analisi permette di respingere i punti di vista unilaterali, la fede positivista nel progresso scientifico e/o sociale, oppure una visione piena di distruzione. Così, questi cambiamenti nella conoscenza (progresso, scienza) possono condurre, secondo Postone, "alla frammentazione e alla vacuità del lavoro individuale e al controllo crescente dell'umanità attraverso i risultati della sua propria attività oggettivante", ma aumentano allo stesso tempo la possibilità che "l'umanità possa avere un maggior controllo del proprio destino". Perciò, "né affermazione acritica della produzione industriale, né rifiuto romantico del progresso tecnologico in sé", questa è almeno la posizione di Postone su tale questione.

Si sa, la base del capitale è, e rimane, il lavoro proletario; questo perciò non può essere la negazione della formazione sociale del capitale. Se si vuole perciò superare il capitalismo, bisogna perseguire l'abolizione del proletariato; quindi le rivendicazioni non devono limitarsi alla sfera del consumo o alla giustizia distributiva, ma in rottura con queste, al fine di rimettere in discussione il lavoro in quanto tale (Postone torna in un altro capitolo sulla doppia natura del lavoro, che qui non discutiamo). La teoria critica deve allora mettere all'opera un'analisi della costituzione dei bisogni sociali e delle forme di coscienza che permettano di comprendere i diversi movimenti sociali di oggi, e le trasformazioni storiche qualitative della soggettività, ma beninteso nel quadro dell'abolizione del proletariato. Questa teoria della costituzione della soggettività si oppone a due approcci. In primo luogo, ad un approccio troppo classico, secondo il quale solo una coscienza in accordo con l'ordine esistente si può formare socialmente. E si oppone ugualmente all'idea della creazione di una coscienza critica a partire da esperienze che si vorrebbero non-capitaliste. Senza negare l'importanza e l'interesse di certe esperienze, esse hanno il torto di considerare il capitalismo come una "totalità unitaria", mentre "l'analisi del capitalismo come società contraddittoria si propone di mostrare le possibilità di distanza critica ... dall'interno dello stesso capitalismo".

Alcune implicazioni aggiuntive:

- Il fatto che le dinamiche del capitalismo non dipendono essenzialmente dal modo di distribuzione mediato dal mercato, permette un'analisi che non si limita al suo periodo nel XIX secolo, ma integra le dinamiche della società moderna, con i suoi massivi interventi statali.
- Concentrandosi sulla critica della produzione, c'è una possibilità crescente che il ruolo storicamente specifico del lavoro sotto il capitalismo, venga superato da un'altra forma di mediazione sociale.
- Se si limita il post-capitalismo alla soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e del mercato, diventa dubbia la messa in opera di qualsiasi democrazia politica, perché i vincoli imposti dalle categorie del valore e del lavoro sarebbero sempre operanti.

Pierre, novembre 2012

fonte: Critique Radicale de la Valeur

domenica 29 giugno 2014

allegorie

mountain3

In una città senza nome, di sapore latino-americano, un povero cristo nudo e deriso, forse un ladro, penetra nell’altissima torre in cui vive un negromante da fantascienza detto l’Alchimista che trasforma in oro gli escrementi. Qui incontra nove persone, industriali, mercanti e poliziotti, che simbolizzano i volti più iniqui e perversi del potere. Rappresentano le sette facce di un prisma che racchiude in sé tutto il potere consumistico–politico-militare, votato alla più disumana oppressione delle masse. Inutile soffermarsi su ognuno di loro, basta rilevare che hanno in comune la depravazione sessuale, l’abuso del potere, le aberrazioni del consumismo, il condizionamento violento degli uomini per ridurli a macchine. Il vero problema per tutti loro è che, pur avendo tutto, nulla possono contro la morte; manca loro soltanto l’immortalità. Per conquistarla, i potenti si spogliano d’ogni avere e si mettono in marcia verso la montagna sacra in cima alla quale, secondo la leggenda, vivono nove saggi che hanno sconfitto la morte e posseggono la perfezione. Guidato dall’alchimista, il gruppo giunge alla meta dopo infinite peripezie. Ma qui li attende una sorpresa: i nove saggi sono dei fantocci. L’immortalità non esiste - spiega il mago - e qui siamo dentro un film: ciò che conta è la realtà. Impariamo ad usare questo bene prezioso.

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Era il 1973, quando in alcune sale d’Essai venne proiettato il film, "La Montagna Sacra" di Alejandro Jodorowsky: le allucinazioni che diventavano immagine sulla pellicola, la dissacrazione della retina. Visto da pochi fricchettoni, il film divenne subito leggenda. Verrà riproposto alla fine degli anni 70, nei cineforum; questa volta gli spettatori, educati dai fratelli maggiori, giungono preparati: imbottiti di LSD, chi fumato o fumante, così la visione diventa collettiva, lo spettatore vestito come tutti diventa l’uomo panico, il clown, proprio come le logiche non aristoteliche, come i quadrati di carta, hanno la possibilità di mutare, sono capaci di deformarsi, di far da struttura, di avere un pensiero multiplo.
Gran parte del terrore moderno nei film dell’orrore è rappresentata con immagini di cose informali. Il magma, la putredine, il misterioso non ha forma: e per gli uomini vestiti come tutti gli altri, il non aver forma è simbolo dell’orrido, della perdita di sé stessi. Viceversa, l’uomo panico tenta di liberarsi da tale educazione condizionata e cerca l’euforia come mezzo per uscire dalla prigione dove lo hanno rinchiuso i suoi genitori.
Il film è insieme una parodia dello spaghetti western, un lisergico romanzo di formazione, una feroce satira sociale, una straziante poesia per immagini, un manifesto avanguardista, un sogno contorto, un tentativo riuscito di scavalcare i confini di tutte le convenzioni cinematografiche, l’atto di fondazione di un nuovo misticismo iconoclasta e, soprattutto, una colossale presa per il culo.

sabato 28 giugno 2014

accademie

accademie

"Negli ultimi decenni, la percezione sociale del mondo universitario è cambiata... Dal momento che sono pochi ad aspettarsi che possa migliorare la società, ci si rivolge ad esso per ottenere quelle credenziali e quei titoli che permettono di accedere ad impieghi migliori e meglio remunerati, e nient'altro...molti si stupiscono dell'attuale mancanza di cultura, di sostanza e di educazione di una buona parte dei laureati, i quali hanno spesso qualità umane e capacità di comprendere la realtà della vita di gran lunga inferiori a quelle di loro padri e dei loro nonni, che mancavano di un'istruzione superiore. Di conseguenza, questa ora viene vista, praticamente da tutti, come una vendita al dettaglio di titoli ... Il modo stesso in cui l'Università è organizzata, dà luogo a poche illusioni... un oppressivo sistema di gerarchie ha invaso anche l'ultimo angolo dell'istituzione, cosa cha ha dato origine, tra coloro che vogliono far carriera, come accademici o come studenti, al massimo di servilismo, poiché l'ascesa professionale dipende soprattutto dal grado di prosternazione davanti a cattedratici, capi di dipartimento e simili. Nel complesso, le qualità intellettuali, le doti pedagogiche e la bonomia personale, sono le cose che contano meno. L'infima minoranza dei docenti che si differenziano... sono emarginati... le loro carriere rovinate... Nell'università, come in ogni sistema gerarchico, chi collabora viene premiato e chi dissente viene sanzionato, e questo misura la mancanza di libertà che le è propria.
I migliori, tra i giovani, arrivano all'università con l'illusione di apprendere e formarsi, di diventare più saggi e maturi, ma quello che trovano è dispotismo di cattedra, ignoranti plurilaureati, indifferenza generalizzata, preoccupazione esclusivamente per la propria promozione... L'università non solo degrada intellettualmente lo studente ma, in più, lo corrompe moralmente, inculcandogli i disvalori ed i vizi propri del sistema, arrivismo, servilismo, furia competitiva, egocentrismo..."

Felix Rodrigo Mora. Da "Seis Estudios". Editorial Brulot. Sevilla, 2010.

venerdì 27 giugno 2014

L’abolizione della natura

escudero

La riproduzione artificiale dell'essere umano:
10 tesi di conclusione
di Alexis Escudero

1   - I progressi del tecno-capitalismo degli ultimi due secoli hanno contribuito alla sterilizzazione chimica della popolazione.
1bis - Selezione e manipolazione genetica dell'embrione sono l'ultimo mezzo per per rendere possibile la sopravvivenza in un mondo divenuto invivibile: riscaldamenti climatico, stress permanente, dissoluzione del legame sociale, inquinamento generalizzato.
1ter - « Il PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) per tutti e per tutte » non è l'ultimo grido dell'emancipazione, ma il futuro a cui siamo condannati.
2    - La riproduzione artificiale dell'essere umano non significa l'uguaglianza delle minoranze e delle maggioranze sessuali, nel loro rapporto di procreazione, ma la sottomissione di tutti all'istituzione medica, allo Stato, all'economia, e la tirannia tecnologica.
3    - All'apice della servitù volontaria, l'assistenza medica così orgogliosamente rivendicata nella procreazione rende uomini e donne schiavi di una tecnocrazia in camice bianco: medici, ginecologhi, banchieri di sperma e genetisti. Sancisce l'intrusione degli esperti e del potere bio-medico fin dentro la camera da letto.
4    - La riproduzione artificiale dell'essere umano genera un nuovo proletariato, soprattutto femminile, costretto ad affittare il proprio corpo e a vendere i prodotti che ne derivano. Trasforma i bambini in prodotti lavorati, monetizzabili su un mercato del bambino. E' una nuova forma della tratta degli esseri umani.
4bis - Tutto ciò che era gratuito viene accaparrato. Tutto ciò che era gratuito diventa a pagamento. Sebbene Marx distingueva la sfera della produzione da quella della riproduzione della forza lavoro, la riproduzione artificiale dell'essere umano dissolve la seconda dentro la prima. La procreazione umana stessa diventa un'industria, soggetta alla guerra economica.
5    - La riproduzione artificiale dell'essere umano è l'ingiunzione, fatta ai genitori, di selezionare e migliorare geneticamente la loro progenie, sotto la minaccia di vederla relegata al rango di sotto-umanità. Abolisce la libertà e la responsabilità dei bambini così fabbricati.
5bis - Il bambino su misura è nella pipetta. Non c'è riproduzione artificiale senza eugenetica.
5ter - Non esiste eugenetica liberale - anche se i ricchi possono in parte soddisfare i propri capricci di avere figli perfetti. Si tratta di un'eugenetica forzata, dettata dagli imperativi dello Stato e dell'economia.
5quater - La riproduzione artificiale del bestiame umano è una nuova tappa nella razionalizzazione del mondo e del controllo automatico delle popolazioni.
6    - Selezione e manipolazione genetica, uteri artificiali e clonazione trasformano l'umanità in post-umanità.
7    - La riproduzione artificiale dell'essere umano è un nuovo fronte nella guerra del potere contro i senza-potere.
8    - Non esiste eugenetica dei cittadini, né « trans-umanismo democratico ». Ogni critica parziale della riproduzione artificiale dell'essere umano verrà recuperata dai comitati etici, e servirà per l'accettazione dell'inaccettabile.
9    - La sinistra tecno-liberale – trans-umanisti pagati o meno, inter-LGBT, filosofi postmoderni, cyber-femministe - alimentano scientemente la confusione fra legalità e identità biologica, fra emancipazione politica e abolizione della natura.
9bis - Con la scusa del progresso, questa sinistra nutre un progetto totalitario: l'abolizione, per mezzo della ri-creazione tecnologica, di tutto ciò che è nato.
9ter - Se ci sono ancora, a sinistra, dei partigiani dell'uguaglianza e dell'emancipazione, devono prendere la parola, e denunciare questo progetto fatto in loro nome.

- Alexis Escudero -

fonte: PENSÉE RADICALE EN CONSTRUCTION

giovedì 26 giugno 2014

La società del merito

classemedia

La rabbia della classe media
di Karl-Heinz Lewed

Se è vero che dopo il crollo della "nuova economia", le promesse magniloquenti del modo di vita postmoderno si sono popo a poco dissipate per lasciare il posto a dei rischi sempre più minacciosi, il collasso attuale dell'economia mondiale ci mette davanti ad una nuova realtà di crisi. L'esclusione dal sistema dei rapporti di lavoro, tanto a livello reale quanto formale, non tocca più solamente le "classi inferiori", ma avanza instancabilmente verso il "ventre molle" della classe media. Nel processo di crisi del lavoro astratto, la "produzione secolare di rifiuti umani" (Zygmunt Bauman), cioè a dire l'esclusione degli esseri umani inutili dal processo di valorizzazione, non si ferma davanti alla classe media, anche se a questa piace raccontare una storia diversa. Non sorprende perciò che un senso irrazionale di minaccia continui a farsi strada e domini sempre di più il clima del nostro tempo proponendo delle risposte regressive rispetto all'esclusione sociale.
L'intervento di Sarrazin, "La classe invece delle masse", su "Lettre Internationale", rappresenta in tal senso una rottura ideologica. La presa di posizione dell'ex ministro delle Finanze di Berlino ha toccato il nervo razzista e culturalista della classe media, ed ha scatenato un'ondata di approvazione carica di risentimento. A tal punto che i redattori del settimanale "Die Zeit", che non hanno il senso del ridicolo, si sono mostrati scioccati da quest'improvvisa comparsa di "rabbia repressa", benché siano stati loro ad averla attizzata, per anni, con i loro editoriali. Nondimeno, bisogna dare ragione a  Jörg Lau, giornalista del "Die Zeit", su un punto: "E' l'odio furente della classe media a porre delle questioni." La paura mangia l'anima in questa classe media, la paura di perde le gratificazioni della società del lavoro e del consumo, la paura della propria caduta e dell'esclusione sociale. Allo stesso tempo, questo senso di minaccia fa oscillare la società verso la costruzione di una "società di merito". Quel che c'è di nuovo, è che l'esclusione sociale è collegata alle questioni culturali ed etniche. La grettezza razzista della classe media gonfia e si appoggia ad uno sviluppo che, sotto la forma del neoliberismo, ha già trasformato il clima sociale nel corso degli ultimi anni e degli ultimi decenni.
L'ideologia liberale della responsabilità economica individuale non è solo parte dell'auto-ideologizzazione della classe media in quanto "società del merito", ma è diretta soprattutto contro gli "esclusi della modernità" (Zygmunt Bauman). La possibilità di riuscita professionale e di realizzazione nel consumo per gli uni, comporta la minaccia di esclusione e di impoverimento per gli altri. In via provvisoria, questa polarità d'integrazione e di esclusione può essere mantenuta in equilibrio per mezzo dell'ideologia della libertà e della responsabilità individuale. Il successo nella concorrenza, così come le promesse dell'universo del consumo, sarebbero l'espressione della volontà di riuscita individuale. Dall'altra parte, la sconfitta rivelerebbe il deficit personale, ed è di questo deficit che si chiede di lavorare a coloro che sono ormai perduti per il sistema. Se non fanno bene, li si "aiuta" con i mezzi coercitivi dello Stato sociale sotto la bandiera del cinico slogan "aiutare ed esigere". La caratteristica centrale del processo di crisi capitalista, cioè il fatto che una parte sempre più grande della popolazione diviene superflua, può anche scomparire dietro la facciata della responsabilità individuale. Il fatto che non andava più molto bene, che era diventato difficile venirne fuori, che i debiti si accumulavano, tutto ciò rivela unicamente la responsabilità dei soggetti individualizzati. La logica capitalista di esclusione, attraverso la proiezione sull'individuo, va di pari passo con la creazione di una società basata sulla volontà di successo e di merito. L'esclusione dal sistema di lavoro e di valorizzazione risulta nell'espulsione dal "collettivo del merito". Se invece uno vuole rimanere integrato, gli si richiede un'autodisciplina incondizionata ed sottomissione all'imperativo della concorrenza.
Dal 2008, la grande crisi subita dal sistema capitalista attuale ci ha dimostrato che non sarà né una disciplina di ferro, né la sottomissione al principio della concorrenza, a fare retrocedere l'esclusione, cosa che non impedisce che questi principi continuino ad essere imposti con un'aggressività sempre maggiore. L'intervento di Sarrazin va in questo senso. La crisi di Berlino non è solo economica e sociale, si tratta soprattutto di una crisi della storia delle mentalità, o meglio delle culture. Si riferisce a due fattori, legati insieme, come responsabili: l'iniziativa personale e la volontà di concorrenza, incancrenite da un'economia di sussidi, insieme all'edonismo e al lasciar-fare della generazione del '68. Parlando della Berlino del dopoguerra, Sarrazin nota e riassume: "L'élite economica (...) ha lasciato Berlino. Sono arrivati i sessantottardi e tutti quelli che vivevano Berlino più come uno spazio di vita. Le persone che amavano essere professionalmente attive sono state sostituite da quelli che amavano vivere bene (...). A Berlino si trascinavano persone ingrassate dai sussidi e che hanno dovuto, al prezzo di una dolorosa disintossicazione, abituarsi di nuovo alla realtà. Una simile cosa può essere fatta solo sostituendo una popolazione, non si cambiano certo le persone. Se qualcosa deve cambiare a Berlino, questo avverrà solo con il cambio di generazione." C'è dunque una parte importante della popolazione che, a causa del lasciar-fare assistito, del "menefreghismo berlinese" o della decadenza individuale, ha ritardato il progresso economico al fine di vivere una bella vita alle spalle della comunità. Questo sarebbe caratteristico di Berlino, ma anche evidentemente di tutta la Germania.
Poi si pone la questione della valorizzazione economica di questi "beneficiari obesi": "A Berlino ancor più che altrove, si pone il problema di uno strato inferiore che non partecipa al consueto ciclo economico." Berlino comprenderebbe una porzione non trascurabile "di persone, circa il 20% della popolazione, che sono economicamente inutili, il 20% vive dell' "Hartz IV" e di sussidi. (...) Questa porzione deve sparire. Una gran parte di arabi e di turchi in questa città, il cui numero aumenta a causa di una cattiva politica, non hanno funzioni produttive, a parte il commercio di frutta e legumi, e probabilmente non ha altre prospettiva. Questo vale anche per una parte della classe inferiore tedesca. (...) Berlino ha un problema economica con le dimensioni della popolazione esistente. All'ideologia della "società del merito" si mescola un razzismo culturalista aggressivo nei confronti, in primo luogo, degli "arabi e i turchi" e che, negli ultimi anni, sotto l'etichetta di "scontro di civiltà", aveva già profondamente penetrato il discorso sociale. Il confronto fra la "comunità della concorrenza" ancora integrata e quelli che sono già vittime dell'esclusione economica, viene portato avanti attraverso gli stessi schemi della guerra delle culture fra tedeschi (o, più in generale, i sostenitori della cultura occidentale) e musulmani. I risentimenti culturali, che mettono l'accento unicamente sulle differenze, servono sistematicamente a nascondere le contraddizioni e le costrizioni sociali in quanto causa dell'esclusione. "L'origine musulmana" degli esclusi e dei marginali sarebbe la vera ragione della loro incompetenza a fronte del principio di concorrenza. E' perciò l'essere culturalmente differente a trovarsi all'origine della disintegrazione sociale. Sarrazin dice a tal proposito: "Coloro che hanno un rapporto negativo sono gli arabi e i turchi. (...) Molti di loro non vogliono o non sono capaci di integrarsi. Sono numerosi quelli che non vogliono l'integrazione, ma che vogliono solo vivere la loro vita. Inoltre, mantengono una mentalità aggressiva ed atavica."
Questo ostracismo culturalista non si interroga affatto sulla coincidenza fra, da una parte, la loro pretesa inutilità dal punto di vista della logica della valorizzazione economica - cioè a dire sull'assenza di qualsiasi "funzione produttiva" degli "arabi e i turchi" - e, dall'altra, sulla loro presunta mancanza di volontà di integrazione. Questa correlazione nasce da un desiderio irrazionale di trovare un supporto di proiezione al fine di diffondere la minaccia anonima generata dal fallimento della valorizzazione economica che investe sempre più settori. Se "noi, i tedeschi, abbracciamo sempre più la mentalità turca, avremo un grosso problema". E' attraverso la personificazione dei vincoli autonomizzati del sistema che si diffonde la "falsa coscienza", addossando la responsabilità ad un certo gruppo. Se l'esclusione viene giustificata in maniera culturale, allora bisogna essere parte pregnante della "vera cultura". La "vita rifiutata" (Zygmunt Bauman) serve da linea di demarcazione negativa per un'auto-definizione culturalista di quelli che fanno parte della "società del merito". Perciò, bisogna dire a quelli "che non vogliono essere portatori del principio di concorrenza che possono anche andarsene altrove se non vogliono far niente. Io, utilizzerei un tono del tutto diverso: chiunque sa fare qualcosa, e ci prova, è il benvenuto a casa nostra, gli altri possono andare altrove... Così, sarà chiaro che vogliamo una città d'élite e non la 'capitale degli assistiti'. Non sarà il calore del focolare turco a far progredire la città". In questo modo si crea un mito di progresso, e del nostro proprio avvenire, che vede minacciata dai "buoni a niente" la sua realizzazione. E' colpa loro se tutta la potenzialità produttiva non si realizza appieno e la società del merito cade in disuso. Per rendere ancora più eloquente questo scenario di declino e naufragio, Sarrazin usa lo stereotipo razzista, diventato ormai un luogo comune,
della conquista biologica da parte dei musulmani attraverso la demografia: "I turchi invasero la Germania nello stesso modo in cui i kosovari hanno invaso il Kosovo: per mezzo di un tasso di natalità più elevato.
Se il processo di esclusione sociale è stato fino ad oggi essenzialmente interpretato come una sconfitta o come un fatto personale, l'aggravarsi della crisi ha visto nascere dei fantasmi ideologici che si situano sempre più nella sfera culturalista. Si tematizza sempre meno l'emarginazione sociale. Questa è diventata ormai oggetto di una reinterpretazione: un mezzo dell'espansionismo islamico che mirerebbe alla disintegrazione e alla decadenza della "società del merito" occidentale. "L'eliminazione dei rifiuti umani" (Zygmunt Bauman) attraverso il processo di crisi appare, nella costruzione culturalista, come un atto di disperazione della "società del merito" divenuta folle. E tutti gridano all'unisono: "Si ha bene il diritto di dire ad alta voce ciò che tutti pensano!"

- Karl-Heinz Lewed (membro del gruppo tedesco Krisis)

fonte: Critique Radicale de la Valeur

mercoledì 25 giugno 2014

il clic del manager

powerpoint

"Il pensiero powerpoint: Inchiesta sul software che rende stupidi". C'è tutto, nel titolo del libro di Franck Frommer, in quanto per l'autore, il quale ha svolto diverse attività nella sfera della comunicazione e del web, non si tratta di raccontare la storia di un programma che ha rivoluzionato a modo suo il mondo del lavoro, quanto piuttosto di analizzare l'impatto che quest'utility ha avuto, imponendosi come una forma di pensiero globale nell'impresa. Non sarà più questione di riunirsi per parlare, scambiare opinioni, discutere e costruire insieme: powerpoint deve servire a "esporre, persuadere, convincere e mobilitare".
Stravolgimento del campo lessicale, sconvolgimento dei ruoli: gli oratori diventano showmen, la riunione diviene presentazione e la lingua diventa schema. Bolle, frecce e colori sostituiscono gli aggettivi, le frasi si riducono a dei sintagmi fissi. La lingua di powerpoint detiene un potere di ingiunzione che si esplica per mezzo dell'impiego eccessivo dei verbi coniugati all'infinito: razionalizzare, promuovere, favorire, sensibilizzare, capitalizzare. Una neolingua indigente che somiglia a quella del Grande Fratello. Lontano dalla dialettica e dalla civiltà della conversazione, powerpoint consacra definitivamente la sintassi per elencazione (numerata), cosa che permette di evitare sottilmente l'argomentazione, e, quindi, la contro-argomentazione. Rapido, efficace, spettacolare, profondamente pulsionale, annichilisce qualsiasi forma di ragionamento, al fine di poter "vendere" un argomento e suscitare adesione. Lo spettacolo si basa su un'economia di cattura. Si tratta di catturare l'attenzione del pubblico, ma di farlo privandolo del suo spirito critico. La scenografia la fa da regina. Le diapositive (slide) non sono più un supporto all'oratore, ma possono diventare uno spettacolo in sé.
Powerpoint è il braccio armato di un etnocentrismo occidentale volto ad infeudare il mondo al suo schema di pensiero. Ma se powerpoint è l'arma, dove sta il contingente militare?
Sono le armate composte da ombre, sono le società di consulenza. Da fornitori di servizi, sono diventati gli specialisti mondiali di studi, di verifiche e di altre analisi di mercato. Da allora in poi è stato facile, come fare una fotocopia: gli schemi powerpoint sono prefabbricati. Per ogni situazione c'è il suo modello, basta adattare qualche cifra, un titolo, "personalizzare (customize)" la pagina. I consulenti hanno tutto quanto già in magazzino. Secondo Frommer, powerpoint non è altro che uno strumento di vendita, ma è anche uno strumento di formattazione del pensiero. Delle "forme impostate", dei "formati tipo", pensati in inglese, dentro i quali il pensiero è costretto ad adattarsi, stretto e limitato. Un po' più d'immaginazione, un po' più di flessibilità: a quella o a quell'altra situazione si risponde, a secondo, con lo schema n°1 o con lo schema n°2. E questo procedimento gioioso non è riservato solo al mondo dell'impresa.
L'esercito ha sempre utilizzato i suoi diagrammi e le sue mappe, le sue diverse forme di visualizzazione, per elaborare strategie e visualizzare il "teatro delle operazioni". Ed è stato grazie a delle slide di powerpoint che Colin Powell, nel febbraio del 2003, ha potuto convincere le Nazioni Unite che l'Iraq stava utilizzando delle armi di distruzione di massa. Il seguito lo conosciamo. Lo stesso è successo in Francia, con la Revisione Generale delle Politiche Pubbliche. Da allora, il clic del manager può essere paragonato al battito d'ala della farfalla, mentre i tagli di bilancio e gli altri piani sociali diventano simili al tornado dall'altra parte del mondo, che da quei clic verranno causati.

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martedì 24 giugno 2014

Sangue e Pus

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Sanguinante e purulento da tutti i pori
di Robert Kurz

Nessun ordine sociale ha provocato in tutta la sua storia così tante guerre, guerre così estese e devastatrici, di quanto abbia fatto il capitalismo con la sua meravigliosa modernità. Nessun ordine sociale ha attirato su una così grande parte dell'umanità così tanta miseria materiale, producendo, allo stesso tempo, una ricchezza così notevole [Kurz distingue qui la ricchezza materiale dalla ricchezza sociale storicamente specifica al capitalismo, cioè il valore]. Parimenti, non è mai esistito un sistema sociale capace di condurre l'umanità più vicino alla distruzione delle sue infrastrutture naturali sul scala planetaria. Mai gli uomini sono stati più socializzati, intrattenendo tra di loro dei rapporti di dipendenza, di ripartizione delle funzioni e di mediazione mondiale, e mai gli individui sociali sono stati così atomizzati nelle loro strutture e mai si sono considerati l'un l'altro con così tanta indifferenza, come monadi astratte degli interessi.
Queste non sono né tesi né affermazioni che devono essere provate. Tutte queste manifestazioni negative, distruttrici e catastrofiche, sono visibili nella loro innegabile evidenza storica e strutturale. Questo non impedisce ai tranquilli apologeti democratici del capitalismo, come criminali recidivi, di contestare perfino ciò che è stato provato mille volte, e che è stato riconosciuto come evidente. Al giorno d'oggi, nei centri mondiali del "soggetto automatico" [che è il capitale], appartiene al senso comune di politici, scienziati, economisti e redattori di articoli bisbigliare continuamente, e con notevole ignoranza, le parole "civiltà" e "civilizzazione" alla vista delle masse dei poveri del mondo intero, dei paesi economicamente in rovina, dei continenti contaminati, delle riserve naturali in via d'esaurimento e dei rapporti competitivi da bestie feroci.
Il capitalismo nega la sua propria storia, le devastazioni causate dai suoi "rischi ed effetti secondari" quotidiani, il suo potenziale di pauperizzazione e di distruzione. Proietta la sua propria natura negativa su un "esterno" immaginario di dittature, di abissi amorali dell'anima umana e di malignità soggettiva; fenomeni, dei quali dice che gli sono estranei, ma che in realtà continuano ad uscire dal suo seno. Dice che tutto ciò che in questo pianeta c'è di povertà, di miseria, di violenza, non è mai dovuto a troppo, ma a troppo poco capitalismo - ecco l'infame deformazione dei fatti. Anche in materia di menzogna, d'impudenza, e pure di auto-inganno, l'ordine capitalista è storicamente imbattibile. Il capitalismo batte il record mondiale, il record storico ed il record umano di crisi, di distruzioni e di guerre sociali - esso è per Borges, la vera "storia universale dell'infamia".
La "civiltà del denaro" è una contraddizione in sé, perché il potere delle cose morte sotto forma di soggetto automatico materializzato non può affatto creare una civiltà umana e sociale. L'essenziale di quel che emana dalle istituzioni e dai mandarini del capitale sotto forma di moralità di facciata, regolamentazioni astratte e divieti permanenti che esortano al rispetto reciproco, alla dignità umana e alla gentilezza ecc. proviene dalla religiosità delle società agrarie premoderne; come ha mostrato acutamente Marx, la religiosità, con il capitalismo, è diventata  un affare personale che non vincola in nessun modo. Nel capitalismo l'uomo dev'essere buono, non a causa, ma nonostante l'ordine sociale strutturale che si basa sulla più vile concorrenza, quella di tutti contro tutti. Gli ideali che il capitalismo ha evidenziato, come la libertà individuale e la sovranità della ragione umana, sono sempre stati una compilazione di formule pompose che servono a designare il "libero" nell'ambito di quella lacerazione che consegna gli esseri umani alla concorrenza economica odiosa e alla "libertà dell'uomo solvibile", da una parte, e all'autosottomissione senza condizioni alle pseudo leggi naturali concrete del soggetto automatico, dall'altra - quindi esattamente il contrario della libertà, della ragione e della sovranità.
L'uomo capitalista è stato affrancato dalla strettezza e dai vincoli degli ordini agrari e religiosi, consanguinei ed altri, non positivamente, ma negativamente: cioè come soggetto astratto e disinibito di una lotta permanente, alimentata artificialmente, per la sopravvivenza sociale. Una socializzazione così potente, basata sull'insocievolezza dei suoi membri, reca necessariamente nella sua propria struttura un potenziale di barbarie. Per ironia della sorte, gli imperi occidentali del capitale hanno preso in prestito dall'antichità, l'idea di barbarie e di barbaro, per denunciare, come gli arroganti imperi di una volta, qualsiasi carattere sociale che non corrispondesse alla loro natura, per distanziarsene. Però, il capitalismo supera di gran lunga in crudeltà, in disumanizzazione e, allo stesso tempo, in infantilismo, tutte le culture dell'età della pietra, dei popoli cosiddetti primitivi, delle tribù e tutti i grandi re e re-divinità della storia.
E cosa avrebbe detto Marx di questa tirata? Il Marx essoterico [quello del marxismo] si sarebbe coperto il volto con le mani e avrebbe invocato - ancora una volta - quell'istanza inventata per la prima volta dalla filosofia borghese dei Lumi e dal liberalismo: la "necessità storica". "Noi gustiamo il nettare nel cranio dei vinti". Questo progresso realizzato calpestando campi di rovine e di cadaveri, questo progresso che oggi si ricomincia a chiamare - fino al punto di essere moralmente disgustoso - il "prezzo sociale inevitabile della modernizzazione", deve essere pagato, se possibile, da "gli altri", quali che siano. Ancora una volta, di fronte a questa grande festa borghese della mitologia del progresso, il Marx esoterico si contrappone al teorico essoterico della modernizzazione, non lasciandosi per niente accecare da una pretesa ineluttabilità storica, denunciando senza risparmiarsi la detestabile barbarie del capitalismo.
Se si prende sul serio questa critica della barbarie capitalista che traspare in Marx attraverso l'indignazione storica nonché attraverso l'analisi del concetto di feticismo moderno, questo sistema capitalista di produzione di merci (fine in sé) non appare più come una tappa inevitabile, anche se rimane una tappa negativa e distruttrice e appare come la sola forma possibile di sviluppo delle forze produttive nel processo storico teleologico. Ora però che appare come un errore evolutivo o come un grave incidente della storia, il peggiore che si possa immaginare, il superamento del capitalismo allora non è più il coronamento della storia del progresso e, quindi, il culmine della mitologia della storia dell'illuminismo, liberale e borghese nelle sue proprie categorie (fra le quali c'è il completamento del prossimo stadio più elevato "oggettivamente" atteso, secondo le leggi storiche astratte), ma piuttosto, in qualche modo, sarebbe come azionare il freno d'emergenza, metafora che si ritrova nella filosofia della storia, negativa, di Walter Benjamin.
Tuttavia, in questo giudizio del principio storico indiretto del capitalismo, una cosa viene esclusa dal Marx esoterico: la trasfigurazione romantica, e letterariamente reazionaria, delle società agrarie pre-capitaliste con le loro strutture di dipendenza personale e con le loro forme di feticismo sociale trasmesso per mezzo della religione. Su un tale punto, il Marx essoterico con la sua eredità liberale agisce come correttivo che impedisce alla critica del capitalismo di cadere nell'irrazionalismo romantico e soprattutto autoritario. Si può dire solo una cosa: un proseguimento - forse più lento, ma più circospetto - dello sviluppo delle forze produttive, come aveva già avuto luogo precedentemente al capitalismo, non avrebbe avuto forzatamente bisogno della logica demente di un capitalismo in quanto fine in sé; le numerose battaglie difensive sociali dei tempi moderni avrebbero potuto, in linea di principio, orientare la storia in un'altra direzione. La vittoria del "fattuale" vincente per forza - che ci preoccupa - non è un argomento contro una possibilità alternativa che non ha mai potuto concretizzarsi e che è ancora inedita nel fattuale della storia. Certo, la ruota del tempo non può e non dev'essere invertita, ma forse bisogna rifiutare ogni legittimità sorica del capitalismo, negare totalmente il preteso progresso che ci sarebbe stato comunque, per potersene sbarazzare per sempre.
L'avvento del capitalismo fu ben lungi dall'essere idilliaco, filantropico e pacifico. E' questo che ci mostra Marx nel celebre capitolo del "Capitale" su quello che egli chiama "l'accumulazione primitiva", che precede il modo di produzione capitalista a partire dal XVI secolo e che crea le condizioni della sua comparsa. Lontano dalla mitologia ufficiale, oggi ancora in vigore, di un capitalismo nato da un'estensione pacifica e amichevole del commercio e della circolazione del denaro, "che favoriva la prosperità", Marx disegna un'immagine completamente opposta: quella della storia violenta, sanguinosa e crudele di uomini separati dai loro mezzi di produzione, dell'espulsione della popolazione contadina cacciata letteralmente dalle proprie case e dalle loro fattorie per essere trasformati in "poveri" sradicati e, infine, in operai salariati potenzialmente "liberi".
La storia della costituzione del capitale è fatta dei crimini perpetrati al fine di potersi costituire. E' qui che si trova il nucleo della violenza della società moderna. Non è scomparsa con le democrazie della fine del XX secolo e continua ad esistere nell'amministrazione democratica degli uomini, assicurata in ultima istanza dalla forza dello Stato. Il compito essenziale di questa amministrazione consiste nel mantenere gli individui separati dai mezzi di produzione da lungo tempo socializzati e a conferire al capitale il suo aspetto oggettivo. E questo crimine originale capitalista, come "congelato" in questa oggettivizzazione, si perpetua ancora oggi, giorno dopo giorno, nelle grandi regioni della periferia capitalista, nel "far sud" e nel "far est" del capitale mondiale. Questa violenza immediata e palese dell'accumulazione primitiva proliferante costituisce il primo livello della barbarie capitalista. Il secondo livello è determinato dalla barbarie strutturale del capitalismo nel suo corso "normale" delle cose, sul terreno della sua situazione già consolidata ed interiorizzata. Questa barbarie strutturale da una parte nasce indirettamente e involontariamente dalla concorrenza cieca dei mercati e dalla razionalità della gestione d'impresa, essa è la conseguenza dei rischi e degli effetti secondari legati alla lotta concorrenziale universale e permanente. Ogni giorno ci sono masse di persone che soffrono privazioni per la sola ragione che la loro esistenza non è interessante per i mercati. La fame e la miseria, malgrado una riserva mai raggiunta prima di mezzi di produzione, di mezzi tecnici, mezzi sanitari ed altro, sono di una barbarie tanto più atroce quanto più manca un colpevole. D'altra parte, questa barbarie strutturale ha anche un aspetto soggettivo: è quello della delinquenza legale (per esempio, il lavoro minorile rimane accettato nel capitalismo mondiale, ed è perfino riapparso nei centri industriali) come quello della mescolanza fra capitalismo e crimine organizzato. Una tendenza che non ha smesso di crescere nel corso della storia e che sembra aver raggiunto oggi un punto culminante. Per aver fatto del "sempre più", l'essenza dell'aspirazione umana e della concorrenza di tutti contro tutti, una situazione normale, il capitalismo non può fare altro che incoraggiare e far prosperare il crimine, quale che sia.
Il terzo livello della barbarie capitalista è costituito da quello che si chiama , dalla fine del XIX secolo, "stato d'eccezione", "stato d'assedio" o "stato d'urgenza". Un tal sistema feticista paranoide non cessa di causare crisi e catastrofi, scoppi sociali, violenti conflitti interni ed esterni, ecc., è periodicamente obbligato ad esteriorizzare il suo nucleo di violenza e di manifestarlo. Allora, quando si attacca la sostanza, quando si attacca o si pretende di attaccare il modo di produzione capitalista stesso, i pilastri capitalisti della società, cioè a dire i notabili borghesi, non conoscono più né limite né pietà. Si trasformano in bestie feroci fino a calpestare ogni moralità, perfino la loro legge. Pinochet rappresenta il liberalismo in stato d'eccezione, dunque il suo vero volto. Questa storia della barbarie capitalista in stato d'eccezione o di crisi è stata, fino ad oggi, così spesso giocata che difficilmente ci si può aspettare altro dal futuro. Non ci consola molto vedere regolarmente le colonne della società, le élite di funzione del capitalismo, cannibalizzati allo stesso modo dagli spiriti che hanno invocato. Ma questi "fanatici della valorizzazione del valore" preferiscono lasciarsi massacrare dai demoni piuttosto che mettere in discussione la loro cecità sociale.
Tutto questo pone naturalmente il problema della responsabilità. La concezione semplice del mondo propria del marxismo del movimento operaio, distingueva ancora nettamente il "noi" e "gli altri", il "bene" a priori ed il "male" a priori in quello che volevano le classi sociali. Ma se il complesso comune costituito dal lavoro astratto, dalla forma merce, dalla cittadinanza, ecc. entra nel campo della critica, dove si trova allora la responsabilità? Si può ritenere, un insieme di strutture cieche, si può ritenere il soggetto automatico responsabile di qualche cosa, anche se si tratta del peggiore dei crimini? Inversamente: se alla fine la barbarie capitalista, in ultima analisi, è presente nei meccanismi silenziosi della concorrenza, le concussioni del manager senza scrupoli, del politico corrotto, del burocrate chiamato a gestire la crisi, del macellaio contaminato dal sangue dello stato d'eccezione, non sono forse allora tutti loro giustificati, in un certo qual modo, dal fatto di essere sempre e comunque condizionati e spinti dalle leggi strutturali della "seconda natura"?
Un simile argomentare dimentica che la nozione del soggetto automatico è una metafora paradossale per un rapporto sociale paradossale. Il soggetto automatico non è affatto un'esistenza separata che si trova al di fuori, da qualche parte, ma è la sfera d'influenza sociale che obbliga gli uomini a subordinare il loro proprio agire all'automatismo del denaro capitalizzato. Ma non sono sempre gli individui ad agire? La concorrenza, la lotta per una sopravvivenza suscitata artificialmente, le crisi, ecc. rendono manifesta la forza della barbarie. Tuttavia, in pratica, è necessario che questa barbarie sia protagonizzata da attori umani, quindi che essa passi attraverso la loro coscienza. Ecco perché gli individui sono soggettivamente responsabili delle loro azioni, tanto il manager ed il politico, quanto, dall'altra parte, il disoccupato razzista e la ragazza madre antisemita.
Ogni giorno bisogna superare l'enorme potenziale di paura e di minaccia che pesa su questa società. Ad ogni istante, gli individui prendono delle decisioni che non sono mai completamente prive di alternativa - né sulla piccola scala della vita quotidiana né sulla grande scala della società e della storia. Nessuno è solo una marionetta senza volontà, tutti devono liberarsi da contraddizioni impressionanti, dall'angoscia e dall'ansia derivanti da questa morsa di paura. Non c'è niente di assurdo nel concentrare l'indispensabile critica della società a livello di strutture sociali generali, sul lavoro astratto e sul soggetto automatico, ma, allo stesso tempo, bisogna rendere gli individui agenti, responsabili delle loro azioni, anche se il loro statuto sociale conferisce loro uno stato di irresponsabilità.
Marx ha evocato tutti i livelli della barbarie capitalista. Ma è solo il Marx esoterico, quello che associa la critica categorica delle forme sociali capitaliste all'indignazione provocata dagli atti di barbarie e che accusa con rara violenza i responsabili, a rendere così allarmante la sua lettura.
Infatti, è lì che ci rendiamo conto, con inquietudine, di che cosa sia il capitale, in quanto non è solamente un semplice rapporto soggettivo di volontà che, per il suo carattere di feticcio irrazionale, genera la cattiva volontà - l'irresponsabilità dei responsabili e la responsabilità degli irresponsabili.

- Robert Kurz -

(Estratto dall'introduzione al capitolo IV di "Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXI e siècle. Choisis et commentés par Robert Kurz)

fonte: Critique Radicale de la Valeur

lunedì 23 giugno 2014

neolingue

sionismo

“ (…) Gli argomenti fondamentali dell'attuale 'antisionismo' «di sinistra» sono stati fabbricati dagli stalinisti sovietici, che erano antisemiti, come è stato dimostrato dall'arresto e dall'esecuzione dei dirigenti del Comitato ebraico antifascista nel 1952, dal processo dei camici bianchi in Unione Sovietica nel 1953 ("Ogni sionista è agente dei servizi americani" - dichiara Stalin - "I nazionalisti ebrei pensano che la loro nazione sia stata salvata dagli Stati Uniti, laddove essi pensano di poter diventare ricchi, borghesi. Pensano di avere un debito nei confronti degli americani. Fra i miei medici, ci sono un bel po' di sionisti"), poi dai processi antisemiti in Cecoslovacchia (1952) e dalle campagne antisemite in Polonia (1952, 1968). Sono stati gli stalinisti sovietici e i loro alleati nazionalisti di sinistra, in primo luogo nei paesi dell'Est, poi nei paesi arabi, e infine su scala planetaria, ad aver fatto della parola "sionista" un termine, allo stesso tempo, ingiurioso sul piano politico, diabolico sul piano religioso, e comodo per poter sostituire il termine "ebreo", e così dissimulare il loro antisemitismo.
Ma la questione è ancora più complessa. Infatti, l'antisionismo stalinista si è diffuso grazie anche ai "comunisti" ebrei, partigiani dell'assimilazione totale e convinti che il socialismo avrebbe messo fine ad ogni discriminazione:
- nelle democrazie popolari, e anche nei paesi dove gli stalinisti ebrei avevano un peso significativo nella giustizia, nella polizia, nell'amministrazione dell'apparato dello Stato e perfino ai suoi vertici. Questa sovrarappresentazione degli ebrei nelle sfere dirigenti di alcune democrazie popolari (l'Ungheria ne è stato l'esempio estremo) e i giochi cinici dell'Unione Sovietica e degli Stati pseudo-socialisti hanno fatto sì che agli ebrei stalinisti venisse addossata la responsabilità della repressione statale fatta contro gli operai ed i contadini dell'Est, anche perfino dei pogrom avvenuti nei primi anni dei regimi "comunisti", ma insieme a questo è avvenuta la cancellazione della specificità del "giudeocidio" e delle responsabilità delle popolazioni dell'Europa dell'Est. Questo silenzio assunto dagli ebrei stalinisti ha di fatto alimentato l'antisemitismo popolare, su diversi temi, contraddittori o complementari: "I comunisti e gli ebrei vanno a braccetto"; "Gli ebrei sopravvissuti al giudeocidio sono privilegiati"; "Gli ebrei non fanno veramente parte della nazione"; ancora perfino più folli: "I vecchi capitalisti ebrei e i comunisti ebrei al potere si sono messi d'accordo", ecc.. Oggi si vedono i risultati deleteri di quest'antisionismo che ha come obiettivo gli ebrei in tutti i paesi "comunisti";
- nei paesi del Vicino e del Medio Oriente, con la mediazione dei partiti pseudo comunisti locali, di cui gran parte dei membri e dei dirigenti erano ebrei. I partiti stalinisti locali, a cominciare da quello della Palestina, non avevano molto da dire contro l'antigiudaismo e l'antisemitismo musulmano, o contro i pogrom commessi in Palestina (per esempio, quello di Hébron, nel 1929, dove va sottolineato che non furono i nuovi coloni ebrei europei ad essere massacrati, ma quegli ebrei i cui antenati vivevano da secoli in Palestina, cosa che ce la dice lunga sull'anticolonialismo palestinese e sulla sua dimensione religiosa, fondamentalmente legata alla pace subalterna dei dhimmi ebrei, nelle società disciplinate dall'Islam) ...

fonte: Bataille Socialiste: Intervista con Yves Coleman, apparsa su Anarchosyndicalisme N°140 (estate 2014), revue de la CNT-AIT de Toulouse. Qui si può leggere tutta l’intervista, in francese.

domenica 22 giugno 2014

Il capitale culturale

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E' il 1979, quando viene pubblicato in Francia, "Il socialismo degli intellettuali", di Jan Waclav Makhaïski (1867-1926). Il libro è una raccolta di articoli scritti negli anni che vanno dal 1898 al 1918, tradotto e presentato dallo storico dell'anarchismo russo, e futuro biografo di Nestor Makhno, Alexandre Skirda. Si sostiene, nel libro, una tesi iconoclasta, fino a quel momento nota solamente a qualche specialista: la finalità dei partiti che si pretendono rivoluzionari - prima socialdemocratici, in seguito comunisti - è stata quella di servire da rampa di lancio per gli intellettuali, verso il potere. Il libro ebbe un'accoglienza significativa, nella misura in cui criticava il ruolo degli intellettuali in quanto classe in seno al movimento "socialdemocratico" ed entrava in risonanza con alcuni dei principali dibattiti del momento a proposito dell'Unione Sovietica, del marxismo, del contenuto del socialismo, ecc..

intellettuali

Lo Stato, la cuoca ... e gli intellettuali
di Jean-Pierre Garnier

Ciò che più sorprende nelle tesi di Makhaïski, è, oltre la perspicacia dell'autore, la data in cui esse vennero scritte e la loro straordinaria attualità. Bisogna essere grati ad Alexandre Skirda che, nell'appassionante presentazione che ci propone, le ha situate nel loro contesto storico e teorico, prima di rintracciarne i discendenti. Dall'inizio del secolo, infatti, Makhaïski individua nel socialismo "l'ideologia degli intellettuali che traggono vantaggio dalla posizione che occupano in seno alla società capitalista - per mezzo del controllo della produzione e la gestione dell'economia - cosicché possano, usando il loro monopolio di conoscenza, tentare di ergersi a nuova classe dominante. Questa classe in ascesa di capitalisti del sapere sarebbe limitata nei suoi obiettivi dal quadro stretto del capitalismo tradizionale, e perciò si servirebbe della causa operaia al fine di promuovere i suoi propri interessi". I decenni che seguiranno andranno a confermare i fondamenti di questa tesi.
Dalla socialdemocrazia tedesca di Kautsky al socialismo "autogestionario" di Rocard, passando per il marxismo russo di Lenin e per "l'eurocomunismo" di Carillo e Berlinguer, quest'esperienza non ha effettivamente cessato di mostrare su quale base discutibile si fondava essenzialmente "l'anticapitalismo" degli intellettuali: "l'impotenza" e "l'incapacità" della borghesia a gestire correttamente gli affari del paese. "Non è forse evidente, domanda Makhaïski, che i socialisti si sollevano solo contro le forme arcaiche di dominio, e non contro il saccheggio secolare? Essi perseguono solo il rinnovamento di queste forme obsolete. Non si sollevano contro i padroni in generale ma solo contro quelli che hanno degenerato, contro quelli che non sono più capaci di dirigere e che portano l'economia alla rovina, con la loro incuria, con la loro inattività ed ignoranza". In altri termini, quel che gli intellettuali di sinistra rimproverano alla borghesia, non è tanto di essere una classe sfruttatrice, quanto la sua incompetenza. Loro, invece, si mostrano disposti ad ovviare a questo fallimento, a buttare fuori dalla scena storica i capitalisti privati e a sostituirli, per completare, a colpi di nazionalizzazione e di pianificazione, la "razionalizzazione" dello sfruttamento.
Agli occhi di Makhaïski, infatti, il socialismo professato dalla casta delle "mani bianche" imbevuti delle loro competenze non va affatto nel senso dell'emancipazione dei lavoratori: "Non è affatto la rivolta degli schiavi contro la società che li spoglia, queste sono le lamentele e i piani di piccoli rapaci, dell'intellettuale umiliato che cerca la poltrona, e che contende al padrone i benefici derivanti dallo sfruttamento degli operai". Una contesa che può finire molto male, al punto di poter sfociare nella liquidazione del secondo da parte del primo. Si parlerà, in questo caso, di "rivoluzione". Ma, per Makhaïski, "rivoluzionari" o "riformisti", gli intellettuali socialisti, d tutte le convinzioni, sono da mettere nello stesso paniere: quello dei granchi che lottano per migliorare la loro posizione di privilegiati sulle spalle degli operai. La rivoluzione d'ottobre aveva fornito a Makhaïski l'occasione di veder prendere corpo "sul campo" le sue peggiori paure. A differenza dei "marxisti" di tutti i tipi e dei loro fratelli nemici, i "gulagisti", ex"marxisti" riconvertiti alla difesa dell'"Occidente", non si lascia ingannare dalle etichette di "popolari", "operai" o "proletari" appiccicate alle istituzioni del nuovo regime instaurato dai bolscevichi. Per lui, evidentemente, non sono le masse che sono andate a governare lo Stato ma le élite piccolo-borghesi che, appena estromessi i vecchi dirigenti, si sono date da fare ad usare il potere del governo contro quelli che li avevano aiutati, armi alla mano, a conquistarlo, per instaurare la "disciplina rivoluzionaria del lavoro" nelle fabbriche, per "reprimere le rivolte degli affamati e schiacciare senza pietà le sommosse innescate dagli operai e dai disoccupati". Vale a dire, queste "dittature del proletariato" che si mutano in dittature sul proletariato, metamorfosi a proposito delle quali gli esperti in lotta di classe amano discutere di "astuzie della storia", al contrario appaiono a Makhaïski come il risultato logico della loro natura di classe, a condizione di sapersi intendere sulle parole. "Fare la rivoluzione", significa dirigerla, e non servire solamente da carne da cannone per la presa del potere mediante la violenza. "Costruire il socialismo", significa orientare, organizzare e controllare lo sviluppo della nuova società, e non servire solamente da "carne da fabbrica". Ora, ogni volta che gli intellettuali in lotta contro il capitalismo hanno, secondo la nota espressione, "ingrossato i ranghi del proletariato", ciò è avvenuto ad una condizione: marciare alla loro testa. Cosa che li mette naturalmente in buona posizione, quando il "partito d'avanguardia" diventa Stato.
"Dappertutto i socialisti si sforzano di suggerire agli operai che i loro soli sfruttatori, i loro soli oppressori, sono i detentori del capitale, i proprietari dei mezzi di produzione. Però, in tutti i paesi e in tutti gli Stati, esiste un'immensa classe di persone che non posseggono né capitale mercantile né capitale industriale e, nonostante ciò, vivono come dei veri e propri padroni. E' la classe delle persone istruite, la classe degli intellettuali." Di quello che il "lavoratore intellettuale" dispone, in effetti, e che cerca di far fruttare al meglio dei suoi interessi, è quello che Pierre Bourdieau chiama il "capitale culturale", il capitale della conoscenza che viene acquisito grazie al lavoro degli operai, come il capitalista acquisisce la sua fabbrica. Perché "mentre studia all'università, e viaggia per "pratica" all'estero, gli operai, loro, hanno faticato in fabbrica, producendo i mezzi per i suoi insegnamenti, per la sua formazione (...) Egli vende ai capitalisti la sua conoscenza per estrarre il meglio possibile il sudore ed il sangue degli operai. Egli vende il diploma che ha acquisito dal loro sfruttamento"; a meno che non preferisca prender posto nella coorte degli "agenti mercenari dello Stato".
E quando i "lavoratori intellettuali" aderiscono alla "causa del proletariato" perché si ritengono insufficientemente retribuiti o ritengono insufficientemente riconosciuta la qualità dei servizi da loro resi alla classe dirigente del momento, è ancora il loro intelletto quello che mobilitano per mascherare i loro piani e i loro calcoli di "classe dirigente potenziale, di futuri proprietari dei beni saccheggiati nel corso dei secoli. Non per niente gli intellettuali hanno in mano tutte le conoscenze e tutte le scienze". Fra le scienze "socialiste" elaborate per ingannare il proletariato, ce n'è una che si attira particolarmente l'ira di Makhaïski: il marxismo. Secondo Makhaïski, il "primo compito del marxismo è quello di mascherare l'interesse di classe coltivato nel corso dello sviluppo della grande industria: l'interesse dei mercenari privilegiati, dei lavoratori intellettuali nello Stato capitalista". Kautsky, Plekhanov e Lenin hanno saputo tradurre perfettamente le aspirazioni dell'élite alla successione dei capitalisti in nome di una "ragion storica" incarnata da uno sviluppo industriale ineluttabile, in quanto retto da delle leggi che si situano "al di sopra della volontà degli uomini" e che vengono identificate nel progresso scientifico, tecnico, e dunque sociale. Ma sarebbe vano voler vedere in questa conversione del socialismo scientifico in religione di una nuova classe in ascesa, il tradimento del pensiero del padre fondatore, da parte degli eredi più o meno legittimi. Marx stesso, in effetti, avrebbe contribuito a stabilire questa mistificazione, in particolare occultando - per legittimarlo - l'origine della remunerazione dei "lavoratori intellettuali": il prodotto non pagato del lavoro dei proletari. E' per ottenere una più grande fetta del plusvalore estorto ai proletari che "l'armata dei mercenari privilegiati del capitale e dello Stato capitalista si trova in opposizione con questi ultimi in occasione della vendita delle loro conoscenze, e si comporta, per tale ragione, ad un certo momento della lotta, come un distaccamento socialista dell'armata proletaria anticapitalista".
Più chiaroveggente degli ideologhi, le cui diverse interpretazioni del "fenomeno stalinista" dovevano in seguito fiorire nel campo della teoria marxista, Makhaïski scopre velocemente quello che rimane ancora opaco agli occhi di molti: "L'assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione non risolve per niente la questione dello sfruttamento, anche se chiamiamo questo stato di cose, in un contesto differente, una "produzione socializzata". E non per niente egli chiama di nuovo le masse operaie a sollevarsi per le loro "precise esigenze di classe" contro la "borghesia democratica e lo Stato". Che egli utilizzi l'espressione "socialismo di Stato" al posto di quella di "capitalismo di Stato" per caratterizzare questa "nuova era del dominio di classe dei lavoratori intellettuali" non ha, sotto quest'angolatura, che un'importanza secondaria, salvo per quelli che amano prendere in considerazione solo le parole, per non dover guardare i fatti. Va da sé che, per gli intellettuali, lo Stato "socialista", non può che essere quello. Ma bisogna anche convincere le masse che è il loro. La "scienza marxista" viene usata per mettere un segno di eguaglianza tra il ruolo di guida della classe operaia e quello dei suoi dirigenti. Così le pretese dell'intellighenzia rivoluzionaria verranno sublimate in una "missione storica" del proletariato di cui essa ha sposato la causa, non senza aver introdotto, "dall'esterno", nel caso se ne fosse dubitato, la "coscienza politica" che gli mancava. Questo accoppiamento tautologico darà alla luce un mostro: il Partito-Stato che, per aiutare la classe operaia a compiere la sua famosa "missione", si appoggerà su di essa fino a schiacciarla. Si spiega così la ricettività degli intellettuali riguardo al marxismo: esaltati all'idea di fare alla fine pieno uso delle loro competenze, una volta liberatisi dall'umiliante controllo dei proprietari, delle industrie e dei banchieri "privati", salutano nell'avvento del socialismo, l'avveramento della loro propria trascendenza. Quanto al proletariato, ridotto dai suoi teorici ad un'astrazione storico-filosofica, non gli rimane altro da fare che sviluppare, contro i suoi "rappresentanti", il suo movimento spontaneo per l'autodeterminazione. Ma affinché la sua attività non sia solo difensiva, deve preservare la sua autonomia di pensiero costantemente rimessa in discussione da quegli intellettuali i quali, non contenti di privarli del prodotto del loro lavoro, li privano anche della loro identità sociale, molto più efficacemente di quanto possa fare la borghesia. Poiché la circostanza che, per la prima volta nella storia, gli intellettuali siano sul punto di diventare una classe dominante ha delle gravi conseguenze. Impedendo la formazione di intellettuali organici delle classi oppresse e una visione del mondo che sia loro propria, il regno degli intellettuali non rende problematica la comprensione della realtà sociale, se non nei termini dell'ideologia dominante? La questione è tanto di ordine epistemologico quanto politico. Non riguarda solamente i paesi del socialismo "irreale", a giudicare dal neo-oscurantismo che si è abbattuto sulla Francia da quando gli intellettuali, dopo aver vanamente tentato di cavalcare il proletariato per caracollare verso gli appuntamenti che avevano fissato con la storia, si sono a poco a poco convinti che era meglio per loro rientrare trionfalmente all'ovile, dove la borghesia avrebbe saputo consolarli confidando in loro per una nuova missione storica: pensare ad un "oltre il socialismo" compatibile con il mantenimento del capitalismo.
Perciò non è per niente esagerato temere che l'autoconoscenza della società sia minacciata di crisi, in quanto il gruppo sociale che, normalmente, assicura la produzione, il mantenimento e la trasmissione della cultura e delle finalità sociali, si organizza in una classe la cui attività cognitiva è subordinata ai suoi propri interessi di classe. Dato che l'economia di mercato non offre loro più degli sbocchi, gli intellettuali, spinti ad ingaggiare la lotta per una società che permetta loro di conquistare la direzione dell'economia, sono stati capaci di elaborare un pensiero che, benché conforme ai suoi interessi, non di meno è stato critico. Ma cosa succede quando arrivano al potere o quando si schierano massicciamente con il potere esistente? La risposta evidentemente non la si trova in Marx, "rimasto prigioniero della sua coppia antagonista capitalisti-operai, senza arrivare ad una terza forza sociale che avrebbe utilizzato la sua ideologia per conto proprio". Ma si può già intravvedere, leggendo la produzione intellettuale di questi ultimi dieci anni, dove minaccia di portare l'imprevista irruzione  di questo "terzo ladrone della storia": all'impossibilità di pensare un al di là del capitalismo e all'invalidazione come "utopico" di tutta la critica radicale dell'ordine stabilito. E di presentare questa regressione ideologica come una "rivoluzione teorica".

- Jean-Pierre Garnier -

sabato 21 giugno 2014

Controvalore prodigo

Asger-Jorn

Ci sono le fonti di energia inorganica che formano la base dell’industria. Esse si esauriscono definitivamente con la loro utilizzazione. La loro forma è la forma del contenuto, o della sostanza, e si distrugge con la sostanza.
Vi sono altre fonti naturali: quelle che si rinnovano partecipando a un eterno ritorno. Questo ciclo può essere quello della natura stessa (sole, pioggia, vento, eccetera) e può essere altresì un ritorno del valore del lavoro umano, come nell’agricoltura. Qui la forma sembra precedere la sostanza, e sopravviverle. E solo nell’invenzione di forme che si distinguano da quelle della sostanza, che le si oppongano, che si trova la capacità di usare tali forze. L’industria è lo sfruttamento della materia inorganica, mentre l’agricoltura è lo sfruttamento della natura, o della vita biologica.
Infine esiste una forma che restituisce il suo contenuto senza mai svuotarsi (ricaricandosi da sé), è l’arte, la creazione spirituale, che conserva le proprie qualità nel mentre che diffonde i suoi valori. Il segreto di questa proprietà, che certuni chiamano sovrannaturale o metafisica, mentre certi altri ne negano l'esistenza, è che la forza liberata non va cercata nell’opera d’arte: essa esiste in colui che la percepisce – se è capace di percepirla. Il valore non scaturisce dall’opera, ma viene liberato nel fruitore stesso. Questa è la spiegazione semplice, e materiale, del valore delle opere artistiche; e, del resto di tutti i valori detti spirituali.
Il valore dell’arte, in tal modo, e un controvalore rispetto ai valori pratici, e si misura in senso inverso a questi ultimi. L'arte è l’invito ad un dispendio di energia, senza scopo preciso all'infuori di quello che lo spettatore stesso può apportarvi. È la prodigalità.
Tutti coloro che sono troppo avari, o totalmente incapaci di uno sforzo di questo genere, detestano l’arte. Sicché il valore artistico e contemporaneamente un valore insensato e la manifestazione stessa della libertà di azione dell’individuo. Ciò non vuol dire che ogni spettatore possa fare dell’opera ciò che vuole, ma che dispone sovranamente delle nuove energie liberate in lui. Nessuno puo controllarle. E se non si hanno energie da liberare in questo campo, non si vede nulla. Ecco perché l’arte è socialmente inquietante e politicamente così importante: ha l’oggetto in sé. Eppure l’opera d’arte non e affatto la semplice conferma ma e la sorgente stessa della politica, dell’ispirazione.

-  Asger Jorn - (dal  "Rapporto sulla Critica della politica economica" - 1960)

venerdì 20 giugno 2014

Ciao proletariato!

debord back-home-to-Cheyenne

La differenza fra la critica del capitalismo moderno fatta da Debord e quella di Moishe Postone, ovvero: i limiti della critica di Guy Debord
di Michel Prigent

"I Commentari alla Società dello Spettacolo" di Guy Debord vennero pubblicati a Parigi nel maggio del 1988. Quando, più tardi, vennero pubblicati in Inghilterra, il titolo fu mal tradotto: Malcom Imrie non aveva rimarcato il riferimento a Giulio Cesare. Non si può pretendere tutto da cosiddetti esperti.
Alla fine degli anni 1980, la crisi prolungata nel blocco dei paesi dell'Est e altrove, aveva spinto Debord ad aggiornare la sua critica, ma purtroppo non aveva più l'ispirazione della Società dello spettacolo, nella quale, nel 1967, aveva scritto: "che lo spettacolo moderno era già essenzialmente il regno autocratico dell'economia di mercato pervenuto ad uno status di sovranità irresponsabile"; era stato più tagliente di quello che scriveva nei suoi Commentari, ossia: "il segreto domina questo mondo e per prima cosa come segreto del dominio". Debord aveva dimenticato di rileggere il "Marx esoterico" del Capitale e dei Grundrisse, dove Marx sviluppa la sua critica del valore, mentre Debord rimane fermo nel "Marx essoterico" della lotta di classe. Un errore fatale. Un altro errore è stato quello di dire che non aveva bisogno di cambiare una sola parola del suo libro del 1967, e quindi era insostituibile. In questo modo era arrivato a delle posizioni retrograde, aveva adottato un punto di vista molto "XIX secolo" della storia, che era stato quello di molte persone all'epoca - a sinistra come a destra - cioè a dire un punto di vista poliziesco della storia che poteva essere definita come teoria "complottista" della storia, per farla semplice. Quello che non poteva criticare, cambiare, era la lotta di classe in quanto soggetto. E tuttavia, egli era consapevole che le lotte a partire dal 1968, e probabilmente prima, erano state assimilate dai rappresentanti organizzati, vale a dire dai sindacati e dai partiti politici, con l'aiuto dello Stato. Ma la critica di Moishe Postone arriva al cuore del problema: "secondo la logica dell'analisi di Marx, la classe operaia, invece di portare in sé una possibile società futura, è la base necessaria del presente, sotto il quale essa soffre; essa è legata a l'ordine esistente in un modo che ne fa l'oggetto della storia".
Debord nei suoi Commentari ha continuato a portare avanti idee di un altro tempo. Parla di proprietari del mondo, quando si sa bene che si tratta di semplici servi della società delle merci. Anche loro devono inchinarsi davanti al valore. E in seguito Debord parla dell'americanizzazione del mondo, un'altra "triste banalità" che sembra piacere a molte persone, quando in realtà il capitale è internazionale, come la radioattività nucleare esso non conosce alcuna frontiera.
Alla fine degli anni ottanta, Debord era veramente rinchiuso nei suoi limiti quando ci diceva: "non esiste più un'agorà, una comunità generale; neppure delle comunità ristrette a degli organismi intermedi o a delle istituzioni autonome, a dei salotti o a dei caffè". E per coronare il tutto, aggiungeva: "la merce non può più essere criticata da nessuno: né in quanto sistema generale, né perfino come paccottiglia". Parlava anche della dissoluzione della logica. Parlava probabilmente di sé. Come abbiamo visto all'inizio di questo intervento, Debord non poteva sostituire il suo libro del 1967. "La società dello spettacolo". Non è riuscito a criticare l'ideologia della lotta di classe come soggetto. Ma nei fatti il Capitale è il soggetto, come Postone lo ha sviluppato e analizzato nel suo libro del 1993. "Tempo, lavoro e dominio sociale". Un libro che molte persone non vogliono nemmeno prendere in considerazione, ed ancor meno leggere, per non parlare di essere d'accordo.
Così Debord è stato immobilizzato. Incapace di avanzare, come abbiamo visto, non poteva fare altro che rinculare verso le peggiori posizioni. E' stato tragico. Ma sulla scacchiera, la miglior difesa è l'attacco. E lui lo ha dimenticato. Ha tagliato le sue proprie linee di approvvigionamento. Malgrado ciò, tutte queste persone continuano a fare i gargarismi con i "Commentari" di Debord, e con il suo "gioco di guerra". L'editore Verso ha perfino incluso questo libro fra i capolavori accanto a Louis Althusser e a qualcun altro. Alcuni mancano del senso del ridicolo. Ma finché si vende bene, è un capolavoro! Sembra anche che alcuni siano perfettamente soddisfatti della Società dello Spettacolo, e che non abbiano bisogno di qualcosa di più critico. Altri ripetono felici un marxismo ortodosso classista, nel quale includono una critica del valore, ma la loro base principale teorica è sempre una rigida analisi di classe (mi vengono in mente l'Aufheben, i diversi volti di Raya Dunayevskaya e Théorie Communiste en France).
Anche un futuro burocrate ed uomo di stato chiamato Lenin poteva dire prima del 1917: "non può esserci rivoluzione senza teoria." Senza dubbio il terribile Lenin non sarebbe stato d'accordo con quest'espressione dopo il 1917. Quando leggete i Commentari di Debord avete la sensazione che volesse dire qualcosa sui nuovi rapporti di produzione: "In circostanze differenti, credo che avrei potuto considerarmi molto soddisfatto del mio primo lavoro su questo soggetto, e avrei potuto lasciare ad altri di pensare al seguito. Ma, al momento in cui siamo, mi sembra che nessun altro lo avrebbe fatto." Infatti, il suo libro "La società dello spettacolo" era stato riformato dalla società capitalista. I suoi Commentari non corrispondono a ciò che era avvenuto e non erano così acuti come il suo testo del 1967. Cadevano a vuoto ... e sarebbe stato probabilmente meglio se non li avesse scritti.
Intorno al 1982, mi disse che il suo libro del 1967, La Società dello Spettacolo, sarebbe stato valido per i successivi cinquant'anni. Gli dissi a mia volta: "ne sei sicuro?". La sua risposta fu categorica, il suo libro sarebbe durato per tutto quel periodo. Ma non è stato così. Sei anni più tardi pubblicò i suoi Commentari, nei quali diceva: "la negazione è stata privata così perfettamente del suo pensiero, che si è persa da lungo tempo." Questa citazione sembra riassumere la sua posizione del 1988.
Senza teoria critica è difficile dare un senso a qualsiasi cosa. Debord è rimasto veramente intrappolato nel labirinto della sua costruzione. Se avesse letto "Addio al proletariato" di André Gorz (1980) - tendenziosamente tradotto come "Addio alla classe operaia" (1982, Pluto Press), avrebbe trovato delle idee sul modo di uscire dal feticcio della classe operaia/proletariato in quanto soggetto. Ma Debord non poteva prendere in considerazione Gorz, aveva delle idee definitive. Gorz era stato vicino a Sartre e a Beauvoir dopo la seconda guerra mondiale, aveva partecipato alla loro rivista "Tempi moderni". Debord non poteva digerire le spaventose posizioni politiche di Sartre e Beauvoir (il loro sostegno incondizionato ad ogni sorta di burocrazia come la Cuba di Castro o la Cina di Mao, ecc.). Alla fine, Gorz era riuscito ad uscire dalla palude di Sartre. Ma Debord non aveva prestato ulteriore attenzione alla critica di André Gorz. Lo aveva considerato definitivamente come un rottame. Brutta mossa!

Debord-Figures

In "Addio al proletariato", c'è un capitolo intitolato: "Il proletario perfetto lavora perciò per la società; egli è un puro fornitore di lavoro generale astratto e, di conseguenza, puro consumatore di beni e servizi di mercato. La forma totalmente alienata del suo lavoro ha come reciproco la forma totalmente mercantile dell'espressione dei suoi bisogni materiali: questo sono bisogni di comprare, bisogni di denaro. Tutto ciò che il proletario consuma dev'essere comprato, tutto quel che produce dev'essere venduto. Tra consumo e produzione, acquisto di beni e prestazioni lavorative, non c'è alcun legame visibile. Quest'assenza di legame ha come corollario l'indifferenza del proletario verso il prodotto del suo lavoro, ovvero alla sua destinazione. Il capitale lo ha dispossessato di ogni capacità autonoma per ridurlo al funzionamento immutabile del grande automa. (...) E' il sistema meccanico che lavora; tu gli presti il tuo corpo, il tuo cervello e il tuo tempo affinché il lavoro si faccia". Anselm Jappe nel suo libro, "Le avventure della merce (per una nuova critica del valore)", afferma: "Marx esprime questo fatto nella formula per cui il valore è un "soggetto automatico" (Il Capitale, Libro I) o, come egli dice già nei Grundrisse: il valore si presenta come soggetto."
Debord ha trascurato la critica del valore, poiché ha sempre sostenuto un marxismo ortodosso riformulato che vede sempre la lotta di classe come motore della storia, quindi della sua inerzia. Moishe Postone, al contrario, ha cominciato a smantellare le strutture classiste dei marxismi ortodossi. I suoi sudi sulla Scuola di Francoforte e su Georg Lukacs lo hanno portato a questa critica. E' nel 1993 che è stato pubblicato il libro di Postone, "Lavoro, tempo e dominio sociale (una reinterpretazione critica di Marx)". E' questo tipo di libro che Guy Debord avrebbe dovuto scrivere invece dei suoi Commentari. Ma non si fa la storia con dei "se", come ha detto Hegel. Alla fine ciò non conta, perché non ha avuto luogo.
La posizione ostile di Debord rispetto ai computer, è stata un'altra aberrazione. Altri sono andati ancora più lontano in questa visione retrograda anti-tecnologica. Un primitivista come Ted Kacyinski - il suo terribile documento "Unabomber" lo ha trasformato in terrorista -, si è perfino disposto a mettere una bomba su un aereo. Kacyinski non ha potuto articolare una critica del capitalismo moderno e così è ricorso al terrorismo. E' tragico. Ci sono altri primitivisti, come John Zerzan e l'Encyclopédie des Nuisances, i quali hanno tradotto Kacyinski. I primitivisti fanno pensare a Pol Pot. E' un imperativo, criticare quest'ideologia che ci riporta indietro ad un passato orribile.
Una nuova società dove il valore sarà stato soppresso insieme al lavoro, potrà legare la tecnologia al valore d'uso invece che al valore di scambio. La produzione delle merci ed il lavoro astratto distruggeranno il pianeta. E quel che Postone dice del lavoro astratto consiste in questo: " sostengo che ciò che Marx voleva dire  è che il lavoro ha una funzione nella società capitalista in quanto attività socialmente mediatrice che differisce dalla funzione di attività penale in un'altra società, e che questo è un punto di partenza per la sua analisi completa del capitalismo."
Dave Wise, sul suo sito web, "revolt against an age of plenty", dice che sono passato dalla fedeltà a Guy Debord, alla fedeltà a Moishe Postone. Riferirsi a dei nomi, è semplicistico, per me sono più importanti le idee. Ho trovato di mio gusto la teoria critica di Moishe Postone, è una sorta di base a partire dalla quale si può costruire un nuovo mondo. A partire da essa, le agorà e le conversazioni non sono affatto morte, oggi ne abbiamo la prova. Aggiornare la sua teoria critica non è un lusso, ma una necessità.

- Michel Prigent -

fonte : Critique Radicale de la Valeur