Quel che a Dostoevskij non riuscì, nell'Idiota - mettere in scena e al centro di tutto, in un romanzo, un uomo interamente, positivamente buono, modellato sul Cristo delle icone ortodosse riuscì invece benissimo, e senza averci pensato con altrettanta intensità di tormento, nei Miserabili, a Victor Hugo. Jean Valjean è tutta la bontà possibile, sullo sfondo delle miserie umane, la bontà che attraversa a guado, in una figura di San Cristoforo che non arriva mai a toccare la riva per deporvi il suo carico, la storia umana in una città-simbolo, concreta, visibile, che ciascuno di noi ha visitato e rari poeti compreso. E' possibile che la bontà di Jean Valjean abbia potuto essere divinata, manifestarsi tra i viventi, assumere un volto non iconico ma autenticamente umano, in quanto collocata, non come il principe Myskin in una porzione specifica di società aristocratica di periferia europea, ma nel crocevia di una Weltstadt che non esclude nessun tipo di destino neppure quello di un Myskin plebeo, povero, di origine malfamata Parigi. E' toccato a uno scrittore illuminista, di simpatie rivoluzionarie, ottimista del divenire storico, senza le grandiose idee mistiche e il fedele Vangelo giovanneo di Fedor Dostoevskij, di creare involontariamente un modello accettabile di Cristo moderno e occidentale, un Cristo che dal lino di una sindone emergerebbe coi tratti di Jean Valjean, il fuggiasco, il perseguitato, che non opera miracoli con la parola (Ordet! quanto cercarla!) e neppure con la scienza medica, come sarebbe naturale all'epoca, ma con la pura compassione, servita (l'avessimo!) da un apparato muscolare d'acciaio, capace di tutto….
Da domandarsi: esisterebbe un romanzo come questo se non ci fosse stato il 18 giugno 1815? Waterloo non è un enorme excursus di quasi cento pagine, è il perno di tutta la storia. Napoleone al termine della terribile giornata, appiedato, solitario «immenso sonnambulo di un sogno crollato» proietta la sua ombra cinese sulla parete dove accende oggetti e carte la lampada dello scrittore, che meditando sulla disfatta, concepita come epopea e allegoria spirituale, vede l'agitazione mostruosa, inesauribile, della capitale postrivoluzionaria e da quindici anni postimperiale, di cui il vero sovrano è il popolo dei reietti, dei malvagi e degli indeboliti…
I Miserabili non sono un romanzo sociale: vorrebbero essere tutto, ma non lo sono. La classe operaia, quella che sarà potentemente e tragicamente vista da vicino nell'Assommoir e in Germinal non ce la vedi, è introvabile. Una chiave, per identificare il chimerico «popolo dei miserabili» è nel termine poco fa usato, indeboliti. Ci può aiutare la parola biblica refaìm, che è polisensa: i morti, le ombre, ex giganti, guaritori. I giganti delle vittorie imperiali sono i refaìm, i Deboli, le Ombre dei Miserabili, il riflesso individuale (molto vagamente sociale) della disfatta di Waterloo, una radunanza di veterani e di nipoti di veterani sperduti che incarnano il significato etico negativo, per nulla epico, del grido escatologico (la e è importante per non equivocare) di Cambronne. L'epopea di Austerlitz e di Jena rigermoglia poveramente nelle barricate di rue Saint-Denis, del 1848…. Hugo e' un genio, ha insegnato stile a tutti, ma inseparabile dal trombone tribunizio. Il romanzo e' pieno di meravigliosi aforismi e di pseudoracoli da fumier prédicant, genere: «Cittadini, se il diciannovesimo secolo è grande, il ventesimo sarà di felicità. Più niente somiglierà alla vecchia storia...». E Waterloo è addirittura «il capovolgimento dell'universo».
Quel che rende inevitabilmente classico I Miserabili è l'appartenenza alla grande tradizione del romanzo iniziatico, che è una moderna trasposizione, data a tutti per mezzo della diffusione, della tradizione e del pellegrinaggio misterico. C'e' una Eleusi della lettura... Si puo' farlo cominciare dal Don Chisciotte e vederne rami e frutti nel Meister goethiano, nello Schlemil di Chamisso, in Delitto e Castigo, Pinocchio, Moby Dick, Promessi Sposi e nell'Uomo senza qualità, nella Linea d'Ombra, nel Deserto dei Tartari... E quale titolo più iniziatico di Voyage au bout de la nuit? Quel che viene via via a mancare nelle iniziazioni misteriche da leggersi è nello sbocco finale, dopo un transito nell'affanno e nel buio, in qualcosa di trascendente (arrivo a Colono, conquista della luce, affacciarsi su una dimensione redentiva). In fondo alla notte, non aspettarti che altra notte. Su questo c'e' da riflettere, e non poco da capire. Nei Miserabili il viaggio iniziatico di Jean Valjean è di una travolgente evidenza: un ex forzato si scioglie di episodio in episodio da ogni catena, rivelandosi angelo ferito che mette la sua prodigiosa forza fisica e il suo insaziabile appetito di riparare-medicare-sanare-salvare alcuni «miserabili» da cui non può più staccarsi, al servizio, indefettibilmente, del Bene…
La straordinaria metafora riassuntiva del viaggio iniziatico di Jean Valjean è la traversata delle fogne di Parigi con un quasi-morto sulle spalle da lui portato a rivivere, dopo l'uscita di entrambi, finalmente, nella luce… Significativamente, la prova più difficile dell'iniziando Jean Valjean è questa traversata, tra le più fantastiche della letteratura mondiale. L'uscita dai miasmi e dal buio, nella sera stellata, dispiega sulla testa del Miserabile Sublime vittorioso della prova «tutte le dolcezze dell'infinito».
- Guido Ceronetti - Jean Valjean il Cristo di Parigi in “La Stampa” 21 agosto 2008.
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