venerdì 29 luglio 2011

La Ballata dell’Amore e dell’Odio

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“Ballata dell'odio e dell'amore è la storia di due pagliacci, uno triste, l'altro stupido, giacché non vi è altra scelta nella vita: o sei triste, o sei stupido. Entrambi si innamorano follemente della trapezista e questo amore li porta a una lotta all'ultimo sangue che sfocia in tragedia, perché i loro sentimenti sono condizionati da un passato che genera in loro un senso di colpa, spingendoli verso l'ira e portandoli alla perdizione. Io mi sento così: abbiamo tutti un passato terribile che ci ha segnati e non è colpa nostra, ma lo portiamo scritto nei nostri geni. Bisogna sopravvivere al ricordo; per superarlo bisogna mettere tutti i giocattoli sul tavolo e, rotti che siano, giocarci per esorcizzare i mostri. Una volta che ci siamo divertiti, dobbiamo pensare al perché ci spaventavano tanto. E' questa la storia di Ballata dell'odio e dell'amore.”

                                                   Alex de la Iglesia

Balada triste de trompeta, Spagna-Francia 2010 -
di Alex De La Iglesia
con Carolina Bang, Santiago Segura,
Antonio de la Torre, Fernando Guillen-Cuervo.

giovedì 28 luglio 2011

Geometrie

Floyd Patterson

30 Novembre 1956. Chicago Stadium, Chicago

Archie Moore, faccia in giù, decora il pavimento del ring, dopo un gancio sinistro di Floyd Patterson. Sono trascorsi 2:27 del 5° round, e Patterson è appena diventato il più giovane campione dei pesi massimi, nella storia.

mercoledì 27 luglio 2011

chiamiamo comunismo

pci

Breve storia del PCI (1921-1947)

1. Dal 1921 al 1926: Il PCI dal comunismo all’opportunismo

Il PCI (PCd’I) non è stato un partito qualsiasi, ma il migliore fra i partiti della III Internazionale, l’unico partito d’occidente che - dopo l’assassinio di Karl Liebcknecht e Rosa Luxemburg da parte dei socialdemocratici - sia riuscito a dare al movimento comunista un contributo paragonabile a quello dei bolscevichi. Questo risultato fu possibile perché già all’interno del vecchio partito socialista i rivoluzionari si erano costituiti in Frazione Comunista Astensionista, sotto la guida di Amadeo Bordiga. Le esitazioni di alcuni compagni, fra cui Gramsci, ritardarono fino al 1921 la fondazione del PCd’I, sezione della III Internazionale. Il PCI parla del “partito di Gramsci” per nascondere tutto questo, ma Antonio Gramsci a Livorno non prese neanche la parola (e non poteva perché durante la guerra era stato uno dei pochi socialisti tentati di seguire Mussolini nel suo passaggio all’interventismo) e venne accettato solo come semplice iscritto. Fino al 1922 Gramsci e soprattutto Togliatti, non emettono la minima riserva sulle posizioni rivoluzionarie di Bordiga, ma nel ‘23 il fascismo incarcera l’intera Direzione di sinistra e l’Internazionale Comunista, che già sta sbandando a destra, ne approfitta per sostituirla con un gruppo di “centro”, guidato da Gramsci, che a Mosca si è avvicinato alla alleanza moderata di Zinoviev e Stalin. Togliatti propone a Bordiga di fare finta di allinearsi “per fottere l’Internazionale” e conservare la direzione. Al suo sdegnato rifiuto passa armi e bagagli nel campo dei centristi. Si crea così una situazione paradossale: un partito quasi totalmente di sinistra è costretto per disciplina ad accettare una direzione di centro che conta ancora meno della minoranza di destra. Ancora al Convegno Nazionale di Como, a metà del ‘24, la Sinistra ha 41 delegati, la destra 10 e la Direzione... 8!
A questo punto è chiaro che non è bastato smantellare la Direzione, è tutto il partito che si deve smantellare. Bordiga viene eletto segretario della Federazione di Napoli ed il Centro lo destituisce, Fortichiari è eletto segretario della Federazione di Milano ed il Centro lo destituisce. Federazione dopo Federazione, il partito, già sotto l’attacco fascista, viene smontato, sostituendo i militanti che hanno la fiducia della base con funzionari che votano come vuole chi paga lo stipendio. Così si prepara il III Congresso e la Sinistra inutilmente protesta contro l’Unità che non pubblica i suoi contributi. Essendo ancora maggioritaria alla base, si costituisce nel ‘25 in Comitato di Intesa per far circolare i documenti della discussione pre-congressuale, ma nel partito è ormai proibito discutere. Il portavoce del Comitato, Girone, viene espulso dal Partito e l’intera Sinistra viene costretta a sciogliere il Comitato, sotto il ricatto di Mosca di essere espulsa in blocco dall’Internazionale. Ogni ostacolo alla liquidazione del partito è ormai rimosso ed i funzionari “bolscevizzatori” scrivono quello che vogliono nei verbali, eliminato ogni controllo della base: contando i voti, risulterà che perfino Bordiga avrebbe votato per la Direzione! Con questi metodi, il Centro si attribuisce più del 90% dei delegati, facendo blocco con la destra, ed al Congresso-farsa di Lione (1926) può finalmente rinnegare le Tesi di Roma su cui il PCd’I si era costituito. La Sinistra dichiara che “nessuna solidarietà potrà unirci a quegli uomini che abbiamo giudicato (...) come rappresentanti della ormai inevitabile prospettiva dell’inquinamento opportunista del partito”. Il partito di Livorno è cambiato: ha ancora una (ridotta) base operaia, ma non ha più un programma rivoluzionario. Dall’opportunismo alla borghesia, il passo sarà più facile.

2. Dal 1926 al 1936: dall’opportunismo alla controrivoluzione

Il Congresso truccato di Lione è l’ultimo colpo messo a segno dal presidente centrista dell’Internazionale, Zinoviev, alleato di Stalin. Già alla fine del ‘26 Stalin scarica Zinoviev, che passa all’opposizione con Trotsky, per poi abbandonarlo, senza riuscire con questo a salvare la pelle. La sua sconfitta segna la campana a morto per tutti gli “zinovievisti” dei vari partiti comunisti che non lo scaricano abbastanza velocemente. Il più veloce è probabilmente Togliatti, che è fra i primi a reclamarne la destituzione da presidente dell’Internazionale. Gramsci, che nel frattempo è caduto in mano fascista, era di tutta altra pasta. zinovievista convinto, aveva smantellato il partito perché sinceramente persuaso che quei sistemi “sporchi” fossero il male minore e che con i compagni della Sinistra si sarebbe poi trovato un accordo per lottare insieme. Non marxista, ma sincero rivoluzionario, non esitò a scrivere a Togliatti in favore di Zinoviev e Trotsky sottoposti alla emarginazione stalinista. Ma Togliatti era un allievo che aveva superato il maestro: fece sparire la lettera e fece il vuoto intorno a Gramsci, che fu lasciato crepare in carcere nel più totale isolamento, dopo essere stato oggetto di vere e proprie provocazioni (2). Il maestro di Togliatti ora è Stalin che, dopo essersi nel ‘27 sbarazzato di Zinoviev con l’appoggio della destra di Bucharin, nel ‘29 fa una svolta “a sinistra” per poter scaricare Bucharin, che non gli serve più. Nel Centro all’estero del PCI si scatena la lotta fra Togliatti e gli “orfani di Gramsci”, che a suo tempo furono abbastanza furbi da denunciare Zinoviev: entrambi gli schieramenti cercano di farsi riconoscere come gli alfieri della nuova giravolta di Stalin. Come al solito vince Togliatti, che scavalca “a sinistra” Stalin e proclama che in Italia la rivoluzione è alle porte. I “tre” (Leonetti, Ravazzoli, Tresso) che a marzo del ‘30 hanno votato per l’espulsione dal partito del suo fondatore, Amadeo Bordiga, con l’accusa di “trotskysmo”, una volta persa la speranza di prendere il controllo del partito, prendono contatto ad aprile ... con l’Opposizione Internazionale di Sinistra di Trotsky, di cui erano stati i più feroci persecutori! E la cosa più incredibile è che l’Opposizione li accoglie a braccia aperte, nonostante le riserve politiche della Sinistra Italiana, dato che ora sono pronti a seguire tutte le svolte di Trotsky, come ieri seguivano quelle di Stalin. Così Leonetti, entrato direttamente nella Direzione dell’Opposizione, si può prendere nel ‘32 lo sfizio di espellere dai ranghi dell’Opposizione come “antitrotskysti” quegli stessi compagni della Sinistra Italiana che aveva già espulso come “trotskysti” dal PCI. Bastano questi pochi elementi per capire che non è certo nella tradizione trotskysta italiana che si troveranno gli elementi per rompere con la controrivoluzione togliattiana.
Nel frattempo Togliatti, per farsi bello agli occhi di Stalin, brucia gli ultimi quadri del partito, inviandoli in Italia a prendere la direzione di una rivoluzione che nel 1930 era imminente solo nella sua demagogia. In pochi mesi l’intera rete illegale cade nelle mani della polizia, ma Palmiro ha salvato la poltrona, ed è questo che conta. In tutti questi anni va dunque avanti un duplice processo di smantellamento del partito: da una parte se ne rinnega il programma, dall’altra si escludono quelli che a questo programma rimangono fedeli. Il colpo di grazia è ormai vicino: nel 1933 Hitler prende il potere senza la minima reazione da parte del PC tedesco che invita “ad evitare provocazioni”. Con l’annientamento del PCI, la III Internazionale cessa nei fatti di esistere e Stalin può sancire la fine della Rivoluzione Russa: nel 1935 la Russia viene riconosciuta degna di entrare a far parte della “Società delle Nazioni”, quella che Lenin chiamava “il covo dei briganti”.
Nello stesso anno Stalin firma col governo borghese di Francia un patto di alleanza antitedesco, approvando “la politica di difesa nazionale” di questa ultima, e subito il PC francese vota a favore del piano di riarmo imperialista della nazione, “in difesa della pace”, naturalmente. Tutti i PC, ridotti a marionette, battono le mani, ma il compito più schifoso tocca al PCI, che ha l’incarico di cercare di staccare Mussolini da Hitler, identificandosi col nazionalismo anti-tedesco. Nell’agosto ‘36 Togliatti lancerà il famoso appello ai fascisti:
“Diamoci la mano, figli della Nazione Italiana! Diamoci la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni. Diamoci la mano, e marciamo fianco a fianco.”
Se si cancella l’aggettivo fascisti, si ritrova qui anticipata la linea del PCI, dalla Resistenza alla recente fase della “solidarietà nazionale”. A questo punto, il partito di Livorno non esiste più. La Frazione di Sinistra del PCI, che da molti anni è costretta dalle espulsioni ad agire fuori del partito, lancia un appello ai compagni: “Fuori dai Partiti Comunisti, diventati strumenti del capitalismo mondiale” (luglio ‘35); e cambia il suo nome in Frazione Italiana della Sinistra Comunista. Gli anni che seguono dimostreranno che il capitalismo mondiale aveva trovato nel Partiti Comunisti degli strumenti preziosi.

* * *

Nella prima parte di questo articolo (“Rivoluzione Internazionale” n°63) abbiamo visto come il Partito Comunista nato nel ’21 a Livorno sia stato prima castrato del suo programma rivoluzionario (Congresso truccato di Lione, 1926) e successivamente trasformato in un nuovo partito borghese “di sinistra” (Appello di Togliatti ai fascisti italiani, 1936). Questo processo non è stato indolore ed il passaggio alla borghesia è potuto avvenire solo dopo l’annientamento congiunto del partito ad opera della repressione fascista e della liquidazione stalinista. Per rendersi conto dell’ampiezza presa da quest’ultimo processo di distruzione fisica del partito, basti pensare che su 5 membri della Direzione eletta al Congresso di Livorno nel ’21, ben quattro (Bordiga, Repossi, Fortichiari e Terracini) sono stati espulsi come “provocatori” a partire dal 1930, ed hanno salvato la pelle solo perché erano graditi ospiti delle carceri fasciste. Minore fortuna hanno avuto i 200 militanti del PCI che sono riusciti a scappare dalle prigioni di Mussolini e a “riparare” in Russia, solo per essere assassinati nei lager di Stalin, cui erano stati consegnati uno per uno dall’infaticabile Togliatti: “Il PCd'I chiede al PC dell’URSS un aiuto per continuare la lotta contro i rottami dell’opposizione bordighiana (…) il nostro partito non ha niente altro da dire. Chiede solo che si usi il massimo di rigore” (Togliatti a Jaroslavsky, 19 aprile 1929).
In questa seconda parte vedremo come il nuovo PCI borghese si sia rivelato uno strumento utilissimo per la borghesia, soprattutto durante la II guerra mondiale, quando è riuscito a trascinare il proletariato italiano nella Resistenza Patriottica, inquadrandolo come forza ausiliaria degli eserciti anglo-russo-americano. Forza “nazionale” e governativa, è respinto nel ’47 nell’opposizione, rimanendo però nazionale, patriottico e antioperaio.

3. Dal 1936 al 1941: dalla guerra di Spagna all'alleanza Hitler-Stalin

Nel 1936 il proletariato mondiale è ormai sconfitto, ma prima di trascinarlo in una nuova guerra mondiale la borghesia ha bisogno di una "prova generale" che la rassicuri della incapacità proletaria a reagire. Questa prova generale sarà la guerra di Spagna (‘36-’39) in cui un'iniziale insurrezione operaia contro un golpe militare viene deviata in lotta militare in difesa della Repubblica borghese contro il fascismo. Migliaia di operai accorrono da ogni paese per arruolarsi nelle Brigate Internazionali, ma per molti di loro alla rapida disillusione seguiranno l'accusa di essere spie fasciste e una pallottola nella nuca. I militanti della Frazione di Sinistra del PCI, Turiddu Candoli e Tullio Lecci, recatisi in Spagna per denunciare l'inganno, scampano per miracolo all'assassinio, mentre il coraggioso anarchico Camillo Berneri, prelevato dai poliziotti di un governo che conta fior di ministri anarchici, sarà ritrovato crivellato di colpi all'obitorio.
Tutti i dirigenti stalinisti sguazzano nel sangue, ma tutti prendono ordini da un solo uomo: Palmiro Togliatti, inviato personalmente da Stalin nel giugno '37 per sovraintendere alla "epurazione degli elementi trotzkisti ed anarcosindacalisti". È quello stesso Togliatti che nell'agosto '36 (un mese dopo il golpe fascista in Spagna) pubblicava il famoso Appello ai fascisti italiani. Contraddizione? Certamente sì per un proletario comunista, certamente no per un borghese stalinista, abituato a cambiare bandiera a seconda di dove tira il vento.
Ed infatti nel 1939 il vento cambia ancora: si è appena concluso il massacro “antifascista” di Spagna, che arriva la bomba del patto Hitler-Stalin e la II Guerra Mondiale comincia con la Russia alleata degli eserciti nazisti.
Togliatti e soci (ovviamente) non fanno una piega, esaltano l’accordo e (dal ‘39 al ‘41) denunciano gli antifascisti come leccapiedi dell'imperialismo anglo-americano (il che è vero, ma non è molto convincente in bocca a dei leccapiedi dell'imperialismo russo-tedesco). Per non creare fastidi a Mussolini, alleato di Hitler, viene sospesa ogni attività clandestina in Italia ed il PCI, praticamente per due anni, cessa di esistere. Questa inattività cessa improvvisamente dopo l'attacco tedesco all'URSS: si ricostituisce un Centro Interno per il lavoro in Italia (agosto 1941) e si proclama che "la vittoria dell'Inghilterra, dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti (...) sarà la vittoria della democrazia". E l'imperialismo anglo-americano? Non va più di moda, ora che si tratta di portare gli operai al massacro in nome di Stalin, Churcill e Roosevelt.

4. Dal 1941 al 1947: dalla Resistenza Patriottica al governo, dal governo all’opposizione

Il ritorno al lavoro del PCI si rivela provvidenziale per la borghesia italiana a partire dall'autunno '42, quando gli eserciti nazifascisti cominciano la loro lunga ritirata (Stalingrado, El Alamein) e l'aviazione alleata inizia i bombardamenti terroristici sulle grandi città italiane.
Il problema che assilla i grandi borghesi come Agnelli e Pirelli (entrambi Senatori del Fascismo) è duplice: da una parte sganciarsi dall'alleanza tedesca per saltare sul carro del vincitore alleato, dall'altro garantirsi che il passaggio dalla forma di dominio fascista a quella democratica avvenga senza che al proletariato venga in mente di farla finita con tutte le forme di dominio borghese. La gravità del problema è dimostrata dalla straordinaria esplosione di scioperi di classe del marzo '43, che costituisce la più alta risposta proletaria al secondo massacro imperialista. Il PCI, attraverso accademici del calibro di Concetto Marchesi, prende contatto con la monarchia e si mette a sua disposizione per il colpo di stato militare con cui il 25 luglio la borghesia si libera dell’ormai ingombrante fascismo. Quando, dopo il tentativo del re di sganciarsi dalla Germania con la richiesta di armistizio, l'8 settembre 1943, Hitler occupa l'Italia e mette su lo Stato vassallo della Repubblica di Salò, tocca al PCI il ruolo principale nello strangolamento delle lotte operaie e nella loro sottomissione alla logica della borghesia nazionale. Si è sempre parlato di una "svolta di Salerno" che Togliatti avrebbe operato al suo arrivo nel '44, entrando a far parte del governo reazionario e monarchico messo su dagli Alleati nel Sud "liberato". Questa leggenda ha avuto come unica funzione quella di lasciar credere alla base del PCI che esistessero due linee del partito: quella "vera", "di Stalin", la linea dura contro i padroni, e quella del compromesso e del cedimento, di cui sarebbero stati responsabili i furbi dirigenti alla Togliatti. La verità è che la linea "nazionale" di Salerno corrisponde perfettamente alle istruzioni di Stalin che già nel '43 ha sciolto il cadavere dell'Internazionale Comunista per garantire Gran Bretagna e Stati Uniti contro ogni velleità "rivoluzionaria" della base. Svincolati dall'obbedienza formale a Mosca i singoli PC debbono promuovere "la più larga unità nazionale" per contribuire allo sforzo bellico anglo-russo-americano. È dunque con il beneplacito di Stalin che il vicepresidente del governo monarchico, il ministro Togliatti, scaglia l'accusa di provocatori fascisti contro i cadaveri ancora caldi degli operai e braccianti del Sud che hanno osato turbare lo sforzo bellico con le loro inopportune rivendicazioni. Al Nord, intanto, il PCI - forte della esperienza fatta in Spagna -. trasforma il movimento di classe in forza di sostegno all'imperialismo alleato. Alla lotta di classe in difesa delle condizioni operaie, si sostituisce la lotta armata in difesa della patria. Allo strumento di classe dello sciopero, si sostituisce lo strumento borghese del terrorismo contro i proletari in divisa tedeschi, senza distinzioni tra nazisti e tedeschi. I molti, forti gruppi che si oppongono alla linea del PCI (alla Fiat Mirafiori il gruppo Stella Rossa conta 500 militanti contro i 200 del PCI) sono con rare eccezioni, condannati in anticipo dalla loro illusione di poter partecipare alla Resistenza Patriottica restando però comunisti. Una volta entrati nell'ingranaggio, la logica militare imperialista li obbliga un po’ per volta ad allinearsi al PCI o a essere travolti.
Per chi non ci sta, è pronta la "cura di Spagna": vecchi quadri del partito di Livorno '21 - come Atti, Acquaviva, Vaccarella sopravvissuti al carcere e al confino fascisti, cadono sotto le pallottole delle squadracce terroriste di Togliatti.
Visto che ancora oggi c'è chi sostiene che i fedelissimi di Stalin, come Pietro Secchia, si battevano nel PCI contro la svendita della classe operaia, ricordiamo che furono proprio gli elementi come Secchia ad occuparsi della liquidazione politica (e fisica) dei comunisti che si ostinavano a difendere gli interessi operai.
Con la "liberazione" anche agli operai del Nord tocca "credere, obbedire, produrre" come già quelli del Sud. Molti - che credevano alla favola del "doppio binario" del PCI - non ci stanno, obbligando Celere e Carabinieri a fare gli straordinari. Di fronte al momento delicato, la borghesia si affida ad un Ministro di Grazia e Giustizia di tutto rispetto: Togliatti usa il randello della repressione senza troppe preoccupazioni garantiste verso i proletari che non collaborano abbastanza alla ricostruzione dell'economia dei padroni. La presenza del PCI al governo dura fino a metà del '47, fino a quando cioè l'avvenuta frattura fra russi e occidentali rende impossibile un ruolo governativo degli stalinisti in tutti quei paesi che gli accordi di Yalta assegnano agli americani. A questo punto, Stalin si ricorda dell’Internazionale Comunista e fonda un nuovo organismo, il Kominform. Solo ora si comincia a rinfacciare al PCI la collaborazione con le forze conservatrici, anche se il delegato italiano, Luigi Longo, cerca di scusarsi ricordando che "non avevano fatto altro che eseguire le istruzioni di Mosca". Ma sono scuse sprecate: il vento è cambiato e non va più di moda chiamare "grandi potenze democratiche" gli imperialismi inglese ed americano. Il PCI comincia il suo onorato servizio di partito borghese "all'opposizione di Sua Maestà". Non sarà meno utile alla borghesia di quanto lo fosse già stato nella sua infame opera di governo.


Note:

* Organo della Corrente Comunista Internazionale (CCI). Il presente articolo è uscito sui numeri 63 (febbraio-marzo 1990) e 64 (aprile-maggio 1990) della rivista.

1. I compagni non sono tenuti a credere ad occhi chiusi nemmeno a noi. I fatti da noi citati sono controllabili nelle “Storie del PCI” di Paolo Spriano (ed. Einaudi) e Giorgio Galli (ed. Bompiani), nel Saggio sulla politica comunista in Italia: 1921-1970 di Danilo Montaldi (ed. Quaderni Piacentini) e, infine, nella Storia della Sinistra Comunista Italiana, pubblicata dalla nostra organizzazione.

2. II giudice istruttore dirà a Gramsci: “Lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera” (lettera a Tania, 5/12/1932).

- da Rivoluzione Internazionale n° 63 e 64 -

martedì 26 luglio 2011

in memoria dei caduti

utoya

La notizia, così come la foto, l'ho trovata su un forum di lingua spagnola (http://www.foroporlamemoria.info/). Racconta di come, sull'isola di Utoya, i giovani socialisti avevano anche commemorato i caduti norvegesi nella guerra civile spagnola.
Riporta una breve cronaca del piccolo avvenimento, e si può leggere che, ad un certo punto, uno di loro, Eskil Pedersen (e non so se sia stato o meno assassinato), scoprendo la targa che possiamo vedere nella foto, ha detto che bisogna comprendere la storia contemporanea per poter riuscire a dare forma al futuro.
Sono quattro, i nomi sulla targa. Tre norvegesi ed uno svedese, ma che importa di dove fossero! Quattro, di quei 35.000 volontari che arrivarono in Spagna da tutto il mondo.
Gunnar Skjeseth, Martin Schei, Torbjørn Engebretsen ed Odd Olsen.
Martin Schei aveva solo 18 anni quando partì per la Spagna. Scappò di casa, senza dire niente ai genitori.
Prima di morire, scrisse una lettera al fratello rimasto in Norvegia:
"La nostra sconfitta, in questa guerra, non significherà solo l'instaurazione di una dittatura fascista in Spagna o, per dirla meglio, la creazione di una colonia degli stati fascisti. No, la nostra sconfitta sarà anche una vittoria del fascismo nel nostro paese.
Aveva ragione!

lunedì 25 luglio 2011

Pianeti diversi

gorz
Quella che segue è la traduzione di un testo scritto nel 1974 da André Gorz. Ha il pregio di indagare la contraddizione esistente, anche ai giorni nostri, fra la cosiddetta protezione dell'ambiente, nel contesto del capitalismo, sostenuta senza che venga messo in causa, né teoricamente né praticamente, il sistema sociale esistente - da una parte. E dall'altra, le speranze innescate da una tale aspettativa al fine di "salvare il pianeta" e "fondare un'alternativa". Contraddizione che ci spinge sempre di più verso la distruzione e verso la disuguaglianza. A meno che ... non si voglia fare un'altra scelta!

Evocare l'ecologia è come parlare del suffragio universale e della festività domenicale: in un primo tempo, tutti i borghesi e tutti i partigiani dell'ordine rispondevano che così volevate la loro rovina, il trionfo dell'anarchia e dell'oscurantismo. Poi, in una seconda fase, quando la forza delle cose e la pressione popolare divennero irresistibili, vi venne accordato quello che fino a ieri vi veniva rifiutato e, fondamentalmente, non cambiò niente.
La messa in conto delle esigenze ecologiche ha ancora molti avversari fra i padroni. Ma ha sostenitori sufficienti fra i capitalisti perché la sua accettazione abbia delle serie probabilità di diventare un investimento. Quindi è meglio, ora, non giocare a nascondino: la lotta ecologica non è un fine in sé, ma una tappa. Può creare delle difficoltà al capitalismo ed obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver resistito a lungo con la forza e con l'astuzia, alla fine cederà solo perché l'impasse ecologica sarà diventata inevitabile, e sfrutterà questo vincolo così come ha sfruttato tutti gli altri vincoli.
Quindi dobbiamo subito porre la questione senza mezzi termini: che cosa vogliamo? Un capitalismo con dei vincoli ecologici o una rivoluzione economica, sociale e culturale che abolisca il capitalismo e, allo stesso tempo, instauri un nuovo rapporto fra gli uomini e la collettività, fra il loro ambiente e la natura? Riforma o rivoluzione?
Non rispondete che questo problema è secondario e che l'importante è salvare il pianeta, dal momento che sta diventando inabitabile. Perché la sopravvivenza non è un fine di per sé: vale la pena di sopravvivere [come se lo domanda Ivan Illich], in "un mondo trasformato in un ospedale planetario, in una scuola planetaria, in un carcere planetario, e dove il compito principale degli ingegneri dell'anima sarà quello di fabbricare degli uomini adatti per questa condizione"? (...)
E 'meglio cercare di definire, fin dall'inizio, il motivo per cui si lotta, e non solamente contro chi. Ed è meglio cercare di prevedere come il capitalismo sarà influenzato e cambiato da vincoli ambientali, piuttosto che credere che questi provocheranno la sua sparizione.
Ma in primo luogo, che cos'è, in termini economici, un vincolo ecologico? Prendiamo ad esempio i giganteschi complessi chimici della valle del Reno, a Ludwigshafen (Basf), a Leverkusen (Bayer) e a Rotterdam (Akzo). Ciascun complesso combina i seguenti fattori:
- Le risorse naturali (aria, acqua, minerali) che passano per essere gratuiti dal momento che non possono essere riprodotti (rimpiazzati);
- I mezzi di produzione (macchine, edifici), che sono di capitale fisso, che si usurano e di cui si deve quindi garantire la sostituzione (la riproduzione), preferibilmente con dei mezzi più potenti e più efficaci, in modo da dare all'azienda un vantaggio sui suoi concorrenti;
- Il lavoro umano che, purtroppo, deve essere riprodotto (bisogna nutrirlo, curarlo, alloggiarlo, addestrare i lavoratori).
In un'economia capitalistica, la combinazione di questi fattori nel processo produttivo, ha per fine il massimo profitto possibile (che, per un'azienda che si preoccupa del suo futuro, significa anche: il massimo della potenza, dunque degli investimenti, la presenza sul mercato mondiale). La ricerca di questo obiettivo condiziona pesantemente il modo in cui i vari fattori si combinano e l'importanza relativa che viene dato a ciascuno di essi.
L'azienda, per esempio, non si chiede mai come rendere il lavoro più piacevole, di modo che l'impianto utilizzi al meglio gli equilibri naturali e la vita delle persone, non si chiede come fare in modo che i suoi prodotti servano alla comunità umana. (...)
Per cui, nella valle del Reno, in particolare, l'affollamento umano, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua hanno raggiunto un tale livello che l'industria chimica, per continuare a crescere, o solamente a funzionare, si vede obbligata a filtrare i suoi fumi ed i suoi effluvi, vale a dire, si vede obbligata a riprodurre le condizioni e le risorse che, fino ad ora, passavano per essere "naturali" e gratuite. Questa esigenza di riprodurre l'ambiente va ad avere delle implicazioni evidenti: bisogna investire nella lotta contro l'inquinamento, aumentando così la massa di capitale fisso, si deve poi garantire l'ammortamento (riproduzione) degli impianti di depurazione, ed il prodotto di queste (la pulizia relativa di aria e acqua) non può essere venduto con profitto.
Abbiamo, insomma, un aumento simultaneo del peso del capitale investito (la "composizione organica"), del costo di riproduzione e dei costi di produzione senza un corrispondente aumento delle vendite. Pertanto, delle due una: o il tasso di caduta del profitto, o l'aumento dei prezzi. L'azienda cercherà di aumentare il prezzo di vendita. Ma non ci riuscirà così facilmente: tutte le altre imprese inquinanti (cemento, metallurgia, acciaio, ecc) cercheranno, anch'esse, di fare pagare più cari i loro prodotti al consumatore finale. L'assunzione delle esigenze ambientali avrà  in ultima analisi questa conseguenza: i prezzi tenderanno ad aumentare più velocemente dei salari reali, il potere d'acquisto dei lavoratori verrà compresso, e così il costo delle misure contro l'inquinamento verrà prelevato direttamente dalle risorse di cui dispongono i salariati per comprare la merce.
La produzione di questi beni, pertanto, tenderà a ristagnare o a diminuire; la tendenza alla recessione, o la crisi, si aggraverà. E questo declino nella crescita e nella produzione che, in un altro sistema, avrebbe potuto essere un bene (meno auto, meno rumore, più aria, giornate di lavoro più brevi, ecc.) avranno degli effetti del tutto negativi: la produzione inquinante produrrà dei beni di lusso, inaccessibili alle masse, senza cessare di essere alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze si allargheranno, i poveri diventeranno relativamente più poveri, ed i ricchi più ricchi.
L'assunzione dei costi ambientali avrà, insomma, gli stessi effetti sociali ed economici della crisi petrolifera. Ed il capitalismo, lungi dal soccombere alla crisi, la gestirà come ha sempre fatto: dei gruppi finanziari ben piazzati approfitteranno delle difficoltà dei gruppi rivali per assorbirli a basso costo ed estenderanno il loro controllo sull'economia. Il governo centrale rafforzerà il suo controllo sulla società: i tecnocrati calcoleranno delle norme "ottimali" contro l' inquinamento e per la produzione, emaneranno regolamenti, estenderanno le aree di "vita pianificata" e la portata degli apparati di repressione. (.. .)
State dicendo che niente di tutto questo è inevitabile? Senza dubbio. Ma questo è come le cose potrebbero mettersi se il capitalismo fosse costretto ad assumere i costi ambientali senza che vi sia un'offensiva politica, scatenata a tutti i livelli, che gli strappi il controllo delle operazioni e che gli opponga un diversa visione della società e della civiltà. I fautori della crescita hanno ragione almeno su un punto: nel contesto della società attuale e nel modello attuale di consumo, basato sulla disuguaglianza, sul privilegio e sulla ricerca del profitto, la non-crescita o la crescita negativa (decrescita n.d.t) può solo significare stagnazione, disoccupazione, accrescimento del divario tra ricchi e poveri. Nel modo attuale di produzione, non è possibile limitare o bloccare la crescita e , allo stesso tempo, ripartire più equamente i beni disponibili.
Finché si ragionerà nei limiti di questa civiltà inegalitaria, la crescita apparirà alla massa delle persone come la promessa - ancorché del tutto illusoria - che un giorno cesseranno di essere "svantaggiati", e la non-crescita come la condanna alla mediocrità senza speranza. Quindi non è tanto la crescita che deve essere attaccata, quanto la mistificazione che essa sottintende, la dinamica dei bisogni crescenti e sempre frustrati su cui poggia, la competizione che essa organizza incoraggiando gli individui a volere a tutti i costi "superare" gli altri. Il motto di questa società potrebbe essere: quello che è bene per tutti non vale niente. Tu sarai rispettabile solo se hai cose migliori degli altri.
Per rompere con l'ideologia della crescita bisogna affermare il contrario: è degno di te solo ciò che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né degrada le persone. Possiamo essere più felici con meno ricchezza, perché in una società senza privilegi, non ci sono poveri.
ANDRÉ GORZ
(da  Ecologie et émancipation )

domenica 24 luglio 2011

Lo spettacolo della fine del mondo

Anders-Behring-Breivik

Un paese tranquillo, e Anders Behring Breivik, uno dei suoi tanti ... orsetti del cuore.
Un orsetto allattato al biberon della rendita petrolifera, poi nutrito a studi di Business Administration. Pieno di odio confuso. Un prodotto puro della sua epoca, perfetto per il gioco dello spettacolo della fine del mondo.

venerdì 22 luglio 2011

Sherlock e la totalità

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Ivan Burtsev era conosciuto come lo Sherlock Holmes della rivoluzione russa. Fu lui a smascherare Azev, una spia zarista infiltratasi fra i socialisti rivoluzionari russi intorno al 1904. Dopo l'Ottobre bolscevico Burtsev scrisse un pamphlet intitolato "Siate maledetti, bolscevichi".

In tema di spie nelle organizzazioni bolsceviche, vale la pena notare come Bucharin avesse scoperto una spia zarista di nome Malinovski. Bucharin informò Lenin in proposito, ma Lenin, che non aveva troppa simpatia per Bucharin, rispose: "Se vai a denunciare il compagno Malinovski, sarai tu ad essere denunciato."
Dopo l'ottobre 1917, quando si aprirono gli archivi della polizia, il nome di Malinovski stava lì. Lenin aveva torto ... E come è noto se si è sbagliato su una cosa, c'è una grande possibilità che ci si sbagli circa la totalità .. Come ci ha insegnato Hegel, una volta.

giovedì 21 luglio 2011

Gulag

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Quando, nel 1939, finisce la guerra civile spagnola, in Unione Sovietica si trovano 4.506 esuli spagnoli, 2.982 figli della guerra e 130 insegnanti ed educatori che li hanno accompagnati, 891 militanti e dirigenti del partito comunista, 192 marinai, lo stesso numero di aspiranti piloti andati per ricevere addestramento militare dall'Unione Sovietica, e 75 disertori della División Azul – però, "di ideologia di sinistra".
Fra loro, ci furono centinaia di persone rimaste intrappolate in URSS nel 1939, e che non riuscirono ad uscirne fino al 1954, alcuni, e fino al 1956, altri. Quelli che ci riuscirono! Perché dei 270 che vennero mandati nei gulag, con una condanna media ad undici anni, ne tornarono molto pochi. Dopo essersi giocata la pelle, combattendo contro Franco, finirono a fare lo sciopero della fame, fianco a fianco con i prigionieri della División Azul, nei terribili campi di concentramento nel Circolo Polare Artico, dove si doveva lavorare per dodici ore al giorno a 50 gradi sottozero e con una razione minima.
Prima di arrivare al gulag, la prassi era quella di passare attraverso gli interrogatori della Lubianka, dove era normale che il prigioniero ignorasse assolutamente di che cosa veniva accusato. Alcuni venivano bollati come spie, altri veniva accusati di essere anti-sovietici. Questione di sfumature, il trattamento era identico. Visite mediche selvagge e vessatorie, privazione del sonno e isolamento per settimane in celle con le pareti coperte di fango congelato, sempre sul filo della morte per fame.
Il minimo comune denominatore, quello che apriva le porte dell'inferno, era l'essersi rifiutati di voler rimanere in Unione Sovietica. Aver richiesto di tornare in Spagna, pur sapendo cosa li aspettava, oppure di emigrare in altri paesi. Questo era considerato, dalle autorità sovietiche, come un segno di disaffezione politica e di tradimento. Tanto più che la stessa direzione del Partito Comunista Spagnolo, con a capo Dolores Ibarruri, era favorevole a che si fucilassero piuttosto che permettere loro di abbandonare l'Unione sovietica, facendo ad essa una cattiva propaganda.

mercoledì 20 luglio 2011

e spararono al cantautore

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Quello che segue è un articolo di Alberto Piccinini, uscito su Alias del 9 Aprile scorso. Parla di un argomento spesso riproposto, quello dei "processi ai cantautori" negli anni settanta, in particolare di quello che all'epoca fece più scalpore, a carico di Francesco De Gregori. Se ne parla -  quando se ne parla - sempre con quel misto di condanna, dissociazione e pentimento. Insomma, facendone, come è di prammatica in questi anni, l'autocritica ... degli altri. Qui, invece, si racconta la storia!


Passò alla storia come il «processo a De Gregori». Processo politico, s'intende. Venerdì 2 aprile 1976, al Palalido di Milano, un centinaio di persone fermò a metà il concerto sold out del cantautore romano di fronte a seimila spettatori. Rimmel, uscito l’anno prima, era stato in classifica 40 settimane, vendendo la cifra record di 500.000 copie. Proiettato in una nuova dimensione di popolarità, De Gregori aveva un album in uscita: Buffalo Bill. La tournée  la organizzava il Piccolo Teatro di Milano. Sullo sfondo c'è la Rca, la casa discografica del cantautore. Il biglietto costa 1500 lire. Prima del concerto della sera, accanto al botteghino, vengono distribuiti volantini «contro i padroni della musica» firmati da Stampa Alternativa: «Decine di migliaia di incazzati hanno capito che i Palalido sono i loro Vietnam, i loro campi di battaglia». Soltanto due mesi prima, nello stesso Palalido, uno spettrale Lou Reed (2000 lire) è stato costretto a interrompere il concerto tra lanci di sassi e bottigliette. Per evitare altri attriti si aprono precauzionalmente le porte a tutti. E il concerto si svolge con le luci accese.
«Vedevo la gente che applaudiva appena salivo sul palco, cosa mai successa prima. – è il ricordo De Gregori raccolto dal giornalista Claudio Bernieri – Poi c’erano quelle luci accese». Dopo una prima interruzione («gli strapparono la chitarra di mano», ricorda il batterista Carlo Marcovecchio), e la lettura dal palco di un comunicato contro l’arresto di un compagno a Padova, il concerto riprende. De Gregori e la sua band finiscono come possono, poi tornano nei camerini.
E’ qui che va in scena il processo vero e proprio. I «verbali» li scoviamo nella cronaca che il giorno dopo uscì sul “Corriere della Sera”: “«Quanto hai preso stasera?» urla un giovane. «Credo un milione e due... – sussurra con un filo di voce De Gregori -, ma poi c'è la SIAE...». «Se sei un compagno, non a parole ma a fatti, lascia qui l'incasso», ribattono”.
Fu il critico Mario Luzzatto Fegiz a firmare il pezzo. Calcò la mano: “Al microfono si alternano volti lombrosiani e giovani che sembrano colti da raptus isterico...”. Secondo i testimoni un vero e proprio processo neppure ci fu: il Palalido si stava svuotando, il diverbio tra i contestatori e De Gregori si sarebbe svolto tra il sottopalco e i camerini.
D’altra parte la cronaca, pure romanzata, coglie bene la centralità drammatica che quell’evento avrà nella storia successiva della canzone italiana. Continuiamo a leggere: “Prende la parola un uomo con la barba bianca, d'età indefinibile: «La rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!». De Gregori ascolta pallido e silenzioso. Con scarsa convinzione mormora al microfono: «Forse sono una vittima dell'industria...»”.
Di chi erano quelle voci? In un’intervista televisiva recente De Gregori chiedeva che almeno si facessero vedere. A quasi 40 anni di distanza. E’ rimasto qualche nome. Gianni Muciaccia, punk della prima ora, chitarrista dei Kaos Rock, poi perso nei gorghi del socialismo milanese. C’era sicuramente Marcello Baraghini, che dell’arcipelago di Stampa Alternativa era il volto più noto. Accetta di rovistare nei ricordi di un evento del quale sono rimasti, dice, solo pochi flash: “No, non ero io quello di Majakowskij. – sorride - Non avevo la barba bianca. Penso fosse Gianluca, che adesso non c’è più. Gianluca faceva teatro, guidava un furgone col quale abbiamo girato il mondo e la cosa più incredibile è che non aveva mai documenti con sé. Scendeva, parlava con le guardie, ripartiva”. “Non ricordo molta violenza quella sera. – riprende Baraghini – Esasperazione, sì. C’erano nel nostro gruppo delle frange accese, autonomi, che però in genere riuscivamo a calmare. Naturalmente una parte del pubblico si incazzò. Ricordo bene De Gregori, stizzito. Avrebbe potuto spiegarsi, ma non lo fece”.
«Mancava solo l’olio di ricino», fu invece il commento del cantautore riportato ancora dal Corriere. «La contestazione è quando tu prendi una persona e gli contesti delle cose (…) Un’aggressione è quando io ti prendo a cazzotti e ti dico che sei stronzo… Quella fu un’aggressione, cioè non ci fu nessun dialogo».
Quest’ultimo commento lo ha raccolto un cronista/musicista che allora collaborava con L’Unità, Claudio Bernieri. Ne fece un libro, Non sparate sul cantautore - preziosa raccolta di interviste a cantautori della metà degli anni ’70, da tempo introvabile, che il prossimo settembre verrà ripubblicato dalle edizioni Vololibero con allegati i nastri originali delle conversazioni. “C’era quest’area libertaria, moralista se vuoi – ricorda oggi Bernieri – Riteneva che si dovesse suonare a un prezzo politico, saltare l’intermediazione di quelli che chiamavano i padroni della musica. Erano cani sciolti. Andavano a vedere con quale macchina arrivavano a suonare i musicisti, facevano i conti in tasca”.
Moralismo a parte, l'idea della «musica gratis» non godrà mai di grande considerazione, né allora e né mai. Sull'utopia, pericolosa o naif che fosse, vinse fin da subito una specie di necessario realismo mercantile. Per due anni in Italia non si fecero grandi concerti. Poi, negli anni '80, si ricominciò daccapo. Su quelle contestazioni Bernieri ha un'altra idea: “Per capirci, è come se oggi si riuscisse a impedire il download gratuito dalla Rete. Che succederebbe?”.
Ancora. Chi ce l'aveva con De Gregori, e perché? Re Nudo e Andrea Valcarenghi avevano chiesto al cantautore di organizzare il concerto di Milano, ricevendo in cambio un garbato rifiuto (da qui la scelta di coinvolgere il Piccolo Teatro). Con Lotta Continua, poi, c'era stato uno scontro a proposito del rimborso chiesto in occasione di un concerto militante. Il giornale sfotteva così: «E’ venuto compiendo un pericoloso viaggio da Roma centro alla periferia di Roma tale De Gregori, pare celebre, il quale ha chiesto 400.000 lire per esibirsi, e ha preso 400.000 pernacchie». De Gregori, da parte sua, si difese con un lettera al giornale facendo notare ai compagni che «la musica è ancora in mano ai Tony Santagata, e non ai proletari».
E c’era Muzak, il mensile di musica e politica diretto da Giaime Pintor. La stroncatura di Rimmel (e dell’ermetico canto degregoriano) comparsa su quelle colonne a firma dello stesso Giaime è rimasta celebre: «Non è un caso da sottovalutare che la fortuna dell'ermetismo dati anni '30-'40, e cioè si collochi programmaticamente come isolamento dal fascismo, isolamento nell'attività pubblica e nella poesia come risposta "privatistica" alla retorica mussoliniana. (...) Una poetica ermetica, dell'intuizione lirica, è una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra, arretrata negli anni '70, dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrici di valori positivi e rivoluzionari».
Più prosaica e velenosa risultò tuttavia una cronaca coeva di Enzo Caffarelli per Ciao 2001, Raccontava il De Gregori privato così: «Lo guardo sbigottito mentre gioca a poker e beve champagne all’Hotel Belle Vue di Rimini, categoria lusso, una stanza tutto escluso 38.000 lire a notte, mentre cala il sipario. Ma tutto questo Alice non lo sa». Fu quella che colpì nel segno, eccitando il moralismo dell'epoca?
Per uno scherzo del destino la maniera dylaniana di De Gregori, nei testi e nello stile, si allargò in
quegli anni fino a investire il volto pubblico del cantautore, il difficile rapporto con il tumultuoso «vogliamo tutto» di quegli anni. Sembrava la storia di quell'«immondiziologo» che nel 1965 si era messo a frugare nella spazzatura di Dylan per scoprire le prove del tradimento. Dylan era scappato a gambe levate verso il rock elettrico, nascosto giorno e notte dietro i Ray Ban scuri. «Dylan - attaccò
una volta Giaime Pintor - è solo il ripiegarsi su se stesso dell'intellettuale giovane americano». Il paradosso lo spiegò una volta lo stesso De Gregori: «Dylan non è mai stato inquadrabile politicamente al contrario di me che invece, quando mi chiedono per che partito voto, non ho nessun problema a dirlo». Dopo quella brutta serata, il cantautore minacciò di smettere del tutto, di non cantare più. Per più di un anno non suonò in pubblico. Lo avvistarono a fare il commesso in una libreria di Trastevere.

- Alberto Piccinini -

martedì 19 luglio 2011

Rimpianti

Era la notte che liberarono Palermo. Franco era sui tetti con un mitra. Cercava disperatamente di scendere. Finalmente trovò un abbaino aperto, e riuscì ad intrufolarsi in un appartamento. Lo accolse un tale in giacca da camera che, visto il mitra, si inginocchiò e cominciò a piagnucolare: non mi ammazzare, ti dò tutto quello che vuoi! Franco mosse lo sten e ringhiò: voglio solo uscire di qui. Il giorno dopo lesse sul giornale che era entrato in casa dell'uomo più ricco di Palermo. Quando me lo raccontava, quarant'anni dopo, si mordeva ancora le mani.

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Era oggi!

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Un uomo, in divisa da guardia d'assalto - niente giacca, solo la camicia, punta il suo fucile, trincerato dietro una barricata di cavalli morti, su uno di essi si vede bene l'elmetto, ancora assicurato ai finimenti dell'animale. E' il 19 Luglio del 1936 - 75 anni esatti da oggi - a Barcellona, poche ore dopo il colpo di stato militare che ha appena scatenato la guerra civile. L'immagine, scattata da Agustì Centelles diventò da subito un'icona di quell'avvenimento, anche attraverso la sua diffusione su giornali internazionali, come il Newsweek. Niente nome, però, sulle didascalie dell'epoca. Solo "un uomo dietro una barricata", oppure "un difensore della Repubblica".
Ecco, oggi un nome ce l'ha, e anche una storia che non si limita a quella sparatoria, avvenuta 75 anni fa fra calle Roger de Lluria e calle Diputaciòn. Si chiama - o meglio, si chiamava - Mariano Vitini Flórez, e quel giorno aveva 28 anni. Asturiano di nascita, si era trasferito a Barcellona durante la Seconda Repubblica per arruolarsi nelle Guardie d'Assalto. Dopo le giornate di luglio, combatterà prima a Valencia e poi nella difesa della Ciudad Universitaria di Madrid. Finita la guerra, non creò alcun problema al regime franchista. Si guadagnò la vita lavorando in una fabbrica di ferramenta. Sapeva dell'esistenza della foto e, cinque anni prima di morire, riuscì a vederla pubblicata su un libro a cura della Generalitat Catalana. Non gli piaceva parlare della guerra, diceva sempre di averci perso due fratelli. E, a dirla tutta, i due fratelli sono più famosi di lui. Fucilati entrambi dal regime franchista fra il 1944 e il 1945. José aveva 33 anni e dopo aver combattuto nella guerra civile, aveva partecipato alla liberazione di Parigi. Tornò in Spagna a cercare di continuare la sua opera. Arrestato per aver organizzato un attacco alla delegazione della Falange, a Madrid, venne fucilato. Luis, il più giovane, aveva 21 anni quando fu catturato mentre assaliva una fabbrica di birra per rastrellare fondi per procurarsi le armi. Anche lui venne fucilato. A Parigi c'è una strada intitolata a loro.

(sotto, la versione “integrale” della foto: Centelles la tagliò ritenendo che senza l’uomo in borghese la fotografia avrebbe avuto più forza)

lunedì 18 luglio 2011

Crisi d’identità

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Undici anni fa, uno scrittore di nome JT LeRoy sconvolse il mondo letterario di lingua inglese. Figlio diciannovenne di una prostituta per camionisti, LeRoy pubblica un romanzo semi-autobiografico, dal titolo "Sarah", che racconta la sua esperienza come una "lot lizard" (prostituta che lavora presso le stazioni di servizio) sulle strade della West Virginia. Il libro conquistò rapidamente sostenitori di spicco, tra cui Winona Ryder e Madonna. Ossessivamente auto-reclusorio, LeRoy si lasciava intervistare solo per telefono. Rifiutava di fare letture pubbliche, lasciando che fosse uno dei suoi famosi ammiratori a farle per lui. Poi ci fu un secondo libro, un contratto per fare un film dal primo libro, entro il 2005, e il critico letterario Dave Eggers che decise di consegnare alla posterità il giovane scrittore: I due romanzi di Leroy sarebbero stati "tra i libri americani più influenti degli ultimi dieci anni."
Meno di un anno più tardi, LeRoy si rivelò essere un falso: Laura Albert, una donna abbastanza vecchia per essere la madre di LeRoy, confessa, non solo di aver creato l'alter-ego ma di non aver nemmeno mai visitato la West Virginia. La compagnia cinematografica che aveva opzionato il romanzo intenta una causa per frode alla signora Albert, e la vince. Per tutto il processo, la signora Albert difende il suo diritto ad utilizzare un "nom de plume", sostenendo che il suo lavoro deve essere letto come facente parte di una lunga ed illustre serie di testi scritti sotto pseudonimo.
Osserva Carmela Ciuraru nel suo libro "Nom de Plume", un saggio sulla storia segreta degli pseudonimi: non c'è niente di nuovo nel mascheramento letterario.
"Il curioso fenomeno della pseudonimia, ha raggiunto il suo picco nel diciannovesimo secolo" scrive  "e già fin dalla metà del sedicesimo era abbastanza comune che un'opera venisse pubblicata senza il nome del suo autore." E' improbabile, però, che qualcuno, prima della signora Albert, abbia arruolato il fidanzato della sorellastra in modo da farlo passare come LeRoy nelle apparizioni pubbliche.
La lunga storia degli pseudonimi nella letteratura non manca di esercitare un suo particolare fascino. "Se la persona autoriale è un costrutto, non è mai del tutto autentico (non importa quanto sia materiale autobiografico) - scrive la Ciuraru -  "per cui avviene che lo scrittore pseudonimo porta questo concetto ad un altro livello, inventando il costrutto di un costrutto". L'autore fittizio , in altre parole, è falso allo stesso modo delle finzioni che lui o lei produce.
La ricerca della Ciuraru è impressionante. Il genere qui è la biografia letteraria, piuttosto che la critica letteraria, e si svolge attraverso sedici vivaci ritratti di autori pseudonimi.
Ovviamente, non si priva del  piacere di ricordare che Samuel Clemens, il suo pseudonimo, lo preleva dalla sua esperienza sulle riverboats (navi fluviali), dove "due braccia, ovvero dodici piedi, veniva considerato sicuro per la navigazione." Quando il suono dello scandaglio indicava una  profondità di due braccia, l'equipaggio doveva gridare "Mark Twain." Clemens ha detto che una volta aveva conosciuto un capitano di battello a vapore che scriveva per un giornale, il "New Orleans Picayune", e firmava i suoi articoli Mark Twain. Dopo che l'uomo è morto, racconta Clemens, mi sono appropriato del suo "nome di battaglia".
Il libro racconta anche la storia di Alice Sheldon, che divenne un influente autore di fantascienza con lo pseudonimo di James Tiptree Jr., un nome in cui si era imbattuta leggendo l'etichetta di un barattolo di marmellata. E impariamo che Eric Blair, presentò un elenco di potenziali pseudonimi al suo editore, dopo che il suo primo libro venne accettato: "H. Lewis Allways", "P.S. Burton", "Kenneth Miles", e il suo preferito, "George Orwell".
"Nom de Plume" non dice molto in termini di teoria generale, considerato il gruppo storicamente e culturalmente eterogeneo preso in esame, da Aurore Dupin, che scrisse nel 19° secolo in Francia col nome di George Sand, alla scrittrice danese Karen Blixen, la baronessa Blixen di Rungstedlund, che scrisse col nome di Isak Dinesen a metà del secolo ventesimo. Viene tracciata una linea - laddove si intende che l'uso di uno pseudonimo è una questione personale - che parte dalla famiglia Brontë, con la decisione delle sorelle di pubblicare come fratelli e col cognome "Bell".on il cognome di Bell.
Il risultato è una storia che spesso presenta lo pseudonimo come sintomo o come ritrosia: un rifugio per coloro che sono affetti da insicurezza patologica. Un trattamento "diagnostico" che condanna i profili ad una forma prevedibile, e tende ad appiattire le personalità degli scrittori. 
Quello che non emerge, è il mercato ed il libro come merce, salvo quando viene fatta la considerazione che "Anche se la pratica di pseudonimia è ancora forte, ha perso il fascino di un tempo. Utilizzare uno pseudonimo oggi, è spesso una scelta commerciale,non più guidata da occultamento genuino o reticenza".
Ma, del resto, è sempre stato il mercato - in un modo o in un altro - a rendere la vita complicata a coloro che hanno scritto sotto pseudonimo. I lettori sono anche ... clienti e desiderano avere a che fare con autori che siano autenticamente sé stessi. Basta pensare a come si incazzava il matematico Charles Dodgson, quando, per strada, dopo che aveva venduto un po' troppe copie di quel libro che parlava di una ragazzina di nome Alice, incominciò ad essere chiamato Lewis Carroll!

venerdì 15 luglio 2011

Noir

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Il delitto e la produzione
Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare]. Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione […]. Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza? Il Mandeville, nella sua Fable of the Bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione […]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonché il Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e più onesto degli apologeti filistei della società borghese. (K. Marx)

giovedì 14 luglio 2011

Per farla finita col “popolo”

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Nel corso del XX secolo il socialismo, nel suo significato, venne trasformato da una dottrina e indirizzo associati all'emancipazione della classe operaia in una dottrina e indirizzo associati al nascente potere delle élite nazionaliste ed antimperialiste delle zone economicamente meno sviluppate del mondo.
Il punto di partenza fu rappresentato dalla presa del potere in Russia nel 1917 da parte di una élite la quale aveva ereditato la sua ideologia dal movimento operaio, ma che in pratica usò lo stato per far sviluppare economicamente la Russia e trasformarla in un potere che sfidò il dominio mondiale dell'America, Gran Bretagna e Francia. Come tale, essa fornì un modello che attrasse le élite modernizzanti in altri paesi che soffrivano di un'arretratezza economica e della dominazione degli stati capitalisti industrialmente avanzati dell'Occidente.
Il guaio fu che questa élite continuò a usare il linguaggio e la terminologia del movimento operaio, con la quale essa un tempo era stata associata. In questo modo, descrissero la loro conquista del potere come una "rivoluzione dei lavoratori" ed il loro regime come uno "stato dei lavoratori", la prima espressione del movimento operaio internazionale, che i lavoratori ovunque avevano il dovere di sostenere, e l'accumulazione del capitale, che loro effettuarono sotto gli auspici dello stato, non come capitalismo di stato, quale fu, ma come "socialismo".
Marx, il quale osservò che quando si studia la storia non bisognerebbe analizzare i movimenti sociali e politici da ciò che loro dicono di se stessi, ma dai loro concreti risultati, sarebbe stato il primo a comprendere (se non ad apprezzare) come il socialismo, anzi le sue proprie teorie, fosse diventato lo stendardo sotto il quale fu combattuta una lotta completamente differente.
La rivoluzione inglese degli anni quaranta del XVII sec. fu condotta sotto un'ideologia derivata dal Vecchio Testamento, quella francese degli anni novanta del XVIII sec. sotto un'ideologia derivata dai tempi dei Romani. La rivoluzione russa, che fu l'equivalente di quelle rivoluzioni antifeudali, fu condotta sotto un'ideologia derivata dal movimento operaio, ma essa non rappresentò il tentativo di realizzare il socialismo più di quanto la rivoluzione inglese lo fu di realizzare la Nuova Gerusalemme e quella francese la Repubblica romana.
Sebbene fu Mao a sostituire lo slogan "Proletari di tutti i paesi, unitevi" con quello "Popoli oppressi di tutto il mondo, unitevi", le radici di questo cambiamento di prospettiva risalgono a Lenin.
La "fase suprema" di Lenin
Nel suo esilio in Svizzera, nel mezzo della prima guerra mondiale, Lenin scrisse un pamphlet dal titolo L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. In esso, egli sostenne che, attraverso un processo che si era completato a cavallo del secolo, il capitalismo aveva modificato il suo carattere. Il capitale industriale e quello bancario si erano fusi dando luogo al capitale finanziario e il capitalismo concorrenziale cedette al capitalismo monopolistico, il quale, attraverso trust, cartelli e altri accordi monopolistici, dominava la produzione. Dovendosi confrontare in casa propria con profitti calanti, questi monopoli si trovarono costretti dalle condizioni economiche a esportare capitali investendoli nelle zone economicamente arretrate del mondo, dove potevano essere realizzati profitti più elevati. Quindi, continuò Lenin, iniziò la lotta tra i più avanzati paesi industrializzati per assicurarsi le colonie dove tali "sovra-profitti" potevano essere realizzati.
Lenin esagerò sia il grado di concentrazione monopolistica a cui era giunto il capitalismo, sia la differenza tra il tasso di profitto realizzato in patria comparato con quello delle aree economicamente arretrate del mondo. Ma furono le implicazioni politiche della sua teoria che dovettero dimostrarsi più nocive per il movimento operaio.
Quando, dopo il 1917, Lenin divenne il capo del regime bolscevico in Russia, questa teoria fu diffusa per sostenere che i paesi imperialisti stavano sfruttando le popolazioni delle aree arretrate che loro controllavano e che anche una parte della classe operaia di questi paesi beneficiava dei sovra-profitti realizzati con lo sfruttamento imperialista, sotto forma di riforme sociali e salari più alti.
Tutto ciò era insensato nei termini dell'economia marxiana, la quale non misura il livello di sfruttamento dall'essere i salari più alti o più bassi, ma dal riferimento alla quantità di plusvalore prodotto in relazione al salario pagato. Utilizzando questa misura, i lavoratori dei paesi avanzati erano più sfruttati di quelli delle colonie, a dispetto dei loro salari più alti, poiché producevano più profitto per lavoratore.
La teoria diffusa da Lenin fece della lotta nel mondo non una lotta tra la classe internazionale dei lavoratori e quella dei capitalisti, ma tra stati imperialisti ed antimperialisti. La lotta di classe internazionale predicata dal socialismo fu sostituita da una dottrina che predicava una lotta tra stati.
La stessa rivoluzione russa si svolse in un contesto antimperialista. Ciò che tutta l'analisi di Marx sottolineava era che il movimento operaio avrebbe prima trionfato nelle aree economicamente avanzate del mondo, non in aree economiche relativamente arretrate come la Russia. Lenin motivò questa contraddizione sostenendo che Marx aveva descritto la situazione che si presentava nella fase preimperialista del capitalismo, mentre, nella fase imperialista che si era affermata dopo la sua morte, lo stato capitalista era diventato così forte che la rottura non avrebbe potuto aver luogo in un paese capitalisticamente avanzato, ma nel più debole stato imperialista. La Russia zarista rappresentava l'anello più debole nella catena dei paesi imperialisti e questo spiegava perché proprio lì ebbe luogo la prima "rivoluzione dei lavoratori".
Ciò equivaleva a dire che la rivoluzione russa era la prima rivoluzione antimperialista, e in un certo senso essa lo fu. La Russia fu il primo paese a sfuggire alla dominazione dei paesi capitalisti occidentali e a seguire un modello di sviluppo economico che si serviva dello stato per il processo di accumulazione interno invece di contare sull'esportazione di capitale da altri paesi.
Nei primi tempi del regime bolscevico, quando la Russia dovette affrontare la guerra civile e l'intervento esterno delle potenze capitaliste occidentali, Lenin comprese che questa era una carta che egli avrebbe potuto giocare per cercare di salvare il suo regime. Giocare la carta antimperialista significava appellarsi alle "tribolanti masse" dell'Asia, non per realizzare il socialismo, ma le loro proprie rivoluzioni antimperialiste. I paesi "super-sfruttati" dovevano essere incoraggiati a cercare l'indipendenza, poiché questo avrebbe indebolito gli stati imperialisti che stavano facendo pressione sulla Russia bolscevica.
Questa strategia fu presentata al movimento operaio occidentale come una maniera per provocare una rivoluzione socialista nei loro paesi. Private dei loro sovra-profitti, le classi dominanti dei paesi imperialisti non sarebbero state più capaci di corrompere i lavoratori con riforme sociali e salari elevati e perciò questi avrebbero abbandonato il riformismo per abbracciare la rivoluzione.
Dopo la morte di Lenin nel 1924, questa strategia di costruzione di un "fronte antimperialista" contro l'Occidente fu continuata dai successori. Poiché essa insegnava che l'intero popolo di un paese colonizzato ha un comune interesse nell'ottenere l'indipendenza, p.e. un proprio stato, essa attrasse ideologi e politici nazionalisti di questi paesi.
Loro si rivolsero a tutti gli abitanti del paese e cercarono di condurli ad una lotta comune per ottenere l'indipendenza. Come risultato, in questi paesi il "socialismo" venne associato con un nazionalismo militante piuttosto che con l'internazionalismo proletario, quale esso originariamente era stato. La lotta politica in questo caso non venne vista come una lotta tra la classe operaia e quella dei capitalisti, ma come una lotta di tutti gli elementi patriottici – operai, contadino e capitalisti insieme – contro una manciata di elementi non patriottici traditori, i quali si sarebbero venduti agli imperialisti stranieri.
Mentre in Europa, nel Nord America e in parti dell'America latina, il socialismo fu un movimento per l'emancipazione della classe operaia, rappresentato da varie e differenti correnti, in Asia e in seguito in Africa e nel resto dell'America latina indicò un movimento nazionalista antimperialista. Il marxismo, in senso proprio, non è mai realmente esistito in molti di questi paesi. Ciò che passò per marxismo fu in realtà il leninismo, il quale si rivolgeva a intellettuali rivoluzionari modernizzatori piuttosto che ai lavoratori. È stato solo verso la fine di questo secolo che gruppi di lavoratori in questi paesi hanno compreso che il leninismo e la sua ideologia antimperialista non ha nulla a che fare col socialismo. Ma il danno è stato comunque fatto. Per milioni di lavoratori in queste aree del mondo socialismo significa ancora nazionalismo e capitalismo di stato, che molti di loro considerano ancora come qualcosa di positivo piuttosto che una barriera alla cooperazione della classe operaia oltre le frontiere, la quale è una condizione essenziale per il socialismo.
Attraverso l'influenza che lo stato capitalista russo ebbe su una parte del movimento operaio dei paesi occidentali, questo è anche il significato che venne ad avere per molti militanti della classe operaia di questi stessi paesi. I dirigenti russi usarono i partiti comunisti degli altri paesi come strumenti ausiliari della loro politica estera, la quale era basata sugli interessi strategici della Russia come di una promettente potenza capitalistica (di stato). Ciò che era considerato "progressista" era ciò che coincideva con gli interessi della politica estera della Russia.
Durante gli anni cinquanta, la Russia si mosse verso una politica di accettazione dello status quo in accordo con l'Occidente, conosciuta come "coesistenza pacifica". I leninisti cinesi, che erano giunti al potere con Mao nel 1949, espressero differenti interessi di stato e cercarono, così, di diventare i campioni dell'"antimperialismo" al posto della Russia.
Le spaccature che si produssero nel movimento comunista mondiale non furono così provocate, come superficialmente potrebbe sembrare, dalle differenze circa le tattiche che il movimento operaio avrebbe dovuto perseguire, ma su quale cosiddetta politica estera socialista – della Russia o della Cina – si sarebbe dovuto sostenere. Questa non fu affatto una disputa che riguardava gli interessi della classe operaia, ma una disputa tra stati, nella quale i lavoratori erano chiamati a scegliere di quale politica estera desideravano essere le pedine.
La teoria leninista dell'imperialismo racchiudeva i semi di un tale ignominioso risultato sin dall'inizio, poiché essa indicò come più importante a livello mondiale non la lotta di classe ma quella tra stati, tra cosiddetti stati antimperialisti e progressisti e stati cosiddetti imperialisti e reazionari.* Ciò rappresentò una deviazione pericolosa dalla lotta di classe e condusse i lavoratori a sostenere l'uccisione nelle guerre di altri lavoratori nell'interesse dell'uno o dell'altro stato e della sua classe dirigente.
*Ciò ha condotto la sinistra, in questo secolo, a farsi paladina sino all'inverosimile di paesi con sistemi sociali ed a volte tradizioni culturali ultrarretrati.

(Traduzione da The Socialist Standard, agosto 1998)

mercoledì 13 luglio 2011

Sexby

sexby

Dell'opuscolo di Edward Sexby, "leveller" inglese, a proposito del tirannicidio, "Killing No Murder", ne avevo già parlato! Quella che segue, è la prefazione, scritta da Guy Debord, all'edizione francese pubblicata da "Champ Libre" nel 1980, col titolo "Tuer n’est pas assassiner". Chi non ha troppi problemi con l'una o l'altra lingua, può scaricare liberamente il libro in formato PDF.
Qui, quella originale in lingua inglese.
E qui, quella tradotta in francese.

Note de l’éditeur pour "Tuer n’est pas assassiner" de Edward Sexby (par Guy Debord)

Il pamphlet di Sexby è uno degli scritti più famosi che abbia mai prodotto la rivoluzione inglese, tra il 1640 e il 1660. Si tratta, dopo le opere di Machiavelli, La Boétie e qualcun altro, di un classico della critica del dominio. La sua originalità risiede innanzitutto nel fatto che è esplicitamente diretto, a differenza degli altri, contro un tiranno con tanto di nome, che egli esorta ad uccidere il prima possibile, con qualsiasi mezzo; e, inoltre, dal fatto che questo tiranno particolare è il prototipo della serie principale serie di moderni capi di stato illegittimi, di recuperatori che hanno stabilito il proprio potere sulla repressione di una rivoluzione sociale di cui avevano preso la direzione: in questo senso Il breve regno di Cromwell prefigura sia quelli di Robespierre o di Lenin, che quelli dei loro successori perennemente insicuri, Bonaparte come Stalin e tutti i loro epigoni.
"Killing no murder", stampato nel 1657 nei Paesi Bassi, mischia l'analisi più affidabile di Machiavelli (abilmente attribuite, e non senza motivo, al nemico da abbattere, come unica guida della sua condotta) al linguaggio biblico che ha caratterizzato la rivoluzione borghese in Inghilterra, come più tardi lo stile dei "Romani risorti" è diventato la firma della grande rivoluzione francese. Il tono di questo opuscolo è all'origine di tutta una corrente di letteratura inglese a venire, l'unica che non trovi un equivalente all'estero, e che va da Swift a Junius, e senza dubbio arriva fino a quell'esercizio estetico di umorismo del Thomas de Quincey de "L'assassinio considerato una delle belle arti". Sexby venne tradotto in francese, nel 1658, da Carpentier de Marigny, un frondista della banda del cardinale de Retz, il quale si trovava allora, anche lui, in esilio dopo la sua fuga dalla prigione di Nantes, e giudicava opportuno applicare a Mazzarino il ragionamento che condannava Cromwell. Ristampato in Francia col titolo "Tuer n’est pas assassiner", a partire dal 1793, e di nuovo nel 1804, quando la polizia di Bonaparte lo fece velocemente sparire. Il testo è stato poi rieditato due volte, senza venire sequestrato, nelle opere di Charles Détré (Les Apologistes du Crime, Paris, 1901) e di Olivier Lutaud (Des Révolutions d’Angleterre à la Révolution française, La Haye, 1973).
Si può certo dire che un libro che tratta del rapporto naturale del cittadino con il tiranno ha perso molta della sua attualità, a causa dei recenti progressi della società mondiale, e a causa della quasi totale scomparsa del cittadino. Ma è anche ragionevole pensare che compensa questa perdita, e non solo, con la crescita cancerosa della tirannia: la tirannia di oggi, così insolentemente sovrasviluppata da poter spesso farsi riconoscere il titolo di Protettore della libertà, così completamente impersonale, da potersi facilmente incarnare nella persona di una singola vedette del potere, questa tirannia che sceglie come i suoi soggetti devono essere trattati e perché sono malati, che fissa il triste modello di habitat ed il grado esatto di temperatura che vi regnerà, l'apparenza e il gusto che devono piacere in un frutto, e la dose appropriata di chimica che dovrà contenere, e che infine si è dato il potere di sfidare una verità così luminosa come il sole stesso, e la testimonianza dei vostri poveri occhi, fino a farvi ammettere che alle dieci del mattino sia già bell'e mezzogiorno.
Il colonnello Sexby era un ufficiale nell'esercito che il Parlamento britannico mise insieme per la guerra civile contro il re. Quando il popolo, l'esercito rivoluzionario ed il comando si affrontarono circa quello che doveva essere il risultato sociale della loro vittoria, Sexby si schierò col partito dei"Levellers", che si opponeva alla proprietà esistente ed esigeva per tutti gli inglesi il diritto all'auto-governo. Durante il "Dibattito dell'Esercito", tenutosi a Putney in ottobre-novembre 1647, come delegato di reggimento, fu tra quelli che più violentemente si oppose a Cromwell: "Ci sono molte persone senza proprietà che, onestamente, hanno lo stesso diritto al voto che hanno tutti coloro che dispongono di grandi proprietà. Francamente, signore, a voi che volete rimandare a dopo questa questione e passare ad un'altra, mi permetto di dire - e faccio appello a tutti - che nessun altro problema può essere risolto prima di questo, perché è su questa base che abbiamo preso le armi, ed è questa base che manterremo. Ora, per queste lacrime, per queste divisioni che io provecherei: sì, come un individuo isolato, se così fosse, potrei sdraiarmi per terra ed essere calpestato, ma si dà il caso che io sia il delegato di un reggimento ... "
Dopo la sconfitta definitiva dei Levellers, avvenuta due anni dopo, si recò in Francia come agente del Commonwealth inglese, per infiltrarsi nella Fronda, e cercare di radicalizzarle. Ispiratore della frazione repubblicana estremista, "L'ORME", a Bordeaux nel 1652-1653, va sicuramente oltre le istruzioni ricevute, e fa adottare agli Orrnistes la piattaforma dei Levellers. La Fronda è sconfitta, e Cromwell intanto era diventato Lord Protettore di una Repubblica dell'alta borghesia mercantile, e Sexby torna dall'esilio per lottare contro di lui. Nel 1657, legato al complotto di Sindercombe, pubblica sotto lo pseudonimo di William Allen, "Killing no murder". Rientrato clandestinamente in Inghilterra per unire la pratica alla teoria, viene arrestato dall'efficiente polizia di Cromwell, che lo cattura mentre è in possesso di una parte della tiratura del suo pamphlet. Imprigionato nella Torre di Londra, vi morirà nello stesso anno, in condizioni rimaste molto oscure. Le autorità sostennero allora, come poi faranno in Russia, che era morto pazzo. Ai nostri tempi, questo genere di suicidio si è verificato nelle carceri della Germania Federale. Cromwell morirà l'anno successivo, due anni prima della sua Repubblica, e di morte naturale: si diceva che dopo aver letto questo opuscolo, nessuno lo avesse mai più visto sorridere. ("Ha bisogno di altre guardie per difendersi dai suoi ... perché ha oppresso e abbandonato i poveri, perché ha preso con la violenza una casa che non aveva costruito.")
Il colonnello Sexby ha combattuto, e sempre dalla parte più estremista, nelle rivoluzioni di due regni. Egli fu tra coloro che, ad ogni svolta della storia, si ritrovano ed osano denunciare il cambiamento delle cose che hanno conservato lo stesso nome. Ricorrendo, secondo i tempi che cambiano, a mezzi diversi, è rimasto fedele fino alla fine alla "buona vecchia causa" per la quale aveva preso le armi. Questo è stato Edward Sexby, e questo è, riportato in debita forma per esecutori futuri, il suo testamento.

- Guy Debord -

martedì 12 luglio 2011

Malalengua

PACO IGNACIO TAIBO II - 2

Fronte di Guadalajara - Marzo 1937

Era un italiano piccolo, una specie di gnomo, sempre infreddolito e molto competente in fatto di calcio. Il suo potere l'aveva nella lingua, sapeva insultare come nessun altro, non riusciva a pronunciare mezza dozzina di parole senza infilarci una parolaccia. Il suo vero nome era Piero, veneziano, faceva il calzolaio e aveva fatto l'annunciatore alla radio fino a quando i fascisti non lo buttarono fuori a calci. Malabocca (Malalengua per gli spagnoli) cantava nel sonno. Fortunatamente dormiva poco e cantava a voce bassa.
Un giorno, era seduto in un capannello all'esterno, mentre il commissario di battaglione interrogava i primi prigionieri fascisti. Lì lo vide Carranza ( il narratore). E poi insieme andarono in mezzo ai prigionieri e Malabocca strappò loro tutte le informazioni apparentemente più inutili che potè: il nome del padre del  capitano della seconda compagnia, la via dove viveva il comandante...... Tutto ciò gli sarebbe poi servito per la guerra di parole.
Tra il 13 e il 18 marzo la direzione delle Brigate Internazionali mise in moto i suoi meccanismi di propaganda. Nel mezzo di una notte gli altoparlanti vennero portati vicino al fronte e, improvvisamente, di colpo, si cominciò a sentire "Bandiera Rossa". Proprio allora entrò in azione Malabocca. Malabocca si accostò al commissario e gli chiese di lasciarlo lavorare, che lui era stato annunciatore alla radio. Per un po' lesse i comunicati. Poi cominciò ad improvvisare.
"Arrenditi Mariani. Tua moglie è un po' troia, e non ti sta mica aspettando, ti ha già messo le corna con Alfredo il bottegaio...Leone , culattone, sarai anche capitano, però ti fai le reclute...Soldati della seconda compagnia, se avete freddo non preoccupatevi, il capitano Barone con gran piacere vi ficcherà un dito nel culo, lo fa già nelle retroguardie. Rosselli, sei lì? Hai sempre gli incubi? Ladrone, delinquente, che in paese imbrogliavi sul peso della carne. Fascista di merda, non ti vuole nessuno."
Era proprio scatenato, sembrava sapere i nomi di tutti gli ufficiali e soldati che si trovavano nelle file nemiche, sembrava conoscere di ognuno qualche storia tremenda. Il commissario Barontini, dopo aver assistito divertito sullo spettacolo per un quarto d'ora, gli si avvicinò e gli disse in tono perentorio: "Malabocca, leggi il comunicato, smettila di insultarli. Se continui così faremo in tempo a ucciderli tutti prima che si arrendano".
E Piero per qualche minuto ritornò ad attenersi al testo, ma c'era qualcosa più forte di lui: "Capitano Pierini, sei un porco, non ti lavi mai. Leoni, ti chiami ufficiale e ti togli le caccole dal naso in faccia ai soldati. Ti chiami ufficiale, culattone, e corri quando ti bombardiamo?" Barontini concluse la festa : -"Piero andiamo a dormire."
"Noi, i veri italiani, gli uomini del battaglione Garibaldi, per ora vi salutiamo. Tra un po' verremo a trovarvi di persona. E ricordatevi, cani fascisti, il capitano Aldo si ruba le gavette con il pranzo" Malabocca disse qualcosa del genere prima di lasciare che un disco, che qualcuno aveva miracolosamente recuperato, con "L'Internazionale" cantata in italiano, inondasse l'aria gelata del bosco. Alcune ore dopo, un commissario politico italiano, giunto da un altro settore del fronte, diede a Piero una bella lavata di capo.
Tra il giorno 15 e il giorno 18, il fronte di Guadalajara si stabilizzò. Questo fu il momento culminante della Guerra di Parole. E Malabocca lesse in quei giorni comunicati ufficiali, esortazioni alla resa, offerte di cento pesetas a ogni disertore (e, se voleva, la promessa di assegnarlo all'esercito repubblicano), richiami all'appartenenza di classe dei soldati delle divisioni fasciste; ma ogni volta che poteva, la sua lingua tagliente prendeva l'iniziativa. Le informazioni avute dai prigionieri risultarono di valore inestimabile. Raccontò la storia di un capitano nemico che si era cacato sotto durante un bombardamento, le malattie veneree di un ufficiale medico, i furti dell'intendenza militare, gli affari intimi di un tenente che non si lavava mai i piedi e aveva un pistolino lungo un centimetro, oltre alle vicende di un fascista genovese che era arrivato al fronte direttamente dal carcere, dov'era rinchiuso per furto. Le sue specialità erano la maldicenza, il pettegolezzo e l'insulto. Ed era potente!

- Paco Ignacio Taibo II - da "Arcangeli" -

lunedì 11 luglio 2011

Quixote

Quixote-Sancho

La Spagna e il donchisciottismo
di Albert Camus

1085, durante le guerre di riconquista, Alfonso VI, re attivo che ebbe cinque mogli di cui tre Francesi, prese la moschea di Toledo agli Arabi. Informato che questa vittoria era stata resa possibile da un tradimento, fece restituire la moschea ai suoi avversari, poi riconquistò con le armi Toledo e la Moschea. La tradizione spagnola brulica di tratti simili che non sono soltanto tratti d'onore, ma, più significativamente, delle testimonianze sulla follia dell'onore.
All'altra estremità della storia spagnola, Unamuno, davanti a chi deplorava i deboli contributi della Spagna alla ricerca scientifica, ebbe questa risposta incredibile di sdegno e di umiltà: "Spetta a loro inventare". Loro erano le altre nazioni. In quanto alla Spagna, aveva la sua scoperta propria che, senza tradire Unamuno, possiamo chiamare la follia dell'immortalità.
In questi due esempi, tanto nel re guerriero quanto nel filosofo tragico, incontriamo allo stato puro il genio paradossale della Spagna. E non è strano che all'apogeo della sua storia, questo genio paradossale si sia incarnato in un'opera essa stessa ironica, di un'ambiguità categorica, che doveva diventare il vangelo della Spagna e, con un paradosso supplementare, il più grande libro di un'Europa eppure intossicata dal suo razionalismo.
La rinuncia sdegnosa e leale alla vittoria rubata, il rifiuto testardo delle realtà del secolo, l'inattualità infine, eretta in filosofia, hanno trovato in Don Chisciotte un ridicolo e reale portaparola. Ma è importante notare che questi rifiuti non sono passivi. Don Chisciotte si batte e non si rassegna mai. "Ingegnoso e temibile", secondo la vecchia traduzione francese, è il combattimento perpetuo. Questa inattualità è dunque attiva, essa stringe senza tregua il secolo che rifiuta e lascia su di esso i suoi segni. Un rifiuto che è il contrario di una rinuncia, un onore che si inginocchia davanti all'umiltà, una carità che prende le armi, ecco ciò che Cervantes ha incarnato nel suo personaggio deridendolo con una derisione essa stessa ambigua, quella di Molière nei confronti dell'Alceste, e che persuade meglio di una predica esaltata. Perché è vero che Don Chisciotte fallisce nel secolo ed i valetti lo beffano. Tuttavia, quando Sancho governa la sua isola, con il successo che sappiamo, lo fa ricordandosi dei precetti del suo maestro di cui i due più grandi sono d'onore: "Fai gloria, Sancho, dell'umiltà del tuo lignaggio; quando si vedrà che non te ne vergogni, nessuno penserà di fartene vergognare"; e di carità: "...Che quando le opinioni saranno in equilibrio, che si ricorra piuttosto alla misericordia".
Nessuno negherà che queste parole d'onore e di misericordia hanno oggi un aspetto patibolare. Si sospetta di esse nelle botteghe di ieri; e, in quanto ai carnefici di domani, abbiamo potuto leggere sotto la penna di un poeta di servizio un bel processo del Don Chisciotte considerato come un manuale dell'idealismo reazionario. In verità, quest'inattualità non ha smesso di crescere e siamo giunti oggi al vertice del paradosso spagnolo, a quel momento in cui Don Chisciotte è gettato in prigione e la sua Spagna fuori di Spagna.
Certo, tutti gli Spagnoli possono richiamarsi a Cervantes. Ma nessuna tirannia non ha mai potuto reclamarsi al suo genio. La tirannia mutila e semplifica ciò che il genio riunisce nella complessità. In materia di paradosso, preferisce Bouvard e Pecuchet a Don Chisciotte che, dopo tre secoli, non ha smesso anche lui do essere esiliato tra noi. Ma quest'esilio, per lui solo, è una patria che rivendichiamo come nostra.
Celebriamo dunque, questa mattina, trecentocinquanta anni di inattualità. E li celebriamo con quella parte della Spagna che, agli occhi dei potenti e degli strateghi, è inattuale. L'ironia della vita e la fedeltà degli uomini hanno fatto sì che questo solenne anniversario sia posto tra noi nello spirito stesso del chisciottismo. Esso riunisce, nelle catacombe dell'esilio, i veri fedeli della religione di Don Chisciotte. È un atto di fede in colui che Unamuno chiamava già Nostro Signore Don Chisciotte, patrono dei perseguitati e degli umili, egli stesso perseguitato nel regno dei mercanti e delle polizie. Coloro che, come me, condividono da sempre questa fede, e che non hanno anche nessuna altra religione, sanno d'altronde che essa è una speranza allo stesso tempo che una certezza. La certezza che ad un certo grado di ostinazione la sconfitta culmina in vittoria, la sfortuna arde con gioia e che l'inattualità stessa, mantenuta e spinta al suo termine, finisce con il diventare attualità.
Ma per questo bisogna andare sino in fondo, bisogna che Don Chisciotte, come nel sogno del filosofo spagnolo, scenda sino agli inferi per aprire le porte agli ultimi degli infelici. Allora, forse, in quel giorno in cui secondo le commoventi parole del Chisciotte "la vanga e la zappa si accirderanno con l'errante cavalleria", i perseguitati e gli esiliati saranno infine riuniti ed il sogno emaciato e febbrile della vita trasfigurato in questa realtà ultima che Cervantes ed il suo popolo hanno inventato e ci hanno trasmesso in eredità affinché la difendessimo, inesauribilmente, sino a quando la storia e gli uomini si decidano a riconoscerla e salutarla.
 
Albert Camus

venerdì 8 luglio 2011

La risacca

olas040711

Si chiama "Las Olas", il film. "Le onde". Si chiama così perché è quella delle onde, l'immagine che il protagonista ha sempre presente dentro la sua testa. Ad Argèles, nel campo di concentramento che "accolse" i profughi della Repubblica Spagnola, i corpi di quelli che morivano venivano gettati in mare, e le onde li rapivano dal bagnasciuga.
Così, il protagonista del film, Miguel, interpretato dall'attore ottantenne Carlos Alvarez-Novoa, quando muore la moglie, decide di intraprendere un viaggio che, da Valencia, lo porterà fino al sud della Francia, alla spiaggia di Argelès-sur-Mer. Fino al ricordo della morte e del dolore.
E così, Miguel, attraverso strade, luoghi che sono stati teatro della sua giovinezza, stazioni di servizio e spazi senza identità, incontrando tutta una serie di personaggi, reali e immaginari, torna a quella spiaggia con l'intento di riuscire a guardare di nuovo "las olas", quelle onde. Un vecchio elefante che cammina verso il suo cimitero!
Incontrerà, fra i tanti, Una donna e uno dei suoi antichi compagni miliziano che si rifiuterà di accompagnarlo fino a quella spiaggia. Il dramma si svolge senza fanfare, raccontato con tono di sordina, a colori grigio chiari
 
"Questo non è un film sulla memoria storica", ha dichiarato il regista Alberto Morais, 35 anni, al pubblico. "La memoria storica in Spagna cerca di guarire le ferite, ma noi, qui, dimostriamo che ci sono ferite che non si possono guarire".
Qui, il cinema funziona come "una critica di un certo modo di intendere la memoria storica, che si sforza di porre in atto una chiusura della memoria attraverso l'istituzione, senza riuscire a vedere i singoli casi di persone che hanno dovuto tacere per anni e la cui vita non è tornata alla normalità ".
Un film fatto di ferite non rimarginate, che sono diventati occhi per vedere, dove è protagonista una generazione oramai quasi del tutto scomparsa, o che lo sarà di qui a poco, e che ha vissuto una tragedia che nessuno le ha riconosciuto.