Quello che segue è un articolo di Alberto Piccinini, uscito su Alias del 9 Aprile scorso. Parla di un argomento spesso riproposto, quello dei "processi ai cantautori" negli anni settanta, in particolare di quello che all'epoca fece più scalpore, a carico di Francesco De Gregori. Se ne parla - quando se ne parla - sempre con quel misto di condanna, dissociazione e pentimento. Insomma, facendone, come è di prammatica in questi anni, l'autocritica ... degli altri. Qui, invece, si racconta la storia!
Passò alla storia come il «processo a De Gregori». Processo politico, s'intende. Venerdì 2 aprile 1976, al Palalido di Milano, un centinaio di persone fermò a metà il concerto sold out del cantautore romano di fronte a seimila spettatori. Rimmel, uscito l’anno prima, era stato in classifica 40 settimane, vendendo la cifra record di 500.000 copie. Proiettato in una nuova dimensione di popolarità, De Gregori aveva un album in uscita: Buffalo Bill. La tournée la organizzava il Piccolo Teatro di Milano. Sullo sfondo c'è la Rca, la casa discografica del cantautore. Il biglietto costa 1500 lire. Prima del concerto della sera, accanto al botteghino, vengono distribuiti volantini «contro i padroni della musica» firmati da Stampa Alternativa: «Decine di migliaia di incazzati hanno capito che i Palalido sono i loro Vietnam, i loro campi di battaglia». Soltanto due mesi prima, nello stesso Palalido, uno spettrale Lou Reed (2000 lire) è stato costretto a interrompere il concerto tra lanci di sassi e bottigliette. Per evitare altri attriti si aprono precauzionalmente le porte a tutti. E il concerto si svolge con le luci accese.
«Vedevo la gente che applaudiva appena salivo sul palco, cosa mai successa prima. – è il ricordo De Gregori raccolto dal giornalista Claudio Bernieri – Poi c’erano quelle luci accese». Dopo una prima interruzione («gli strapparono la chitarra di mano», ricorda il batterista Carlo Marcovecchio), e la lettura dal palco di un comunicato contro l’arresto di un compagno a Padova, il concerto riprende. De Gregori e la sua band finiscono come possono, poi tornano nei camerini.
E’ qui che va in scena il processo vero e proprio. I «verbali» li scoviamo nella cronaca che il giorno dopo uscì sul “Corriere della Sera”: “«Quanto hai preso stasera?» urla un giovane. «Credo un milione e due... – sussurra con un filo di voce De Gregori -, ma poi c'è la SIAE...». «Se sei un compagno, non a parole ma a fatti, lascia qui l'incasso», ribattono”.
Fu il critico Mario Luzzatto Fegiz a firmare il pezzo. Calcò la mano: “Al microfono si alternano volti lombrosiani e giovani che sembrano colti da raptus isterico...”. Secondo i testimoni un vero e proprio processo neppure ci fu: il Palalido si stava svuotando, il diverbio tra i contestatori e De Gregori si sarebbe svolto tra il sottopalco e i camerini.
D’altra parte la cronaca, pure romanzata, coglie bene la centralità drammatica che quell’evento avrà nella storia successiva della canzone italiana. Continuiamo a leggere: “Prende la parola un uomo con la barba bianca, d'età indefinibile: «La rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!». De Gregori ascolta pallido e silenzioso. Con scarsa convinzione mormora al microfono: «Forse sono una vittima dell'industria...»”.
Di chi erano quelle voci? In un’intervista televisiva recente De Gregori chiedeva che almeno si facessero vedere. A quasi 40 anni di distanza. E’ rimasto qualche nome. Gianni Muciaccia, punk della prima ora, chitarrista dei Kaos Rock, poi perso nei gorghi del socialismo milanese. C’era sicuramente Marcello Baraghini, che dell’arcipelago di Stampa Alternativa era il volto più noto. Accetta di rovistare nei ricordi di un evento del quale sono rimasti, dice, solo pochi flash: “No, non ero io quello di Majakowskij. – sorride - Non avevo la barba bianca. Penso fosse Gianluca, che adesso non c’è più. Gianluca faceva teatro, guidava un furgone col quale abbiamo girato il mondo e la cosa più incredibile è che non aveva mai documenti con sé. Scendeva, parlava con le guardie, ripartiva”. “Non ricordo molta violenza quella sera. – riprende Baraghini – Esasperazione, sì. C’erano nel nostro gruppo delle frange accese, autonomi, che però in genere riuscivamo a calmare. Naturalmente una parte del pubblico si incazzò. Ricordo bene De Gregori, stizzito. Avrebbe potuto spiegarsi, ma non lo fece”.
«Mancava solo l’olio di ricino», fu invece il commento del cantautore riportato ancora dal Corriere. «La contestazione è quando tu prendi una persona e gli contesti delle cose (…) Un’aggressione è quando io ti prendo a cazzotti e ti dico che sei stronzo… Quella fu un’aggressione, cioè non ci fu nessun dialogo».
Quest’ultimo commento lo ha raccolto un cronista/musicista che allora collaborava con L’Unità, Claudio Bernieri. Ne fece un libro, Non sparate sul cantautore - preziosa raccolta di interviste a cantautori della metà degli anni ’70, da tempo introvabile, che il prossimo settembre verrà ripubblicato dalle edizioni Vololibero con allegati i nastri originali delle conversazioni. “C’era quest’area libertaria, moralista se vuoi – ricorda oggi Bernieri – Riteneva che si dovesse suonare a un prezzo politico, saltare l’intermediazione di quelli che chiamavano i padroni della musica. Erano cani sciolti. Andavano a vedere con quale macchina arrivavano a suonare i musicisti, facevano i conti in tasca”.
Moralismo a parte, l'idea della «musica gratis» non godrà mai di grande considerazione, né allora e né mai. Sull'utopia, pericolosa o naif che fosse, vinse fin da subito una specie di necessario realismo mercantile. Per due anni in Italia non si fecero grandi concerti. Poi, negli anni '80, si ricominciò daccapo. Su quelle contestazioni Bernieri ha un'altra idea: “Per capirci, è come se oggi si riuscisse a impedire il download gratuito dalla Rete. Che succederebbe?”.
Ancora. Chi ce l'aveva con De Gregori, e perché? Re Nudo e Andrea Valcarenghi avevano chiesto al cantautore di organizzare il concerto di Milano, ricevendo in cambio un garbato rifiuto (da qui la scelta di coinvolgere il Piccolo Teatro). Con Lotta Continua, poi, c'era stato uno scontro a proposito del rimborso chiesto in occasione di un concerto militante. Il giornale sfotteva così: «E’ venuto compiendo un pericoloso viaggio da Roma centro alla periferia di Roma tale De Gregori, pare celebre, il quale ha chiesto 400.000 lire per esibirsi, e ha preso 400.000 pernacchie». De Gregori, da parte sua, si difese con un lettera al giornale facendo notare ai compagni che «la musica è ancora in mano ai Tony Santagata, e non ai proletari».
E c’era Muzak, il mensile di musica e politica diretto da Giaime Pintor. La stroncatura di Rimmel (e dell’ermetico canto degregoriano) comparsa su quelle colonne a firma dello stesso Giaime è rimasta celebre: «Non è un caso da sottovalutare che la fortuna dell'ermetismo dati anni '30-'40, e cioè si collochi programmaticamente come isolamento dal fascismo, isolamento nell'attività pubblica e nella poesia come risposta "privatistica" alla retorica mussoliniana. (...) Una poetica ermetica, dell'intuizione lirica, è una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra, arretrata negli anni '70, dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrici di valori positivi e rivoluzionari».
Più prosaica e velenosa risultò tuttavia una cronaca coeva di Enzo Caffarelli per Ciao 2001, Raccontava il De Gregori privato così: «Lo guardo sbigottito mentre gioca a poker e beve champagne all’Hotel Belle Vue di Rimini, categoria lusso, una stanza tutto escluso 38.000 lire a notte, mentre cala il sipario. Ma tutto questo Alice non lo sa». Fu quella che colpì nel segno, eccitando il moralismo dell'epoca?
Per uno scherzo del destino la maniera dylaniana di De Gregori, nei testi e nello stile, si allargò in
quegli anni fino a investire il volto pubblico del cantautore, il difficile rapporto con il tumultuoso «vogliamo tutto» di quegli anni. Sembrava la storia di quell'«immondiziologo» che nel 1965 si era messo a frugare nella spazzatura di Dylan per scoprire le prove del tradimento. Dylan era scappato a gambe levate verso il rock elettrico, nascosto giorno e notte dietro i Ray Ban scuri. «Dylan - attaccò
una volta Giaime Pintor - è solo il ripiegarsi su se stesso dell'intellettuale giovane americano». Il paradosso lo spiegò una volta lo stesso De Gregori: «Dylan non è mai stato inquadrabile politicamente al contrario di me che invece, quando mi chiedono per che partito voto, non ho nessun problema a dirlo». Dopo quella brutta serata, il cantautore minacciò di smettere del tutto, di non cantare più. Per più di un anno non suonò in pubblico. Lo avvistarono a fare il commesso in una libreria di Trastevere.
- Alberto Piccinini -
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