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lunedì 25 luglio 2011
Pianeti diversi
Quella che segue è la traduzione di un testo scritto nel 1974 da André Gorz. Ha il pregio di indagare la contraddizione esistente, anche ai giorni nostri, fra la cosiddetta protezione dell'ambiente, nel contesto del capitalismo, sostenuta senza che venga messo in causa, né teoricamente né praticamente, il sistema sociale esistente - da una parte. E dall'altra, le speranze innescate da una tale aspettativa al fine di "salvare il pianeta" e "fondare un'alternativa". Contraddizione che ci spinge sempre di più verso la distruzione e verso la disuguaglianza. A meno che ... non si voglia fare un'altra scelta!
Evocare l'ecologia è come parlare del suffragio universale e della festività domenicale: in un primo tempo, tutti i borghesi e tutti i partigiani dell'ordine rispondevano che così volevate la loro rovina, il trionfo dell'anarchia e dell'oscurantismo. Poi, in una seconda fase, quando la forza delle cose e la pressione popolare divennero irresistibili, vi venne accordato quello che fino a ieri vi veniva rifiutato e, fondamentalmente, non cambiò niente.
La messa in conto delle esigenze ecologiche ha ancora molti avversari fra i padroni. Ma ha sostenitori sufficienti fra i capitalisti perché la sua accettazione abbia delle serie probabilità di diventare un investimento. Quindi è meglio, ora, non giocare a nascondino: la lotta ecologica non è un fine in sé, ma una tappa. Può creare delle difficoltà al capitalismo ed obbligarlo a cambiare; ma quando, dopo aver resistito a lungo con la forza e con l'astuzia, alla fine cederà solo perché l'impasse ecologica sarà diventata inevitabile, e sfrutterà questo vincolo così come ha sfruttato tutti gli altri vincoli.
Quindi dobbiamo subito porre la questione senza mezzi termini: che cosa vogliamo? Un capitalismo con dei vincoli ecologici o una rivoluzione economica, sociale e culturale che abolisca il capitalismo e, allo stesso tempo, instauri un nuovo rapporto fra gli uomini e la collettività, fra il loro ambiente e la natura? Riforma o rivoluzione?
Non rispondete che questo problema è secondario e che l'importante è salvare il pianeta, dal momento che sta diventando inabitabile. Perché la sopravvivenza non è un fine di per sé: vale la pena di sopravvivere [come se lo domanda Ivan Illich], in "un mondo trasformato in un ospedale planetario, in una scuola planetaria, in un carcere planetario, e dove il compito principale degli ingegneri dell'anima sarà quello di fabbricare degli uomini adatti per questa condizione"? (...)
E 'meglio cercare di definire, fin dall'inizio, il motivo per cui si lotta, e non solamente contro chi. Ed è meglio cercare di prevedere come il capitalismo sarà influenzato e cambiato da vincoli ambientali, piuttosto che credere che questi provocheranno la sua sparizione.
Ma in primo luogo, che cos'è, in termini economici, un vincolo ecologico? Prendiamo ad esempio i giganteschi complessi chimici della valle del Reno, a Ludwigshafen (Basf), a Leverkusen (Bayer) e a Rotterdam (Akzo). Ciascun complesso combina i seguenti fattori:
- Le risorse naturali (aria, acqua, minerali) che passano per essere gratuiti dal momento che non possono essere riprodotti (rimpiazzati);
- I mezzi di produzione (macchine, edifici), che sono di capitale fisso, che si usurano e di cui si deve quindi garantire la sostituzione (la riproduzione), preferibilmente con dei mezzi più potenti e più efficaci, in modo da dare all'azienda un vantaggio sui suoi concorrenti;
- Il lavoro umano che, purtroppo, deve essere riprodotto (bisogna nutrirlo, curarlo, alloggiarlo, addestrare i lavoratori).
In un'economia capitalistica, la combinazione di questi fattori nel processo produttivo, ha per fine il massimo profitto possibile (che, per un'azienda che si preoccupa del suo futuro, significa anche: il massimo della potenza, dunque degli investimenti, la presenza sul mercato mondiale). La ricerca di questo obiettivo condiziona pesantemente il modo in cui i vari fattori si combinano e l'importanza relativa che viene dato a ciascuno di essi.
L'azienda, per esempio, non si chiede mai come rendere il lavoro più piacevole, di modo che l'impianto utilizzi al meglio gli equilibri naturali e la vita delle persone, non si chiede come fare in modo che i suoi prodotti servano alla comunità umana. (...)
Per cui, nella valle del Reno, in particolare, l'affollamento umano, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua hanno raggiunto un tale livello che l'industria chimica, per continuare a crescere, o solamente a funzionare, si vede obbligata a filtrare i suoi fumi ed i suoi effluvi, vale a dire, si vede obbligata a riprodurre le condizioni e le risorse che, fino ad ora, passavano per essere "naturali" e gratuite. Questa esigenza di riprodurre l'ambiente va ad avere delle implicazioni evidenti: bisogna investire nella lotta contro l'inquinamento, aumentando così la massa di capitale fisso, si deve poi garantire l'ammortamento (riproduzione) degli impianti di depurazione, ed il prodotto di queste (la pulizia relativa di aria e acqua) non può essere venduto con profitto.
Abbiamo, insomma, un aumento simultaneo del peso del capitale investito (la "composizione organica"), del costo di riproduzione e dei costi di produzione senza un corrispondente aumento delle vendite. Pertanto, delle due una: o il tasso di caduta del profitto, o l'aumento dei prezzi. L'azienda cercherà di aumentare il prezzo di vendita. Ma non ci riuscirà così facilmente: tutte le altre imprese inquinanti (cemento, metallurgia, acciaio, ecc) cercheranno, anch'esse, di fare pagare più cari i loro prodotti al consumatore finale. L'assunzione delle esigenze ambientali avrà in ultima analisi questa conseguenza: i prezzi tenderanno ad aumentare più velocemente dei salari reali, il potere d'acquisto dei lavoratori verrà compresso, e così il costo delle misure contro l'inquinamento verrà prelevato direttamente dalle risorse di cui dispongono i salariati per comprare la merce.
La produzione di questi beni, pertanto, tenderà a ristagnare o a diminuire; la tendenza alla recessione, o la crisi, si aggraverà. E questo declino nella crescita e nella produzione che, in un altro sistema, avrebbe potuto essere un bene (meno auto, meno rumore, più aria, giornate di lavoro più brevi, ecc.) avranno degli effetti del tutto negativi: la produzione inquinante produrrà dei beni di lusso, inaccessibili alle masse, senza cessare di essere alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze si allargheranno, i poveri diventeranno relativamente più poveri, ed i ricchi più ricchi.
L'assunzione dei costi ambientali avrà, insomma, gli stessi effetti sociali ed economici della crisi petrolifera. Ed il capitalismo, lungi dal soccombere alla crisi, la gestirà come ha sempre fatto: dei gruppi finanziari ben piazzati approfitteranno delle difficoltà dei gruppi rivali per assorbirli a basso costo ed estenderanno il loro controllo sull'economia. Il governo centrale rafforzerà il suo controllo sulla società: i tecnocrati calcoleranno delle norme "ottimali" contro l' inquinamento e per la produzione, emaneranno regolamenti, estenderanno le aree di "vita pianificata" e la portata degli apparati di repressione. (.. .)
State dicendo che niente di tutto questo è inevitabile? Senza dubbio. Ma questo è come le cose potrebbero mettersi se il capitalismo fosse costretto ad assumere i costi ambientali senza che vi sia un'offensiva politica, scatenata a tutti i livelli, che gli strappi il controllo delle operazioni e che gli opponga un diversa visione della società e della civiltà. I fautori della crescita hanno ragione almeno su un punto: nel contesto della società attuale e nel modello attuale di consumo, basato sulla disuguaglianza, sul privilegio e sulla ricerca del profitto, la non-crescita o la crescita negativa (decrescita n.d.t) può solo significare stagnazione, disoccupazione, accrescimento del divario tra ricchi e poveri. Nel modo attuale di produzione, non è possibile limitare o bloccare la crescita e , allo stesso tempo, ripartire più equamente i beni disponibili.
Finché si ragionerà nei limiti di questa civiltà inegalitaria, la crescita apparirà alla massa delle persone come la promessa - ancorché del tutto illusoria - che un giorno cesseranno di essere "svantaggiati", e la non-crescita come la condanna alla mediocrità senza speranza. Quindi non è tanto la crescita che deve essere attaccata, quanto la mistificazione che essa sottintende, la dinamica dei bisogni crescenti e sempre frustrati su cui poggia, la competizione che essa organizza incoraggiando gli individui a volere a tutti i costi "superare" gli altri. Il motto di questa società potrebbe essere: quello che è bene per tutti non vale niente. Tu sarai rispettabile solo se hai cose migliori degli altri.
Per rompere con l'ideologia della crescita bisogna affermare il contrario: è degno di te solo ciò che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né degrada le persone. Possiamo essere più felici con meno ricchezza, perché in una società senza privilegi, non ci sono poveri.
ANDRÉ GORZ
(da Ecologie et émancipation )
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