Viene chiamata bottiglia Molotov, oppure cocktail Molotov, o anche bomba incendiaria e, ancora, bottiglia incendiaria. La fabbricazione è, come dire, casalinga. Il suo deterrente non è esplosivo, ma si basa sull'espansione del liquido infiammabile che contiene. Di solito, ha bisogno di un contenitore - di vetro - e di benzina (ma può essere anche nafta, o kerosene) e di un po' d'olio motore. Viene classificata come una "bomba termobarica".
Il nome e l'uso di questo ordigno esplosivo, ha avuto la sua origine nella Guerra d'Inverno (guerra russo-finnica, 1939-40) - anche se era già stato impiegato nella guerra del Chaco (combattuta fra la Bolivia e il Paraguay, 1932-1935) e nella Guerra civile spagnola.
A quel tempo, Vjaceslav Molotov (Commissario del Popolo per gli Affari esteri dell'Unione Sovietica) comunicò via radio alla popolazione finlandese, durante la guerra, che l'esercito russo non stava bombardando, ma stava bensì lanciando carichi di viveri. Sarcasticamente, i finlandesi cominciarono a chiamare le bombe russe, "cesti alimentari Molotov". L'esercito finlandese poi dichiarò che se "Molotov vuole metterci il cibo, loro avrebbero preparato i cocktail." E così fu.
Nei modelli classici, uno straccio o un panno intorno alla bocca della bottiglia servono da miccia. Si accende la miccia e si lancia la bottiglia. Alla rottura del vetro, il contenuto si spande e, entrando in contatto con la fiamma, si incendia. L'olio di motore fa sì che la benzina si attacchi a qualsiasi superficie.
Nel modello cocktail, al posto della miccia, si utilizza acido solforico e idrossido di potassio. Quando l'acido, nella benzina, al rompersi del vetro, viene a contatto con il potassio, si crea una forte reazione esotermica (aumento improvviso della temperatura) che incendia il combustibile. Oltre ai danni causati dal fuoco, si aggiunge il danno corrosivo dell'acido.
Un'altra caratteristica del modello chimico è che, negli scontri notturni, non rivela la posizione del lanciatore.
E' stata usata principalmente nei conflitti urbani, grazie alla sua facile preparazione ed al basso costo. Viene anche utilizzata anche in vari paesi durante le sommosse contro la polizia. Storicamente, ha avuto molto successo come arma anti-carro quando è stata utilizzata, inizialmente, durante la guerra civile spagnola da parte dei nazionalisti.
Solo un blog (qualunque cosa esso possa voler dire). Niente di più, niente di meno!
sabato 31 dicembre 2011
Champagne!
venerdì 30 dicembre 2011
sussurri e grida
La cosa, disdicevole o meno, cominciò nel 1951. Il film era "Tamburi Lontani", di Raoul Walsh - ottimo western, fra l'altro, la scena quella del coccodrillo. La potete vedere, e sentire, qui di seguito.
Non so proprio a chi sia venuto in mente quel grido, destinato a diventare il "grido di morte" per eccellenza, nel cinema. C'è da aggiungere che, il nome, quel grido, lo avrebbe acquisito, solo un paio d'anni dopo in un altro western, "L'indiana bianca" (The Charge at Feather River), di un altro ottimo regista di western, Gordon Douglas. Ed è lì, in quel film, che il soldato Wilhelm, ucciso dagli indiani, emette, per la seconda volta nella storia del cinema, quel "grido di morte" che, da allora in poi conserverà il suo nome. The Wilhelm Scream. Il grido Wilhelm!
Quel grido, campionato, continua da allora ad echeggiare qua e là, ed arriva fino ai giorni nostri. Tempo e denaro risparmiato per i produttori, si vede!
Chi ne ha voglia, qui di seguito, può assistere al pagamento della cosiddetta "tassa Feather River", da parte di film come "Il Mucchio Selvaggio". "Le Jene", "Guerre Stellari", "Indiana Jones"... I cattivi vengono feriti e urlano, ma dalla loro bocca esce ... il grido Wilhelm"!
giovedì 29 dicembre 2011
Eureka
La storia dell'Australia condivide molte somiglianze con quella dell'America: colonizzazione, insediamento multi-culturale, genocidio e atrocità inflitte ai popoli indigeni. Ma l'Australia coloniale, a differenza dell'America, non è stata caratterizzata da ribellioni, e da una rivoluzione. La prima ed unica insurrezione armata contro la tirannia coloniale fu quella che avvenne nel 1854, ad Eureka e che, per l'appunto viene ricordata come "la ribellione del 1854" o "la staccionata di Eureka".
Considerata come l'equivalente del Boston Tea Party, questa sollevazione, relativamente piccola, partì da un gruppo di cercatori d'oro che protestavano contro le tasse imposte, con eccesso di zelo, dalla polizia, spinse Mark Twain, nel corso del suo viaggio in Australia, a descrivere la "barricata di Eureka" come: "La cosa più bella della storia dell'Australia. E 'stata una rivoluzione, piccola nelle dimensioni, ma grande politicamente, è stato uno sciopero per la libertà, una lotta per un principio, una sollevazione contro l'ingiustizia e l'oppressione ... un altro esempio di una vittoria che proviene da una battaglia perduta ".
Oggi, in assenza di ulteriori atti di ribellione oltre a quello che ottenne il caloroso riconoscimento di Mark Twain, la lobby repubblicana cerca di usare "the Eureka Stockade" come l'incarnazione ancestrale del loro movimento, nello sforzo di dare corpo ad una presunta "identità nazionale", richiamandosi alla cosiddetta "bandiera della Croce del Sud", sventolata dagli insorti - e notoriamente realizzata a mano dalle mogli dei minatori - per sostituire la ben nota "Union Jack / Commonwealth Star". Gli autori di "Immaginare l'Australia: Idee per il nostro futuro" affermano che Eureka "offre un grande potenziale ad una nazione che si dibatte per avere una storia nazionale".
Infatti, Eureka viene descritta come l'evento che ha segnato la nascita della democrazia australiana. Ma cosa accadde, ad Eureka?
Quando venne scoperta, alle porte di Melbourne, la più ricca miniera d'oro che il mondo avesse mai conosciuto, nel giro di tre anni, gli immigrati cominciarono ad arrivare da tutte le parti del mondo per cercare fortuna. Ben presto, la popolazione della colonia di Victoria passò da 80.000 a 300.000 abitanti. Non occorse molto tempo prima che i governatori britannici pensassero di raddoppiare il costo di una licenza mineraria, dopo aver istituito una Commissione per l'oro che introduceva pesanti controlli sulle concessioni. I minatori - molti dei quali erano stati coinvolti in rivolte e rivoluzioni nelle loro terre d'origine - crearono, a loro volta, una Lega per la riforma, che ben presto diede luogo ad una vera e propria rivolta. I ribelli innalzarono una palizzata, sventolando la loro famosa bandiera, e fecero il seguente giuramento: "Noi giuriamo sulla Croce del Sud di restare uno accanto all'altro per difendere i nostri diritti e la libertà".
Il 3 dicembre 1854, il 40° reggimento militare, all'alba, attaccò la sgangherata palizzata di Eureka, ed ebbe ragione dei ribelli; il tutto, in pochi minuti - il bilancio dei morti fu di 22 minatori e di sei soldati.
Tutto sarebbe potuto finire lì, con il clamoroso fallimento della ribellione, se non fosse stato per il fatto che gli inglesi si fecero trascinare dalla cosa. Tredici capi dei ribelli vennero processati per alto tradimento. Ma la giuria ritenne che quella di Eureka era stata una sommossa e non una rivolta. E così, in rispetto alla legge, tutti gli imputati furono assolti e il governatore fu costretto a concedere l'amnistia a tutti i ribelli contumaci. Nel giro di un anno, le odiate tasse sulle licenze vennero tagliate, ai minatori venne concesso il diritto di voto e la colonia acquisì un parlamento eletto democraticamente.
Fu una vittoria politica sorprendente ed improbabile, che, anni dopo, avrebbe ispirato un episodio veramente eroico della storia australiana: il movimento per il suffragio delle donne tra il 1880 e il 1890.
mercoledì 28 dicembre 2011
Quel film? Un massacro!
Quando si parla di film maledetti, i titoli che vengono in mente, di solito, sono quelli di pellicole come Poltergeist, Rosemary's Baby, L'esorcista o Il corvo, o anche il film "Ai confini della realtà" (lasciando perdere "Heaven's Gate"); però, senza dubbio, è "Il conquistatore della Mongolia" che dovrebbe trovarsi in cima alla lista, dal momento che ci si possono associare 91 decessi, sulle circa 220 persone che ne componevano l'équipe. Ma procediamo con ordine.
Nei primi mesi del 1950, il presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman, aveva dato via libera alla costruzione della prima bomba all'idrogeno della storia. I primi esperimenti vennero portati a termine un paio d'anni dopo, nel Pacifico, precisamente nell'Atollo Eniwetok.
Non molto tempo dopo, si diede inizio ai test sul suolo americano,cosa che indusse la popolazione a cominciare a preoccuparsi per la propria sicurezza, a fronte del pericolo delle radiazioni. La Commissione per l'Energia Atomica rassicurò i cittadini, dal momento che, secondo loro, erano state adottate tutte le misure di sicurezza necessarie e, pertanto, i test continuavano. La maggior parte di questi test vennero condotti in Nevada, precisamente nel centro nucleare di Yucca Flat.
Nel 1954 - un anno dopo - a St. George, a circa 220 kilometri da Yucca Flat, con la produzione di Howard Hughes, e con la regia di Dick Powell, veniva dato inizio al progetto più costoso della storia della RKO: Il conquistatore della Mongolia. Interpretato dalla più grande star del momento, John Wayne, nel ruolo di Gengis Khan. Il cast e la troupe vissero delle settimane assai difficili in quel luogo, da cui poi Hughes avrebbe prelevato 60 tonnellate di terra per trasportarle nello studio dove poi sarebbero state completate le riprese.Alla fine, il film si rivelò un clamoroso insuccesso, sia di critica che di pubblico, e allo stesso Wayne venne assegnato il "Golden Turkey Award" per la peggiore interpretazione dell'anno.
Ma questi risultati non furono la cosa peggiore che accadde al film!
25 anni la sua uscita, la pellicola tornò sulle prime pagine dei giornali, a causa della pubblicazione, su "Le Point", di uno studio in cui si mettevano in relazione le riprese fatte in Nevada, con i numerosi casi di cancro fra i membri della Troupe. Di tutti i partecipanti, 91 avevano contratto il cancro e fino ad allora ne erano morti 46, di loro. Venne anche dichiarato, nella pubblicazione, che i produttori erano consapevoli del rischio, compreso lo stesso John Wayne che aveva posato con un contatore Geiger. C'è da dire che, a quell'epoca, i dati che legavano al cancro, l'esposizione alle radiazioni, erano abbastanza scarsi.
Dick Powell, Pedro Armendariz, Thomas Gomez, Agnes Moorehead, Susan Hayward, John Wayne ... sono alcuni dei nomi che parteciparono al film e che sono morti di tumori di vario tipo negli anni susseguenti. Oltre a quelli direttamente coinvolti, ci sono anche i due figli di John Wayne, Michael e Patrick, e il figlio di Susan Hayward. Tutti loro erano stati presenti per diversi giorni durante le riprese.
Dopo il fallimento del film, Howard Hughes si ritirò dal cinema e vendette la sua società di produzione, la RKO Pictures. Un anno dopo, Hughes riacquistò il film, Il conquistatore della Mongolia, e ne impedì la visualizzazione, sia cinematografica che televisiva, ma dopo la sua morte, 17 anni dopo, è stato recuperato per la trasmissione su tutte le tv, acxquistato dalla Universal Pictures.
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martedì 27 dicembre 2011
Miserabili
Quel che a Dostoevskij non riuscì, nell'Idiota - mettere in scena e al centro di tutto, in un romanzo, un uomo interamente, positivamente buono, modellato sul Cristo delle icone ortodosse riuscì invece benissimo, e senza averci pensato con altrettanta intensità di tormento, nei Miserabili, a Victor Hugo. Jean Valjean è tutta la bontà possibile, sullo sfondo delle miserie umane, la bontà che attraversa a guado, in una figura di San Cristoforo che non arriva mai a toccare la riva per deporvi il suo carico, la storia umana in una città-simbolo, concreta, visibile, che ciascuno di noi ha visitato e rari poeti compreso. E' possibile che la bontà di Jean Valjean abbia potuto essere divinata, manifestarsi tra i viventi, assumere un volto non iconico ma autenticamente umano, in quanto collocata, non come il principe Myskin in una porzione specifica di società aristocratica di periferia europea, ma nel crocevia di una Weltstadt che non esclude nessun tipo di destino neppure quello di un Myskin plebeo, povero, di origine malfamata Parigi. E' toccato a uno scrittore illuminista, di simpatie rivoluzionarie, ottimista del divenire storico, senza le grandiose idee mistiche e il fedele Vangelo giovanneo di Fedor Dostoevskij, di creare involontariamente un modello accettabile di Cristo moderno e occidentale, un Cristo che dal lino di una sindone emergerebbe coi tratti di Jean Valjean, il fuggiasco, il perseguitato, che non opera miracoli con la parola (Ordet! quanto cercarla!) e neppure con la scienza medica, come sarebbe naturale all'epoca, ma con la pura compassione, servita (l'avessimo!) da un apparato muscolare d'acciaio, capace di tutto….
Da domandarsi: esisterebbe un romanzo come questo se non ci fosse stato il 18 giugno 1815? Waterloo non è un enorme excursus di quasi cento pagine, è il perno di tutta la storia. Napoleone al termine della terribile giornata, appiedato, solitario «immenso sonnambulo di un sogno crollato» proietta la sua ombra cinese sulla parete dove accende oggetti e carte la lampada dello scrittore, che meditando sulla disfatta, concepita come epopea e allegoria spirituale, vede l'agitazione mostruosa, inesauribile, della capitale postrivoluzionaria e da quindici anni postimperiale, di cui il vero sovrano è il popolo dei reietti, dei malvagi e degli indeboliti…
I Miserabili non sono un romanzo sociale: vorrebbero essere tutto, ma non lo sono. La classe operaia, quella che sarà potentemente e tragicamente vista da vicino nell'Assommoir e in Germinal non ce la vedi, è introvabile. Una chiave, per identificare il chimerico «popolo dei miserabili» è nel termine poco fa usato, indeboliti. Ci può aiutare la parola biblica refaìm, che è polisensa: i morti, le ombre, ex giganti, guaritori. I giganti delle vittorie imperiali sono i refaìm, i Deboli, le Ombre dei Miserabili, il riflesso individuale (molto vagamente sociale) della disfatta di Waterloo, una radunanza di veterani e di nipoti di veterani sperduti che incarnano il significato etico negativo, per nulla epico, del grido escatologico (la e è importante per non equivocare) di Cambronne. L'epopea di Austerlitz e di Jena rigermoglia poveramente nelle barricate di rue Saint-Denis, del 1848…. Hugo e' un genio, ha insegnato stile a tutti, ma inseparabile dal trombone tribunizio. Il romanzo e' pieno di meravigliosi aforismi e di pseudoracoli da fumier prédicant, genere: «Cittadini, se il diciannovesimo secolo è grande, il ventesimo sarà di felicità. Più niente somiglierà alla vecchia storia...». E Waterloo è addirittura «il capovolgimento dell'universo».
Quel che rende inevitabilmente classico I Miserabili è l'appartenenza alla grande tradizione del romanzo iniziatico, che è una moderna trasposizione, data a tutti per mezzo della diffusione, della tradizione e del pellegrinaggio misterico. C'e' una Eleusi della lettura... Si puo' farlo cominciare dal Don Chisciotte e vederne rami e frutti nel Meister goethiano, nello Schlemil di Chamisso, in Delitto e Castigo, Pinocchio, Moby Dick, Promessi Sposi e nell'Uomo senza qualità, nella Linea d'Ombra, nel Deserto dei Tartari... E quale titolo più iniziatico di Voyage au bout de la nuit? Quel che viene via via a mancare nelle iniziazioni misteriche da leggersi è nello sbocco finale, dopo un transito nell'affanno e nel buio, in qualcosa di trascendente (arrivo a Colono, conquista della luce, affacciarsi su una dimensione redentiva). In fondo alla notte, non aspettarti che altra notte. Su questo c'e' da riflettere, e non poco da capire. Nei Miserabili il viaggio iniziatico di Jean Valjean è di una travolgente evidenza: un ex forzato si scioglie di episodio in episodio da ogni catena, rivelandosi angelo ferito che mette la sua prodigiosa forza fisica e il suo insaziabile appetito di riparare-medicare-sanare-salvare alcuni «miserabili» da cui non può più staccarsi, al servizio, indefettibilmente, del Bene…
La straordinaria metafora riassuntiva del viaggio iniziatico di Jean Valjean è la traversata delle fogne di Parigi con un quasi-morto sulle spalle da lui portato a rivivere, dopo l'uscita di entrambi, finalmente, nella luce… Significativamente, la prova più difficile dell'iniziando Jean Valjean è questa traversata, tra le più fantastiche della letteratura mondiale. L'uscita dai miasmi e dal buio, nella sera stellata, dispiega sulla testa del Miserabile Sublime vittorioso della prova «tutte le dolcezze dell'infinito».
- Guido Ceronetti - Jean Valjean il Cristo di Parigi in “La Stampa” 21 agosto 2008.
lunedì 26 dicembre 2011
Valore e prezzo
Una conoscenza più o meno completa del marxismo costa oggi – mi ha assicurato un collega – dai venti ai venticinquemila marchi-oro [oggi, pari a circa 200mila euro], e senza tutte le finezze e i dettagli. Per meno non si ottiene niente di veramente buono, al massimo un marxismo di mezza tacca, senza Hegel o senza Ricardo, ecc.
E per di più il mio collega calcola soltanto le spese per libri, tasse universitarie e ore di lavoro, e non quello che uno ci rimette per via delle difficoltà che incontra nella carriera, o per eventuali detenzioni, e tralascia anche il fatto che nelle professioni liberali l’efficienza diminuisce notevolmente, dopo una lettura approfondita di Marx; in determinati campi, come la storia e la filosofia, non si ridiventa mai più veramente “bravi” dopo esser passati attraverso Marx.
da - Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi -
venerdì 23 dicembre 2011
e io mi gioco lo Stato!
Nella storia del poker, non si contano le partite memorabili, spettacolari, dove vengono giocate quantità enormi di denaro o di beni immobiliari.
Una delle più famose fu quella che si giocò, nell'ottobre del 1889, nel Bowen's Saloon, a Santa Fe, Nuovo Messico. Le circostanze, che fecero sì che questa partita sia entrata di diritto nella storia del poker, attengono alla sua posta, una delle più grosse e rischiose fra quelle giocate: lo stato del Nuovo Messico!
I giocatori erano Ike Jackson, un allevatore del Nord America occidentale con immensa ricchezza economica (più di 10.000 capi di bestiame), e Johnny Dougherty, storico giocatore di poker, un grande professionista che era diventato una leggenda nella zona per la sua abilità. La partita, ancora prima che cominciasse, aveva suscitato molto interesse: entrambi i giocatori erano fra più esperti, poi i lunghi preparativi, e la pubblicità che le venne fatta, e il luogo che era stato scelto. Tutto faceva pensare che sarebbe stata una partita storica. Nel saloon c'era un pubblico di oltre 100 persone avide di emozioni e di scommesse rischiose, tra di loro c'era anche il governatore del New Mexico, L. Bradford Prince.
Tanto Jackson che Dougherty, erano consapevoli che il gioco sarebbe durato per delle ore. La tensione si tagliava col coltello, fin dall'inizio del gioco. A mano a mano che si andava avanti, la posta si alzava. Le somme in gioco si facevano sempre più ingenti e si poteva facilmente prevedere che a breve il gioco sarebbe finito, con un all-in di uno dei due giocatori. Il momento arrivò quando la posta raggiunse l'enorme cifra (per il 1889) di 100.000 dollari. Si era arrivati al dunque. Jackson prese un foglio di carta e scrisse un documento attestante che si stava giocando il suo ranch, compresi i 10.000 capi di bestiame.
Dougherty, spinto da questo gesto, prese carta e penna, anche lui, e scrisse un testo che in quel momento solo lui poteva vedere. Poi si alzò dal suo posto e andò dal governatore del New Mexico, che era venuto a guardare la partita. Quando gli arrivò vicino, estrasse la pistola, la puntò alla tempia di Bradford, e disse una delle frasi che sarebbe rimasta nella storia del poker: "Firma questo, o tiro il grilletto". Il governatore non esitò nemmeno per un attimo e, preso il foglio, lo firmò e lo restituì a Dougherty. Questi tornò al tavolo, in mezzo al silenzio che la sua azione aveva creato nella sala. Si sedette sulla sua sedia e gettò con disprezzo il foglio sopra il resto della puntata. Quel piccolo pezzo di carta, che diventava un pezzo della storia del poker, recitava: "Rilancio alla tua scommessa, e mi gioco tutto il territorio dello stato del Nuovo Mexico". Jackson, dopo un attimo di esitazione, gettò le carte sul tavolo, lasciò e se ne andò.
fonte: http://sentadoenlatrebede.blogspot.com/
giovedì 22 dicembre 2011
Spiagge
Durante la guerra civile spagnola, la cubana Rosa Pastora Lecler fondò, sulla spiaggia catalana di Sitges, una casa destinata ad accogliere e ad educare i bambini spagnoli rimasti orfani a causa della guerra civile.
Rosa aveva già fatto una bella carriera nell'insegnamento, quando partì per la Spagna insieme a molti suoi compatrioti, in solidarietà con i repubblicani spagnoli.
Aveva iniziato, da adolescente, nella sua provincia natale di Matanzas come maestra, in una piccola scuola di una colonia di uno zuccherificio cubano. Aveva anche cominciato ad insegnare ai lavoratori analfabeti.
Si trovava in America, per organizzare il trasferimento in Spagna di vestiti, cibo e medicine, quando apprese della caduta della Repubblica. La sua prima preoccupazione fu per i bambini, per i quali aveva organizzato una casa di accoglienza a L'Avana, ma non riuscì a farli arrivare.
Tornata a Cuba, nel 1955, la casa divenne un centro di cospirazione contro la dittatura di Fulgencio Batista fino alla la vittoria del gennaio 1959.
Si dice che il comandante Camilo Cienfuegos andò a visitarla, per offrirle in premio per il suo impegno come insegnante e combattente, un incarico nella rivoluzione. Rosa rispose: "Questa rivoluzione l'hanno fatta i giovani, e sono i giovani che devono continuarla".
mercoledì 21 dicembre 2011
I dadi di Mirò
Era il 1920 quando Joan Miró decise di tentare la fortuna e, lasciata Barcellona si trasferì a Parigi. Lì conobbe uno scultore che aveva uno studio che utilizzava solo durante i mesi estivi, così fece un accordo con lui per usarlo durante la stagione invernale. L'accordo era perfetto, in quanto Mirò, tutte le estati, pensava di tornare a casa, in Spagna. Quindi, appoggiandosi ad alcuni galleristi, espose le sue opere, per la prima volta alla Galerie La Licorne, ed anche se la prima sera non aveva ancora venduto nulla, conseguì il risultato più prezioso per un artista: il favore della critica.
Col tempo cominciò ad essere blandito e coccolato dalla scena artistica parigina, ma continuò a rimanere profondamente legato alla sua Catalogna, dove, ogni estate, tornava nella fattoria di famiglia. Era una questione sentimentale, insomma! Infatti, uno dei suoi dipinti più famosi, dal titolo "La Masìa", meglio conosciuta come "La Granja", Juan Mirò lo inizia a dipingere nella fattoria del padre, poi lo continua quando viveva a Barcellona, e finalmente lo porta a termine a Parigi.
Quando Hemingway conobbe Miró, a Parigi nel 1921, si accorse che il catalano aveva uno stile di vita molto austero. Erano anni di privazione per tutti gli intellettuali e per tutti gli artisti, il denaro era scarso e la fame li pedinava. Fra i due, si creò una sorta di complicità, in quegli anni a Parigi, fatti di piccole stanze di albergo, di vino a buon mercato e di inverni freddi. Molto freddi, e la legna era scarsa.
Hemingway aveva notato che Mirò lavorava da nove mesi, giorno dopo giorno, a questo enorme quadro. Era tale l'ossessione del pittore per quel lavoro che, una volta terminato, non aveva nessuna intenzione di venderlo. Il quadro, praticamente, non era stato mostrato a nessuno; avevano potuto vederlo solo un gruppo selezionato di amici. Fra questi, Hemingway.
Alla fine, il bisogno ebbe il sopravvento e, nel 1925, il pittore prese il suo amato quadro e, accanto ad altri dipinti, lo espose in una grande galleria, mettendolo in vendita.
Un tale, Evan Shipman - casualmente uno degli amici di baldoria di Hemingway, un membro della cosiddetta "generazione perduta" - dopo aver visto i quadri, decise di acquistare tutte le opere del lotto. Anni dopo, Hemingway avrebbe detto "che quello fu l'unico buon affare che Evan Shipman avesse mai fatto nella sua vita." Tuttavia, dopo aver fatto un buon affare, Shipman non si sentiva molto sicuro di quel che aveva fatto e ne volle parlare con il suo amico fidato, Hemingway.
Per uno di quegli strani giri che a volte compie il destino, fu Shipman a trovare Hemingway, ed anziché commentare la sua scoperta artistica, gli disse: "Ernest, dovresti comprarlo tu 'La Granaja'. Non mi piace per niente tutta l'attenzione che richiede quell'opera. "
Hemingway gli raccontò di essere stato testimone dell'impegno che Mirò aveva speso per quel quadro, dei nove mesi che gli ci erano voluti per completarlo. Fece delle considerazioni a proposito di quello che richiedeva il dare vita ad un libro o ad un dipinto. Che quando qualcosa ha una lunga gestazione, e l'autore non vuole rinunciare alla sua creatura, di solito il risultato è un capolavoro, come quello che è successo con "Ulisse" di James Joyce. Finendo per sottolineare come il quadro fosse un grande investimento per il futuro.
- "Quel quadro varrà molto più di, Evan. Non hai idea di quello che stai perdendo".
- "Non mi interessa", disse Evan. "Se si tratta di soldi, che decidano i dadi!".
- "Non ho nessun diritto di giocarmi quel quadro, tu lo hai trovato. L'occasione è tua", rispose Hemingway.
- "Lasciamo che siano i dadi a decidere", finì Evan Shipman. "Se perdo, lo potrai comprare tu."
Fu così che i due amici si giocarono il quadro di Mirò, lanciarono i dadi e vinse Hemingway, che non riuscì a nascondere la sua felicità e ringraziò l'amico per avergli permesso di acquistare quell'opera di cui si era innamorato, da quando l'aveva vista ancora incompiuta.
Il giorno dopo Hemingway andò alla galleria e subito fece il primo pagamento. Accettò di pagare in tutto 5000 franchi per "La Granja", e secondo le sue parole questo "fu 4250 franchi più costoso di quanto avesse mai pagato per un dipinto in tutta la sua vita." Il dipinto, ovviamente, lo avrebbe potuto prendere solo quando avesse pagato la quarta ed ultima rata.
Man mano che si avvicinava il termine per l'ultimo pagamento, il gallerista era sempre più contento, sapendo che se i soldi non fossero arrivati quel giorno, la galleria si sarebbe tenuto il quadro.
Ernest Hemingway era quel che era stato per tutta la vita, sempre sul confine fra eccessi e povert.A quel tempo era senza soldi, e quasi rassegnato a perdere il quadro che lo aveva sempre affascinato.
Chi ha letto "Festa mobile" sa che lui aveva chiamato il suo gruppo di amici a Parigi, la "generazione perduta". La maggior parte erano scrittori senza fama, intellettuali senza salario, però molto solidali fra loro e con un elevato senso dell'amicizia. Sembra che questo genere di personaggi, oltre ad irradiare carisma, nascevano sotto una buona stella. Riuscivano sempre a trovare una soluzione, proprio sul limite. Alla fine, andava loro sempre bene.
Così, Hemingway, con l'aiuto del romanziere John Dos Passos, e dello stesso Evan Shipman, il giorno prima della scadenza cominciò a girare bar e bordelli, ristoranti e cantine frequentati dalla "generazione perduta", prendendo in prestito denaro da chiunque potesse aiutarlo, e racimolando così il necessario per poter poi festeggiare l'acquisto.
Quando arrivarono presso la galleria, al proprietario si cancellò via il sorriso dalla faccia. Gli faceva male all'anima, dare via quel quadro.I tre intellettuali americani educatamente spiegarono, come spesso si usa fare in Francia, che gli affari erano affari. Lasciarono la galleria e presero un taxi - la capotte aperta, la tela come se fosse una vela - e chiesero all'autista di andare il più lentamente possibile.
Quando finalmente raggiunsero l'appartamento di Hemingway, lo appesero ad una parete, e solo allora si misero a contemplarlo, estasiati ed in silenzio.
"Fu un momento molto speciale per tutti e tre, eravamo felici. Non lo avrei scambiato con nessun altro quadro al mondo ". Inoltre, quando Mirò andò a far visita allo scrittore, ebbe a dire "Sono molto contento che sia tu il proprietario de La Granja".
Hemingway non comprò il quadro come se facesse un investimento, e, più tardi, non cercò mai di venderlo. Quando gli chiedevano qualcosa sul dipinto, era solito dire:
"Quello che ha fatto Mirò su questa tela, e tutto ciò che si riesce a sentire della Spagna quando ci si trova lì e, allo stesso tempo, tutto quello che si sente quando se ne sta lontani e non vi si può tornare. Nessun altro è stato capace di dipingere due cose tanto opposte nello stesso quadro."
Ogni volta che doveva trasferirsi per lavoro, la prima cosa che imballava era "La Granja". Il quadro lo ha accompagnato ovunque. Da Parigi, a Chicago, a Key West, fino a L'Avana. In un gesto di condivisione, lo concesse in prestito al Museo d'arte moderna di New York, dal 1959 al 1964. Dove è rimasto, a tutt'oggi.
fonte: http://www.sentadofrentealmundo.com
martedì 20 dicembre 2011
seduto in una bettola …
SEPTEMBER 1, 1939
di W.H. Auden
Seduto in una bettola
sulla Cinquantaduesima
incerto e impaurito
man mano che spirano le speranze
di una decade furba e bugiarda:
ondate di rabbia e paura
si diffondono per le chiare
e scure regioni della terra,
opprimendo la nostra vita quotidiana;
l’indicibile odore della morte
offende la notte di settembre.
Le ricerche accademiche possono
mostrare intero il danno
che da Lutero ad oggi
ha reso folle una cultura,
scoprire cosa successe a Linz,
quale immensa immagine ha creato
un dio psicopatico:
io e voi sappiamo
quel che si impara a scuola, da bambini
Quelli cui è fatto del male,
col male ricambieranno.
L’esule Tucidide sapeva
tutto quel che può dire un discorso
sulla Democrazia,
e sapeva cosa fanno i dittatori,
le vecchie macerie che raccontano
davanti a tombe apatiche
analizzò tutto nel suo libro,
la ragione messa al bando,
la sofferenza che plasma l’abitudine,
il cattivo governo e l'angoscia:
tutto questo patiamo ancora una volta.
In questo cielo incolore
dove ciechi grattacieli
con la loro altezza proclamano
la forza dell’Uomo Collettivo,
ogni idioma fa a gara a mescere
la sua scusa inconsistente:
ma chi può vivere per troppo tempo
in un sogno euforico;
fuori degli specchi ci guardano,
la faccia dell’imperialismo
e il torto internazionale.
Le facce lungo il bancone
si aggrappano al loro giorno mediocre:
le luci sempre accese,
la musica che suona,
tutte le regole cospirano
perché questa fortezza abbia
l'arredamento di casa tua;
per non farci vedere dove siamo,
persi in un bosco stregato,
bambini timorosi della notte
mai stati felici o buoni.
Il più vuoto ciarpame di partito
gridato dalle Persone Importanti
non è volgare come la nostra voglia:
quel che scrisse il folle Nijinsky
su Diaghilev
è vero per ogni cuore normale;
perché l'errore allevato nelle ossa
di ogni donna e di ogni uomo
pretende quel che non si può avere,
non l’amore universale
ma di essere l'unico amato.
Dal buio della conservazione
fin dentro la vita etica
arrivano gli gli sciocchi pendolari,
ripetendo il voto di ogni mattino:
“Sarò fedele a mia moglie,
mi concentrerò di più sul mio lavoro”,
e i governanti incapaci si svegliano
per ricominciare il loro gioco forzoso:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare agli apatici,
chi può parlare per i muti?
Tutto ciò che ho è una voce
per distruggere la bugia,
la bugia romantica nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la bugia dell’Autorità
i cui edifici palpano il cielo:
non esiste una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste da solo;
la fame non lascia scelta
al cittadino o alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.
Indifeso dentro la notte
il nostro mondo giace attonito;
eppure, dovunque una costellazione
di ironici punti di luce.
Lampeggiano laddove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
Che io possa, calmo come loro
di Eros e di polvere,
assillato dalla stessa
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma di conferma.
lunedì 19 dicembre 2011
Superstizioni e bandiere
In un suo libro, "Il Surrealismo nel 1947", Benjamin Peret rivendica il senso poetico della superstizione, in opposizione alle religioni, e conclude raccomandando alcune nuove superstizioni, quali:
- Vedere un ufficiale porta sfortuna: turarsi il naso al suo passaggio.
- Esprimere un desiderio quando si vede un prete picchiato.
- Starnutire esageratamente quando si passa davanti ad una stazione di polizia, per scongiurare la sfortuna.
- Gettare un crocifisso nel camino, al primo fuoco acceso in autunno: porta fortuna.
In "Sarà solo un pittore?"se la prende con lo stalinista Siqueiros, che, in relazione al suo coinvolgimento nell'attentato a Trotsky, aveva dichiarato che quello era uno dei fiori all'occhiello della sua vita, e di passaggio denuncia lo stalinista Pablo Neruda, che lo aveva aiutato a fuggire, fornendogli un passaporto. Poi si sofferma anche su Diego Rivera, e sul fatto che il suo rapporto con Frida Kahlo non era molto buono. Quest'ultima avrebbe detto che i surrealisti erano 'bastardi, pazzi e squilibrati".
Alla morte di Peret, il suo amico Breton volle mettere una bandiera rossa sulla bara. Un testimone del fatto dichiarò che sarebbe stata più appropriata una bandiera rossa e nera.
Che cosa avrebbe detto Peret medesimo? Non lo so, e non ne ho idea, ma una delle nuove superstizioni che aveva proposto nel 1947 diceva:
- Vedendo una bandiera, distogliere lo sguardo e sputare per scongiurare il cattivo augurio.
Suppongo che si riferisse a una bandiera nazionale, però, chi lo sa ...
venerdì 16 dicembre 2011
Trova l'intruso!
L'edizione del 1975 della prestigiosa New Columbia Encyclopedia, riporta la biografia di Lillian Virginia Mountweazel. Secondo tale voce dell'enciclopedia, Virginia era una fotografa americana che morì tragicamente a 31 anni.
Ma indagando un po' di più sulla sua vita, però, si arriva alla conclusione che questa persona non è mai esistita. Uno degli editori dell'enciclopedia ha confermato che "E' una vecchia tradizione, per le enciclopedie, quella di includere una voce falsa per proteggere il copyright."
Questa tradizione si è mantenuta fino ai nostri giorni, e nell'ultima edizione del New Oxford American Dictionary, il vocabolo è stato "ESQUIVALIENCE", che è stato scoperto come un intruso dal The New Yorker.
L'utilizzo di questo tipo di inganno non riguarda solo dizionari ed opere di consultazione, ma viene esteso anche alla cartografia e alla creazione di mappe; di solito si suole includere una qualche stradina inesistente, un qualche topònimo immaginario, tutte cose di dimensioni trascurabili e impossibili da controllare ad occhio nudo.
Così, "Mountweazel" è diventato il termine fissato per riferirsi ad una voce di enciclopedia immaginaria. Nella sua versione tedesca, la parola è Nihilartikel, ed è, come dire, auto-descrittiva. Questo genere di operazioni, vengono di solito effettuate al fine di difendere e preservare il diritto d'autore, e come un metodo per rilevare plagio o violazioni di copyright.
La motivazione principale per cui i proprietari dei diritti d'autore approntano simili trappole, al di là della semplice e innocente marachella, sta nel fatto che diventa facile dimostrare se un dizionario o un'enciclopedia è stato copiato in quanto, oltre a tutto il resto, sono state copiate delle voci manifestatamente false.
Un esempio di voce fittizia si trova nella Wikipedia tedesca, dove è possibile rintracciare il termine "Leuchtschnabelbeutelschabe", riferito ad un insetto inesistente.
Tornando a Lillian, la fotografa dell'inizio, ecco tutto il testo, in proposito contenuto nella New Columbia Encyclopedia:
Mountweazel, Lillian Virginia, (1942-1973), fotografa americana, nata a Bangs, Ohio. Passando dalla progettazione delle fontane alla fotografia, nel 1963, Mountweazel produsse i suoi celebri ritratti degli Indiani della South Sierra Miwok nel 1964. Ricevette dei contributi pubblici per fare una serie di foto-saggi di argomento insolito, tra cui gli autobus urbani di New York, i cimiteri di Parigi e le cassette di posta rurali americane. L'ultimo servizio fotografico venne esposto ampiamente, e venne pubblicato col titolo di "Flags Up!" (Nel 1972) Mountweazel morì, all'età di 31 anni, in un'esplosione mentre svolgeva un incarico per la rivista "Combustibles".
Pertanto, questa signora non è mai esistita, non è nata a Bangs, in Ohio nel 1942. Non la lasciato la progettazione di fontane per la fotografia, nel 1963. Non ha mai pubblicato un lavoro sugli Indiani, nel 1964, né quello sulle fermate degli autobus, sui cimiteri di Parigi o sulle cassette della posta. E, ovviamente, non è mai morta per un'esplosione.
Attualmente, però, su Internet, si possono trovare omaggi alla sua non-opera , si può trovare una serie di fotografie su http://www.flickr.com/groups/mountweazel/, ed è stato curato un libro sulla sua storia.
Vien da chiedersi se questa pratica delle voci false, su dizionari ed enciclopedie, sia limitata solo ad alcuni paesi. E in Italia, per esempio?
http://sentadoenlatrebede.blogspot.com/2010/05/la-increible-historia-de-lillian.html
giovedì 15 dicembre 2011
¡¡CANGREJOS!!
"Quando si parla si parla, quando si gira si gira", si potrebbe parafrasare così, la famosa battuta di Tuco ne "Il buono, il brutto e il cattivo" di Sergio Leone. Gran film, forse il migliore di Leone, ma c'è anche da dire che è stato anche uno dei più costosi film della storia del cinema, se non il più costoso di tutti. E questo è avvenuto non per dei budget pazzeschi o per scenografie faraoniche, ma per un problema di ... ascolto.
Il film venne girato quasi interamente in Spagna, in varie località, dal deserto di Almeria a Burgos, e poi nel cuore della Valle dell'Arlanza, fra Salas dos Infantes e la Sierra della Demanda. Bei nomi cinematografici, vero?
Al film - siamo ancora sotto il franchismo - parteciparono più di 1.500 comparse spagnole, fra militari di professione e abitanti delle località coinvolte nelle scene. Non guadagnavano una lira per questa partecipazione, però venivano date 500 pesetas a quelle comparse che si presentavano volontarie per le scene più rischiose: cadere da cavallo, saltare giù da un ponte dentro un fiume, insomma ... cose di questo genere.
Uno dei passaggi più importanti del film, consisteva nel far saltare in aria il Ponte di Langstone sul Rio Grande (che poi il fiume era l'Arlanza che era stato un po' arginato per farlo assomigliare il più possibile al cugino ispano-americano). La scena è quella con un grandissimo Aldo Giuffrè nei panni di un ufficiale dell'esercito unionista, e il ponte è quello che il Biondo e Tuco gli fanno saltare, prima che lui muoia, per porre fine ad un'inutile carneficina. Ma lasciamo perdere il film, e torniamo al cinema!
Per girare la scena, i genieri dell'esercito spagnolo avevano costruito un enorme ponte di legno. Certo, il ponte avrebbe servito anche ad altre scene, ma lo scopo principale per il quale era stato costruito era quello di saltare per aria, in uno dei momenti chiave del film.
Nel cinema, le scene con esplosioni, distruzioni, tutto quello che ha a che fare con interventi esplosivi, sono di solito le più costose in assoluto. E anche le più delicate, in quanto prima bisogna costruire ciò che andrà distrutto, e poi bisogna evitare il rischio che il "colpo" non riesca bene. Altrimenti, bisogna ricostruire tutto daccapo e farlo riesplodere. E così arriviamo ... al ponte.
Quando tutto era pronto per girare la scena dell'esplosione, e si aspettava solo il segnale del regista, di Sergio Leone, accadde il primo incidente. Il segnale convenuto era "VAI!", urlato dal regista dentro un walkie-talkie al capitano dei genieri spagnoli che aveva costruito il ponte, e ci teneva ad avere l'onore di premere sul detonatore collegato alle cariche di dinamite che avrebbero ridotto il ponte in briciole. Ma, qualche attimo prima che Leone urlasse il suo "VAI!", sullo stesso canale radio uno degli aiutanti alla regia, rivolgendosi ad un membro del cast, che non c'entrava niente con la scena del ponte, gli aveva rivolto un "vai!", riferita ad una loro questione. Il capitano spagnolo, non si accorse che la voce non era quella di Sergio Leone ed obbedì immediatamente. Il ponte venne completamente distrutto, ma senza che ci fosse una cinepresa a filmare l'esplosione. Niente. Nemmanco un fotogramma da poter assemblare in fase di montaggio! E per fortuna che non s'era nessuno sul ponte, o nelle sue vicinanze!
L'aiuto venne immediatamente licenziato, ed il capitano spagnolo, vergognandosi per aver confuso le due voci, si impegnò a ricostruire un ponte identico a quello che era andato distrutto, di modo che ci si potesse avvalere di tutte le immagini precedentemente girate sul ponte stesso. La ricostruzione avvenne a tempo di record, mentre altre scene venivano girate altrove. I militari accettarono di rifare gratis tutto il lavoro ad una sola condizione: che venisse reintegrato nel cast il tizio che aveva dato involontariamente l'ordine. E così avvenne.
Si può aggiungere, come curiosità, che Clint Eastwood aveva imparato una sola parola spagnola, durante tutte le riprese. E questo era legato al fatto che le comparse, in attesa di entrare in scena, passavano il tempo a catturare i granchi (cangrejos) del fiume Arlanza, per poi preparare piatti di granchi col pomodoro per offrirli a tutti. Molti degli americani, compreso Eastwood, non li avevano mai assaggiati e rimasero incantati da quel cibo.
Così, Clint, tutti i giorni, prima delle riprese, sorrideva, indicava il fiume e diceva: " ¡¡CANGREJOS!! "
Perché ... "è bello sapere che da qualche parte, che piova o ci sia il sole, ti aspetta una scodella di zuppa"!
mercoledì 14 dicembre 2011
Stan
Robert Luis Stevenson, con ogni probabilità, non immaginava nemmeno cosa avrebbe provocato quando diede alle stampe il suo libro sulle sfortunate avventure del Dr. Henry Jekyll. Infatti, il libro, non tardò a diventare un'opera teatrale, per poi andare al cinema, seguendo il percorso di illustri predecessori come Dracula e Frankenstein. La storia, ad ogni passaggio, diventava sempre più semplice, arrotondava gli spigoli, riservando, se era il caso, più o meno attenzione alla componente sessuale latente. Già nel 1924, erano uscite almeno sei versioni cinematografiche, a cominciare da un film danese (1910), a quella di James Cruze (1912) , passando per altre due che erano uscite nello stesso anno, nel 1920. Poi, quella canonica, interpretata dal grande John Barrymore, ed un'altra di Sheldon Lewis, assai più pudica e moralisteggiante.Insomma, il tema era ben noto al pubblico. Adesso, mancava solo la parodia, perché rimanesse per sempre inserito nell'immaginario del secolo
Il passo fu compiuto nientemeno che da Stan Laurel. Comico di razza, un meraviglioso clown che non si vergognava di esserlo, ben presto avrebbe composto il sodalizio più famoso della storia del cinema, con Oliver Hardy
"Doctor Pyckle and Mister Pryde" è un corto, dura meno di venti minuti, dove Stanlio prende per il culo la versione di Barrymore, ne imita i gesti esageratamente esitanti - quelle braccia tese in avanti - e l'aspetto, le dita grosse e pelose, la trascuratezza simbolo di perfidia e di mancanza di rispetto per l'ordine. Il male si identifica nella capigliatura, al punto che quando un cane beve accidentalmente la pozione, la cinepresa si sofferma sulla sua testa, subito prima che il cane comincia a mordere a destra e a manca.
Semplice ed efficace, mentre ruba il gelato ai bambini o tocca il culo alle signore, va visto.
E' cinema!
DOCTOR PYCKLE AND MISTER PRYDE
Director: Scott Pembroke. Con Stan Laurel, Julie Leonard y el perro Pete. USA, 1924
martedì 13 dicembre 2011
Migranti
I nazisti agirono rapidamente, dopo aver preso il potere, in Germania, nel 1933. I loro avversari più brillanti, o forse i più esposti, fuggirono come se avessero il diavolo alle calcagna. Gli ebrei furono i primi ad andarsene. Poi gli artisti che cercarono di riannodare i fili del loro lavoro in altri paesi. Le associazioni politiche fuggiasche crearono reti, ed uffici per rilasciare passaporti e permessi di viaggio. Si diede inizio ad un intenso lavoro di informazione ed apparvero periodici tedeschi in città diverse come Parigi, New York o Shanghai. La Spagna, nonostante la sua povertà e la mancanza di risorse, non era un brutto posto per i gruppi antifascisti.
In fuga da Berlino, nel 1933, arriva a Barcellona un pugno di sindacalisti che si erano riuniti attorno alla "ASY Verlag", una piccola casa editrice fondata nel 1929 da Fritz Kater, suocero di Diego Abad de Santillan. Il lavoro della ASY Verlag si intensificò a partire dal 9 marzo 1933. Quel giorno, la loro sede a Märkisches Ufer venne saccheggiata dalla polizia nazista, ed i gruppi anarchici che avevano lì i loro archivi e le collezioni delle pubblicazioni vennero decimati dagli arresti. Il catalogo della ASY Verlag includeva libri sull'anarchismo, qualche titolo nudista ed altre pubblicazioni che si riferivano alla salute sessuale .
Nel 1936, erano una ventina i tedeschi raccolti intorno alla sede editoriale di Barcellona, ed avevano preso il nome di "Gruppe DAS (Deutsche Anarcho-Syndicalisten)". La casa editrice aveva i suoi uffici al numero 132 del Paseo de Pi i Margall, a quattro passi della sede del dipartimento cultura della Generalitat de Catalunya, e non lontano dalla Caserma Karl Marx, che si trovava nella stessa strada. Una curiosa composizione topografica che andrà ad acquistare rivelanza se guardata dal punto di vista degli eventi che avranno luogo nel maggio del 1937.
Il DAS era un gruppo davvero singolare: Solo una manciata di tedeschi che lavoravano duramente per diffondere l'anarco-sindacalismo a Barcellona!!!
E' vero che una delle poche pubblicazioni che pubblicarono venne tradotta in spagnolo e francese, ma data la sua opera di propaganda, vediamo che essenzialmente era scritta per i tedeschi.
I titoli pubblicati dalla ASY Verlag a Barcellona sono stati:
Was sind die CNT und FAI? (1936)
Schwarz-Rotbuch. Dokumente über den Hitlerimperialismus (1937)
Revolution und Gegenrevolution (1937)
Va detto che nel maggio 36, al gruppo, si unì a loro Willi Winkelmann, che divenne noto negli anni della guerra come il "console rosso di Barcellona". Il "rosso" proveniva dal colore dei suoi capelli e della barba, il "console" ha una spiegazione altrettanto semplice, ma molto più emozionante. Si riferisce allo smantellamento del consolato tedesco a Barcellona ed al sequestro dell'archivio che documentava gran parte del movimento nazista in Spagna. Ma questa è un'altra storia.
lunedì 12 dicembre 2011
Canzone d’autore? Quale?
"- Hey Joe, dove vai con codesta pistola in mano?
Ti sto chiedendo dove vai con quella pistola in mano.
- Vado ad ammazzare la mia donna. L'ho trovata con un altro.
- Hey Joe, ho sentito che hai ammazzato la tua donna.
- Hey Joe, dove te ne andrai ora? Dio mio, dove andrai ora?
- Me ne vado a sud, in Messico, dove potrò essere libero.
Nessuno mi troverà laggiù. Nessun boia mi metterà la corda al collo.
Potete crederci.
- Hey Joe, sarà meglio che tu scappi-
- Me ne vado al sud. Addio a tutti."
Poche canzoni, prima di avere successo e di diventare un "classico", hanno avuto una storia così tanto contorta quanto "Hey Joe". "Coverata" innumerevoli volte; qualsiasi chitarrista in tutto il mondo ne riconosce all'istante la sua inconfondibile sequenza di accordi. Jimi Hendrix ha ottenuto un tale successo, con questa canzone, che oramai rimane indissolubilmente legata al suo nome, e viene usata per omaggiarlo. Eppure, non l'ha scritta lui, né tantomeno è stato il primo a interpretarla, per quanto molta gente pensa, sbagliando, che sia lui, l'autore della canzone.
Quando la incise - fu il suo primo singolo, nel 1966 - la canzone aveva avuto, negli Stati Uniti, assai più di un interprete, dal momento che molti musicisti avevano capito che "Hey Joe" era un diamante grezzo che avrebbe potuto trasformarsi in un successo, se non addirittura in un vero e proprio classico.
La storia di questa "murder ballad" è talmente curiosa e contorta da conferirle un'aura di leggenda. Può perfino sembrare che non esista affatto un vero e proprio autore e che la canzone sia sbucata fuori dal nulla. Anche se, legalmente, esiste un autore riconosciuto: Billy Roberts. Cui, però, la canzone non ha mai portato nessuna fama.
Il testo è assolutamente semplice, e si svolge in forma di dialogo. Un dialogo fra il narratore e Joe, un uomo che ha assassinato la sua donna e si prepara a fuggire in Messico. Quasi un western scuro. Il tema della canzone, e l'impianto musicale tipicamente folk, hanno fatto pensare a molti che si trattasse di una canzone tradizionale. Si è portati a pensare che, come "Amazing Grace", sia cresciuta e si sia arricchita, passando di bocca in bocca, nel corso degli anni, magari di un secolo. Qualcuna delle sue versioni include anche l'utilizzo di un revolver "Colt 44". Non c'è da stupirsi che molti hanno sostenuto, al momento, ed alcuni sostengono ancora oggi che "Hey Joe", potrebbe essere una canzone contemporanea alla storia che mette in musica - ambientata a fine Ottocento. Una ballata che racconta un crimine e che è passata di chitarra in chitarra, o di violino in violino, per i villaggi sperduti dei Monti Appalachi.
E invece no. La più antica prova tangibile dell'esistenza di questa canzone risale all'anno 1962. Solo quattro anni prima che venisse incisa da Hendrix. Ma ne possono succedere di cose, in quattro anni.
Un cantante folk del sud degli Stati Uniti, anche se residente in California, chiamato Billy Roberts, che, per inciso, è ancora vivo, è registrato come unico autore della canzone. Si tratta della prima indicazione affidabile della comparsa della canzone in versione completa con il titolo di "Hey Joe".
Billy Roberts la eseguiva dal vivo nel 1962, ma non l'ha mai incisa su vinile. Un produttore, vecchio amico di Roberts, sostiene che esiste una registrazione dal vivo del cantante che suona "Hey Joe", in un bar, nel 1961, ma nessun altro ha sentito questa registrazione, o ha mai avuto notizia della sua esistenza. A quanto pare, il nastro, o non esiste, o è stato perso irrimediabilmente. Risulta però innegabile l'iscrizione nel registro di proprietà intellettuale. "Ah, bene, allora la paternità del brano è chiara", si potrebbe dire.
E invece no, non è chiara per niente. Anche se dal punto di vista legale Roberts è l'autore, la storia della canzone è molto più complicata.
All'inizio dei '60, Roberts è un cantante molto poco noto (in realtà, continuerà ad esserlo, nonostante "Hey Joe") che si esibisce nei bar e nei piccoli locali della California. Uno dei tanti musicisti che saliva sul palco in cambio di pochi dollari oppure, quando gli andava bene, apriva i concerti di qualche band conosciuta. Nella scena musicale californiana, niente distingueva Roberts da tanti altri musicisti sconosciuti. Però lui aveva una canzone, e quella canzone era qualcosa!
Durante una delle tante esibizioni di Roberts, davanti ad un pugno di persone, un tale, di nome David Crosby, ascoltò per la prima volta "Hey Joe". E ne rimase affascinato. Allora Crosby non era una rock star, ancora non faceva parte dei Byrds, né, tantomeno, si era accompagnato a Stills, Young e Nash. Ma Crosby fu il primo a pensare che "Hey Joe" fosse un successo in potenza.
Ne era ossessionato e, quando nel 1964 entrò a far parte dei Byrds, come chitarrista, disse a Roger McGuinn che dovevano incidere "Hey Joe" quanto prima. Ma McGuinn e gli altri membri della band erano scettici. Non ci trovavano niente di speciale nella melodia, e rifiutarono di metterla in un disco. Però, visto che Crosby insisteva, decisero di inserirla nel loro repertorio dal vivo, facendola cantare a Crosby stesso.
Così, i Byrds - la cui popolarità in quegli anni cresceva - cominciarono ad eseguire la canzone davanti ad un pubblico formato da quella che sarebbe stata l'emergente scena hippie di Los Angeles. La canzone cominciò ad essere conosciuta. Però, rimaneva commercialmente vergine, in quanto nessuno l'aveva ancora incisa. Né nella versione lenta e malinconica di Roberts, né in quella più veloce, pop-rock, dei Byrds.
L'anno successivo, 1965, i membri di uno dei tanti gruppi locali - The Leaves - assistettero ad un concerto dei Byrds e scoprirono "Hey Joe". Come era successo a Crosby, si innamorarono della canzone e si convinsero che in essa c'era un grosso potenziale commerciale. Senza pensarci troppo sopra, fecero quello che sia Roberts sia i Byrds non avevano fatto. La incisero in studio e la pubblicarono come singolo. Il disco non ebbe successo (forse per una cattiva promozione), però innescò una serie di carambole a proposito della paternità della canzone. Sul disco singolo, la canzone veniva attribuita a tale Dino Valenti. Dino Valenti era un altro musicista della scena losangelina, che in futuro avrebbe fatto parte dei Quicksilver Messenger Service, ed aveva già interpretato "Hey Joe" nei suoi concerti. Quando The Leaves si apprestarono ad inciderla su disco, Valenti dichiarò che la canzone era sua, e quelli gli credettero. Billy Roberts, preoccupato, consultò un avvocato e prima che il tribunale gli desse ragione si consumò un periodo di confusione in cui la canzone arrivò ad essere accreditata al nome di Jeff Beck (allora, uno dei membri dei The Leaves).
Tuttavia, la sentenza che assegnava a Roberts la paternità della canzone non fece giustizia della confusione. Già da prima, circolava la voce che Roberts e Valenti fossero stati amici. Valenti era solito avere problemi con la giustizia, per cui - si raccontava - Roberts gli aveva ceduto, in parola, i diritti della canzone, di modo che potesse usufruire delle "royalties" mentre era in prigione.
Intanto, The Leaves, che non avevano ottenuto alcun successo col singolo, decisero di non darsi per vinti. Sapevano che molti musicisti di Los Angeles avevano notato che la canzone aveva qualcosa di speciale, e molti l'avevano aggiunta al loro repertorio. Così, decisero di riprovarci. Tornarono in studio e ne fecero una nuova versione. E, per la seconda volta, fu un fiasco. Forse c'era una maledizione su "Hey Joe"!
Nel frattempo, altre band della città si interessarono alla canzone. The Surfaris (un "combo" di musica surf che aveva avuto un buon successo con un pezzo strumentale, "wipe out") la incisero come lato B di un singolo, cambiandole il titolo in "Hey Joe, where are you going?". A qusto punto, molti credevano - e alcuni hanno continuato a credere - che The Surfaris fossero stati i primi ad inciderla. Ma The Leaves non si arresero e tornarono in studio per la terza volta, a metà del 1966. Ammirevoli! E questa volta vennero ricompensati, perché finalmente "Hey Joe" divenne un successo nazionale, negli Stati Uniti. Eravamo nell'estate del 1966.
Quando David Crosby, che aveva inutilmente cercato di fare incidere ai Byrds quella che lui riteneva "la sua canzone", si accorse del successo dei The Leaves, si infuriò con i compagni del suo gruppo. E fu così che The Byrds acconsentirono ad inciderne una versione intitolata "Hey Joe (Where you gonna go)", la quale, però, non ebbe il successo sperato. Cosa che fece aumentare la rabbia di Crosby che continuava a pensare che avrebbero potuto essere i primi.
Intanto, la canzone cominciò ad essere la più interpretata del 1966. Si trasformò in un autentico "standard", quasi fosse un pezzo dei Beatles o dei Kinks. Apparvero nuove versioni, da parte di diversi artisti. The Music Machine ne fecero una versione lenta, cantata con voce lacrimosa e sottesa da un suono pieno di riverberi; The Love fecero la loro versione, considerato che il loro chitarrista, Bryan MacLean, aveva lavorato con i Byrds per un paio d'anni ed era stato proprio lui a consigliare la canzone ai The Leaves.
Come se non ci fosse già abbastanza casino, circa la paternità della canzone, a questo punto apparve dal nulla un musicista di folk britannico, Len Partridge, a raccontare che lui, quella canzone, l'aveva cantata insieme a Billy Roberts in diversi pub scozzesi. Anzi, aveva aiutato lui, lo stesso Roberts, a scrivere la canzone! La cosa, naturalmente, cadde lì.Più surreale, però, fu il caso di Tim Rose.
Tim Rose aveva inciso la sua versione della canzone. Un arrangiamento folk, cantata con tono drammatico, che, evidentemente, poi avrebbe ispirato in modo diretto la versione di Hendrix. Era decisamente buona, come versione, ma questo finì in secondo piano quando Rose dichiarò che la canzone non era di Billy Roberts, ma si trattava, bensì, di una ballata tradizionale che aveva ascoltato nella sua infanzia. A suo dire, l'aveva sentita cantata da uno sconosciuto durante una festa campagnola ed, essendo un bambino, era rimasto impressionato dalla forza delle parole. Pertanto, non intendeva pagare alcun diritto a Roberts, dal momento che si trattava di una canzone di pubblico dominio. Ovviamente, la faccenda tornò in tribunale. Tim Rose non poté dimostrare il suo assunto: non esisteva alcun nastro anteriore al 1962.
Negli Stati Uniti, esistono degli organismi ufficiali che si preoccupano di salvaguardare la ricca tradizione musicale popolare del paese, la maggior parte delle cui canzoni non sono mai state registrate e corrono il rischio di perdersi. La Biblioteca del Congresso è una di queste istituzioni, e la Biblioteca del Congresso non aveva alcuna notizia di quella canzone, né di qualcosa che ne potesse essere considerata una versione primitiva, nel repertorio popolare. Così, Tim Rose dovette pagare i diritti d'autore a Roberts, continuando però ad affermare la sua versione dei fatti; fino al punto che, negli anni '90, torno ad inciderla con il titolo di "Blue Steel 44", continuando a sostenere la sua tesi.
Ma intanto, in quello stesso 1966, incurante delle diatribe in tribunale, "Hey Joe" si preparava a salpare per l'Europa. Chas Chandler, ex-bassista del gruppo inglese "The Animals", era in viaggio per gli Stati Uniti, precisamente a New York. Dopo essersi separato dal gruppo, aveva pensato di riciclarsi come produttore ed era in cerca di qualche artista sconosciuto e promettente di cui farsi carico. La canzone, "Hey Joe", gli capitò di ascoltarla durante un concerto al "Cafe Wha" e, come altri prima di lui, ne rimase colpito. Ne comprese le enormi potenzialità e pensò che avrebbe potuto utilizzarla in Inghilterra, dove non era conosciuta. L'unica cosa che gli mancava, era un artista adatto per utilizzare quel biglietto da visita.
Non dovette attendere troppo. Pochi giorni dopo, nello stesso Cafe Wha, Chas Chandler entrò in stato di shock, ad assistere all'esibizione di un chitarrista assolutamente sconosciuto, un tale Jimi Hendrix. Ed Hendrix, come per incanto, cominciò a suonare la sua versione di "Hey Joe". Chandler non perse tempo: convinse Hendrix ad accompagnarlo in Inghilterra, dove gli presentò due musicisti inglesi per formare il trio "The Jimi Hendrix Experience" (la concorrenza erano i Cream di Eric Clapton!) e gli fece incidere "Hey Joe", come primo singolo. Fu un successo enorme in tutta Europa.
Quando Hendrix tornò in patria, al Festival di Monterrey, nel 1967, "Hey Joe" era parte fondante del suo repertorio, e la sua interpretazione cacciò immediatamente nell'oblio tutte le versioni precedenti. La sua versione non era molto diversa da quella di Tim Rose, certo, ma il fraseggio blues iniziale della chitarra durava per metà della canzone, ed il contrattempo della batteria di Mitch Mitchell, fece sì che tutto questo si trasformasse in un classico. E fu, e rimase, un classico di Jimi Hendrix!
Certo, Roberts si è goduto i diritti d'autore per tutto questo tempo, ma senza mai raggiungere il "successo": la sua versione rimane lì, da qualche parte, del tutto non considerata. E anche il discorso sulla paternità e sull'originalità della canzone passò in secondo piano, dopo Hendrix.
Però, negli anni, c'è stato chi ha continuato a scavare circa la possibilità che qualcosa o qualcuno potrebbe avere ispirato Roberts. Per esempio, si sa che esiste un successo country degli anni '50 che si intitola "Hey Joe", e sì, è strutturato in forma di dialogo, ma la tematica e la melodia non c'entrano chiaramente niente. Qualcuno ha comparato la canzone di Roberts, a "Cocaine Blues", resa famosa da Johnny Cash, e che non è altro che la revisione di "Little Sadie" con un altro titolo; questa sì una canzone tradizionale che parlava di un uomo che ammazzava la moglie dopo aver scoperto la sua infedeltà. Ma, di nuovo, la melodia non c'incastra niente con "Hey Joe".
Però, investigando ...si scopre che c'era una fidanzata!
Billy Roberts, all'inizio degli anni '60, aveva una fidanzata. Niente di strano in questo, per carità. Però, questa fidanzata - si chiamava Nieva Miller - era una cantante folk. Una cosa alla Joan Baez, per intendersi. No, certo, Niela non ha mai scritto una canzone su un uomo che ammazza la sua donna, però ...
...Ovviamente, la canzone non è identica, ma la frase melodica di "Baby don’t go downtown" ...
Vabbé, d'accordo, Billy Roberts non ammazzò la sua ragazza, come Joe, si limitò semplicemente ad aprire il fuoco sulla sua canzone. Un plagio, non troppo romantico! E qui sembra finire tutta la storia.
Restano le domande finali. Su Joe. Riuscì ad arrivare in Messico? Oppure, venne catturato prima che arrivasse a passare la frontiera? finì appeso a una corda? Aprì una taverna in un villaggio in mezzo al deserto e tutte le sere annegava nell'alcol il suo rimorso? Magari, si unì alla rivoluzione messicana. Oppure, ancora, i fratelli della ragazza uccisa lo ritrovarono, abbattendolo a revolverate in un vicolo polveroso... Chissà. Non lo sapremo mai.
A meno che un giorno non venga fuori un vecchio bluesman cieco, di centodieci anni, uno di quelli che ha trascorso la sua vita caricando carbone sulle chiatte del Mississippi, e dica "quella Niela Miller ha rubato la mia canzone".
Perché no!?
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fonte: http://www.jotdown.es/
sabato 10 dicembre 2011
Ricorsi
E' un altro 9 dicembre, quello del 1893, quando, alle 16:00, Auguste Vaillant, gridando "Viva l'anarchia", lancia una bomba nell'emiciclo della Camera dei Deputati, a Parigi, al Palais Bourbon. Scagliata dalla seconda tribuna pubblica, situata alla destra del presidente della Camera, Charles Dupuy, la bomba - un ordigno fatto di esplosivo e chiodi e pezzi di piombo - ferisce solo leggermente una cinquantina fra deputati e spettatori che assistono alla seduta della camera. Vaillant stesso rimane ferito al volto e alla gamba destra.
L'azione è puramente simbolica, secondo le parole di Vaillant, che dichiara:
"Ho preferito ferire un gran numero di deputati piuttosto che uccidere qualcuno. Se avessi voluto uccidere avrei caricato (la bomba) con dei pallettoni. Ho messo dei chiodi; ho voluto quindi solo ferire. Non posso certo mentire per darvi il piacere di tagliarmi il collo!"
La reazione è immediata, ed il 12 dicembre viene votata la prima mandata delle cosidette "Lois Scélérates", dirette contro il movimento anarchico ed i suoi organi di espressione.
Auguste Vaillant verrà processato, condannato a morte e ghigliottinato il 5 febbraio 1894.
venerdì 9 dicembre 2011
La crisi è da fantascienza!
In una città dell’Arizona un tipo uomo-medio americano, Marvin Sellers, fa una sera i suoi conti e si accorge di non potersi permettere un nuovo, modernissimo modello di frigorifero. Annulla l’ordinazione e mette in moto, in piena innocenza, uno spaventoso cataclisma recessivo. Il suo piccolo risparmio di bilancio si ripercuote di prodotto in prodotto, d’industria in industria, producendo una reazione a catena che paralizza in pochi mesi l’intera economia mondiale. I massimi esperti non sanno più dove battere la testa, nulla sembra poter fermare la valanga che ha travolto il gigante consumistico. Finché a qualcuno viene in mente di impegnare ogni restante risorsa nella ricerca della causa della crisi. E via via risalendo, si scopre che il colpevole, il primo anello della nefasta catena, è un uomo, un uomo solo, un certo Marvin Sellers, di Tucson, Arizona…
Mack Reynolds - Effetto Valanga (Depression or Bust) - 1974 -
* Dallas McCord Reynolds (conosciuto come Mack Reynolds), nato nel 1917 e morto nel 1983. Giornalista economico, prestò servizio nei Marines. Sostenitore del partito socialista americano, dopo la guerra divenne autore di racconti di fantascienza, consigliato dall'amico Fredric Brown.
giovedì 8 dicembre 2011
L’ombra della Chiesa
"La Chiesa dice che la Terra è piatta, ma io so che è rotonda, perché ho visto l'ombra della Luna, ed io ho più fede nell'ombra di quanta ne abbia nella Chiesa."
- Fernão de Magalhães (Magellano), c. 1510 -
Salvezza
Walter Benjamin entra anche in polemica con le filosofie della storia che riferiscono il presente ad un senso del futuro. Queste concezioni della storia annunciano che tutti gli abusi, le ingiustizie e le atrocità della storia finiranno, riciclati o metabolizzati, in un senso storico. Per cui, il futuro, e non il passato, ci salverebbe.
Il pensatore tedesco denuncia queste teorie della storia come ideologie del progresso e le respinge sulla base di due motivi. Il primo è dato dalla confusione fra progresso tecnico e progresso morale. Con il primo abbiamo ottenuto il dominino sulla natura e, tra l'altro, anche sull'uomo. Benjamin mise in fila con la pazienza di un collezionista tutti i sogni di emancipazione che l'uomo aveva associato all'avvento della moderna tecnologia. Il diciannovesimo secolo credeva al sogno di Leonardo da Vinci, cioè immaginava che gli aerei avrebbero trasportato la neve, dalle Alpi, per alleviare il Ferragosto ai romani, ma ciò che è realmente accaduto è che gli aerei hanno riempito le trincee di sangue. La seconda critica è rivolta alla natura inesauribile,perfettibile ed invincibile del progresso: inesauribile perché il tempo e le risorse della natura e dell'uomo sono infinite; perfettibile, perché l'evoluzione del mondo e dell'uomo porta sempre a migliorare, come ben dimostra il darwinismo sociale; e invincibile perché l'uomo e la funzione della società funzionano come la natura, contro le cui leggi è meglio non combattere. Una delle conseguenze più nefaste di questa convinzione sulla perfettibilità dell'uomo e del mondo, è la pigrizia. Racconta Kafka, ne "La costruzione della Muraglia Cinese", che i costruttori della Torre di Babele in realtà non poserò neanche la prima pietra. Dal momento che avevano tutto il tempo del mondo a venire, non si disturbarono ad iniziare il lavoro.
Fonte: - Reyes Mate - De La herencia del olvido - Errata Naturae. Madrid: 2008.
mercoledì 7 dicembre 2011
Doping
Doping Economico – di Robert Kurz
Le crisi passano, ma il capitalismo rimane. Tale almeno è il credo incrollabile dei teorici, non importa che siano liberali o di sinistra. Come si supera una grave crisi economica? Con la svalutazione del capitale in eccesso, in tutte le sue forme (mezzi di produzione, forza lavoro, merci, fondi di capitale). Dopo di che, sempre in linea di principio, tutto può ricominciare. I professori di economia di tendenza liberale, lo chiamano "un aggiustamento"; la sinistra accademica, una "purga". Dall'autunno 2009, sono tutti d'accordo su un punto: l'ultimo episodio di crisi economica globale sarebbe già finito. Però non si è vista per nulla questa forte svalutazione, o purga. Invece, i dirigenti hanno lottato per "salvare" il sistema, costi quel che costi. Se seguiamo l'analisi dei teorici dell'economia, sia a destra che di sinistra, bisogna concludere che il vero impatto della svalutazione deve ancora venire.
E se non fossero i teorici, ma i pragmatici, ad aver ragione, ritenendo che dopo la grande correzione dei mercati globali, il paesaggio economico assomiglierà ad una terra bruciata? Certamente, le loro misure di salvataggio non fanno che rimandare il problema fondamentale facendogli assumere delle proporzioni sempre più smisurate. Da oltre venti anni, l'economia globale vive prevalentemente grazie ad una sorta di doping finanziario. Questa funzione - che, concretamente, crea un potere d'acquisto privo di qualsiasi base reale - è stata assicurata, a lungo, da bolle finanziarie; e poi, a partire dalla fine del secolo scorso, le banche centrali ed i bilanci nazionali hanno preso il sopravvento. Per quanto riguarda la mobilità della forza lavoro in Cina, India ed Europa, è da un bel po' di tempo che si basa su delle logiche deficitarie e a senso unico. In ultima analisi, i processi di produzione supportati in questo modo si condannano alla svalutazione di tutti i loro componenti. Quindi, anche se i teorici avessero visto giusto, non vi sono nuove prospettive.
In questa fase, possiamo senz'altro parlare di una paralisi, sia della teoria che della prassi, in materia di politica economica e monetaria. Lo testimoniano, anche, le violente controversie che agitano sia l'ambiente degli economisti sia le cerchie governative. I neoliberisti duri e puri, come Jürgen Stark che ha appena rassegnato le dimissioni dalla carica di economista della BCE, non avrebbero niente contro un'uscita brutale dalla crisi, poiché hanno più fiducia nel loro modello ideologico che nella realtà. I pragmatici, da parte loro, vogliono continuare a dopare l'economia attraverso l'ampliamento dei disavanzi di bilancio, anche se si tratta di aumentare costantemente le scorte di dinamite che esploderà insieme alla svalutazione inevitabile. Ovunque, laddove i programmi pubblici di rilancio si stanno esaurendo per mancanza di soldi, vediamo oggi crollare i tassi di crescita - proprio come un atleta dopato che si sgonfia, quando è privato della la sua droga. La prossima recessione globale è imminente. Negli Stati Uniti, il presidente Obama parla già di mettere all'opera un mega-piano di rilancio, ma dove prenderà il denaro per finanziare il progetto?
Si potrebbe riformulare diversamente il dilemma insolubile del capitalismo. Fintanto che le incessanti iniezioni di denaro sostengono artificialmente un sistema finanziario arrivato alla frutta,la crisi rimane in sospeso. Invece, non appena la massa monetaria senza sostanza dovrà soddisfare dei bisogni reali, si innescherà una svalutazione del denaro che, finora, solo la natura transitoria del crack del 2009 ha limitato.
Questa inflazione galoppante, che i paesi emergenti no riescono più a frenare, bussa ora anche alle porte d'Europa, soprattutto a quelle del Regno Unito, dove ha già raggiunto circa il 4,5%. La BCE e il governo Sarkozy e la Merkel sembrano rassegnati, come hanno fatto gli inglesi, ad accettare l'inflazione come il male minore. Questo porta, sia in politica che in economia, a scelte difficili. In realtà, si tratta di un problema che dovrebbe mettere in discussione il capitalismo stesso in quanto sistema sociale, ma nessuno lo vuole ammettere.
- Robert Kurz -
Originale: http://www.neues-deutschland.de/artikel/207082.oekonomisches-doping.html
Domande
Robert Walser. Da alcune informazioni biografiche: nel 1931, all'età di 53 anni, Walser, dopo aver lasciato Berlino, tornò in Svizzera "come uno scrittore fallito e ridicolo" (questo, secondo le sue proprie parole). Prese una stanza in una casa di cura - la clinica Waldau - nella città industriale di Bienne, dove viveva sua sorella, e, negli anni successivi, prese a guadagnarsi da vivere, in modo precario, pubblicando articoli sui supplementi letterari.
Walser. Walser, come Rimbaud. Abbandona quasi tutto e scappa. Forse, lontano dal "plotone di esecuzione della letteratura". Come se, alla fine, o in qualche altro momento si decidesse di smettere di resistere. Oppure, si sceglie di resistere proprio facendo esattamente il contrario. Un gettare la spugna solo apparentemente. Itinerari. Altri itinerari verso il disastro. Troppe domande che bussano.
martedì 6 dicembre 2011
Naufraghi
Si nutrivano di radici, lombrichi ed uccellini, e questo in regime di lavori forzati, ma era solo l'inizio della triplice tragedia dei repubblicani spagnoli - tra i quali molti astruiani - rinchiusi nei gulag di Stalin. In primo luogo, subivano una sorta di "sequestro politico", difficile da spiegare. Loro erano "rossi" e si trovavano nella patria di riferimento dei "rossi", l'Unione Sovietica. In secondo luogo, non potevano tornare in Spagna, o in Francia, perché i capi del Partito Comunista (PCE) Spagnolo in Unione Sovietica "hanno una responsabilità enorme dal 1948, perciò non vogliono che lascino la Russia e raccontino cosa è loro successo". Questa ipotesi, la sostiene Secundino Serrano, autore di un libro pubblicato recentemente, «Españoles en el gulag. Republicanos bajo el estalinismo» (Ediciones Península).
Secundino Serrano (nato a León, nel 1953), ha studiato Geografia e Storia presso l'Università di Oviedo e, nella ricerca che ha portato al suo libro, ha raccolto alcune testimonianze degli asturiani che furono vittime dei due conflitti, la guerra civile spagnola e la Seconda Guerra Mondiale.
E la terza tragedia, per quegli uomini, fu che anche il PCE li accusò di essere "spie infiltrate" o "falangisti mascherati" che si erano mescolati ai repubblicani. La verità è che i Repubblicani, dal 1948, dovettero "frequentare" gli stessi gulag in cui venivano rinchiusi i membri della División Azul, l'esercito franchista che combatteva in Russia a fianco di Hitler, catturati dai sovietici. Questa coincidenza forzata di destini venne sfruttata dal PC per "insultare così quei repubblicani che volevano trattenere in Unione Sovietica."
Secundino Serrano ha raccolto testimonianze di asturiani come Avelino Acebal Pérez, nato a Jiove (Gijón) nel 1894, che fu nel gulag dal giugno del 1941, quando fu arrestato ad Odessa insieme ad altri 44 marinai spagnoli. Nel 1942, quei marinai, insieme a 25 piloti, vennero trasferiti in Kazakistan, in tre campi. Nel 1948 vennero portati ad Odessa, e poi transitarono per i gulag di Cherepovets e Bovoroski, nella Russia europea. Avelino Acebal venne rilasciato nel 1954, tredici anni dopo, ed arrivò nel porto di Barcellona il 2 Aprile 1954, sulla nave greca "Semíramis", insieme ad altri 285 prigionieri spagnoli dei gulag, tra cui 38 repubblicani.
Avelino era stato fuochista sulla nave «Inocencio Figaredo», insieme ad altri marinai come Victor Rodriguez Bango (Oviedo, 1916). Ma "ad Odessa Bango firmò un documento in cui si criticava il deviazionismo dei piloti e dei marinai, ed accettava di rimanere a vivere in Unione Sovietica" - spiega Secundino Serrano. Bango venne poi rilasciato nel 1948, e tornò in Spagna il 18 dicembre 1956, in una delle sette spedizioni che riportarono in Spagna più di duemila "Russi Spagnoli". Un terzo marinaio, Julio Martinez Berros, di Gijon, morì durante la deportazione del 1941, mentre lavorava su una strada tra Norilsk e Dudinka, nel Circolo Polare Artico. Ed un quarto, José Sáez Menendez (Gijon, 1900), viene dato per disperso, negli archivi del governo repubblicano in esilio. Esiste almeno un altro asturiano, Manuel Martínez Vázquez (Navia, 1910) che venne arrestato a Berlino nel 1945 e poi portato in Unione Sovietica e confinato in un campo di lavoro.
Secundino Serrano elabora nel suo libro le cinque tipologie dei repubblicani sottomessi nel gulag sovietico. In primo luogo, c'erano i "marinai", che la fine della guerra civile sorprende mentre si trovano in Unione Sovietica. "Le autorità russe sequestrano le navi ed i marinai vengono riuniti in un albergo, ad Odessa", spiega Serrano. Quattro sono gli asturiani che rientrano in questa tipologia. Dopo, "vengono i piloti, o gli allievi dell'aviazione che erano andati a seguire un corso di sei mesi, in Unione Sovietica, per pilotare gli aerei russi che erano stati venduti alla Repubblica". Anche questi vengono sorpresi dalla fine della guerra civile, mentre si trovano in Russia. Nessun asturiano risulta in questo gruppo. Il terzo tipo è quello dei "berlinesi" che erano "detenuti a Berlino nel 1945." E' il caso già citato di Manuel Martinez. Il quarto gruppo sono gli "esuli politici, i pedagogisti ed educatori, che erano andati in Russia con i cosiddetti "figli della guerra". Il quinto tipo è quello dei "disertori pianificati", ed anche in questi non si registrano asturiani. Questi "disertori erano uomini di sinistra, molti del PCE, che si arruolarono nella División Azul in modo programmato, perché in Spagna avevano reso loro la vita impossibile, con ritorsioni e rappresaglie." Il loro scopo era quello di "raggiungere l'Unione Sovietica e passare con l'Armata Rossa. E ci riuscirono, ma incapparono nello stesso degli altri repubblicani, invece di venire incorporati nell'esercito, o tornare liberi, vennero mandati nei campi di lavoro".
Le vicende di tutti questi repubblicani, circa 200 in totale, hanno avuto diverse fasi, spiega Secundino Serrano. "La maggior parte dei Repubblicani aveva deciso di restare in Unione Sovietica, con un lavor e una vita normale, ma il problema era per quelli dei 200 che non volevano tornare tornare in Spagna per paura della repressione, ma non volevano nemmeo restare in Unione Sovietica". Questa situazione "sembrava incomprensibile ai sovietici, ed al Partito Comunista Spagnolo, perché si trattava di gente di sinistra che alla Russia preferiva la Francia, o l'America Latina, dove probabilmente avevano dei parenti." Il fatto è che quei repubblicani "si fermarono lì, come sul confine, e infatti vennero ben nutriti e curati per due anni, senza lavoro e con una paga; i marinai, ad Odessa, ed i piloti, alla periferia di Mosca". Ma tutto si complica, a partire dal 21 giugno 1941, quando comincia l'"Operazione Barbarossa", ovvero l'invasione dell'Unione Sovietica da parte della Germania nazista. "Da quel giorno, tutti gli stranieri sono sospetti e qualsiasi straniero che procura problemi è doppiamente sospetto, per cui una settimana dopo l'invasione i repubblicani spagnoli erano già nei campi di lavoro".
Per quanto riguarda gli asturiani, Serrano, riesce a localizzare anche loro, in Unione Sovietica, ma non si trovavano nel gulag. "Nel 1942 e nel 1943, l'esercito nazista fece prigionieri, nel Caucaso e in Finlandia, 37 'bambini della guerra', e di questi undici erano asturiani" - racconta Serrano. "Tra loro ci sono due storie molto particolari: uno di essi si chiamava Roberto Montes Rodríguez, soprannominato "Cantinflas", e l'altro era Eloy Álvarez Alonso, "el Ruso". I due vennero portati in Spagna, aggregati ai nazisti, e poi finirono per unirsi alla guerriglia asturiana, al maquis, e nel 1950, quando venne preso Caxigal, morirono in uno conflitto a fuoco vicino Laviana". "Cantinflas" e "el Ruso" avevano subito un processo di rieducazione ed erano arrivati a Madrid con la divisa dei falangisti, ma finirono la loro vita nella guerriglia".
Dopo il ritorno dei repubblicani, dal gulag, in Spagna, incluso l'asturiano Avelino Acebal, "il quale batte tutti i record di permanenza nei campi di lavoro forzato, 13 in totale," l'effetto dell'Unione Sovietica di Stalin su questi uomini era stato definitivo, "Nel complesso, erano tutti anti-comunisti viscerali, come si può immaginare; erano stati repubblicani, alcuni erano stati comunisti, ma dopo anni di gulag, senza nessuna spiegazione più o meno logica, erano fondamentalmente anti-repubblicani", conclude Secundino Serrano.
La triplice tragedia russa era stata efficace, ma nella direzione opposta.
lunedì 5 dicembre 2011
Sangue
Nel 2002, 39 paesi avevano ottenuto tutte le loro scorte di sangue da anonimi, volontari, donatori non pagati, e nel 2008 il numero dei paesi è salito a 62. I donatori tendono ad essere sopra i 44 anni, nei paesi più ricchi, mentre in quelli a basso o medio reddito l'età media dei donatori tende ad essere sotto i 25.
[fonte: Blood Transfusion Safety, WHO, 14th June 2011].
In Spagna, il coinvolgimento pubblico nei programmi di donazione di organi è aumentata notevolmente con l'introduzione di un sistema meno contorto e più logico per dare il consenso.
Nel Regno Unito, dove il "National Blood Transfusion Service" ha sempre fatto affidamento sulle donazioni e sui volontari, c'è ora un declino nel numero di donatori dei gruppi sanguigni più comuni, e le carenze sono più evidenti nei periodi di Natale e durante le vacanze estive.
A questo, bisogna aggiungere che la richiesta delle maggior parte delle procedure chirurgiche più moderne richiede una maggiore offerta di buon sangue, di emoderivati e di organi, rispetto a prima. Fare affidamento su sangue e sugli organi che vengono messi in vendita, al fine di colmare questa lacuna, non dà affatto buoni risultati, perché sangue ed organi tendono ad essere di qualità inferiore rispetto a quelli che sono stati donati.