mercoledì 26 marzo 2025

La forza del muscoli algoritmici, e noi…

Da qualche tempo abbiamo appreso che esiste un problema chiamato “capitalismo della sorveglianza”, cioè il business del controllo, dell’estrazione e della vendita dei dati degli utenti che è esploso con l’ascesa dei giganti tecnologici Google, Apple, Facebook e Amazon. E se il capitalismo della sorveglianza non fosse un capitalismo disonesto o una svolta sbagliata presa da alcune aziende deviate? E se il sistema funzionasse esattamente come previsto e l’unica speranza di ripristinare un web libero fosse quella di combattere direttamente il sistema stesso? Doctorow sostiene che l’unica possibilità che abbiamo è distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale così come lo conosciamo, per tornare a un web più aperto e libero, in cui la raccolta predatoria dei dati non sia un principio fondante.

(dal risvolto di copertina di: CORY DOCTOROW, "Come distruggere il capitalismo della sorveglianza". MIMESIS, Pagine 156, €16)

Una legge non batte da sola i muscoli dell’algoritmo
- di Federica Colonna -

«Non c’è sorveglianza statale di massa senza sorveglianza commerciale di massa». Lo scrive Cory Doctorow, ricercatore al Mit Media Lab, autore di fantascienza, attivista per i diritti digitali, co-fondatore del gruppo britannico Open Rights e consulente speciale della Electronic Frontier Foundation, organizzazione internazionale per la tutela della privacy e delle libertà online. In "Come distruggere il capitalismo della sorveglianza" spiega perché le azioni intraprese finora a livello globale per limitare il controllo degli utenti online non siano mai state davvero efficaci. La raccolta predatoria di dati non è una deriva di alcune aziende deviate, al contrario: è alla base del web per come lo conosciamo oggi. Il sistema, scrive l’autore, funziona esattamente nel modo in cui è stato programmato per funzionare e a garantirne l’efficacia e la continuità è la posizione di monopolio di giganti tecnologici come Google, Amazon, Meta il cui modello di business si fonda sulla raccolta delle informazioni di chi naviga. In altri termini: il capitalismo della sorveglianza — il modello economico che configura l’esperienza umana digitale come materia prima — non è un errore ma il principio fondante della Rete contemporanea. Se questa è la chiave, non è possibile riformare internet: l’unica via è radicale e consiste nello smembrare il monopolio per disegnare un web aperto, libero, diverso a partire dalle fondamenta. La tesi di Doctorow è radicata nella nostra vita quotidiana. Tutti noi facciamo esperienza del tracciamento basato su quella che nel dialogo tra l’autore e Taylor Owen del Center for International Governance Innovation viene definita «la forza dei muscoli algoritmici». Ogni giorno, infatti, trascorriamo una porzione del nostro tempo su social il cui interesse aziendale è intrattenerci il più a lungo nel flusso di informazioni per aumentare la possibilità di sottoporci almeno un annuncio che ci interessi davvero. Gli smartphone, «oggetti rettangolari di distrazione di massa che teniamo nelle tasche», con il loro ronzio perenne sono lì a richiamare la nostra attenzione quando ci distraiamo per tornare a immergerci nella valanga di contenuti online. Solo così, spiega l’autore, Instagram o TikTok riusciranno a carpire le informazioni necessarie per riuscire a «proporre a una cheerleader proprio l’uniforme da cheerleader che cercava». «Essere in grado di indirizzare gli annunci — spiega Doctorow — non rende però le piattaforme capaci di controllo mentale», come una certa corrente di pensiero sostiene. Semplicemente la capacità di vendere frigoriferi a chi ha appena comprato casa e scarpe da corsa, al runner mostra l’efficacia del meccanismo predatorio alla base del web commerciale. «Le piattaforme non hanno il potere di rendere tuo zio un razzista», ha dichiarato Doctorow alla «Columbia Journalism Review», ma di certo possono proporgli il barbecue adatto per le sue indimenticabili domeniche in famiglia. Attenzione, però. Che Facebook e Amazon non abbiano nascosti poteri psicologici — non esistono prove scientifiche per dimostrarlo, scrive l’autore — non significa che non esercitino un potere incisivo sulle nostre libertà. «L’arma che hanno non è la macchina dell’influenza, è il monopolio», spiega Doctorow. Non solo un pugno di aziende costringe gli utenti a comprare le App nei loro App store, domina i risultati di ricerca e mercifica le nostre relazioni tenendole ostaggio di spazi circoscritti, «i giardini recintati dei social». Proprio grazie ai profitti che la loro posizione di mercato garantisce, esercitano pressione politica per orientare la regolamentazione in ambito tecnologico che le riguarda. Siamo di fronte a un enigma normativo, scrive l’autore. Se non dalla legge, da dove passa infatti la possibilità di rifondare la Rete sulla base di nuovi principi? Ostacolare le acquisizioni che limitano la concorrenza non basta. Il capitalismo della sorveglianza è ovunque, pervasivo, e non è riformabile. Smembrarlo, per Doctorow, è l’unica scelta possibile. Da prendere ora.

- Federica Colonna - Pubblicato su La Lettura del 9/6/2024 -

martedì 25 marzo 2025

Omero babilonese ??!!!

«Non erano ancora trascorsi due o tre giorni, allorché mi rivolsi al poeta Omero - visto che entrambi non avevamo niente da fare - e, tra le altre cose, gli chiesi da dove veniva, essendo questo ancor oggi l'argomento più indagato tra noi. Lui dichiarò di essere consapevole del fatto che alcuni tra noi pensavano che fosse di Chio, altri di Smirne e molti di Colofone. Disse però di essere babilonese, e che tra si suoi concittadini non veniva chiamato Omero, ma Tigrane; e che solo in seguito, essendo divenuto ostaggio dei Greci, aveva cambiato nome [*Nota: in greco, la parola "homeros" può significare "ostaggio"]. Inoltre, gli chiesi anche a proposito di alcuni versetti spuri, se fossero stati scritti da lui. Egli dichiarò che erano tutti suoi. Fu a quel punto che mi resi allora conto della grande follia dei grammatici seguaci di Zenodoto e di Aristarco [**Nota: [qui, Luciano prende in giro due filologi alessandrini: Zenodoto di Efeso (ca. 333-260 a.C.), primo redattore di Omero, e Aristarco di Samotracia (ca. 216-144 a.C.), il quale aveva escluso dal testo omerico alcuni versetti che non venivano considerati autentici da entrambi]. Inoltre, volevo sapere se era vero che avesse scritto l'Odissea, prima dell'Iliade, come molti dicono. Lui lo negò. Invece, del fatto che non era cieco - cosa di cui si diceva di lui - l'avevo capito subito, dal momento che l'avevo visto coi miei occhi, in modo tale che non ho avuto alcun bisogno di fare delle domande in proposito. L'ho fatto spesso altre volte, di fargli delle domande, ogni qual volta mi capitava di vederlo che non faceva nulla. Mi avvicinavo, lo interrogavo e lui rispondeva volentieri a tutto, soprattutto dopo il processo,  dal momento che era stato assolto. Si trattava di una calunnia contro di lui, fatta da Tersite, per averlo ridicolizzato nel suo poema, da cui Omero venne assolto, avendo Ulisse come suo avvocato»

(da: "Biografia Literária: Luciano de Samósata", di Jacynto Lins Brandao (Editor) - "Das narrativas verdades: segundo livro", UFMG Press, 2015, p. 168-169)

Nella favola di Luciano di Samosata, relativa al suo incontro con Omero – la quale si svolge nel suo romanzo "Storia vera", parodia satirica e ironica dei testi fantastici del passato e delle varie credenze – l'aspetto più interessante risiede nell'origine "straniera" che egli attribuisce al poeta. L'incontro si svolge sulla "Isola dei Beati", dove sono presenti, tra gli altri, anche Pitagora, Ulisse, Socrate. Questo voler diluire la solennità delle origini è molto interessante: Luciano salva nell'aldilà colui che è senz'altro il poeta originario per eccellenza, vale a dire, Omero, il quale funge da esempio e da depositario di saggezza per tanti autori dei più svariati generi; e nel farlo sottolinea però che egli non era un greco, ma un barbaro: solo dopo essere diventato «ostaggio dei Greci», ossia "schiavo di guerra", egli cambia nome ... e così via (tutto il movimento di Luciano consiste già in sorta di una parodia tuffandosi negli inferi alla ricerca di rivelazioni e scoperte, come la catabasi del Canto XI dell'Odissea, o il Canto VI dell'Eneide di Virgilio). L'ironica ricostruzione, che Luciano fa delle origini di Omero, ha forse qualcosa a che fare con quello che, di Omero, era stato il suo primo traduttore in latino, Livio Andronico. Nato intorno al 284 a.C., in quella città che oggi è Taranto, Andronico fu fatto prigioniero quando i Romani invasero la città nel 272; da lì viene portato come schiavo a Roma, e inizia a lavorare per la famiglia Livia, facendo da maestro per i figli del suo padrone: fu in questa "condizione pedagogica" che egli rese conto della mancanza di materiale adeguato per poter svolgere l'esercizio della professione: pertanto, a causa di questa insufficienza,  intorno al 240 a.C., decise di tradurre in latino l'Odissea di Omero.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 24 marzo 2025

De-Frontierizzare il Mondo !!

Brutalismo, la fase suprema del neoliberismo
- di Amador Fernández-Savater -

«Ciò che è significativo non è ciò che mette fine e consacra, ma ciò che dà inizio, che annuncia e prefigura.»
Achille Mbembe
 

In che epoca viviamo? Come descriviamo il nostro tempo? Per il pensiero critico, c'è qualcosa di decisivo in gioco, in questa questione dei nomi. Nei nomi dell'epoca. È la mappa dei nomi, quella che guida le strategie, che indica i movimenti dell'avversario, e rivela le possibili resistenze. Che cos'è che stiamo affrontando oggi? E se non sappiamo come si chiama, come potremo fare a combatterla? Il pensatore camerunese Achille Mbembe, per farlo,  propone il termine "brutalismo". Proveniente dall'universo dell'architettura, dove esso definisce uno stile di costruzione massiccio, industriale e altamente inquinante, il termine brutalismo - in quanto immagine del mondo contemporaneo - dà il nome a quello che appare come un processo di guerra totale contro la materia. La diagnosi di Mbembe non è semplicemente politica o economica, culturale o allo stesso tempo antropologica, ma è piuttosto una diagnosi riferita alla civiltà, ed è pertanto cosmica, cosmopolitica. Designa la relazione dominante con l'esistente. È una relazione di forzatura e di estrazione, di sfruttamento intensivo e di depredazione. Il mondo è diventato una gigantesca miniera a cielo aperto, e la funzione dei poteri contemporanei - dice Mbembe - è quella di «rendere possibile l'estrazione». Del Brutalismo, esiste una versione di destra e una versione progressista, ma entrambe, con un'intensità e con delle modalità diverse, gestiscono la medesima impresa di perforazione. Perforazione dei corpi e dai territori, svolta attraverso il linguaggio e il simbolico. Un nuovo imperialismo? Sì serto, però questo, stavolta, non istituisce più - o costruisce - una civiltà dei valori, una nuova idea del Bene, o una cultura superiore, ma piuttosto ciò che fa, è fratturare e spaccare i corpi – individuali, collettivi, terrestri – per estrarre da essi ogni tipo e genere di energia, fino all'esaurimento, minacciando così la «combustione del mondo». Mbembe identifica, a livello planetario, quali sono le tendenze che influenzano l'umanità nel suo complesso. Ma nel farlo, tuttavia, pensa a partire da un luogo particolare: l'Africa, la sua storia, le sue ferite e le sue resistenze. Il mondo intero oggi sta vivendo un «divenire nero», in cui la distinzione tra l'essere umano, la cosa e la merce tende a scomparire. Lo schiavo nero prefigura una tendenza globale. Siamo tutti in pericolo.

Economia libidica brutalista
Che tipo di essere umano, di soggettività e di desideri, vuole produrre il brutalismo contemporaneo? Da un lato, coltiva il folle progetto di sradicare l'inconscio; «quell'immensa riserva notturna con cui la psicoanalisi ha cercato di riconciliarci». Il corpo umano non è un mero corpo biologico, neuro-chimico, ma è anche «materia sognata» (Leòn Rozitchner) che anela, che fantastica, che utopizza. L'inconscio è una buccia di banana sul pavimento di ogni piano di controllo, inclusi quelli che ciascuno esercita su sé stesso. Qualsiasi cosi, lo devia, lo distorce, lo complica. Bisogna estirpare una simile dimensione ingovernabile, catturare nelle reti dei dati tutte le forze e le potenzialità umane, mappare interamente la materia fino a che la mappa non sostituirà il territorio. Il brutalismo punta alla digitalizzazione integrale del mondo, dissolvendo così l'inconscio (quello che ci rende unici e irripetibili) nell'algoritmo, nel numero, nel dominio del quantitativo. Abolire il mistero che noi siamo, e sbiancare la notte. Tuttavia, con questo, l'unica cosa che ottiene è lasciare la strada aperta agli impulsi più oscuri e distruttivi. Perché? La razionalizzazione generale – la digitalizzazione, l'algoritmizzazione, la protocollizzazione – blocca tutte le energie affettive e amorose, blocca quella potenza dell'Eros che per Freud è l'unico contrappeso possibile rispetto a Thanatos. Il progetto della sradicazione dell'inconscio provoca una de-sensibilizzazione generale. L'indifferenza al dolore degli altri, il gusto di ferire e uccidere, per vedere soffrire. La crudeltà e il sadismo sono i  tratti chiave dei poteri contemporanei. In un capitolo particolarmente agghiacciante, Mbembe parla del "virilismo" contemporaneo. L'economia libidica del brutalismo non passa più attraverso la repressione o il contenimento delle pulsioni, ma attraverso la mancanza di freni, la disinibizione, la de-sublimazione e l'assenza di limiti. Dire tutto, fare tutto, mostrare tutto e goderne. Il virilismo configura una zona frenetica - dice Mbembe - dove non c'è alcuna traccia dei vecchi sensi di colpa, o di pudore o di inibizione. Una figura, forse esprime tutto ciò, meglio di ogni altra: il trionfo dell'immagine del padre incestuoso sulle pagine pornografiche. Tornando indietro: se l'assassinio del padre dispotico, per mano dei suoi figli, aveva significato per Freud il passaggio alla civiltà, al limite e alla legge, ecco che oggi il fantasma di quel padre violento ripopola i desideri più oscuri. Ieri, il principio di realtà (il mandato paterno) ci aveva costretto a rinunciare, o a rimandare il piacere, a sostituirlo con una compensazione sublimatrice. Oggi, esige da noi tutto il contrario: non posporre, non rimandare o non sostituire più nulla, ma accedere direttamente al godimento, letteralmente e senza alcuna mediazione. Consumare (oggetti, corpi, esperienze, relazioni). Dalla repressione, alla pressione. Dalla de-sessualizzazione all'iper-sessualizzazione. Dal padre della proibizione al padre dell'abuso. La colpa oggi consiste nel non aver goduto abbastanza. Colonizzare ha sempre presupposto brutalizzare. La piantagione e la colonia, secondo Mbembe, sono delle prefigurazioni del brutalismo. Senza contenimenti, e senza mediazione simbolica, in esse si può e si deve assolutamente godere degli altri, trasformati in quello che è un mero «harem di oggetti» (Franz Fanon). Possiamo comprendere tutto ciò, dal punto di vista libidico, come una chiave di lettura dell'ascesa della nuova destra? Si presentano come i difensori di una "libertà" che corrisponde solo al diritto - dei forti - di godere dei deboli, come se essi fossero degli oggetti usa e getta. Sullo sfondo - come un effetto derivato dal virilismo - la paura della castrazione, il panico genitale e l'orrore del femminile si diffondono ovunque. Il brutalismo arriva perfino ad aspirare a sbarazzarsi completamente delle donne. Onanismo generalizzato, sessualità senza contatto, tecno-sessualità, con il cervello che sostituisce il fallo, in quanto organo privilegiato. Pertanto, il virilismo  sarebbe così solo l'ultima parola del patriarcato.

Corpi-Frontiera
Alla fine del suo libro sulle origini del totalitarismo - più di seicento pagine dedicate allo studio delle condizioni storiche e sociali che hanno reso possibili il nazismo e lo stalinismo - Hannah Arendt afferma, sorprendentemente, che l'unica certezza a cui è arrivata è quella che il totalitarismo è nato in un mondo nel quale la popolazione nel suo insieme sarebbe diventato superflua. I campi di concentramento (e più tardi di sterminio) sono stati l'unico posto dove il potere dell'epoca ha trovato una sistemazione per contenere le eccedenze. Come leggerlo oggi, nel momento in cui la nostra epoca si trova a essere attraversata dal comune fenomeno delle masse erranti? La guerra, è sempre stato un possibile espediente per regolare l'eccesso di popolazione indesiderata, e il totalitarismo è sempre stato un regime di guerra permanente. Il brutalismo contemporaneo, pur differente dal nazismo o dello stalinismo - eredita tuttavia la stessa funzione. A fronte della paura di dover condividere, e al panico «del moltiplicarsi degli altri», viene messa in atto la gestione brutale delle migrazioni.
Gli esseri umani in eccedenza, vengono chiamati da Mbembe “corpi-frontiera”. Cosa farne di loro? Isolare e confinare, rinchiudere e deportare, lasciar morire. La biopolitica (che si prende cura della vita al fine di sfruttarla) si intreccia qui con la necropolitica (che produce e si prende cura della popolazione superflua). Il mondo contemporaneo, non conosce solo forme di controllo morbide e seducenti (moda, design, pubblicità), ma anche metodi di guerra. Oggi, ovunque, i controlli, le detenzioni, i confinamenti si inaspriscono. Si tagliano gli spazi, si decide in maniera autoritaria chi può muoversi e chi no. Non solo si promuove la mobilità dei soggetti (dalla casa, dal lavoro, dalla funzione), ma si trattiene, si controlla, si blocca. Gaza, come paradigma di Governo. Mentre i leader europei hanno recentemente celebrato l'ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, i campi sono di nuovo funzionanti. Campi di internamento, detenzione, relegazione e segregazione. Per migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Campi, insomma, per stranieri. Samos, Chios, Lesbo, Idomeni, Lampedusa, Ventimiglia, Sicilia, Subotica. Le rotte migratorie più letali al mondo sono quelle europee, 10.000 persone hanno perso la vita cercando di entrare in Spagna lo scorso anno. Mbembe spiega come il massacro e la predazione operino anche nella gestione delle complesse circolazioni dei corpi di confine, attraverso il controllo delle linee di collegamento, delle mobilità e degli scambi. La guerra contro i migranti (questa materia in movimento) è anche un affare lucrativo e un fattore economico. Oggi, le pulsioni imperialistiche si coniugano con la nostalgia e la malinconia. Gli ex conquistadores, invecchiati e stanchi, si sentono invasi dalle "razze energiche" così piene di vitalità. Il mondo è diventato piccolo e si trova ora sotto minaccia. È questa la percezione che sfrutta l'estrema destra europea. La patria ormai non deve più espandersi, ma piuttosto va difesa. Così, in "Vox", lo stile affermativo ed entusiasta di un José Antonio diventa pura paura e puro vittimismo.

Utopie della materia
Come resistere al brutalismo? Mbembe non si crogiola in un esercizio di catastrofismo, ma azzarda piuttosto una critica utopica. Che significa questo? Il pensatore camerunese trova ispirazione in Ernst Bloch, il grande pensatore dell'utopia e della speranza nel XX secolo. Cos'è l'utopia per Bloch? Nulla di  tutto quello che di solito pensiamo sia associato a quel termine: speculazioni sul futuro, proiezioni di scenari, modelli perfetti. No, l'utopia è fatta di potenza,di latenza e di possibilità che si trovano già inscritte nel presente. A differenza della critica convenzionale, la critica utopica non solo traccia una cartografia critica dei poteri contemporanei, ma indica anche quali sono le potenzialità della resistenza, del cambiamento, degli altri mondi possibili. Non solo denuncia, giudica o respinge, ma enuncia anche delle nuove possibilità, invitando così l'ascoltatore a farle nascere, a dispiegarle. Mette in evidenza ciò che c'è e ciò che potrebbe esserci, e quest'ultimo non è una possibilità astratta, ma una forza in divenire. Se oggi assistiamo a un «divenire-nero del mondo», non potremmo allora forse lasciarci ispirare proprio dalle resistenze che le culture africane hanno sempre opposto al loro divenire? Qui, il particolare diventa universale e l'utopia, come voleva Walter Benjamin, non è più nel futuro ma nel «salto della tigre nel passato». Queste resistenze passano, per come le ho lette, attraverso un'altra concezione e un'altra relazione con la materia. La materia, secondo le culture africane pre-colonizzazione, era intessuta di relazioni, era differenza, era cambiamento. L'animismo, tutto questo, lo avrebbe espresso a livello spirituale: il mondo è popolato da una moltitudine di esseri viventi, di soggetti attivi, di molteplici divinità, di antenati, di intercessori. O la riparazione o i funerali, sostiene Mbembe. La sfida non è quella di indignarsi o di battersi il petto, ma è quella di rigenerare la materia ferita. Ad esempio, riguardo il dibattito sulla decolonizzazione dei musei, non si tratta semplicemente di "restituire" gli oggetti rubati ai loro luoghi di origine, bensì di comprendere come questi oggetti non fossero "cose" (né strumenti né opere d'arte), ma piuttosto veicoli e canali di energia, di forze vitali e di virtualità  abilitavano la metamorfosi della materia. Ricreare una relazione attiva con la memoria. Se la materia non è un oggetto che dev'essere sfruttato, ma è un ecosistema partecipativo, una riserva di potenzialità, un insieme di soggettività, quali sono allora le forme politiche che potrebbero convenirle? Al di là della democrazia liberale e del nazionalismo vitalista, al di là del suolo e del sangue, Mbembe propone una «democrazia dei viventi» che dovrebbe prendersi cura di tutti gli abitanti della terra, umani e non umani. Un'economia dei "beni comuni", che ci obbligherebbe a rinunciare alle nostre ossessioni di appropriazione esclusiva. Sarebbe una "de-frontierizzazione" del mondo, capace di tutelare il diritto di ciascuno a partire, a muoversi e a essere in transito. Essere straniero, per sé stessi e per gli altri. È la materia stessa, a essere utopica, sosteneva Ernst Bloch. Non è una massa passiva che attende che venga data dall'esterno quella che è la sua forma, ma essa ha in sé un suo movimento, un suo principio attivo, è gravida di futuro. È per questo che il brutalismo le fa la guerra? Ciò che essa esige da noi, è che si sia «come il fuoco nella fornace», che fa maturare, e realizza, potenzialità. Non per forzarla o per violarla, ma per ascoltarla, e prolungare la sua creazione.

- Amador Fernández-Savater - Pubblicato il 9 marzo 2025 - fonte: Autonomies -

domenica 23 marzo 2025

Ebrei eccentrici…

Volf Rubin è un giovane ebreo polacco forte e taciturno, così diverso dai suoi coetanei: non gli piace studiare, ama la natura e gli animali, e si dedica con passione ai lavori agricoli. È proprio l’opposto di suo padre, Reb Hersh, che è minuto e chiacchierone, conosce a menadito la Torà e vive per essere “ebreo tra gli ebrei”. Tornato dal servizio militare, Volf scopre che il padre ha venduto la tenuta di famiglia e per ripicca decide di emigrare negli Stati Uniti. Qui, nella remota e idilliaca campagna americana, Volf reciderà ancora di più il suo legame con l’ebraismo, finendo addirittura per cambiare nome e diventare l’instancabile fattore Willy Rubin. Willy è un romanzo breve che riesce a sintetizzare splendidamente due grandi temi cari a I.J. Singer: quello dell’identità ebraica e quello del conflitto intergenerazionale. La scrittura cristallina e tagliente di uno dei più grandi autori yiddish – qui unita alla vastità del paesaggio americano che ne amplifica il potere – dà forma a personaggi vivi e indimenticabili, epici e cocciuti, disposti a tutto pur di essere sempre e comunque loro stessi.

(dal risvolto di copertina di: "Willy", di Israel Joshua Singer. Traduzione di Enrico Benella. Giuntina editore, 18 €)

Storia di un ebreo eccentrico
- di Elena Loewenthal -

Willy è una piccola grande epopea. È la storia di Volf Rubin, figlio di Reb Hersh, un Mensch, un brav’uomo devoto e inoffensivo. Ma Willy, anzi Villi come recita il titolo in lingua originale, è fatto di una pasta diversa: vuole attraversare il mondo e conoscerlo invece di starsene per tutta la vita nell'angolino che Dio o chi per esso gli ha assegnato. La cantilena sinagogale dello shtetl in cui è nato e cresciuto lo annoia a morte, e così appena può se ne va. Alla scoperta di tutto. Persino dell'America. Questa è grossomodo la trama del romanzo che porta il nome del suo protagonista e la firma del grandissimo Israel Joshua Singer, fratello maggiore del premio Nobel Isaac Bashevise, tuttavia non da meno di lui per capacità inventiva, scrittura tanto inconfondibile quanto sorprendente e talento nel donare ai suoi lettori storie straordinarie. Willy è un romanzo certamente minore nel quadro di una produzione letteraria come quella di Israel Singer, che ha a cuore saghe familiari di largo respiro come "I fratelli Ashkenazi" e "La famiglia Karnowski": tessiture narrative straordinarie, indimenticabili. Eppure anche in queste pagine che raccontano la storia di un ebreo "eccentrico", refrattario a tutte le regole del suo tempo e del suo spazio, si riconosce il grande autore. Discutibili restano, d'altro canto, alcune scelte traduttive, come l’abbondanza di corsivi, laddove il termine in lingua originale - lo yiddish, e saltuariamente anche l'inglese - risultava intraducibile, con inevitabile abbondanza di note a piè di pagina. Tutto ciò nonostante la presenza di un corposo (nove pagine) glossario finale. Il risultato è un testo letterario di indubbia qualità, appesantito da un apparato e una forma grafica non congeniali. La traduzione è spesso, anzi sempre, una sfida che concede tantissime, forse persino troppe libertà. Ma non quella di tirarsi indietro a suon di corsivi e apparati.

- Elena Loewenthal - Pubblicato su Tuttolibri dell'8/6/2024 -

sabato 22 marzo 2025

Dallo Stato Sociale allo Stato di Guerra !!

Dal Welfare al Warfare: keynesismo militare
- di Michael Roberts -

In Europa, il "guerrafondaismo" è arrivato al suo culmine.Tutto è cominciato con gli Stati Uniti che, sotto la presidenza di Trump, hanno deciso che non vale la pena spendere soldi per proteggere militarmente le capitali europee dai potenziali nemici. Trump vuole impedire che gli Stati Uniti paghino la più parte del finanziamento della NATO - la quale fornisce la propria potenza militare - e inoltre vuole mettere fine al conflitto Russia-Ucraina, in modo da poter così concentrare la strategia imperialista degli Stati Uniti sull'emisfero occidentale e sul Pacifico, con l'obiettivo di "contenere" e indebolire l'ascesa economica della Cina. La strategia di Trump ha gettato nel panico le élite dominanti europee, improvvisamente preoccupate che l'Ucraina perda contro le forze russe, e che pertanto tra non molto Putin sarà ai confini della Germania o - come sostengono sia il premier britannico Keir Starmer che un ex capo dell'MI5, sarà «per le strade della Gran Bretagna». Qualunque possa essere la validità di questo presunto pericolo, si è venuta però a creare l'opportunità, per i militari e i servizi segreti europei, di "alzare la posta" e chiedere così la fine di quei cosiddetti "dividendi di pace" che avevano avuto inizio dopo la caduta della temuta Unione Sovietica, e in tal modo avviare ora il processo di riarmo.  Kaja Kallas, alta rappresentante della politica estera dell'UE, ha spiegato il modo in cui vede la politica estera dell'UE: «Se insieme non siamo in grado di esercitare abbastanza pressione su Mosca, allora come possiamo affermare di poter sconfiggere la Cina?» Per riarmare il capitalismo europeo, sono stati offerti diversi argomenti: Bronwen Maddox, direttrice di Chatham House, il "think-tank" per le relazioni internazionali che rappresenta principalmente le opinioni dello stato militare britannico, se n’é venuto fuori con l'affermazione che «la spesa per la "difesa" è il più grande beneficio pubblico per tutti, poiché essa è necessaria per la sopravvivenza della "democrazia" contro le forze autoritarie». Ma c'è un prezzo da pagare per difendere la democrazia: «il Regno Unito potrebbe dover prendere in prestito di più per poter pagare le spese per la difesa di cui ha così urgente bisogno. Nel prossimo anno e oltre, i politici dovranno prepararsi a recuperare denaro per mezzo di tagli ai sussidi di malattia, alle pensioni e all'assistenza sanitaria». E ha continuato: «Se ci sono voluti decenni per accumulare tutta questa spesa, potrebbero volerci decenni anche per invertire la rotta», pertanto la Gran Bretagna deve andare avanti. Presto, Starmer dovrà indicare una data entro la quale il Regno Unito raggiungerà il 2,5% del PIL da destinare alle spese militari; e si ode già un coro che sostiene che questa cifra deve essere ancora più alta. Quindi, alla fine, «i politici dovranno convincere gli elettori a rinunciare ad alcuni dei loro benefici per pagare la difesa». Martin Wolf, il guru economico liberale keynesiano del Financial Times, si è lanciato in un: «la spesa per la difesa dovrà aumentare in maniera sostanziale. Si noti come, negli anni '70 e '80, essa fosse il 5% del PIL del Regno Unito, se non di più. Potrebbe anche non essere necessario che a lungo termie si arrivi a quei livelli: la Russia moderna non è l'Unione Sovietica. Tuttavia, nella fase di preparazione, potrebbe essere necessario che sia così alto, soprattutto se gli Stati Uniti si ritirano».

Come fare a pagare per tutto questo? «Se la spesa per la difesa deve essere permanentemente più alta, le tasse devono aumentare, a meno che il governo non riesca a trovare da fare tagli sufficienti alla spesa, il che è dubbio». Ma non preoccupatevi, la spesa per carri armati, truppe e missili è in realtà vantaggiosa per un'economia, dice Martin Wolf. «Il Regno Unito può anche realisticamente aspettarsi dei ritorni economici sui suoi investimenti nella difesa. Storicamente, le guerre sono state la madre dell'innovazione». Cita poi i meravigliosi esempi delle conquiste che Israele e Ucraina hanno ottenuto grazie alle loro guerre: «L'"economia di avvio" di Israele è iniziata a partire dal suo esercito. E ora gli ucraini hanno rivoluzionato la guerra dei droni». Non menziona il costo umano dell'innovazione causata dalla guerra. Wolf poi continua: «Il punto cruciale, tuttavia, è che la necessità di spendere molto di più per la difesa, dovrebbe essere visto come qualcosa di più di una semplice necessità, e anche più di un semplice costo, sebbene entrambe le cose siano vere. Se fatta nel modo giusto, è anche un'opportunità economica». Quindi la guerra sarebbe la via d'uscita dalla stagnazione economica! Wolf urla che la Gran Bretagna deve andare avanti: «Se gli Stati Uniti non sono più un sostenitore e un difensore della democrazia liberale, l'unica forza potenzialmente abbastanza forte da colmare il divario, è l'Europa. Se gli europei vogliono avere successo in questo difficile compito, devono iniziare a mettere in sicurezza la loro casa. La loro capacità di farlo dipenderà a sua volta dalle risorse, dal tempo, dalla volontà e dalla coesione ..... Indubbiamente, l'Europa può aumentare sostanzialmente la sua spesa per la difesa». Wolf ha sostenuto che dobbiamo difendere i decantati "valori europei" della libertà personale e della democrazia liberale. «Farlo sarà economicamente costoso e persino pericoloso, ma necessario... perché "l'Europa ha "quinte colonne" un po' dappertutto». Ha concluso dicendo che «se l'Europa non si mobilita rapidamente per la propria difesa, la democrazia liberale potrebbe naufragare del tutto. Oggi sembra tutto un po' come negli anni '30. Questa volta, ahimè, però gli Stati Uniti sembrano trovarsi dalla parte sbagliata». "Conservatore progressista", l'editorialista del Financial Time Janan Ganesh lo ha detto senza mezzi termini: «Per costruire uno stato di guerra, l'Europa deve tagliare il suo stato sociale. Senza tagli alla spesa sociale, non c'è modo di difendere il continente». Ha chiarito che le conquiste che i lavoratori hanno fatto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale - ma che poi sono state gradualmente ridotte negli ultimi 40 anni - ora devono essere completamente eliminate. «La missione ,ora, è quella di difendere la vita dell'Europa. In che modo si può finanziare un continente meglio armato, se non attraverso uno stato sociale più piccolo?» L'età dell'oro dello stato sociale del dopoguerra non è più possibile. «Chiunque abbia meno di 80 anni e abbia trascorso la propria vita in Europa, può essere scusato per aver considerato l'esistenza di un gigantesco stato sociale come se fosse quello il modo naturale di vita. In verità, esso è stato il prodotto di strane circostanze storiche, che hanno prevalso nella seconda metà del XX secolo, e che ora non esistono più». Sì, esatto, le conquiste per i lavoratori nell'età dell'oro erano l'eccezione alla norma nel capitalismo ("strane circostanze storiche"). Ma ora «le passività pensionistiche e sanitarie, sarebbero state comunque abbastanza difficili da mantenere nei confronti della popolazione attiva, anche prima dell'attuale shock della difesa..... I governi dovranno essere più avari con i vecchi. Oppure, se ciò è impensabile dato il loro peso elettorale, la lama dovrà cadere sulle aree di spesa più produttive ... In ogni caso, lo stato sociale così come lo abbiamo conosciuto deve arretrare un bel po': non abbastanza da non chiamarlo più con quel nome, ma abbastanza da far male». Ganesh, un vero conservatore, vede il riarmo come un'opportunità per il capitale di fare tutte le necessarie riduzioni del welfare e dei servizi pubblici. «I tagli alla spesa, sono più facili da vendere per mezzo della difesa, piuttosto che a partire da una nozione generalizzata di efficienza. Tuttavia, non è questo lo scopo della difesa, e i politici devono insistere su questo punto. Lo scopo è la sopravvivenza».

Quindi il cosiddetto "capitalismo liberale", ora  ha bisogno di sopravvivere, e questo significa tagliare gli standard di vita dei più poveri, e spendere soldi per andare in guerra. Dallo Stato sociale allo Stato di guerra. Il primo ministro polacco Donald Tusk, ha fatto un altro salto di qualità in quella che è la guerra guerrafondaia. Ha detto che la Polonia «deve raggiungere quelle che sono le possibilità più moderne anche in relazione alle armi nucleari, e alle moderne armi non convenzionali». Possiamo presumere che "non convenzionale" significasse armi chimiche? Tusk: «Lo dico con piena responsabilità, non basta acquistare armi convenzionali, quelle più tradizionali». Così, quasi ovunque in Europa, la richiesta è quella di aumentare la spesa per la "difesa" e per il riarmo. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha proposto un piano per riarmare l'Europa che mira a mobilitare fino a 800 miliardi di euro per finanziare un massiccio aumento della spesa per la difesa. «Siamo in un'epoca di riarmo, e l'Europa è pronta ad aumentare massicciamente la sua spesa per la difesa, sia per rispondere all'urgenza a breve termine di agire e sostenere l'Ucraina, ma anche per affrontare la necessità a lungo termine di assumersi maggiori responsabilità per la nostra sicurezza europea», ha affermato. In base a una "clausola di salvaguardia di emergenza", la Commissione europea chiederà un aumento della spesa per gli armamenti, anche se questo viola le regole fiscali esistenti. A tutto ciò si aggiungeranno i fondi COVID non utilizzati (90 miliardi di euro) e ci saranno ulteriori prestiti grazie a un “nuovo strumento” che fornirà 150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri per finanziare investimenti congiunti nel settore della difesa, in capacità paneuropee, tra cui la difesa aerea e missilistica, i sistemi di artiglieria, i missili e le munizioni, i droni e i sistemi anti-drone. Von der Leyen ha affermato che se i paesi dell'UE riuscissero ad aumentare in media la spesa per la difesa dell'1,5% del PIL, nei prossimi quattro anni potrebbero essere liberati 650 miliardi di euro. Ma non ci sarebbero però dei finanziamenti supplementari per gli investimenti, per i progetti infrastrutturali o per i servizi pubblici, dato che  l'Europa deve dedicare le proprie risorse alla preparazione della guerra. Allo stesso tempo, come ha scritto il FT, il governo britannico «sta compiendo una rapida transizione dal verde al grigio delle corazzate, ponendo la difesa al centro di quello che sarà il suo approccio alla tecnologia e alla produzione». Starmer ha annunciato un aumento della spesa per la difesa al 2,5% del PIL entro il 2027, con l'ambizione di raggiungere il 3% entro il 2030. Il ministro delle finanze britannico Rachel Reeves - che in questi ultimi tempi ha costantemente tagliato la spesa per i crediti per i figli, i pagamenti invernali per gli anziani e i sussidi di invalidità - ha annunciato che il mandato del nuovo National Wealth Fund del governo laburista sarebbe stato modificato in modo da consentirgli di investire nella difesa. I produttori di armi britannici sono in difficoltà.  «Se si lascia da parte l'etica relativa alla produzione di armi, che scoraggia alcuni investitori, la difesa intesa come strategia industriale presenta molti aspetti positivi», ha detto un amministratore delegato. In Germania, il cancelliere eletto del nuovo governo di coalizione, Friedrich Merz, ha fatto approvare dal parlamento tedesco una legge per porre fine al cosiddetto "freno fiscale", il quale rendeva illegale, per i governi tedeschi, prendere in prestito oltre un limite rigoroso, oppure aumentare il debito per pagare la spesa pubblica. Ma ora la spesa militare in deficit ha la priorità su ogni altra cosa, diventa così l'unico bilancio senza limiti. L'obiettivo di spesa per la difesa, farà impallidire il deficit di spesa disponibile per il controllo del clima e per quelle infrastrutture delle quali c'è un disperato bisogno. La spesa pubblica annuale dovuta al nuovo pacchetto fiscale tedesco, sarà maggiore del boom di spesa occorso con il Piano Marshall del dopoguerra, e con la riunificazione tedesca nei primi anni '90. Questo mi porta agli argomenti economici a favore della spesa militare. La spesa militare potrebbe far ripartire un'economia bloccata a causa di una depressione, come quella di gran parte dell'Europa dalla fine della Grande Recessione nel 2009? Alcuni keynesiani pensano di sì. Il produttore tedesco di armi Rheinmetall sostiene che la fabbrica inattiva di Osnabrück della Volkswagen potrebbe essere un candidato privilegiato per la conversione alla produzione militare. L'economista keynesiano Matthew Klein, coautore con Michael Pettis di Trade Wars are Class Wars, ha accolto questa notizia: «La Germania sta già costruendo carri armati. Li incoraggio a costruire molti altri carri armati». La teoria del "keynesismo militare" ha una sua storia. Una variante è stata quella relativa al concetto di "economia degli armamenti permanenti", il quale venne sposato da alcuni marxisti al fine di spiegare perché le principali economie non fossero entrate in una depressione dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale; mentre invece erano entrate in un lungo boom, con solo delle lievi recessioni, che poi è durato fino alla crisi internazionale del 1974-75. Questa "età dell'oro" poteva essere spiegata solo a partire da una spesa militare permanente, attuata al fine di mantenere la domanda aggregata, e sostenere la piena occupazione. Ma le prove di questa teoria del boom del dopoguerra non ci sono. La spesa militare del governo britannico, scese da oltre il 12% del PIL nel 1952, fino a circa il 7% nel 1960 per poi diminuire negli anni '60 e raggiungere circa il 5% entro la fine del decennio. Eppure, allora  l'economia britannica è andata meglio che in qualsiasi altro momento. In tutti i paesi capitalisti avanzati, alla fine degli anni '60 rispetto ai primi anni '50, la spesa per la difesa era solo una frazione, sostanzialmente inferiore, della produzione totale: dal 10,2% del PIL, nel 1952-53 al culmine della guerra di Corea; a solo il 6,5% nel 1967. Eppure la crescita economica, più o meno negli anni '60 e nei primi anni '70, è stata sostenuta. Il boom del dopoguerra, non è stato il risultato di una spesa pubblica per gli armamenti fatta in stile keynesiano, ma si spiega con l'alto tasso di redditività del dopoguerra, rispetto al capitale investito dalle principali economie. Semmai, è stato il contrario. Poiché le principali economie stavano crescendo in modo relativamente veloce, e la redditività era elevata, i governi potevano permettersi di sostenere le spese militari, viste in quanto parte del loro obiettivo geopolitico della "guerra fredda", fatte per indebolire e schiacciare l'Unione Sovietica, l'allora principale nemico dell'imperialismo.

E soprattutto, il keynesismo militare è contrario agli interessi dei lavoratori e dell'umanità. Siamo favorevoli alla produzione di armi per uccidere le persone al fine di creare posti di lavoro? Questo argomento, spesso promosso da alcuni leader sindacali, antepone il denaro alla vita. Keynes una volta disse: «Il governo dovrebbe pagare le persone per scavare buche nel terreno per poi riempirle». La gente rispondeva. «È stupido, perché non pagare invece le persone per costruire strade e scuole?» Keynes rispondeva dicendo: «Bene, allora pagateli per costruire scuole. Il punto è che non importa quello che fanno, purché il governo crei posti di lavoro». Keynes si sbagliava. Importa, e come. Il keynesismo sostiene lo scavo di buche, e il loro riempimento, per creare posti di lavoro. Il keynesismo militare sostiene lo scavo di tombe, e il loro riempimento di corpi, per creare posti di lavoro. Se non importa come vengono creati i posti di lavoro, allora perché non aumentare drasticamente la produzione di tabacco, e promuovere la dipendenza a partire dalla creazione di posti di lavoro? Oggi, la maggior parte delle persone si opporrebbe a questo, vendendolo come direttamente dannoso per la salute delle persone. Anche la produzione di armi (convenzionali e non convenzionali) è direttamente dannosa. E ci sono molti altri prodotti e servizi socialmente utili che potrebbero invece fornire posti di lavoro e salari ai lavoratori (come scuole e case). Recentemente, il ministro della Difesa del governo britannico, John Healey, ha insistito sul fatto che l'aumento del budget per gli armamenti «farebbe della nostra industria della difesa, il motore della crescita economica di questo paese». Grandi notizie! Sfortunatamente per Healey, l'associazione di categoria dell'industria degli armamenti del Regno Unito (ADS) stima che il Regno Unito abbia circa 55.000 posti di lavoro nel settore dell'esportazione di armi, e altri 115.000 persone impiegate nel Ministero della Difesa. Anche includendo quest'ultimi, si tratta comunque solo dello 0,5% della forza lavoro del Regno Unito (per i dettagli, si veda il briefing Arms to Renewables di CAAT). Anche negli Stati Uniti, il rapporto è più o meno lo stesso. C'è una questione teorica, che troviamo spesso in discussione nell'economia politica marxista. Si tratta di stabilire se in un'economia capitalista la produzione di armi produca valore. La risposta è sì, per i produttori di armi. Gli appaltatori di armi consegnano beni (armi) che sono stati pagati dal governo. Il lavoro che li produce, pertanto, è produttivo di valore e di plusvalore. Ma a livello di tutta l'economia, la produzione di armi è improduttiva di qualsiasi valore futuro, allo stesso modo in cui lo sono i "beni di lusso" ai fini del solo consumo capitalistico. La produzione di armi e di beni di lusso non rientra nel processo di produzione successivo, né come mezzi di produzione né come mezzi di sussistenza per la classe operaia. Pur essendo produttiva di plusvalore per i capitalisti delle armi, la produzione di armi non è riproduttiva e perciò minaccia la riproduzione del Capitale. Quindi, se in un'economia, l'aumento della produzione complessiva di plusvalore rallenta, e la redditività del capitale produttivo inizia a diminuire, ecco che allora ridurre il plusvalore disponibile per gli investimenti produttivi, al fine di investire invece in spese militari, può danneggiare la "salute" del processo di accumulazione capitalista. Il risultato dipende dall'effetto sulla redditività del capitale. Generalmente, il settore militare ha una composizione organica del capitale che è superiore alla media di un'economia, in quanto incorpora tecnologie che sono all'avanguardia. Quindi il settore degli armamenti tenderebbe a spingere verso il basso il tasso medio di profitto. D'altra parte, se le tasse raccolte dallo Stato (o i tagli alla spesa civile) per pagare la produzione di armi sono elevate, allora la ricchezza che altrimenti potrebbe andare al lavoro può essere distribuita al capitale, e quindi può aumentare il plusvalore disponibile. Le spese militari possono avere un effetto leggermente positivo sui tassi di profitto dei paesi esportatori di armi, ma non di quelli che importano armi. In quest'ultimi, la spesa per l'esercito costituisce una deduzione dai profitti disponibili per gli investimenti produttivi. Nello schema generale delle cose, la spesa per gli armamenti non può essere decisiva per la salute dell'economia capitalista. Viceversa, una guerra totale può aiutare il capitalismo a uscire dalla depressione e dal crollo. Un argomento chiave dell'economia marxista (almeno nella mia versione) è quello secondo cui le economie capitaliste possono riprendersi in maniera duratura solo se la redditività media dei settori produttivi dell'economia aumenta in modo significativo. E questo richiede una sufficiente distruzione del valore del “capitale morto” (accumulazione passata) che non è più redditizio impiegare. Nell'economia statunitense, la Grande Depressione degli anni '30 è durata così a lungo perché la redditività non si è ripresa per tutto il decennio. Nel 1938, il tasso di profitto delle imprese statunitensi era ancora inferiore alla metà di quello del 1929. La redditività riprese solo quando l'economia di guerra fu avviata, a partire dal 1940.

Perciò, non è stato il "keynesismo militare" ad aver portato l'economia degli Stati Uniti fuori dalla Grande Depressione, come alcuni keynesiani amano pensare. La ripresa economica, degli Stati Uniti, dalla Grande Depressione non è iniziata fino allo scoppio della guerra mondiale. Gli investimenti sono decollati solo a partire dal 1941 (Pearl Harbor), raggiungendo, come quota del PIL, un livello più che doppio rispetto a quello del 1940. Perché? Beh, non è stato il risultato di una ripresa degli investimenti del settore privato. Quello che è successo, è stato un massiccio aumento degli investimenti e della spesa pubblica. Nel 1940, gli investimenti del settore privato erano ancora al di sotto del livello del 1929, e in realtà durante la guerra diminuirono ulteriormente. Il settore statale si è fatto carico di quasi tutti gli investimenti, dal momento che le risorse (valore) erano state dirottate verso la produzione di armi, e verso altre misure di sicurezza in un'economia di guerra completa. Ma l'aumento degli investimenti e dei consumi pubblici non è forse una forma di stimolo keynesiano, ma solo a un livello più alto? Ebbene, no. La differenza si rivela nel continuo crollo dei consumi. L'economia di guerra veniva pagata limitando le opportunità, che avevano i lavoratori, di spendere i loro redditi, provenienti dai loro lavori, in tempo di guerra. Ci fu un risparmio forzato attraverso l'acquisto di titoli di guerra, il razionamento e l'aumento della tassazione per pagare la guerra. L'investimento pubblico significava la direzione e la pianificazione della produzione per decreto governativo. L'economia di guerra non stimolava il settore privato, ma sostituiva il “libero mercato” e l'investimento capitalistico per il profitto. I consumi non hanno ripristinato la crescita economica come si aspettavano i keynesiani (e coloro che vedono la causa della crisi nel sottoconsumo), ma sono stati investiti principalmente in armi di distruzione di massa. La guerra pose definitivamente fine alla depressione. L'industria americana fu rivitalizzata dalla guerra, e molti settori erano orientati alla produzione di difesa (ad esempio, aerospaziale ed elettronica), o completamente dipendenti da essa (energia atomica).  I rapidi cambiamenti scientifici e tecnologici della guerra hanno continuato e rafforzato le tendenze iniziate durante la Grande Depressione. Poiché la guerra danneggiò gravemente tutte le principali economie del mondo, ad eccezione degli Stati Uniti, dopo il 1945 il capitalismo americano conquistò l'egemonia economica e politica. Guiglelmo Carchedi  lo ha spiegato: «Perché la guerra ha provocato un simile salto di redditività nel periodo 1940-45? Il denominatore del tasso non solo non è aumentato, ma è diminuito perché il deprezzamento fisico dei mezzi di produzione è stato maggiore dei nuovi investimenti. Allo stesso tempo, la disoccupazione è praticamente scomparsa. La diminuzione della disoccupazione ha reso possibile l'aumento dei salari. Tuttavia i salari più alti non hanno intaccato la redditività. Infatti, la conversione delle industrie civili in industrie militari ha ridotto l'offerta di beni civili. L'aumento dei salari e la limitata produzione di beni di consumo hanno comportato una forte compressione del potere d'acquisto del lavoro per evitare l'inflazione. Ciò fu ottenuto istituendo la prima imposta generale sul reddito, scoraggiando la spesa dei consumatori (il credito al consumo era vietato) e stimolando il risparmio dei consumatori, principalmente attraverso investimenti in obbligazioni di guerra. Di conseguenza, i lavoratori sono stati costretti a rinviare la spesa di una parte considerevole dei salari. Allo stesso tempo il tasso di sfruttamento del lavoro aumentò. Essenzialmente, lo sforzo bellico è consistito in una massiccia produzione di mezzi di distruzione finanziata dal lavoro.»  Lasciamo che sia Keynes a riassumere la cosa: «A quanto pare, è politicamente impossibile, per una democrazia capitalistica, organizzare la spesa secondo una scala necessaria a fare i grandi esperimenti che dimostrerebbero la mia tesi; tranne che in condizioni di guerra», da The New Republic (citato da P. Renshaw, Journal of Contemporary History 1999 vol. 34 (3) p. 377-364).

- Michael Roberts - Pubblicato il 22/3/2025 - su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist -

venerdì 21 marzo 2025

Tragedie Storiche !!

Il sogno distruttivo dell'imperialismo da Cecil Rhodes a Elon Musk
- di Pantopolis -

«Tutte queste stelle... questi mondi immensi che rimangono irraggiungibili. Se potessi, annetterei gli altri pianeti» [Sarah Millin, (Cecil) Rhodes, Chatto & Windus, London, 1933, p. 138].

Il macedone Alessandro Magno conquistò metà dell'Oriente, e venti città portarono e continuano a portare il suo nome, da Alessandria d'Egitto ad Alessandria d'Egitto in Arachosia (l'attuale Kandahar in Afghanistan). In occasione dell'espansione coloniale europea, tutti i nuovi conquistatori sognavano di dare il loro nome a immense terre conquistate il più delle volte con la spada e il fuoco, al fine di instaurare regimi di predazione organizzata sacri come "civiltà". Da Cristoforo Colombo e Simon Bolivar – e anche prima [*1] Cecil Rhodes (1853-1902) è l'unico creatore di imperi ad aver dato il suo nome a un nuovo territorio conquistato: la Rhodesia del Nord (Zambia dal 1964) e la Rhodesia del Sud (Zimbabwe dal 1980), a cui ha aggiunto il Nyasaland [*2]. Questo figlio di un ecclesiastico, un uomo d'affari che divenne Primo Ministro della Colonia del Capo (1890-1896), fu il fondatore della British South Africa Company, che mirava a colonizzare e sfruttare i territori a nord del Transvaal. Egli viene celebrato nei mercati azionari del mondo capitalista in quanto creatore della società di diamanti De Beers. E, soprattutto, è l'archetipo di un imperialismo anglosassone carnivoro, che è riuscito ad estendere l'impero africano di Sua Graziosa Maestà da Città del Capo al Cairo. Cecil Rhodes incarna perfettamente le ambizioni imperialiste dell'epoca. La prima potenza coloniale estese ufficialmente il suo dominio su una parte del pianeta «per garantire che la pace, la libertà e la giustizia regnassero ovunque». Nel suo primo testamento – scritto all'età di 24 anni – prevedeva, a questo scopo, l'assorbimento da parte dell'Impero britannico di tutte le isole del Pacifico, compreso il Giappone (sic), la costa cinese e il Sud America. Nel 1877 accarezzò persino l'idea di una "riconquista degli Stati Uniti d'America". Sebbene non avesse conquistato l'intero pianeta, Rhodes si vantava di essere il filantropo più autentico; aveva donato borse di studio... ma strettamente riservate agli studenti bianchi. Rhodes lanciò lo slogan della parità di diritti per "tutti gli uomini civili", avendo cura di specificare che un uomo nero che sapeva scrivere e lavorare valeva più di un bianco pigro o ozioso [*3]. Il colonialismo alla Cecil Rhodes, a vantaggio di uno Stato capitalista o di un piccolo re europeo (il belga Leopoldo II), sovrano del Congo, non era altro che un metodo di saccheggio e di asservimento nella sua colonia "personale". Il suo record è una tragedia storica per le popolazioni sotto il suo governo [*4]. È possibile quantificare meglio i risultati delle politiche coloniali condotte in Africa dagli stati capitalisti di Francia, Germania, Italia, Portogallo, Spagna, ma anche dagli inglesi. L'impero francese si vantava anche spudoratamente di aver portato, secondo il ministro dell'Istruzione Jules Ferry: "pace", "libertà" e "giustizia” [*5]. L'impero britannico, di cui Rhodes indossava i colori, causò colossali carestie in India, le quali sono state peggiori di quelli dell'Unione Sovietica, della Cina di Mao e della Corea del Nord messi insieme, vale a dire, 100 milioni di morti [*6]. L'ossessione quotidiana di Cecil Rhodes e dei suoi colleghi (gli imperi coloniali francese, belga, spagnolo, portoghese, ecc.) consisteva nel fatto che i disoccupati e gli affamati dal basso non dovessero sollevarsi contro la "loro" "patria", impegnati in una guerra di classe totale contro il Capitale. «Ieri ero nell'East End (un quartiere operaio di Londra) e ho partecipato a una riunione di disoccupati. Lì ho sentito discorsi frenetici. Era solo un grido: Pane! Pane! Rivivendo l'intera scena sulla via del ritorno, mi sono sentito ancora più convinto di prima dell'importanza dell'imperialismo... L'idea che mi sta più a cuore è la soluzione del problema sociale, e cioè che, per salvare i quaranta milioni di abitanti del Regno Unito da una guerra civile omicida, noi, i colonizzatori, dobbiamo conquistare nuove terre in modo da insediarvi il surplus della nostra popolazione, e trovare così nuovi sbocchi per i prodotti delle nostre fabbriche e miniere. L'Impero, l'ho sempre detto, è una questione di pancia. Se volete evitare la guerra civile, dovete diventare imperialisti.» [*7]. Questi appelli volti a scatenare sanguinose guerre di saccheggio contro le popolazioni sottoposte al tallone di ferro coloniale, affamate, sfruttate e implacabilmente represse, non impedirono lo scoppio della prima grande macelleria imperialista, per la quale il proletariato delle metropoli e delle colonie pagarono il prezzo più alto. Il drastico razionamento imposto dai capitalisti e l'inflazione vertiginosa dei prezzi alimentari colpirono duramente i proletari dell'Impero britannico, anche se meno di quelli delle Potenze Centrali, vittime di un blocco meglio organizzato [*8]. Rhodes non visse abbastanza a lungo per riuscire a vedere il suo impero crollare, e la fine di un sistema coloniale condannato all'indomani della guerra. Più di 120 anni dopo la sua morte, le sue statue vengono abbattute o distrutte [*9].

Elon Musk, sudafricano come Rhodes, si sta affermando come suo legittimo successore: un suprematista bianco che sogna fin dall'infanzia di riconquistare un potere "bianchissimo". A capo del potere supremo, con i suoi compari Trump e Vance, ora accusa i "non bianchi" di voler "confiscare la terra" (dei "bianchi") e di "trattare MOLTO MALE certe categorie della popolazione (leggi: 'bianchi'), minacciando di sospendere gli aiuti americani alla "nazione arcobaleno", in attesa di una "indagine completa sulla situazione" [*10]. Musk punta ancora più in alto: non solo vuole impadronirsi dell'intero mondo capitalista sublunare, ma vuole generare un capitalismo extraterrestre, persino extragalattico, nel mondo sopra-lunare. La società SpaceX, che Musk ha fondato nel maggio 2002, grazie ai proventi della vendita di PayPal [*11], è ora riconosciuta nel campo dell'esplorazione spaziale. Con un valore stimato di 180 miliardi di dollari e innegabili successi tecnici, come lo Starship, un razzo riutilizzabile in grado di trasportare più di 100 tonnellate di carico utile. Ora, nonostante diverse esplosioni in volo [*12], l'azienda sembra determinata a trasformare questo sogno infantile in realtà. Costi quel che costi, per usare un vecchio mantra ben noto...  Nella nuova saga di Musk, la Terra è condannata a breve termine (ma il capitalismo non lo è, sicuro di un'immortalità sui generis). La Terra è un'Atlantide (capitalista) in pericolo, la quale va abbandonata senza indugio per mezzo di miriadi di veicoli spaziali [*13]. Il nuovo "genio" del Golfo d'America promette di costruire una colonia su Marte con mezzi titanici:

- razzi giganti riutilizzabili (ad eccezione del rischio di esplosioni periodiche, ecc.), che ridurrebbero i costi di lancio;
- una flotta spaziale finanziata da capitali pubblici e privati, che consenta di trasportare fino a 100.000 persone ad ogni sincronizzazione orbitale!
- Una strategia a lungo termine (o meglio una profezia), pianificando migliaia di lanci per creare una città di un milione di abitanti sul gelido "pianeta rosso" priva di ossigeno, acqua e di qualsiasi infrastruttura di sopravvivenza per i futuri conquistatori del vuoto.

Elon Musk, clone del Dottor Stranamore, sprofonda inoltre in una sorta di nirvana allucinatorio, punteggiato da dei saluti nazisti (non repressi). Per lui, il lancio di una Starship costerebbe "solo" 2 milioni di dollari. Con un obiettivo di 100 navi costruite all'anno, SpaceX potrebbe avere 1.000 Starship entro un decennio, tutte in grado di trasportare un megaton di materiale all'anno. Allo stesso modo di Trump, che costruisce progetti fumosi (e mafiosi) che fanno sempre flop [*14], "Kekius Maximus" (il soprannome dell'Imperatore Spaziale) sostiene che un biglietto per Marte potrebbe costare meno di 100.000 dollari. «Trasferirsi su Marte un giorno costerà meno di 500.000 dollari, e forse meno di 100.000 dollari», ha detto su X. «Una cifra abbastanza bassa per la maggior parte delle persone nei paesi sviluppati che possono vendere le loro case sulla Terra e trasferirsi così su Marte, se lo desiderano» (sic), e senza alcuna garanzia di ritorno! Elon Musk ha anche definito quale sia la sua visione sociale di Marte. A favore di una "democrazia diretta", piuttosto che di una "democrazia rappresentativa", ha sostenuto che i primi abitanti dovrebbero decidere da soli come governarsi. Ai suoi occhi, la colonizzazione di Marte non significa solo sopravvivere, ma anche costruire una "civiltà" del nuovo Creso, basata sul virtuale, dato che la moneta sarebbe il bitcoin, l'unico garante della "democrazia diretta", per questi imperialisti spaziali. Le prime missioni Starship senza equipaggio potrebbero decollare già nel 2026, con l'obiettivo di portare gli esseri umani su Marte quattro anni dopo. Le condizioni ideali per il lancio, che avviene ogni 26 mesi, scandirebbero le fasi di questo progetto. Gli abitanti di questo pianeta del nulla, se sopravvivessero, sarebbero dei veri e propri zombie controllati dalla base operativa di Musk in Texas: Starbase [*15]. Va notato che gli zombie dello spazio extraterrestre avrebbero cervelli privi del "genio muskiano", ma impiantati con chip elettronici per attivarli o disattivarli a piacimento... Tutti questi progetti di un adolescente ritardato megalomane – la cui "umanità" si limita a fare il saluto hitleriano – si basano esclusivamente sulla presunta longevità della verga di ferro trumpiana. Ciò presuppone che:

- la brutale politica delle tariffe doganali a tutto campo, del tutto fantasiosa, non mette a repentaglio l'incerta stabilità del commercio, del mercato azionario e quindi la vitalità dell'economia americana;
- la vendita di auto elettriche Tesla, prodotte in Cina, USA, Germania, ecc., prosegue senza intoppi, mentre si sviluppano feroci campagne di boicottaggio, o efficaci misure di ritorsione cinesi (o di altro tipo);
- i lavoratori dei detenuti industriali di Musk si comportano ancora come "simpatici" schiavi sottomessi, nonostante lo sfruttamento spietato, la totale mancanza di diritti e il regno della paura instaurato dalla camarilla mafiosa Musk-Trump-Vance che si affida a potenti reti "sociali" di estrema destra.

Un mese e mezzo dopo una presa "legale" del potere attraverso le urne, questo regime basato sulla manipolazione, sulle "fake news" e sulla corruzione, si trova già a essere pesantemente indebitato, al punto da seminare il dubbio tra gli stessi capitalisti. I matamores dell'annunciata "età dell'oro" stanno già affrontando lo spettro della bancarotta: «Il valore di X è crollato, dopo la sua acquisizione; i nuovi progetti sono caduti in un limbo con il licenziamento dell'80% della forza lavoro; gli inserzionisti e gli utenti stanno fuggendo. E a Wall Street, Londra e Parigi le banche hanno appena scaricato più di 5 miliardi di crediti potenzialmente inesigibili sui 13 miliardi di debito contratti dal magnate per l'acquisto della piattaforma a fine 2022. Elon Musk non è invincibile. È un colosso con i piedi d'argilla. In politica come negli affari.» [*16] Musk ha attualmente un uso illimitato della pompa federale "phynance", per poter bere a suo piacimento. Non è detto che questo saccheggio mafioso per uso privato possa durare all'infinito, come nel tempo benedetto della pirateria imperialista, quando non esistevano freni per limitare la rapacità dei grandi baroni del capitalismo privato. Questo sistema di saccheggio imperialista illimitato distrugge l'intero pianeta anno dopo anno, riducendo la sua popolazione in uno stato avanzato di declino. Gli effetti deleteri del sistema capitalista sono ancora più tangibili con il regno di Musk-Trump-Vance e dei loro compari Putin e Xi Jinping, sempre più impegnati in guerre imperialiste senza fine. Il sistema imperialista è inevitabilmente condannato, a breve o medio termine. Le distruzioni causate dalle guerre imperialiste si stanno già accumulando alle nostre porte: Ucraina, Russia, Israele-Gaza, Medio Oriente, Africa (Congo, Sudan, ecc.), in attesa dei conflitti intorno a Taiwan e Corea nell'area indo-pacifica. Non c'è posto sulla terra in cui l'umanità non sia ora in pericolo. No, il capitalismo non può perpetuarsi a solo vantaggio di pochi oligarchi affamati di profitto, che non esitano a versare il sangue degli sfruttati, reprimendoli ferocemente o gettandoli come carne da cannone nelle sue guerre imperialiste. Né sul "pianeta blu" né su un pianeta immaginario che l'imperialismo, nelle sue manie di grandezza, sogna di conquistare, per meglio distruggerlo. L'imperialismo, in tutte le sue versioni ("liberale", "illiberale", capitalista di Stato, "comunista", ecc.) viene meticolosamente distrutto sul pianeta Terra, ora dopo ora, con la semplice ricerca del profitto, in guerre generalizzate tra pirati capitalisti per ottenere le ultime briciole accessibili e vendibili sui mercati capitalistici. La palla è ora nel campo del proletariato americano-canadese, ma anche del proletariato europeo. Tutto dipende ora dalla sua reazione di classe e quindi dalla sua capacità di organizzarsi per spezzare prima l'offensiva del capitale, e poi per porre la questione della presa del potere da parte degli sfruttati.

- Pantopolis, 16 marzo 2025. -

NOTE:

[1] L'Impero Ottomano, che Erdogan vuole rifondare, deriva dal nome dell'imperatore Osman, il primo della dinastia. Fu fondato alla fine del XIII secolo (nel 1299) nel nord-ovest dell'Anatolia bizantina (oggi: Turchia).

[2] La storia del Nyasaland è segnata dalla massiccia presa di terre comunali africane da parte dei coloni bianchi britannici. Il Nyasaland è stato rinominato Malawi nel 1964.

[3] Jean Werz, Le Monde, 6 luglio 1953, "La memoria di Cecil Rhodes, costruttore dell'impero africano dell'Inghilterra è celebrata dalla regina madre Elisabetta".

[4] Nel 1885, Leopoldo II creò lo Stato Libero del Congo, che era di sua proprietà personale. La sua "vigorosa" azione coloniale gli valse il titolo di "Dissanguamento del Congo". La cifra generalmente accettata delle vittime della colonizzazione reale potrebbe essere di diverse centinaia di migliaia, senza che ci sia alcun accordo tra gli storici su una cifra plausibile. Cfr. Tanguy De Wilde d'Estmael, Università Cattolica di Lovanio e Collegio d'Europa a Bruges: leopold-ii-roi-des-belges-et-souverain-du-congo-une-figure-historique-confrontee-aux-mythes-memoriels.pdf.

[5] Discorso all'Assemblea Nazionale del 28 luglio 1885 ("I fondamenti della politica coloniale"), poco prima di una spedizione militare in Madagascar: "Si può negare, si può negare che ci sia più giustizia, più ordine materiale e morale, più equità, più virtù sociali in Nord Africa da quando la Francia ha fatto la sua conquista? Quando siamo andati ad Algeri per distruggere la pirateria e garantire la libertà di commercio nel Mediterraneo, stavamo facendo il lavoro di furfanti, conquistatori e devastatori? Si può negare che, in India, e nonostante gli episodi dolorosi che si possono trovare nella storia di questa conquista, c'è oggi infinitamente più giustizia, più luce, più ordine, virtù pubbliche e private dopo la conquista inglese di prima? »

[6] "Come il colonialismo britannico ha ucciso più di 100 milioni di indiani in 40 anni", sito web "the crises": https://www.les-crises.fr/comment-le-colonialisme-britannique-a-tue-100-millions-d-indiens-en-40-ans/

[7] Enfasi aggiunta. Il testo è del giornalista W.T. Stead (1849-1912), che cita il suo amico Cecil Rhodes. Cfr. Die Neue Zeit, 1898, anno 16, n. 1, p. 304, e Lenin, nella sua opera L'imperialismo, la fase suprema del capitalismo (1916). W.T. Stead non ha vissuto il naufragio del capitalismo nel 1914, ma quello del Titanic, nel 1912, che era la sua tomba...

[8] Per la Germania, si veda Nicolas Patin, "Riflessioni sulle vittime tedesche del blocco del 1914-1918", Les Cahiers Sirice, 2021/1, n° 26, p. 95-107. In Germania, il numero delle vittime della fame, attribuibili al blocco navale, ammontava a circa 500.000.

[9] Il movimento Rhodes Must Fall, guidato principalmente da studenti sudafricani, si è diffuso in tutto il mondo attraverso i social network, al fine di combattere la "supremazia bianca".

[10] Cfr Le Monde, 5 febbraio 2025: https://www.lemonde.fr/afrique/article/2025/02/05/quand-l-enfant-du-pays-elon-musk-s-immisce-dans-la-politique-americaine-vis-à-vis-de-l-afrique-du-sud_6532289_3212.html

[11] La piattaforma PayPal è un'alternativa al pagamento con assegno o carta di credito.

[12] Il razzo Starship è esploso sopra le Bahamas il 16 gennaio; poi di nuovo il 6 marzo 2025. Questo non impedisce a Musk di realizzare i suoi progetti a breve termine: https://www.rfi.fr/fr/am%C3%A9riques/20250308-explosion-de-la-fus%C3%A9e-starship-le-doute-plane-sur-l-agence-am%C3%A9ricaine-de-l-aviation

[13] Lo scenario è brillantemente illustrato nel libro di Edgar P. Jacobs, The Enigma of Atlantis, Dargaud.

[14] Cfr. Le Monde del 18 ottobre 2024, su un progetto finanziario di Trump, portato avanti da "uomini d'affari dubbi": https://www.lemonde.fr/pixels/article/2024/10/18/donald-trump-fait-un-flop-avec-world-liberty-financial-son-projet-de-cryptoactif_6355332_4408996.html

[15] Le Point, 25 gennaio 2025: https://www.lepoint.fr/monde/bienvenue-a-starbase-la-ville-revee-d-elon-musk-25-01-2025-2580781_24.php

[16] Rosa Moussaoui, "Elon Musk un colosso con i piedi d'argilla", L'Humanité, 19 febbraio 2025. Elon Musk sta affrontando ostacoli legislativi per quanto riguarda i redditi dei grandi capitalisti. Un giudice del Delaware ha appena respinto uno sbalorditivo piano di compensazione di 55,8 miliardi di dollari a favore del capo di Tesla.

giovedì 20 marzo 2025

Il furioso ronzio della vespa alla finestra che sbatte contro il vetro…

In questo mese di marzo del 2025, Crise & Critique ha appena pubblicato un libro di Ernst Schmitter, "L'economia come catastrofe. Un'introduzione alla critica della dissociazione-valore" (tradotto in francese, dal tedesco, da Sandrine Aumercier). Questo libro offre una nuova introduzione a una corrente della teoria critica che ha avuto origine in Germania, e che ora è presente in più paesi, come Brasile, Austria, Italia, Francia e oltre. Schmitter ha raccolto una sfida audace: sbarazzarsi dei concetti marxisti - così come dei riferimenti alla Teoria Critica, spesso considerati troppo ermetici - in modo da offrire una nuova critica del capitalismo-patriarcato. Questa critica, va ben oltre l'alter-capitalismo, l'antirazzismo tronco, il femminismo liberale , o l'ambientalismo superficiale. Una missione, questa, che molti ritenevano impossibile, ma che è riuscita brillantemente. Qui di seguito, si riportano la prefazione e l'introduzione al libro.

«Chi intende criticare la realtà dominante deve porsi innanzitutto l’obiettivo di comprenderla.» (Robert Kurz, da "Das Weltkapital")

PREFAZIONE
Succede che la verità si nasconda dietro una convinzione generale, come se stesse dietro una cortina fumogena. La nozione di crisi multipla costituisce una cortina fumogena. Chi mai potrebbe contestare il fatto che il mondo stia soffrendo di una molteplicità di crisi? Dappertutto, in tutti i continenti, e tenendo conto degli aspetti più diversi, la vita degli esseri umani si organizza in maniera sempre più precaria. Le pubblicazioni riguardanti la crisi multipla sono numerose. E gli appelli a trovare una soluzione sono ancora di più. La crisi può e deve essere superata. Si tratta di una questione di sopravvivenza per l'umanità: è questo il sentimento generale. Tuttavia, a essere dimenticato, ignorato o rimosso è il seguente dato di fatto; quello che tutti gli aspetti di questa crisi multipla hanno la stessa causa. A guardare meglio, e da più vicino, si vede subito che si tratta di un'unica crisi che si esprime in diverse maniere. Si tratta della crisi del sistema di quella società globale che porta il nome di capitalismo. Sono più di trent'anni che la Critica del Valore ha consacrato sé stessa alla spiegazione di questa crisi globale. Il lavoro svolto da questa scuola di pensiero, rimane essenziale per la comprensione della crisi. Eppure, allo stesso tempo, al di fuori di un certo ambito, rimane praticamente sconosciuto. È questo, ora, un ottimo motivo per interessarsene! Tuttavia, accedere a questo modo di pensare rimane difficile per tre ragioni: in primo luogo, i testi della critica del valore non sono facili da capire.  Non sono auto-indulgenti e richiedono pazienza da parte del lettore. Inoltre, la maggior parte di essi si limita a una descrizione teorica della società capitalista. Questo può scoraggiare la lettura di chi vuole impegnarsi nelle lotte sociali, anche se potrebbe trarne giovamento. Infine, dobbiamo abituarci a riferirci all'opera di Karl Marx attraverso la critica del valore. La critica del valore spinge il pensiero marxista, ma anche quello non marxista, in un territorio inesplorato. Attraverso questa introduzione alla critica del valore, spero di tenere conto di queste tre difficoltà: tener conto della difficoltà di comprensione, presentando le idee fondamentali della critica del valore nel modo più semplice possibile; tener conto della distanza dalla pratica, attraverso i possibili legami da me indicati tra la critica del valore e una prassi emancipatrice; tener conto del riferimento a Marx, non supponendo che il lettore abbia una conoscenza preliminare di Marx e rinunciando per quanto possibile al vocabolario specialistico del marxismo. Il libro è perciò un esercizio di traduzione di tali tesi per renderle accessibili a un pubblico più ampio. Ancora una parola riguardo al modo in cui presento le cose: non appartengo a nessun gruppo di critica del valore. Se faccio questa introduzione, è perché, a mio avviso, esiste un divario, diventato troppo grande, tra l'importanza della critica del valore e la sua mancanza di notorietà. Fin dalla sua nascita, la critica del valore ha dovuto misurarsi con un'accoglienza ostile, con l'incomprensione, la derisione e il disprezzo, e in parte anche con il fatto che è stata sistematicamente ignorata. Ma la sua diagnosi del presente mi sembra talmente convincente che ritengo dovrebbe essere accessibile a un pubblico più vasto. Per questo motivo, nonostante alcune riserve, in tutto il libro adotto il punto di vista della critica del valore.
 

Introduzione
Nel momento in cui si comincia a interessarsi alla critica del valore, ci si può aspettare di avere delle sorprese. L'espressione stessa di "critica del valore" rischia di innescare associazioni di idee che non hanno nulla a che fare con il suo significato. Ecco perché l'introduzione alla critica del valore propriamente detta è preceduta da questi due capitoli. Hanno lo scopo di evitare ai lettori delle delusioni. Semmai, dopo averli letti, sentirete di trovarvi "nel film sbagliato", allora potete tranquillamente dedicarvi a cose che siano per voi più divertenti della lettura di questo libro. Al contrario, invece, la lettura di questi due capitoli non è necessaria a capire ciò che segue. Chi preferisce buttarsi impreparato nell'acqua fredda della teoria e della critica del valore, può iniziare direttamente con la seconda parte.

La vespa sul vetro della finestra: sulla difficoltà a essere contro il capitalismo

Le persone che sono impegnate nei movimenti sociali ed ecologici, vedono sempre più il proprio impegno come una lotta attiva, e si definiscono sempre più spesso, e senza mezzi termini, come anticapitalisti. Purtroppo, la maggior parte delle volte una simile affermazione non vuol dire niente. Sono pochi coloro i quali hanno un'idea di cosa significhi "essere contro il capitalismo". L'anticapitalismo è diventato l' emblema di tutti i tipi di modi di pensare e di agire ribelli. Dietro una cosa del genere, si nasconde l'idea secondo cui l'anticapitalismo è questione di avere un modo di vita alternativo, il quale non avrebbe bisogno di alcuna teoria. Alla fine sarebbe stata la sperimentazione a sostituirsi allo studio. Che senso ha preoccuparsi di studiare il capitalismo se si vede la situazione disastrosa in cui versa il mondo? Ecco che allora “cominciamo subito” diventa lo slogan per molti gruppi orientati alla prassi. Questo libro sostiene che in questa posizione è già contenuto il fallimento di un'opposizione del genere. In realtà, ciò che qui si considera anticapitalista è in generale parte integrante del sistema di produzione di merci chiamato capitalismo, e potrebbe persino contribuire alla sua perpetuazione. Finché fraintende il sistema e, quindi, la propria situazione, l'opposizione non può che essere vana. Sembra quasi come una vespa che ronza a morte sul vetro di una finestra, se nessuno viene ad aprirla. La vespa non sa che non c'è modo di passare attraverso la finestra. La sua furiosa implacabilità non gli è di alcun aiuto. In maniera analoga, l'opposizione "anticapitalista" non sa che ciò che le si presenta come un ostacolo, è altrettanto poco visibile quanto lo è il vetro per l'insetto. Essa dovrebbe essere tuttavia consapevole di quelle realtà del sistema che non sono evidenti. Se non riesce a esserlo, rimane destinata al fallimento. Ed ecco che, così, dopo alcuni anni di furioso ronzio, deve arrendersi o adattarsi. E questo serve ancor di più alla sostenibilità del sistema. Ci sono numerosi esempi, in questi ultimi decenni, che lo dimostrano. Le persone che si oppongono socialmente partono quasi sempre ponendosi la domanda: "Che cosa posso fare?" In innumerevoli gruppi e organizzazioni, il cui motore principale è proprio questo tema, ci sono molte persone che danno il meglio di sé, ma nel complesso ottengono ben poco. Ciò avviene per un motivo assai semplice: i movimenti "che cosa posso fare" concentrano i loro sforzi sulla risoluzione di un malfunzionamento isolato, per un problema isolato, dandosi un compito isolato. Si tratta di movimenti che si concentrano su un solo punto, e che in futuro chiameremo monotematici. Non è raro che, nel quadro limitato del loro campo di intervento,  ottengano un miglioramento della situazione: diritti umani, commercio equo e solidale, riduzione del traffico, efficienza energetica, vita di quartiere, agricoltura solidale, sostegno ai migranti, benessere degli animali, critica della crescita, politica sociale e ambientale e così via. Ma nel migliore dei casi possono ottenere che "qualcosa cambia", che "le cose vanno almeno un po' meglio", che "si potrebbe sperare sperare se solo tutti...", e così via.  In tal senso, questi movimenti sono ovviamente positivi anche per le persone che vi partecipano. Resta il fatto che in ogni caso non potranno mai realizzare una trasformazione sociale globale; anche perché ciò li renderebbe superflui come movimenti monotematici. Alla fine, di una vita di impegno in un movimento monotematico, spesso rimane solo il riconoscimento pubblico di uno sforzo coraggioso, da un lato, e la disillusione dall'altro: tanti sforzi per dei risultati così modesti! Eppure quel sistema stimolato dalla crescita noto come capitalismo, continua a produrre, ad accumulare, a sfruttare, a proliferare, a monitorare, a controllare, a soggiogare, a distruggere e a uccidere. Esso continua a operare imperturbato. Dal loro canto, i movimenti monotematici agiscono e il loro numero aumenta, malgrado il fatto che i loro sforzi siano spesso inutili. Il punto cieco, nell'occhio dei movimenti “che cosa posso fare”, è rappresentato dalla relazione complessiva nella quale sono intrappolati. La totalità sociale a cui tutti i movimenti monotematici partecipano opera alle loro spalle, in modo tale che alla fine non ottengono ciò per cui si battono, e spesso ottengono proprio il contrario. L'impegno per i diritti umani, ad esempio, costituisce una tacita accettazione del fatto che nel capitalismo i diritti umani non sono un dato di fatto, ma vengono richiesti, e alla fine vengono concessi, sotto forma di diritti, fintanto che i vincoli economici e politici oggettivi lo consentono; ma purtroppo solo a questa condizione. La salvaguardia della natura è in realtà una collaborazione con un sistema che non riconosce la natura come suo fondamento, ma la considera come un bene che deve essere protetto finché la società può finanziarlo; ma purtroppo solo a questa condizione. Il nome paradossale del commercio equo e solidale dimostra sin d'ora che esso sarebbe possibile su larga scala solo se venisse abolito il libero mercato, cioè il principio della concorrenza. Ma non è questo il suo scopo. È per questo che deve rimanere una forma di aiuto da parte di alcuni privilegiati ad altri privilegiati. Se crediamo che la trasformazione dell'agricoltura intensiva in agricoltura biologica possa essere ottenuta attraverso la pressione dei consumatori, dovremmo prendere atto del fatto che è proprio questa pressione che potrebbe portare a un ammorbidimento dei criteri vigenti per l'agricoltura biologica, fino ad arrivare a incorporare l'ingegneria genetica. L'uso parsimonioso delle risorse non rinnovabili e dell'energia, di solito porta a una diminuzione del prezzo, come risultato dell'equilibrio tra domanda e offerta e, in ultima analisi, a farne aumentare l'uso complessivo. Si tratta dell'effetto “rebound”, un fenomeno economico ormai noto da più di 150 anni, la cui origine risiede nella spinta alla crescita dell'economia, e nell'aumento della produttività ad essa inerente [Nota: William Stanley Jevons descrisse per la prima volta l'effetto rimbalzo nel 1865 nel suo libro The Coal Question]. Ne consegue che, per ragioni economiche, un migliore utilizzo delle risorse produce regolarmente l'effetto opposto a quello desiderato, ossia un aumento, anziché una diminuzione, dell'utilizzo. E così via. L'elenco degli esempi potrebbe essere esteso all'infinito. Purtroppo, la maggior parte delle volte, l'impegno oppositivo spontaneo rimane cieco rispetto alle relazioni nelle quali intende affermarsi. Ecco perché di solito ottiene qualcosa di diverso dal suo scopo originario. I movimenti “che cosa posso fare” sono di certo essenziali, ma solo all'interno del sistema; e spesso lavorano simultaneamente, inconsciamente e involontariamente per mantenere il sistema. È questo il motivo fondamentale per cui non possono essere anticapitalisti, anche se si immaginano di esserlo. Agiscono per ottimizzare il sistema, non per cambiarlo. Eppure l'esperienza di molti movimenti monotematici dimostra che l'obiettivo che perseguono si dissolve proprio perché non hanno il coraggio di mettere in discussione il sistema stesso. Un'opposizione che non intendesse perdersi in una simile impasse, dovrebbe pertanto essere consapevole delle relazioni complessive nelle quali si sta impegnando. Se la critica del capitalismo deve essere qualcosa di più di una giustificazione generale della consueta gestione della crisi, allora essa deve essere radicale. In caso contrario, non si tratta affatto di una critica. Una critica radicale è, come indica il termine stesso “radicale”, una critica che va alle radici. La maggior parte dei movimenti “che cosa posso fare”, sono ben lontani da questo. Nel capitalismo globalizzato, la critica radicale è un bene piuttosto raro. E lo è per ragioni comprensibili: potrebbe mettere in discussione praticamente tutto ciò che conta: l'economia, la politica, i media, il sistema educativo e formativo, la scienza, la ricerca e la tecnologia, lo sport, le relazioni di genere e, ultimo ma non meno importante, l'onnipresente pensiero della concorrenza, vale a dire, il lubrificante della macchina capitalista che persino i critici sociali affermano spudoratamente di ritenere “sano”. Una sfida talmente intransigente all'attuale ordine sociale, è urgentemente necessaria; ma proprio perché radicale, non può che avere un'esistenza marginale all'interno della società che critica. Ed è proprio questo inquietante ruolo marginale che la critica del valore ha occupato per oltre trent'anni. Essa si rifà alla “critica dell'economia politica” di Karl Marx. L'economia politica, nell'epoca di Marx, designava ciò che oggi chiamiamo scienza economica o economia. A quei tempi, come oggi, la scienza economica aveva una duplice funzione: da un lato, cercava di fornire una base scientifica alla prassi capitalistica, mentre dall'altro fungeva piuttosto maldestramente da giustificazione ideologica di quella stessa prassi. Marx ha criticato questo doppio gioco, che va criticato ancora oggi. Da Marx il capitalismo si è sviluppato e modificato notevolmente, e insieme ad esso anche la specialità che ne costituisce il fondamento e la giustificazione ideologica, ossia l'economia. Gli autori e le autrici della critica del valore tengono conto di questa evoluzione nel proprio lavoro. Intendono sviluppare una critica dell'economia politica per il XXI secolo, riprendendo quelle parti dell'opera di Marx la cui rilevanza può essere compresa solo ora. Essi criticano l'economia e la scienza economica del nostro tempo. Così facendo, forniscono un sostegno teorico a tutte quelle persone interessate che diffidano della loro immediatezza, e vorrebbero sfuggire al destino della vespa sul vetro della finestra chiusa. I temi centrali della critica del valore, sono costituiti dalle realtà nascoste dell'economia e del sistema sociale capitalistico che, come se fosse un ostacolo insormontabile, si frappongono a ogni attività di opposizione su cui non c'è stata riflessione. La critica radicale del capitalismo deve dedicare la massima attenzione a queste realtà.

Corso accelerato di critica del valore: il capitalismo non è in crisi, ma è la crisi

Quando pensiamo a come potrebbe, o dovrebbe essere una società non capitalistica, ci imbattiamo immediatamente in difficoltà quasi insormontabili, che possono essere paragonate a quel vetro invisibile della finestra dove la vespa ronza a morte, e di cui si è parlato nel capitolo precedente. Il concetto di economia è polisemico, e oggi si riferisce a qualcosa di totalmente diverso da quello che significava, ad esempio, nell'antichità greca. Quando ci chiediamo in che cosa consistesse la "economia" delle società premoderne, la risposta dovrebbe essere, in senso stretto, che in pratica non avevano un'economia. Il rapporto che l'essere umano, dall'età della pietra al Medioevo, ha avuto con le "risorse" umane e naturali, non era impregnato delle stesse categorie, principi e rappresentazioni di ciò che troviamo oggi alla base dell'economia odierna. La semplice questione di sapere come appariva l'economia delle società precedenti, implica una proiezione delle rappresentazioni stesse dell'economia su quelle società precedenti; una proiezione che non tiene conto della realtà storica, o preistorica. Il fatto che proiettiamo la nostra rappresentazione dell'economia sulle epoche passate, e forse anche su quelle future, può essere spiegato solo dalla tendenza che ha l'economia - e l'economia di oggi - a rappresentare la nostra economia capitalistica come se fosse "naturale", vale a dire, corrispondente alla natura umana. E questo malgrado il fatto che il capitalismo, dal punto di vista della storia umana, sia solo una nota a piè di pagina. Se si cerca nel passato o nel futuro un tipo di economia non capitalistica, ci si dovrebbe astenere dal partire dall'analisi dell'economia capitalista nella speranza di sviluppare una "economia migliore" a partire da lì. Già la nozione stessa di "economia non capitalista" è problematica. Sarebbe meglio lasciar perdere. Perché nel nostro tempo, nella pratica, i concetti di economia e di capitalismo si sovrappongono. Quando si cerca la possibilità di un'economia non capitalistica, forse, senza accorgersene, si sta cercando un "capitalismo non capitalista". Quando pensiamo che qualsiasi tipo di riforma economica, o anche una rivoluzione economica, possa portare a un'economia migliore, e precisamente a un'economia non capitalista, rischiamo di girare in tondo, e tornare infine al punto di partenza: l'economia capitalistica. Tentativi di questo genere, sono sempre finiti nel "socialismo reale", e alla fine hanno fallito. Si basavano sull'illusione che sarebbe stato sufficiente, per la creazione di un'economia non capitalista, portare i vantaggi del capitalismo in un nuovo sistema, ed eliminarne allo stesso tempo gli inconvenienti. Invece, il pensiero della critica del valore ci aiuta a capire che per superare il capitalismo non serve un'economia migliore, ma all'umanità serve una via d'uscita dall'economia. Questo si fa presto a dirlo, ma deve essere spiegato in dettaglio. Tutta la seconda parte di questo libro è dedicata proprio a questo tentativo di spiegazione. Ma se l'umanità non esce dall'economia, secondo la critica del valore, c'è da temere una catastrofe globale nella quale le possibilità di intervenire verrebbero in gran parte sottratte all'uomo. Ecco perché è urgente intraprendere un'azione consapevole, ben ponderata e congiunta. La terza parte del libro si concentra su questa pratica emancipatoria. Prima, però, si cercherà di presentare la critica del valore sotto forma di una lezione di tre minuti. Chiunque, dopo questa presentazione, dovesse concludere che non ne vale la pena, può regalare il libro a qualcun altro. In compenso, se deciderà di continuare a leggere, avrà già un'idea di ciò che verrà dopo. Innanzitutto, bisogna sfatare due equivoci: il primo riguarda il concetto di lavoro, così come viene utilizzato nella critica del valore e quindi anche in questo libro. Con esso, non ci si riferisce alla totalità delle attività umane, come il lavoro domestico, il lavoro artistico, il giardinaggio, il lavoro industriale, e una miriade di altre attività. Ma esso designa piuttosto sempre quel tipo di lavoro senza il quale il capitalismo non potrebbe funzionare; e che lo distingue, in quanto principio fondamentale, da tutte le altre società: il lavoro salariato. La seconda precisazione riguarda l'equivalenza che è stata appena menzionata tra capitalismo ed economia. Questa equivalenza non intende dire che il rapporto capitalistico con le risorse umane e naturali sia l'unico possibile. I bisogni umani essenziali – cibo, vestiario, alloggio, mobilità, bisogni sociali e culturali – potrebbero essere soddisfatti in un sistema non capitalistico; ma questo sistema avrebbe ben poco in comune con quella che oggi viene chiamata economia.  Che cosa aggiunge la critica del valore alla critica del capitalismo che non sia già noto almeno dai tempi di Marx? In che modo la critica del valore si differenzia dalla critica tradizionale del capitalismo, la quale , almeno in parte, ha perso la sua credibilità nel “socialismo realmente esistente”? La risposta sta nel nucleo teorico della critica del valore. Essa trae origine da un'idea di Karl Marx, la quale è stata troppo poco presa in considerazione dal marxismo, e che probabilmente non è stata adeguatamente compresa: nel sistema economico che si definisce capitalismo, si trova incorporato un meccanismo il quale porta necessariamente alla sua autodistruzione. L'economia è la produzione di ricchezza - e quindi di valore economico - attraverso il lavoro umano, ed è la distribuzione di tale ricchezza. La ricchezza totale, e quindi la massa del valore economico, può e deve crescere in virtù dell'utilizzo di sempre più forza lavoro umana. Ma allo stesso tempo, il lavoro umano deve essere eliminato il più possibile dalla produzione di merci per motivi di redditività nella competizione. In questo modo, il capitalismo esaurisce la fonte da cui vive. La fonte è il lavoro umano. Questa contraddizione - tra la creazione di valore attraverso il lavoro, da un lato, e l'eliminazione proprio di questa fonte di valore, dall'altro, è il germe patogeno che sta portando il capitalismo alla sua distruzione. È questa la tesi della critica del valore. Questo processo autodistruttivo non può essere fermato, né tantomeno invertito. Si muove sempre nello stesso senso. Per questo motivo, il sistema non si trova mai due volte nella stessa situazione. Il suo stato attuale è totalmente diverso da quello degli anni Sessanta, ad esempio. Il capitalismo degli anni Sessanta era caratterizzato da una crescita economica impressionante, da una bassa disoccupazione e da un incredibile ottimismo. Il capitalismo del nostro tempo non conosce queste caratteristiche. La fonte della ricchezza, la forza lavoro, sta lentamente diminuendo, perché il lavoro umano viene sempre più estromesso dai processi produttivi. Ma si sta prosciugando in maniera perfida, in modo tale che le persone riescono a malapena a percepirlo nella loro vita quotidiana. Questa vita quotidiana è caratterizzata da una frenetica accelerazione dei processi produttivi e da un corrispondente aumento dei consumi, dovuti alla globalizzazione dell'economia, all'innovazione e al progresso tecnico, all'automazione e alla robotizzazione, alla rapida introduzione e alla mercificazione dell'intelligenza artificiale e a un'impressionante “dubaizzazione” del mondo. Contrariamente forse a quanto vorremmo credere, queste manifestazioni non ci permettono di dedurre una vitalità e una forza di rinnovamento del sistema. L'analisi della critica del valore ci porterebbe invece a paragonarle ai cosiddetti “organi avventizi” in botanica: gli alberi sotto stress producono germogli ascendenti. Questi germogli compaiono in alberi la cui crescita è impedita da fattori come l'inquinamento atmosferico o la vicinanza ad altre piante. Sono sintomi di stress. Anche le varie forme di accelerazione che abbiamo appena descritto possono essere interpretate come sintomi di stress del sistema economico capitalista, che è certamente soggetto a una costrizione a crescere, ma che non può più crescere. Che il sistema sia soggetto a una coazione a crescere, ma non possa continuare a crescere, è quanto possiamo intuire dai “danni collaterali” dell'accelerazione sfrenata di oggi: la rapida e crescente distruzione dell'ambiente, il cambiamento climatico indotto dalle attività umane, l'esclusione di coloro che sono diventati superflui e i conseguenti flussi migratori, l'onnipresente registrazione, controllo e sorveglianza degli individui, una diffusa banalizzazione dell'ingiustizia e della violenza, la deriva della società globale verso il nazionalismo e il fascismo e il crescente rischio di guerra che essi comportano. Il capitalismo degli anni Sessanta era forte e resistente; quello di oggi, a ben guardare, è un uomo malato che si trascina da una crisi all'altra. È di fatto una lunga crisi. È vero che una crisi ha sempre una fine, ma la fine di questa crisi sarà anche la fine del sistema morente. Questa è la diagnosi della critica del valore. Essa conclude che il capitalismo non può essere salvato. Perché non è possibile tornare a uno stato precedente migliore. Il capitalismo deve quindi essere abolito e sostituito. E il più rapidamente possibile. La catastrofe della sua autodistruzione lascia all'umanità poco tempo. Ciò che è stato presentato qui in forma abbreviata e senza spiegazioni viene descritto e spiegato, sotto diversi aspetti, nei capitoli successivi. Alcune ripetizioni non possono essere evitate. Infatti, lo sviluppo del capitalismo qui descritto, di per sé contraddittorio, ha diverse dimensioni che non possono essere dimostrate tutte insieme, ma solo una dopo l'altra. D'altra parte, il nucleo della critica del valore qui presentata rimane lo stesso in ognuna di queste dimensioni.

- Ernst Schmitter - Pubblicato il 17/3/2025 su Critica della dissociazione del valore. Ripensare una teoria critica del capitalismo -