giovedì 9 gennaio 2025

La Messinscena delle “Scienze Naturali” !!

Sohn-Rethel e le mutazioni della fisica moderna
- di Rainer Gruber -

Io.
Sohn-Rethel [*1] insisteva sul fatto che il conflitto tra l'uso della dialettica nelle scienze sociali, da un lato, e l'uso di una logica di esclusione nelle scienze naturali, dall'altro, doveva essere risolto, altrimenti qualsiasi utopia politica finirebbe necessariamente per portare al dominio tecnocratico. Vorrei qui presentare una possibile soluzione a tale conflitto. È il risultato di un'analisi del moto proprio della fisica. Molto approssimativamente, possiamo dire che fin dalla loro nascita, il capitalismo e la fisica hanno camminato mano nella mano, come fratello e sorella. Il capitalismo, ha favorito lo sviluppo della fisica, e la fisica ha favorito lo sviluppo del capitalismo. Questa fratellanza affonda le proprie radici nella logica dell'esclusione, segnata dal postulato della proprietà privata: questo è mio e non è tuo. Si innesca così l'astrazione dello scambio che, secondo Sohn-Rethel, è diventata la base per la formazione delle categorie e delle forme di intuizione del pensiero razionale europeo. Tutte queste cose costituiscono il quadro di pensiero della fisica tradizionale. Il capitalismo e la fisica, sono entrambi accecanti: il capitalismo lo è in quanto libera una produttività esplosiva di merci, le quali non trovano più destinatari; la fisica lo è a partire dalla vicinanza apparentemente intima a una natura che, obbedendo alle leggi, ha portato la sua capacità predittiva a livelli vertiginosi, come quando ad esempio ha imparato a dedurre le leggi del moto dell'universo, essendo persino in grado di prevedere l'esistenza di specifiche particelle elementari, in questo immenso universo vuoto, prima ancora che vengano trovate sperimentalmente. Le tesi di Sohn-Rethel continuano a essere di grande attualità, poiché esse ci permettono di smascherare l'aura acquisita dalla fisica, e di farlo proprio grazie alla sua conoscenza delle leggi della natura e al potere di previsione che ne deriva. Dimostrerò che l'approccio di Sohn-Rethel fornisce la chiave per comprendere la fisica moderna, fornendole la chiave per comprendere sé stessa.

II.
È dal 1900 che la fisica ha posto fine al suo rapporto fraterno con l'economia che era basato sullo scambio. Ma questo è stato fatto alle spalle dei fisici. Una caratteristica essenziale della fisica classica, è che essa si basa sulle separazioni. Il tempo è separato dallo spazio, lo spazio non ha nulla a che fare con il tempo; allo stesso modo, la materia è separata dal tempo e dallo spazio, nei quali tuttavia si muove autonomamente. Le onde e le particelle sembrano escludersi a vicenda, le particelle classiche sono localizzabili, mentre, in linea di principio, le onde non lo sono. Ciò vale a dire che la fisica classica ha una struttura logica soggetta al postulato dell'esclusione: sì o no, tertium non datur; una struttura che Sohn-Rethel riconduce alla base genetica dell'astrazione dello scambio - della proprietà privata, di ciò che è mio non è tuo - senza la quale lo scambio non è possibile. Come un serpente che fa la muta, la fisica moderna ha cambiato la pelle della fisica classica, condizionata dall'astrazione dello scambio. Si è sbarazzata di quasi tutte le separazioni:
– Nella teoria della relatività ristretta, la separazione del tempo dallo spazio – che era stata promossa da Newton al rango di fondamento della fisica classica – viene soppressa e le forme dell'intuizione dello spazio e del tempo, che erano state fino ad allora rigorosamente separate, ora si fondono in un unico spazio-tempo.
– Nella Teoria della Relatività Generale (TRG) [*2], è stata soppressa la separazione della materia dallo spazio-tempo; immortalata dall'immagine della materia che si muove attraverso lo spazio e il tempo. D'ora in poi, la materia condiziona la metrica, cioè le masse determinano la curvatura dello spazio-tempo e la curvatura dello spazio-tempo dirige il flusso della materia.
– Nella meccanica quantistica, l'onda e la particella si condizionano a vicenda, essendo, in un certo senso, l'una l'opposto dell'altra.
Si tratta di tappe dell'evoluzione di una fisica che abbandona una logica basata su un assioma di esclusione, per rivolgersi a una dialettica i cui contorni sono già ben visibili.

III.
Alla luce delle formulazioni teoriche della TRG, della teoria delle particelle elementari e della teoria quantistica, si può constatare come il principio del determinismo causale viene trasmesso da un principio di condizionamento reciproco. Ecco due esempi: 1) nel TRG, è diventato evidente che non può esistere un cosiddetto oggetto assoluto, vale a dire, una struttura che ha effetti senza essere essa stessa un effetto. 2) L'incondizionalità, con cui la TRG fa di questo principio dialettico il suo principio guida, distingue la TRG da tutte le altre teorie della fisica. Norton [*3] lo ha evidenziato, nel 1993, riassumendo gli otto decenni di dibattito relativo a un'interpretazione appropriata della TRG. Ciò significa, ad esempio, che le strutture universali, come quelle rappresentate dai rigidi sistemi di coordinate euclidee, non sono più ammissibili. Essi caratterizzano uno spazio omogeneo, una struttura spaziale che, secondo Sohn-Rethel, ha il compito di assicurare la validità del postulato dello scambio nel tempo e nello spazio. La loro caratteristica è l'eterna ripetizione di ciò che equivale a sé stesso, che viene messa in scena dalla catena degli atti di scambio, e che è riflessa nella rappresentazione di sistemi di coordinate lineari. Lo spazio riemanniano, d'altra parte, ammette solo sistemi di coordinate definiti localmente. Ciò significa, in particolare, che qualsiasi cambiamento che avviene in una grandezza fisica, da un momento nello spazio a un punto vicino, dev'essere integrato da quella che viene chiamata una "connessione", la quale, quando si sposta verso il punto, vicino tiene conto anche dell'influenza del cambiamento nel sistema di coordinate. Nella meccanica quantistica, sembra che le particelle e le onde non siano più due facce della stessa medaglia. I paradossi della meccanica quantistica sono ben noti: se si chiede a un elettrone: "Sei una particella?", esso risponde affermativamente, a questa o  a quella massa, e questa risposta, secondo tutte le regole dell'arte fisica, è vera: cioè l'esperimento può essere ripetuto più e più volte sempre con lo stesso risultato. Ma se chiediamo allo stesso elettrone: "Sei un'onda?" Esso risponde anche "sì", e indica la sua lunghezza d'onda. E questa risposta vale anche nel senso della fisica: può essere confermata sperimentalmente tutte le volte che si vuole. Il problema è che queste risposte si contraddicono a vicenda: possiamo localizzare una particella, ma per principio non possiamo localizzare un'onda. Ciò significa che finché applichiamo una logica basata su un postulato di esclusione, di sì o no, otteniamo sempre e solo metà della verità.Nella fisica moderna, il principio del condizionamento reciproco è diventato fondamentale.

IV.
Vengo a quello che per me è il punto più importante: risulta che in fisica, le concezioni dello spazio [*4] sono di fondamentale importanza [*5]. La loro vera missione, è quella di codificare matematicamente la condizione di una possibilità di misurazione. Sorprendentemente, sembra che queste condizioni siano identiche alle equazioni fondamentali della fisica. Questo vale per tutte le branche della fisica: TRG, meccanica quantistica, teoria delle particelle elementari, elettrodinamica e meccanica classica. La concezione dello spazio specifica per ciascuna di queste branche, codifica la condizione di possibilità di misurazione nel dominio in questione, e questa coincide con l'equazione del moto che caratterizza fisicamente quel dominio. È riconoscibile qui, la vicinanza alla formula kantiana della condizione di possibilità della conoscenza. Ciò ha permesso alla filosofia kantiana di dissociarsi dalla metafisica. In fisica, essa ci permette di liberarci di quello che, nel confronto tra dialettica e logica di esclusione, sembra costituire il peso maggiore: l'enorme capacità predittiva della fisica. Eugene Wigner, premio Nobel nel 1963, descrisse tale capacità in un acclamato articolo del 1960 in cui parlò di «irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali» [*6]. Questo potere - una freccia sempre pronta a servire che si trova nella faretra degli apologeti di una logica del pensiero razionale basata sul postulato dell'esclusione tertium non datur -  trova ora in tal modo la sua ovvia spiegazione: ogni esperimento riuscito verifica naturalmente la condizione di possibilità di misurazione. Ma se questa condizione è identica all'equazione di base del dominio, allora ogni esperimento deve necessariamente confermare questa equazione; cosa che avviene, in pratica, sotto forma di un laborioso confronto tra la progettazione degli esperimenti e la formazione delle concettualizzazioni teoriche per descriverne i risultati. È questa è la chiave per comprendere la stupefacente capacità predittiva della fisica; quella che chiamerei volentieri - con una modifica più incisiva di quanto dice Wigner - l'irragionevole efficacia della ragione. Essa si basa sulla sistematica che Eddington ha distillato nella sua analisi della teoria della relatività generale (TRG), fornendo lo sfondo fisico per quella che Kant chiamava la sua svolta copernicana. Questo è ciò che vorrei mostrare nelle righe seguenti.

V.
Eddington, autore di un libro sulla teoria della relatività generale (TRG) [*7], che ha avuto undici edizioni fino agli anni '70, ha descritto in una conferenza pubblica del 1927 [*8] la legge di gravitazione che ci permette di prevedere l'eclissi dell'agosto 1999 come  se si trattasse di un'ovvietà [*9], paragonabile a prevedere che nel 1999 anche 2+2=4 sarà ancora valido. Egli chiama questa legge come una "messa in scena" [*10]: la fisica ne ricava solo ciò che vi ha già messo prima. A partire da questa formulazione, Eddington descrive in modo familiare ciò che Kant riteneva nel 1781 essere il risultato della sua Critica della ragion pura: «Siamo pertanto noi stessi a introdurre l'ordine e la regolarità nei fenomeni che chiamiamo natura, e che non potremmo trovarli lì se non fossero stati originariamente messi lì da noi, o dalla natura della nostra mente»[*11]. Nei Prolegomena, Kant precisa: «L'intelletto non trae le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive alla natura» [*12]. Kant chiamò la sua rivoluzione, copernicana. Essa non ha mai veramente trovato il suo posto nelle nostre menti, come dimostra l'uso del termine "scienze naturali", che non è mai stato messo in discussione. Per noi, il punto cruciale risiede nel fatto che Eddington sviluppa la stessa visione filosofica dalla fisica. Traendone il suo disincantato apprezzamento da un'analisi della teoria della relatività generale [TRG). A quel tempo, nel 1927, stava ancora esprimendo la speranza che la teoria quantistica in fase di sviluppo, potesse avere più successo, e avrebbe pertanto sollevato un piccolo angolo di quel velo che copriva la natura. Uno sguardo più attento mostra come anche questa speranza sia inutile: l'attuale Modello Standard delle particelle elementari, riproduce fino alle più piccole ramificazioni la fisionomia dello spazio piatto così come è stata esposta nel 1938 da Élie Cartan; un matematico francese, nel suo libro sugli "spinori" [*13], scritto in un'epoca in cui nessuno aveva la minima idea di una futura teoria delle particelle elementari [*14]. Gli "spinori" sono parametri, che descrivono la struttura dello spazio piatto quando esso  è costituito da riflessioni, piuttosto che da rotazioni. Nella teoria delle particelle elementari, gli spinori sono identici ai "fermioni"; i costituenti di base della materia.

VI.
Questo ci porta a capire una seconda cosa importante: l'idea di spazio che codifica la condizione di possibilità di misura, genera simultaneamente gli oggetti della teoria. E non è tutto: esso contiene necessariamente anche la natura delle interazioni a cui questi oggetti sono sottoposti, e che li rendono per noi misurabili. È il caso del TRG, nella quale l'idea di misura — codificata nello "spazio riemanniano" — genera sia "buchi neri" che "stelle centrali di Keplero", che interagiscono per mezzo della metrica di questo spazio non appena questa metrica viene identificata con il campo gravito-inerziale (cioè, la gravitazione). E questo vale, in secondo luogo, per il cosiddetto "Modello Standard" delle particelle elementari, non appena identifichiamo gli "spinori" come i componenti base della materia, così come i "fermioni", e quelli che vengono chiamati "p-vettori" dello spazio piatto; come i "bosoni", il cui scambio media l'interazione. La struttura dello spazio piatto scoperta da Cartan. è decisiva per il fatto che nella teoria delle particelle elementari si tratta di tre tipi di interazioni: l'interazione elettromagnetica, che determina la nostra vita quotidiana; l'interazione debole, che governa la trasformazione delle particelle tra di loro, cioè il loro decadimento radioattivo; e l'interazione forte, che condiziona la coesione dei nuclei atomici. Sono gli invarianti "co-varianti" dello spazio piano scoperti da Cartan, a determinare la struttura di queste interazioni, in quanto  base dell'attuale teoria delle particelle elementari. Il fatto che nell'idea di spazio non siano solo gli oggetti a essere determinati, ma anche, e allo stesso tempo, le loro interazioni, è un'indicazione del modo in cui le relazioni dialettiche si insinuano nelle teorie dei fisici senza che lo intendano: per un approccio dialettico, è imperativo che il metodo che mette gli oggetti nel mondo, stabilisca allo stesso tempo anche il modo in cui si costituiscono le loro interazioni con questo mondo. Da nessuna parte, in queste inferenze sull'esistenza della materia in fisica, il concetto di natura gioca il minimo ruolo: ciò che ci appare come una legge di natura, non è altro che la condizione di possibilità di misurazione, codificata sotto forma di equazione matematica. La natura definita dalla fisica è un feticcio. L'uomo che misura ha a che fare solo con sé stesso: solo con la sua volontà di misurare.

VII.
Cambio di scenario: facciamo astronomia, guardiamo il cielo e vediamo che i pianeti girano intorno al sole. Perché lo fanno? Newton risponde: perché il sole esercita una forza di attrazione. Il suo ragionamento è tanto semplice quanto convincente: se non ci fosse la forza di attrazione, i pianeti andrebbero dritti e scomparirebbero nelle profondità dello spazio. Ma non è così! Quindi ci deve essere una forza di attrazione. La TRG lo contraddice: non c'è forza. I pianeti stanno andando avanti senza alcuna forza. Da dove viene questa contraddizione? Nella nostra convincente argomentazione a favore di una forza di attrazione, abbiamo – senza rendercene conto – introdotto un pregiudizio: siamo partiti, come se niente fosse, dall'esistenza di uno spazio piatto. Cosa significa: uno spazio piatto? Su un piano d'appoggio piatto, una pallina che spingo con il dito andrà dritta. Ma se la superficie del tavolo è un po' curva, la palla non si muoverà più in linea retta. L'esempio estremo è fornito da una pallina della roulette. Gira in tondo, anche se non c'è forza di attrazione. Quando assumiamo erroneamente che lo spazio sia piatto, la "connessione" che collega i sistemi di coordinate locali tra loro, suggerisce la presenza di una forza: come conseguenza della nostra immaginazione dello spazio piatto, immaginiamo la forza gravitazionale di Newton. Siamo vittime di un'illusione! È questo, ciò che sta accadendo a noi, a noi e a tutta la fisica classica. La forma elegante e semplice della legge di gravitazione fisica scoperta da Newton, è solo il riflesso matematico della definizione di spazio piano: la sua forza diminuisce con il quadrato della distanza reciproca, perché lo spazio piano è definito matematicamente a partire da una "forma quadrata". Cominciamo a capire cosa Eddington possa aver inteso con il termine "lavoro di messa in scena": abbiamo presupposto la progettazione di uno spazio piatto, e otteniamo, come riflesso di questo pregiudizio, quella che consideriamo essere la forza gravitazionale di Newton, che nel mondo della TRG non esiste. È solo l'ombra della "connessione".

VIII.
Capire questo, ha una vasta portata. L'esistenza della forza gravitazionale appare così convincente e così reale perché  essa consente una marea di previsioni: ci permette di prevedere le orbite dei corpi celesti: non solo i pianeti, ma anche le comete; ci permette di calcolare le maree e di capire l'appiattimento della Terra ai poli; e non è tutto: grazie alla sua legge, Newton era persino in grado di calcolare la precessione dell'asse terrestre, una rotazione che si verifica una volta ogni 26.000 anni circa. È stato questo potere predittivo a elevare la legge di Newton al rango di paradigma della fisica classica. Ha testimoniato la capacità che aveva l'umanità di rilevare le leggi della natura, e di strappargliele. Ha dimostrato il trionfo del cervello umano sul movimento delle stelle. Eppure, per quanto ovvia possa sembrare l'esistenza di una legge di natura, rimane un'illusione. La TRG detronizza questa legge. Rende possibile, con l'aiuto della nozione di spazio curvo, o più precisamente di "spazio riemanniano", di riprodurre quelli che sono stati tutti questi successi della fisica newtoniana, senza ulteriori sforzi. Ci dice, senza ambiguità, che non esiste alcuna forza di attrazione e che i pianeti si muovono senza alcuna forza; la forza ci appare tale solo nella misura in cui abbiamo erroneamente supposto che lo spazio fosse piatto. E questa nuova teoria ha dimostrato di essere giusta: è stata in grado di determinare con precisione "l'avanzamento del perielio" di Mercurio: una piccola rotazione dell'ellisse che Mercurio descrive attorno al Sole; un'anomalia che gli astronomi conoscevano da tempo, ma che prima non erano mai stati in grado di calcolare con precisione prima.

IX.
Quindi la teoria della relatività generale (TRG) è semplicemente una teoria migliore che sostituisce la teoria di Newton? È semplicemente un'indicazione del fatto che la natura preferisce lo spazio riemanniano allo spazio piatto? Abbiamo una natura che afferma, come legge, che lo spazio curvo sarebbe lo spazio più esatto? Fisicamente, "l'avanzamento del perielio" di Mercurio ci dimostra che fissarsi sui rigidi sistemi di coordinate della geometria euclidea - stimolati dall'astrazione dello scambio - è troppo radicale per descrivere la realtà. Ma quale realtà? Stiamo attenti. Eddington non limitò il suo verdetto sul "lavoro di messa in scena" solo al potenziale gravitazionale di Newton. È la TRG che lo ha esplicitamente qualificato come un lavoro di messa in scena. Ma come ci è arrivata a farlo? Eddington lo aveva capito nella seguente maniera: matematicamente, lo "spazio riemanniano" è evidentemente caratterizzato dal "tensore di Riemann-Christoffel"; un'entità con 4 indici. L'operazione matematica di "contrazione" ci permette di ottenere un tensore con 2 indici, chiamato, per la sua importanza, "tensore di Einstein". Un'ulteriore contrazione aggiuntiva, fornisce un invariante. Questo è tutto ciò che abbiamo a disposizione, come materiale matematico indipendente, per questo modello di spazio. Per descrivere una metrica, è necessario un tensore con due indici. Quindi, se una metrica deve essere introdotta nello spazio riemanniano, essa deve necessariamente essere identificata con un multiplo del tensore di Einstein. Questo, secondo Eddington, è il contenuto matematico - un po' banale - della "prima equazione del campo di Einstein"; vale a dire, l'equazione del campo che si riferisce allo spazio vuoto senza materia. Secondo Eddington, chiunque voglia fare misurazioni in queste condizioni deve necessariamente basarsi su questa equazione! Ma Eddington scoprì anche qualcos'altro: in fisica, questa equazione dice che nell'universo vuoto, quello che lui chiamava il raggio di curvatura "diretto" è lo stesso in tutti i luoghi e in tutte le direzioni. Un'idea molto strana, questa! Un'autolimitazione della natura, inquietante e difficilmente immaginabile! Ancora una volta, Eddington attacca la misurazione; ossia il know-how della fisica, la sua ossessione centrale. La misurazione richiede la calibrazione della bilancia. Normalmente, è sufficiente l'esistenza di uno standard indipendente, dato a priori dall'esterno: per la massa, ci si affida comunemente al prototipo internazionale del chilogrammo che si trova a Parigi. Ma se non esiste uno standard hardware esterno su cui fare affidamento, che aspetto ha una calibrazione in uno spazio vuoto? La soluzione all'enigma è quanto segue: l'unico standard disponibile nello spazio vuoto, è il raggio di curvatura direzionale presente in qualsiasi punto e in qualsiasi direzione dello "spazio riemanniano". Se, secondo Eddington, io stesso misuro questo raggio di curvatura con un righello calibrato al raggio di curvatura locale, ne risulterà necessariamente sempre lo stesso valore. Tuttavia, questo è esattamente proprio ciò che si trova nella "prima equazione del campo di Einstein". Questa equazione - conclude Eddington - non riflette alcuna legge di natura. Piuttosto, essa ci consente di codificare la condizione di possibilità di una misurazione, nel caso in cui non vi sia una scala di materiale esterna.  Veramente sorprendente, è il fatto che sono proprio le conclusioni a cui si arriva per mezzo di questa tecnica di misurazione [*15], ad aver reso famosa in tutto il mondo la teoria della relatività generale (TRG): "l'avanzamento del perielio" di Mercurio, lo spostamento della luce, verso il rosso, nel campo gravitazionale delle stelle, e la deflessione della luce nel campo gravitazionale del Sole, la cui conferma osservativa nel 1919 portò a un'euforia che, presso il pubblico europeo, rese Einstein una pop-star: tutti questi fenomeni derivano indubbiamente dalla condizione di possibilità di misurazione, così come viene definita nella prima "equazione del campo di Einstein" [*16].

X.
Ecco che così, in questo contesto, è più facile capire che cosa abbia reso lo spazio piatto così talmente indispensabile alla meccanica classica. Matematicamente, la sua forma quadrata codifica la condizione di possibilità di misurazione nel caso in cui sia disponibile una bilancia esterna. Come dovremmo intendere tutto questo? La forma quadrata caratterizza la proprietà essenziale di un righello di misurazione: bisogna che sia invariante rispetto alla rotazione e alla traslazione. Quando, al mercato, un commerciante di tessuti misura il tessuto venduto con il righello da sarto, il cliente si aspetta giustamente che il righello mantenga la sua lunghezza quando ha finito di misurare. E non dovrebbe cambiare lunghezza nemmeno quando il commerciante si sposta in un altro angolo del mercato. Si tratta dello spazio piano, il quale codifica la condizione di possibilità della misurazione, fornendo una forma caratteristica e invariante rispetto alla rotazione e alla traslazione. Fornisce la base matematica per uno standard materiale. Nel sistema della TRG, che non dispone di uno scartamento universale, ci sono i raggi locali di curvatura "diretti" — in qualsiasi luogo e in qualsiasi direzione — che svolgono il ruolo di scale di scartamento locali, a seconda del luogo di misurazione, e della direzione interessata. Non li conosciamo e non abbiamo bisogno di conoscerli. La loro funzione appare solo attraverso la prima equazione del campo di Einstein.

XI.
Siamo ora arrivati a una fase decisiva. Una fisica per cui la misurazione è diventata un'ossessione deve conferire proprietà metriche allo "spazio riemanniano", descritto da una metrica chiamata "tensore metrico". La svolta decisiva per un'interpretazione fisica della TRG è stata l'intuizione di Einstein di identificare questa metrica con il "campo gravitazionale-inerziale" che determina l'interazione gravitazionale degli oggetti. Ma di quali oggetti si tratta? La "prima equazione del campo di Einstein" porta direttamente – fatte salve alcune ipotesi di precisione che ci sembrano ovvie – a una metrica assai precisa, la cosiddetta "metrica di Schwarzschild". Sorprendentemente, questa metrica include l'esistenza di oggetti che interpretiamo come "buchi neri": entità matematiche che sembrano essere costituite solo dalla nostra concezione dello spazio e del tempo. E ora sta accadendo anche a  noi la stessa cosa che accadde a Newton. Proprio così come Newton scambiò il suo potenziale gravitazionale per una proprietà ovvia e misurabile della natura, anche questi oggetti ora possono essere rilevati dalla misurazione nella realtà. Si trovano, in quanto oggetti estremamente massicci, al centro di quasi tutte le galassie di una certa dimensione. Esiste una strana connessione tra questi "buchi neri" dall'aspetto esotico e le "stelle centrali di Keplero", simili al nostro buon vecchio Sole. Entrambi sono il risultato di una trasformazione matematica — necessariamente possibile nella TRG — di quelli che sono  i rispettivi sistemi di coordinate. Questa relazione permise ad Einstein di calcolare "l'anticipo del perielio" di Mercurio. Dobbiamo renderci conto di questo: in nessun momento abbiamo posto l'ipotesi dell'esistenza della materia. Come potremmo? Si tratterebbe di oggetti assoluti che Norton ritiene inammissibili nel mondo TRG. Il motivo per cui improvvisamente troviamo strutture di oggetti sta nel fatto che il tensore di Einstein - che abbiamo già identificato con il tensore metrico - dipende esso stesso in modo complicato dal tensore metrico. Ciò provoca un'autodeterminazione del tensore metrico, a seguito della quale compaiono gli oggetti: ci evolviamo in un contesto veramente dialettico. E questo ci porta a capire che: gli oggetti con cui abbiamo a che fare in astronomia ,sono un emergere del disegno dello spazio utilizzato; detto in altre parole, nascono dalla nostra intenzione di misurare.

XII.
Le conclusioni che siamo stati in grado di trarre dalla TRG sono supportate in modo impressionante dalla teoria delle particelle elementari. Troviamo sorprendente un tale risultato, cioè, che il Modello Standard delle particelle elementari riproduce, fino alle sue più piccole ramificazioni, la fisionomia dello spazio piatto così come sviluppata da Cartan nel 1938 nel suo già citato libro La teoria degli spinori [*17]. L'equazione di Dirac, che apparve nel 1928, come se fosse una fenice che risorge dalle proprie ceneri [*18] e che da allora ha descritto l'equazione del moto dell'elettrone relativistico senza cambiamenti, non è altro che l'equazione per la definizione invertita degli "spinori". Da questo punto di vista, le "anti-particelle" sono una conseguenza inevitabile dell'ambiguità insita nella definizione di "normale" su una superficie. Le interazioni provengono dagli invarianti spinoriali così chiamati da Cartan, che lo spazio piatto rende disponibili. Il Modello Standard delle particelle elementari, basato su queste interazioni, descrive l'esistenza di intere classi di particelle elementari trovate sperimentalmente e le loro proprietà - sono disponibili in doppietti, triplette o byte - con una precisione sorprendente, in modo tale che si sia stati in grado di prevedere alcune di queste particelle ancora prima che fossero scoperte sperimentalmente. L'elettrodinamica quantistica, è in grado di calcolare il momento magnetico anomalo del mesone (un gemello leggermente più pesante dell'elettrone) con una precisione di 11 cifre decimali, e il risultato sperimentale conferma questo valore. Troviamo lo stesso risultato impressionante per la teoria delle particelle elementari come per la TRG: la materia nella sua forma esplicita è costituita dall'idea di spazio che ci permette di codificare la condizione di possibilità di misura.  E siamo sul punto di risolvere l'enigma che è la fisica e la sua irragionevole capacità di previsione: la teoria delle particelle elementari traccia la fisionomia dello spazio piatto fino alle sue più minute ramificazioni. I risultati sono quelli che Eddington chiamava un lavoro di messa in scena, una bella illustrazione fisica di quella che Kant chiamava la sua rivoluzione copernicana: troviamo ciò che avevamo introdotto in precedenza.

XIII.
Questo modo di vedere le cose, getta nuova luce sulle cosiddette costanti fondamentali della fisica. Ora, esse ci appaiono come delle cicatrici invertite, che rimangono quando ciò che prima era separato viene riunito. La fisica moderna annulla quelle separazioni che un pensiero costituito dall'astrazione dello scambio aveva attuato nella descrizione europea del mondo materiale. Un esempio: in questo pensiero, lo spazio e il tempo venivano considerati come delle quantità completamente indipendenti l'una dall'altra, alle quali venivano assegnate rispettivamente le dimensioni [cm] e [s]. Di conseguenza, nella teoria della relatività ristretta, che riprende questa separazione, emerge una costante fondamentale c con la dimensione di una velocità [cm/s]. Essa indica in che modo una delle dimensioni, ormai superflua, è storicamente legata all'altra, ora che non sono più considerate separate [*19]. Allo stesso modo, nella TRG, la costante gravitazionale di Newton [g/cm] conferisce alle dimensioni dello spazio-tempo [cm] e della materia [g] - separate dalla concezione newtoniana - una condizionalità reciproca. In meccanica quantistica, è il “quanto di azione di Planck” [erg s] che ci permette di concepire l'onda e la particella come l'uno l'opposto dell'altra [*20]. Come conseguenza di questa visione, è obsoleto cercare di determinare il valore numerico delle cosiddette costanti fondamentali a partire da una teoria. Esse sono determinate in ogni caso dal modo in cui la separazione delle dimensioni è stata attuata storicamente (in Europa).

XIV.
A prima vista, può sembrare che una conoscenza che dà origine agli oggetti fisici e alle loro interazioni a partire dalla costruzione mentale di una concezione dello spazio, sia profondamente idealista. Uno sguardo più attento mostra che non è così. Ci sono voluti secoli di confronto con la realtà della misurazione, per consentire a Newton di formulare, nel 1687, quella concezione dello spazio che avrebbe costituito la base della fisica classica [*21]. Ci sono voluti altri due secoli di confronti teorici tra i concetti matematici di spazio e la pratica fisica, prima che Einstein riuscisse a introdurre il concetto di spazio di Riemann nella fisica nel 1915 [*22]. E ci sono voluti enormi sforzi per costruire l'attuale teoria delle particelle elementari, cioè per arrivare allo spazio covariante descritto da Cartan; il fondamento appropriato per una misura che è in grado di costituire gli oggetti del suo desiderio solo in interazione con questa concezione dello spazio.

XV.
La fisica costruisce un mondo parallelo nel quale a ogni oggetto sensibile viene assegnato un valore che non è più capace di nient'altro che di una differenziazione quantitativa; un processo che sembra adattarsi come un guanto a quello dell'economia delle società produttrici di merci. Secondo Sohn-Rethel, le costruzioni astratte di spazio e di tempo assicurano la condizione delle possibilità di scambio. In fisica, esse stesse forniscono la condizione per la possibilità di una misurazione. Basandoci sul carattere feticistico delle merci evidenziato da Marx [*23], possiamo identificare il concetto di natura - usuale nel discorso sulle scienze naturali - come un "feticcio". La relazione oggettiva delle cose, sembra significare ciò che in realtà designa una relazione sociale tra gli esseri umani. L'umano che misura incontra solo sé stesso. Come avviene con lo scambio, la fisica crea uno sdoppiamento di oggetti sensibili in un mondo parallelo, il quale non è più capace di nient'altro che di confronto quantitativo. In questa immagine, il Sole - in quanto oggetto sensoriale che dispensa calore e luce come elisir di lunga vita - svolge il ruolo di valore d'uso. La progettazione dello spazio produce l'oggetto della fisica, il Sole, assegnandogli un valore di scambio che si confronta gravitazionalmente con tutti gli altri oggetti nel sistema solare, e oltre. Gli uomini che misurano sé stessi, producono l'apparenza di quell'oggettività che si presenta loro nelle loro stesse misurazioni, e li abbaglia con un'irragionevole efficacia della ragione. L'attualità di Sohn-Rethel – questo è il senso del mio intervento – non è accademica. Permane fintanto che non si risolve il conflitto tra la pretesa della fisica di avere una verità sulla natura e la dialettica in quanto modo specifico di situare socialmente la condizione di possibilità della conoscenza.

- Rainer Gruber, 2020 - Pubblicato su Grundrisse. Psychanalyse et capitalisme -

NOTE:

[1] Gruber Rainer, « Sohn-Rethel und die Häutungen der modernen Physik», Recherches germaniques, no 15, 2020, p. 179-192, http://journals.openedition.org/rg/4127 (© Presses universitaires de Strasbourg)

[2] Désigné sous le sigle TRG dans la suite.

[3] John Norton, « General covariance and the foundations of general relativity: Eight decades of dispute », dans Reports on Progress of Physics, 56, 1993.

[4] Lorsque je parle d’espace dans ce qui suit, c’est toujours au sens mathématique du terme et cela englobe automatiquement l’espace-temps, à moins que je ne parle explicitement d’espace et de temps.

[5] Tout au long de sa contribution, Rainer Gruber utilise le terme de « Raumkonzept », que nous traduisons par « conception de l’espace » ; il évite ainsi le « concept » philosophique (Begriff). Il va de soi qu’il s’agit de la façon dont on conçoit l’espace, et non pas d’une opinion. [NdT]

[6] Eugene P. Wigner: « The unreasonable effectiveness of mathematics in the natural sciences », dans Communications on Pure and Applied Mathematics, 13, 1960.

[7] Arthur Stanley Eddington, The Mathematical Theory of Relativity, New York 1975 [1923].

[8] Arthur Stanley Eddington, The Nature of the Physical World, London 1942 [1928].

[9] Ibid., p. 288 : « [l’éclipse] prédite comme une conséquence de la loi de la gravitation […] dont nous avons trouvé qu’elle était un simple truisme ».

[10] Ibid., p. 145 : « La loi de la gravitation est — un put-up job. »

[11] Immanuel Kant, Critique de la raison pure, Paris, Gallimard, 1980, p. 730-731.

[12] Immanuel Kant, Prolégomènes à toute métaphysique future qui pourra se présenter comme science, trad. Jacques Rivelaygue, dans Œuvres philosophiques, tome 2, Paris, La Pléiade, 1985 [1783], p. 97.

[13] Elie Cartan, La théorie des spineurs, Paris, 1981 [1938].

[14] L’émergence de la mécanique quantique à partir de la translation et de l’invariance galiléenne des espaces homogènes a été démontrée par Jauch en 1968. Voir à ce sujet Josef Jauch, Foundations of Quantum Mechanics, Londres, 1968.

[15] En relation avec l’équation de la géodésique, l’équivalent du mouvement sans force de Newton dans un espace courbe.

[16] Arthur Stanley Eddington, The Mathematical Theory of Relativity, op. cit., p. 88-92.

[17] Elie Cartan, La théorie des spineurs, op. cit. 

[18] Paul A. M. Dirac, « The Quantum Theory of the Electron », dans Proceedings of the Royal Society, 1928.

[19] Dans la théorie de la relativité restreinte, c désigne également la vitesse de la lumière, qui apparaît ici comme une constante fondamentale. Dans l’ART, la vitesse de la lumière peut prendre une valeur différente d’un endroit à l’autre et même au même endroit dans différentes directions.

[20] Le quantum d’action de Planck identifie le vecteur d’onde covariant avec les mesures contravariantes d’énergie et d’impulsion de la mécanique classique.

[21] Isaac Newton, Principes mathématiques de la philosophie naturelle, Tome I et II, Paris, Hachette BnF, 2016 [1687].

[22] Abert Einstein, Akademie-Vorträge: Sitzungsberichte der Preußischen Akademie der Wissenschaften 1914–1932, Weinheim, 2005.

[23] Karl Marx, Le Capital, Tome I, Paris, PUF, 1993 [1867], p. 81.

mercoledì 8 gennaio 2025

Nell’Isolario…

Isole contese, abbandonate, conquistate e riconquistate, vendute e amate, incantate e stregate, plasmate dal vento che le abbraccia e le sferza, luoghi dell’origine e dell’utopia, inaccessibili, invisibili, isole che non sono isole, appena affioranti, quasi penisole: da Cipro ad Alcatraz, da Tortuga alle Galápagos, quando parliamo di isole – secondo il narratore di questo libro – parliamo di profezie, messaggi in bottiglia affidati alle acque. Che cosa vogliono comunicarci, le isole, con la loro presunzione di pensarsi come centro del mondo, di credere che tutto giri attorno a loro, come in realtà fanno solo le correnti e i pesci? La cosa piú difficile di fronte a un’isola è semplicemente leggerla, capire quale lingua parla e quale inesauribile racconto mormora il mare frangendosi sugli scogli. Storie fantastiche di isole vere descrive l’incontro di due personaggi. Il primo è un narratore, il Pilota, un marinaio che ha navigato su ogni rotta ed è sbarcato in ogni porto, e possiede perciò la saggezza dell’esperienza, quella vera, che si deposita lentamente nel corso di una vita. Sorseggiando un bicchiere di vino Pigato o di rum, fumando una delle sue sigarette papier maïs, pescando nella baia a bordo di una lampara o osservando il mare dall’alto della collina, con il suo affabulare ipnotico e avvolgente il Pilota irretisce chi lo ascolta, lo piglia all’amo, lo cattura, iniziandolo all’insulomania, il culto, o malattia, degli ultimi discendenti di Atlantide. Il secondo personaggio si limita per lo piú ad accogliere e raccogliere i racconti dell’altro, ma senza chi ascolta non esisterebbe chi narra, senza lettore non ci sarebbe scrittore. Il porto in cui i due si trovano è quello di Genova, dove «quando vedi una nave enorme sfilare piano in fondo alle vie, ti chiedi se sta salpando lei o se sta salpando la città»; il molo su cui passeggiano è «una rampa verso l’ignoto, una macchina della fantasia: se non salpi con una nave, lo fai con il desiderio o con i ricordi». E il testo che compongono insieme è un isolario, ovvero un libro anfibio, per metà vero e per metà fantastico: un inno al mistero e all’inquieta bellezza delle isole, e quindi all’arte del racconto, e all’oceano delle storie.

(dal risvolto di copertina di: Ernesto Franco, "Storie fantastiche di isole vere". Einaudi, pagg.136, €17,50)

Le vere isole sono sempre immaginarie
- di Alberto Manguel -

Questo è un libro meraviglioso sotto più di un aspetto: meraviglioso per la pregevole scrittura, meraviglioso per la sua potenza creativa, meraviglioso grazie alle generose possibilità offerte alla mente del lettore in cerca di nuovi orizzonti. Forse ogni lettore però, in un certo senso, un viaggiatore immaginario, come quelli concepiti da Ernesto Franco. Forse i luoghi immaginari nascono dal semplice desiderio di vedere oltre l'orizzonte. Sappiamo che viaggiatori intrepidi provenienti dall'Islanda, dalla Cina e dall'Africa partirono ben prima di Colombo all'esplorazione di mari sconosciuti; altri, ugualmente intrepidi, ma meno inclini all'azione concreta, rimasero in patria e i paesi inesplorati cercarono di immaginarli. Una cronaca medievale narra di un nobiluomo a cui il confessore aveva raccomandato di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme per espiare i suoi peccati. Detestando l'idea di affrontare le duemila miglia di distanza tra la sua residenza e la Città Santa il nobiluomo fece per vari anni ogni giorno un giro completo attorno al suo castello, dopa averne calcolato la circonferenza, fino a coprire la distanza richiesta, costruendo una cartografia immaginaria sulla geografia reale circostante.
Ma un evento all'occorrenza fantastico è sufficiente a rendere fantastico un luogo? Tutta la geografia, sia quella che troviamo sulle enciclopedie e gli atlanti o la più ampia, visitata in sogno, esiste in uno spazio limitato solo dal nostro potere di definirlo fantasia o realtà. Le isole in particolare, poiché caratterizzate da quella perfetta metafora dell'infinito che è il mare, diventano luoghi in cui tutto è possibile. Ernesto Franco, con il gusto dell'antico esploratore, ha scelto di seguire questo percorso di metamorfosi. In questo libro delizioso, che avrebbe fatto invidia allo stesso Marco Polo, Franco si è scisso in due complici involontari che compongono un catalogo di isole, tratte senza dubbio dal mondo reale, ma trasformate in luoghi fatati: il Pilota, un vecchio marinaio astuto con un debole per il rum e il tabacco, che descrive queste isole non meglio identificate e il Cronista, che gli fa da amanuense. Spetta al lettore decidere se questi luoghi magici che sorgono dai flutti siano, ad esempio, «secche che si prendono per isole oppure isole che si mascherano da secche». Ogni isola esplorata da Franco è se stessa e anche la sua ombra. L'isola di Ons in Galizia, ad esempio, è un minuscolo puntino in mezzo al mare, ma siccome ospita un esercito di spettri gementi, a quanto pare anime in cerca del proprio posto nell'Aldilà, Ons è anche l'ingresso all'inferno o la porta del Paradiso. «Anche qui», ci vien detto, «un'entrata e un'uscita». Nell'isolario di Franco, l'isola può anche divenire la creatura che la abita, un orso nel caso dell'isola di Kodiak, detenuti per Alcatraz o il Minotauro per Creta. L'identità dell'isola muta non solo in presenza di tale abitanti, ma anche dei viaggiatori che vi approdano per caso e  in tal modo la caratterizzano, perché come spiega il Pilota, «Non c'è un labirinto uguale per tutti». Il Pilota racconta la vicenda di Atlantide, isola diventata una storia. L'intervento umano può influenzare il destino di un'isola, ma non è un destino senza appello. Le Galapagos di Darwin sono oggi «isole protette, cioè a rischio di distruzione». Certamente, e il Pilota aggiunge: «Ma i vulcani, in fondo la mare, non dormono».
Libri come questi riempiono di invidia il lettore spingendolo a desiderare di scrivere storie a sua volta. Se Ernesto Franco me lo consente, vorrei omaggiarlo di questa storia vera. Il 4 novembre 2003 quattordici rifugiati curdi e quattro marinai indonesiani a bordo di una piccola imbarcazione approdarono sull'isola di Melville, in acque australiane, 80 km a nord della città di Darwin, con l'intento di richiedere asilo politico. Informato del fatto, non essendo disposto a trattare con gli ennesimi richiedenti asilo, il primo ministro australiano John Howard assunse una posizione drastica: decise di rescindere i legami della nazione con Melville e, in nome del suo governo, "ripudiò" l'isola, assieme ad altri 4000 isolotti appartenente all'Australia. Melville è diventata immaginaria.
Ogni viaggio immaginario o reale che sia, ha le proprie, rigidissime regole., Una di esse, forse la più importante, è che ciascun viaggio è sequenziale, nel vero senso della parola. «Viaggiare», dice Franco (o forse uno dei suoi personaggi) «è forse solo un continuo mandar notizie a sé stessi nel luogo di partenza». Eppure non appena il viaggiatore è salpato il porto alle sue spalle cambia: nuovi edifici spuntano su strade modificate e nuove persone vengono ad abitarle, circondate da un paesaggio a sua volta mutato. Anche nella memoria del viaggiatore la nostalgia riconfigura il mondo abbandonato, trasformando catapecchie in palazzi e banalità in meraviglie. Il viaggiatore - il migrante, l'esule, il reietto - è condannato a ricordare un luogo che non esiste più. In questo senso la nostra geografia è tutta immaginaria. Amleto definiva la terra immaginaria verso cui noi tutti siamo diretti «il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno». Forse i nostri sono tutti viaggi di preparazione al paese che sta dall'altra parte, quello illustre, tanto atteso.

- Alberto Manguel - traduzione di Emilia Benghi - Pubblicato su Robinson del 21/4/2024 -

Un calzerotto marrone e il destino del vagabondo…

Nell'ultimo capitolo di "Mimesis" - che è dedicato a un'analisi della "calza marrone" di Virginia Woolf, e che costituisce un passaggio del romanzo "Al faro" - Auerbach parla non solo di Woolf, Joyce e Proust, ma anche della scena modernista in generale – ad esempio, arriva addirittura a commentare dicendo che ci sono certi romanzieri che, pur essendo già esteticamente "pronti" (o "maturi"), utilizzano ad hoc alcune di quelle che sono delle "tecniche d'avanguardia" (l'esempio principale, per Auerbach, è Thomas Mann). Tuttavia, si tratta solo di un capitolo d'addio e, pertanto, complesso ed eterogeneo; Auerbach fa addirittura un parallelo con Omero, riprendendo la scena del riconoscimento di Ulisse grazie alla sua cicatrice (e così facendo, quindi, Auerbach lega il punto finale al punto di partenza di tutto il suo progetto). Il parallelo con Ulisse può essere determinante, a partire dal fatto che Auerbach, esiliato e inquieto (oltre che cosmopolita e poliglotta), assume alla fine, come proprio, il destino del vagabondo. Ulisse, tornando a casa, prima di tornare in quel letto che egli stesso ha costruito (a partire dall'albero che cresce proprio nel luogo dove si trova la stanza), racconta a Penelope come egli abbia appreso, dalle parole di Tiresia all'inferno, di aver bisogno – anche dopo essere ritornato a casa – di continuare il proprio viaggio. Similmente, riprendendo l'inizio di "Mimesis" alla fine di "Mimesis", Auerbach ci mostra, in maniera distorta, in che modo l'opera debba continuare; ci mostra che che la "fine" è solo un "inizio"dislocato: Ulisse ha bisogno di continuare il suo viaggio, subito il giorno dopo, dopo la notte d'amore con la moglie, per trovare chi non ha mai visto un  remo – e che pertanto egli deve necessariamente portare con sé, per mostrarlo – in quanto remo, ma sempre solo come se fosse una "pala per il grano"). La fine di "Mimesis" segna un nuovo inizio, al punto che Auerbach definisce il proprio lavoro come una filologia basata sugli schemi delle avanguardie. E questo lo fa proprio perché egli non conosce quali siano gli orientamenti del romanzo contemporaneo, non conosce nemmeno l'esatta direzione in cui va il proprio lavoro! In altre parole, Auerbach sostiene che la sua opera non è totalizzante, o storica, ma rappresenta piuttosto l'indagine su un qualche dettaglio, su alcune scene e su certi problemi; e questo è qualcosa che, del resto, viene esemplificato ed evidenziato proprio dal dramma di Virginia Woolf in quella "calza marrone", nella quale Auerbach vede il proprio destino; e arriva a questo, analizzando un'intera esistenza condensata, prima in una sola scena, e infine in un solo dettaglio: la cicatrice, il calzino marrone, l'ariete di Dindenault nell'analisi di Rabelais, e così via).

fonte: Um túnel no fim da luz

martedì 7 gennaio 2025

Il mare in bottiglia di Adorno…

Non c'è nessuna bottiglia nel mare in bottiglia del mare
- Le obiezioni di Robert Kurz alla teoria critica di Theodor W. Adorno -
di Frank Grohmann

Il pensiero di Theodor W. Adorno, è un filo conduttore che attraversa tutta la critica che Robert Kurz fa della dissociazione del valore. Così come l'approccio che determina il riferimento a Marx, di Kurz, è fondamentalmente valido anche per Adorno. E come laddove per Marx non si tratta solo di prendere posizione contro il marxismo del movimento operaio, ma anche di andare oltre, e al di là di Marx stesso, analogamente, con Adorno, il compito consiste nel prendere posizione non solo contro i "custodi" e la "comunità pentecostale" della sua teoria critica [*1], ma allo stesso tempo anche di andare oltre lui stesso.

Un mezzo momento di verità
Come aveva già fatto rispetto a Marx, anche in Adorno, Kurz individua un mezzo momento di verità [*2]; e allo stesso modo per cui si trattava di separare un Marx esoterico dal Marx essoterico, qui diventa necessario procedere alla liquidazione dei residui dell'esigenza ontologica di Adorno [*3], in modo da aprire la strada a una teoria critica per il XXI secolo che non sia tronca!

Il dilemma fondamentale
Dieci anni prima che, rispetto a questo argomento, si fosse imposto il concetto di  "aporia del pensiero" [*4] , Robert Kurz aveva già cominciato a parlare di due diagnosi errate, decisive e intricate, svolte da Adorno riguardo al contesto storico degli ultimi anni del cosiddetto miracolo economico fordista. Se da un lato, Adorno avrebbe già considerato la storia dell'instaurazione del sistema mercantile, che non era ancora completo, come la storia del suo collasso; dall'altro lato, e in maniera inseparabile, Adorno avrebbe interpretato il continuo presentarsi dell'individuo, o del soggetto, nella sua forma-merce, come se questo rappresentasse la sua decomposizione già in corso. Adorno vedrebbe, pertanto, solo ciò che è sempre esistito, vale a dire "l'eterno ritorno dello stesso" capitalistico, e di conseguenza mancherebbe la crisi finale del capitalismo. Il rovescio della medaglia di tutto ciò è che Adorno, non volendo perdere di vista le possibilità immutate del soggetto, proprio per questo si lascerebbe lasciato sfuggire quella che è la sua vera e propria decomposizione [*5]. È questo duplice errore – la diagnosi affrettata del crollo del sistema produttore di merci e l'annuncio prematuro di una decomposizione dell'individuo o del soggetto nella sua forma-merce – che spinge Kurz a rimproverare ad Adorno di essere rimasto teoricamente aggrappato tanto alla forma-merce, quanto a una concezione feticistica del soggetto [*6].

Tra il marxismo e la critica della dissociazione dal valore
Questo atteggiamento ha come effetto che la conseguenza anti-ontologica [*7], già presente in Marx e recepita da Adorno, non viene mantenuta neanche da quest'ultimo. La critica al feticismo della merce [*8], da parte di Adorno in questo contesto, testimonia il suo attaccamento a un modo di pensare che è quello del marxismo tradizionale [9*]. Ne consegue che Adorno non ha mai compiuto il passo decisivo verso una concezione della relazione feticista che si è sviluppata con la critica del valore [*10].

La critica della logica dell'identità gira in tondo
Kurz ne individua la ragione nell'idealizzazione che Adorno fa della ragione circolazionista, che gli permetterebbe al contempo di rimanere aggrappato a un agente della circolazione non meno idealizzato [*11]. Questa scorciatoia dall'ideologia della circolazione alla sua teoria critica consisterebbe in quanto segue [*12]: da un lato, Adorno spiegherebbe che la sfera della circolazione e il soggetto della circolazione sono la causa del male della logica dell'identità mediante l'astrazione dello scambio; dall'altro, e nello stesso movimento, Adorno vorrebbe che fosse proprio questo livello della circolazione la leva dell'emancipazione [*13]. Ma non esiste alcuna critica alla logica dell'identità, sentiamo Kurz sfidare Adorno, senza critica alla logica della circolazione: «Non ci può essere una critica della logica dell'identità» – sentiamo dire Kurz, contestando Adorno – «senza che ci sia prima una critica della logica della circolazione».

Un'analisi tronca della costituzione feticista
Sicuramente Adorno avrebbe cercato di far derivare la sua critica del pensiero identificativo [*14] e della logica dell'identità, dalla forma feticista del valore, ma nonostante la sua insistenza sul tema della falsa oggettivazione e della problematica del feticcio, in realtà non avrebbe mai affrontato il tema in modo sistematico, ed è per questo che nella sua opera si troverebbero solo indicazioni molto sparse riguardo al livello più profondo della costituzione del feticcio stesso [*15]. Ne consegue così, ad esempio, che Adorno avrebbe criticato la scorciatoia della teoria dell'azione rispetto al problema della prassi, attenendosi però a un concetto di azione coagulata e alla sua istituzionalizzazione, senza prendere in considerazione i vari livelli più profondi di questa coagulazione in relazione al feticcio-costituzione e allo sviluppo continuo delle istituzioni [*16].

Chiusi nella metafisica della storia
Similmente, Adorno, dal punto di vista della teoria della storia, non sarebbe andato oltre  per quel che riguarda una storia delle relazioni di feticcio [*17]. Adorno non avrebbe certo dissolto l'edificio della sua metafisica della storia: si sarebbe limitato solo a continuarlo, invertendolo [*18], in modo che di conseguenza, per lui, come abbiamo già sottolineato, la storia del progresso si trasforma in una storia della decomposizione [*19]. E per quanto riguarda quest'ultima, non ha mai abbandonato del tutto l'idea di progresso, e quindi la mantiene ancora in parte, anche se in maniera negativa.

Non c'è dialettica dell'Illuminismo
In questo modo Kurz attesta che Adorno è duplicemente intrappolato: non solo perché rimane parzialmente bloccato in un marxismo del movimento operaio, ma anche perché si distacca in maniera imperfetta dalla filosofia dell'Illuminismo [*20]. La dialettica dell'Illuminismo di Adorno si mantiene nella forma fornita da quella stessa filosofia; al di là di tale forma, secondo Kurz non esiste alcuna dialettica dell'Illuminismo [*21].

Un democratico radicale borghese
Definendo Adorno un democratico radicale borghese [*22]: Kurz spiega questo, da un lato, sulla base dell'inadeguato abbandono del pensiero illuminista, il quale va di pari passo con la concezione adorniana di uno Stato autoritario che supera la legge del valore [*23]; e dall'altro, sulla base della ragione circolazionista - così come vene idealizzata da Adorno - dalla quale deriva la sua criticabile ipostasi della democrazia [*24]. Persino in senso negativo, la fede di Adorno nello Stato [*25] testimonierebbe comunque la sua concezione, immutabile, in ultima analisi, del dominio politico e statale sull'economia [*26].

A metà strada
Questa indecisione, da parte di Adorno, caratterizzerebbe tutto l'intero complesso della sua teoria critica, e riguarderebbe pertanto anche la sua critica della forma-soggetto capitalistica, nella misura in cui quest'ultima, in lui,  si definisce solo in modo assai ambiguo, per poi essere ribadita alla fine [*27]. Dal momento che la critica radicale di Adorno all'Illuminismo, appena iniziata, viene sempre ricondotta da Adorno stesso, nei momenti decisivi, alla forma-soggetto definita dal valore [*28], la sua critica alla metafisica del soggetto illuminista rimane a metà strada. E questo - come dice Kurz in modo inequivocabile - in tre modi: perché 1) - la critica di Adorno si limita alla forma primaria di circolazione dello scambio di merci, e non comprende né la forma di produzione del lavoro né la forma secondaria di circolazione della soggettività giuridica e della politica; perché 2) - non più di Marx, del resto, e nonostante gli approcci e le indicazioni sparse - egli non perviene alla forma superiore del rapporto di dissociazione; e perché 3) -  non appena ha formulato la sua critica, egli  la ritira immediatamente, come già detto, facendo di questa forma di soggetto della circolazione, che per lui porta con sé la logica distruttiva dell'identità, l'indispensabile supporto positivo dell'auto-emancipazione [*29]. L'evocazione, fatta da Adorno, della forza negatrice del soggetto, lungi dal realizzare un superamento trasformativo della forma soggetto, rimane perciò attaccata alla nostalgia di una realizzazione riuscita di tale soggetto [*30].

Il limite intoccabile
Secondo Robert Kurz, i due errori di Adorno non solo gli impediscono di decifrare il limite storico assoluto del sistema produttivo di merci, ma anche la vera crisi del soggetto. Poiché per Adorno la circolazione delle merci non collassa mai, e quindi non finisce mai, la crisi del soggetto gli appare, da un lato, come una mera crisi del soggetto politico e, dall'altro, come una crisi che si svolge solo sul lato oscuro della crisi, cioè nella sfera privata delle merci [*31]. Nonostante la sua polemica contro la necessità ontologica, Adorno rimane bloccato in un'ontologia del soggetto illuminista [*32]; egli ha nostalgia di quel soggetto, e quindi getta la sua bottiglia in mare [*33]. L'ultima. Ma non c'è alcuna bottiglia nel mare in bottiglia del mare: rompere con questa ontologia presuppone una determinazione del soggetto in divenire contro il soggetto [*34], una determinazione alla quale Adorno, secondo Robert Kurz, egli stesso non è mai arrivato.

Frank Grohmann, 11 gennaio 2024 - pubblicato su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -

NOTE:

[1]  - "Das Ende der Politik", in Krisis. "Beiträge zur Kritik der Warengesellschaft", n°14, 1994; "Tabula rasa. Fino a che punto può e deve spingersi la critica dell'Illuminismo? "; Ragione sanguinosa. Saggi per una critica emancipatoria della modernità capitalista e dell'illuminismo borghese", inCrise & Critique, Albi, 2021.

[2] "Was ist Wertkritik?", Intervista con Ernst Lohoff e Robert Kurz, rivista Marburg-Virus, 31.12.1998. http://www.krisis.org, 1998.

[3] "Tabula rasa", op. cit.

[4] Ivi.

[5] "Das Ende der Politik", op. cit.

[6] Ivi.

[7] "Prefazione", Ragion sanguinosa, op. cit.

[8] "Antiökonomie und Antipolitik", Krisis, 19, 1997.

[9] La sostanza del capitale, L'Échappée, Parigi, 2019.

[10]"Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria, Crise & Critique, Albi, 2022.

[11] "Das Ende der Politik", op. cit.

[12] "Grigio è l'albero della vita", op. cit.

[13] "Geschichte als Aporia", 2006. http://www.exit-online.org

[14] "Null-Identität", originariamente pubblicato in Klaus Bittermann (ed.): Identität und Wahn — Über einen nationalen Minderwertigkeitskomplex, Berlin 1994; Ristampato in Exit!, 15, 2018.

[15] "Grigio è l'albero della vita"op. cit.

[16] Ivi.

[17] Geschichte als Aporia, op. cit.

[18] "Maledetta ragione. Venti tesi contro la pretesa Aufklärung e i 'valori occidentali', in "Ragione Sanglante", op. cit. Citazione.

[19] Ivi.

[20] Ivi.

[21] "Tabula rasa", op. cit.

[22] "Das Ende der Politik", op. cit.

[23] La sostanza del capitale, op. cit.

[24] "Das Ende der Politik", op. cit.

[25] Lo Stato non è il salvatore supremo, Crise & Critique, Albi, 2022.

[26] "Das Ende der Politik", op. cit.

[27] "Tabula rasa", op. cit.

[28] "Ontologia negativa. Gli oscurantisti dell'Illuminismo e la metafisica della storia nell'era moderna", Raison sanglante, op. cit.

[29] "Maledetta ragione. Venti tesi contro i cosiddetti Aufklärung e i 'valori occidentali'", op. cit. cit.; "Tabula rasa", op. cit.

[30] "Tabula rasa", op. cit.

[31] "Das Ende der Politik", op. cit.

[32] "Tabula rasa", op. cit.

[33] "Das Ende der Politik", op. cit.

[34] "Tabula rasa", op. cit.

lunedì 6 gennaio 2025

Una Ragionevole Astrazione ?!!???

Metafisica del lavoro
- La carriera storica di un termine apparentemente sovrastorico -

di Robert Kurz

Nella storia del pensiero occidentale e soprattutto moderno, il linguaggio della filosofia e della scienza si è allontanato sempre più dal linguaggio della gente comune, di modo che così esso è diventato il linguaggio segreto di una casta sacerdotale elitaria del sapere, separata da tutto il resto della società. Ci sono ben pochi concetti che appartengono simultaneamente sia alla sfera della riflessione teorica che a quella della vita quotidiana. "Lavoro", è uno di questi termini; ed esso da un lato rappresenta una categoria filosofica, economica e sociologica, mentre dall'altro viene usato in modo confuso, e in maniere diverse in quella che la pratica delle vite quotidiane di tutte le persone. Questa caratteristica speciale del significato sociale di "lavoro", indica quella che nel mondo moderno rappresenta una connessione universale. Nessun'altra parola che a prima vista sia più chiara, nel mentre che non esiste nessun'altra parola che, a una seconda vista, sia meno chiara. In filosofia e nella teoria sociale, nessuno ha fatto del concetto di "lavoro" la base del suo pensiero più di quanto lo abbia fatto Karl Marx. Ed è stato il marxismo ad aver risolutamente assunto il punto di vista del "lavoro", al fine di legittimare, nella storia moderna, il grande movimento sociale dei lavoratori salariati. Filosoficamente - per il marxismo - il "lavoro" appare come se fosse una condizione sovrastorica dell'esistenza umana nel suo rapporto con la natura. Economicamente, secondo questa dottrina, il "lavoro", in quanto forma universale dell'attività umana è stato degradato, dal dominio dei proprietari capitalistici, a un rapporto di sfruttamento. Sociologicamente, è la "classe operaia" che deve formarsi politicamente sotto forma di "partito del lavoro", per poter così porre fine ala relazione sociale di "sfruttamento dell'uomo sull'uomo", e arrivare a ottenere una "liberazione del lavoro". Questa teoria, apparentemente autosufficiente e incrollabile, della società e della storia oggi ha perso la sua verità; essa appare decisamente antiquata e polverosa. Ma ciononostante, è il concetto in sé stesso di "lavoro" ad aver conservato la sua validità e la propria auto-ovvietà.

Come si spiega questo strana situazione? Il marxismo ha sempre cercato di rivendicare il "lavoro", vedendolo in quanto ideale positivo di per sé stesso, e distinguerlo pertanto dal presunto "non-lavoro" del mondo borghese e dei suoi rappresentanti. La stampa socialista del XIX secolo, nelle sue caricature,  amava dipingere i capitalisti come dei parassiti obesi, o come dandy e flâneur che facevano una vita comoda e "disoccupata" a spese della classe operaia. "I fannulloni dovranno sloggiare", recita la famosa "Internazionale", l'inno del movimento operaio. In realtà a diventare visibili in questa rozza immagine del nemico, sono solo i vecchi signori feudali e coloro che vivono delle rendite delle grandi fortune finanziarie, e non certo i moderni dirigenti. Questo, dal momento che i magnati dell'industria sono magri, fanno jogging tutti i giorni e hanno meno tempo libero di uno schiavo delle piantagioni, oltre dover andare in terapia perché sono diventati dei "maniaci del lavoro". Quindi, in realtà, il "lavoro" è sempre stato un ideale borghese-capitalistico, e questo assai prima che il socialismo scoprisse per sé questo concetto. L'elogio del "lavoro" lo sentiamo cantato dalla dottrina sociale cristiana, con dei toni assai più alti; anche il liberalismo ha canonizzato il "lavoro" e, come fa il marxismo, ne promette la "liberazione"; anche tutte le ideologie conservatrici e radicali di destra adorano il "lavoro" come se fosse un Dio secolarizzato. "Arbeit macht frei" stava scritto sopra la porta di Auschwitz. Ovviamente, la religione del "lavoro" rappresenta il quadro di riferimento comune a tutte le teorie, tutti i sistemi politici e tutti i gruppi sociali moderni. In questa religione, essi sono in competizione tra loro per vedere chi dimostra maggiore devozione, e chi riesce a suscitare nei lavoratori il massimo rendimento.

Pensieri simili, possono far sì che la normale persona moderna si arrabbi. Qual è il punto? «Devi lavorare»! Forse che le persone non hanno sempre lavorato? Altrimenti non ci sarebbero cibo, vestiti, abitazioni e cultura. Nulla viene dal nulla. È questo è il motivo per cui l'etica del "lavoro" è nota perché dice: «Se non lavori, non dovresti mangiare». Indubbiamente, le persone hanno sempre prodotto cose e idee per vivere, divertirsi, esplorare e intrattenere. Ma per tutto questo, è "lavoro" il termine corretto, sovrastorico, universale? No. "lavoro" è un'astrazione, è una parola che veicola una generalità del tutto ambigua. Karl Marx difese questa generalità indefinita dicendo che si trattava di una “ragionevole astrazione” nota fin dai tempi più antichi. Ma è proprio così? Un'astrazione razionale dovrebbe essere un termine generico e significativo per cose qualitativamente diverse che tuttavia appartengono tutte insieme a un certo sistema. Per esempio, mele, pere, pesche, arance, ecc. vengono raggruppate a formare il termine generico "frutta". Ma se visto in questo senso, "lavoro", come termine generico per le attività umane, non è precisamente un'astrazione ragionevole. Sognare, camminare, giocare a scacchi o leggere romanzi sono anch'essi tutte attività umane, senza che normalmente vengano conteggiate in quanto "lavoro". Molte culture di cacciatori, pastori o contadini non conoscevano affatto il concetto astratto di "lavoro". Sarebbe sembrato loro altamente irragionevole, e decisamente folle, combinare attività come la caccia e la semina, la cucina e l'educazione dei figli, la cura dei malati ed eseguire degli atti cultuali, riassumendole tutte in unico medesimo termine astratto. Spesso in queste società arcaiche (nella misura in cui esse possono essere ricostruite, o ne esistono ancora dei resti) per i diversi ambiti della vita, per gli uomini e le donne, per i diversi gruppi sociali o le diverse abilità (agricoltori, artisti, guerrieri, ecc.), esistevano anche altri diversi concetti generici di attività riferiti ai diversi ambiti della vita e che non corrispondevano in alcun modo al moderno concetto universale di “lavoro”.

E allora, quando e in quale contesto questo concetto astratto-generale di attività sociale ed economica è emerso storicamente? In quelli che sono i diversi linguaggi culturali, la radice della parola “lavoro” riporta a un significato che indica la persona subalterna, dipendente o schiava. Il "lavoro", pertanto, non è stato in origine un'astrazione neutra e razionale, quanto piuttosto sociale: esso era è l'attività di chi aveva perso la propria libertà. Non importava quello che fanno queste persone possono fare, che sudino in miniera o in piantagione, che servano cibo in casa come domestici, che accompagnino i bambini a scuola o sventolino l'aria della padrona: è sempre l'attività di qualcuno che viene definito servo. Il contenuto dell'astrazione "lavoro", consiste nell'essere un servo. Pertanto, non c'è da stupirsi se nell'antichità, questo termine astratto abbia assunto (come ad esempio nella lingua latina) la connotazione metaforica di sofferenza e disgrazia. Si tratta della sofferenza dell'uomo che è attivo nel senso negativo e che perciò sta “barcollando sotto un carico”. Questo fardello può anche essere invisibile, dal momento che in realtà è il fardello sociale della dipendenza. È anche questo, in ultima analisi, ciò che si intende quando, nell'Antico Testamento della Bibbia, "Lavorare" viene interpretato come una maledizione comminata all'uomo da Dio. L'equiparazione tra sofferenza e "lavoro" non si riferisce solo al significato del mero sforzo. Anche una persona libera, in certe occasioni,  può impegnarsi nel mettere in atto uno sforzo, e può persino provare piacere nel farlo. Ecco perché è del tutto sbagliato fraintendere il "non-lavoro" dei liberi e degli indipendenti, nell'antichità, come se fosse pigrizia, e un “dolce far niente”; come spesso emerge nella letteratura marxista volgare. Nell'opera di Omero, l'eroe Ulisse è orgoglioso del fatto di aver costruito il proprio letto da solo. Ad essere disonorevole, non era l'attività in quanto tale, e non lo era neppure il lavoro manuale, ma lo era la subordinazione (la sussunzione) dell'uomo ad altre persone, o sotto una "professione". Un uomo libero poteva occasionalmente costruire un letto o un armadio, ma non gli era permesso di fare il falegname di professione; poteva commerciare occasionalmente, ma non gli era permesso di essere un mercante; occasionalmente, poteva scrivere poesie, ma non gli era permesso di essere un poeta (soprattutto non poteva farlo per guadagnare soldi). Chiunque, formalmente libero, avesse dovuto sottomettersi per tutta la vita a un lavoro retribuito in qualche ramo della produzione, sarebbe stato considerato "immaturo",nei confronti di quella attività, diventando così poco più di uno schiavo. Di conseguenza, l'attività di un dilettante libero non doveva essere necessariamente meno competente, o di qualità inferiore rispetto a quella di un “professionista” non libero. Praticare e acquisire conoscenze nelle varie arti era di certo considerato onorevole; e dalle storie favolistiche delle varie culture possiamo apprendere che nelle società antiche talvolta i figli dei re e dei principi dovevano imparare un mestiere; ma non per “essere” un artigiano e sottostare così alle sofferenze del “lavoro”.

A ridefinire, per primo in positivo, l'accezione negativa di "lavoro" come sofferenza e sventura, è stato il cristianesimo. Dal momento che la sofferenza di Cristo sulla croce avrebbe redento l'umanità, credere in essa ci impone in ogni caso di “seguire Cristo”; e questo significa accettare con gioia la sofferenza. In una sorta di masochismo della fede, il cristianesimo ha nobilitato la sofferenza e quindi il “lavoro” come obiettivo per cui vale la pena lottare.  I monaci e le monache dei monasteri si sottomettevano consapevolmente e volontariamente all'astrazione del "lavoro", al fine di condurre una vita da "servi di Dio", nel senso della sofferenza di Cristo. In termini di storia della mentalità, della disciplina e dell'ordine monastico, la rigida divisione della routine quotidiana e l'ascetismo monastico furono i precursori della successiva disciplina di fabbrica e del calcolo astratto e lineare del tempo della razionalità aziendale. Ma questa missione del "lavoro" si riferiva solo al significato metaforico del termine, in quanto accettazione religiosa della sofferenza in vista dell'aldilà; con essa non si perseguiva alcuno scopo positivo terreno. Fu solo poi, con il protestantesimo, soprattutto nella sua forma calvinista, che il masochismo cristiano della sofferenza divenne un oggetto terreno: il credente non doveva prendere su di sé le pene del "lavoro"come "servo di Dio" - in un isolamento monastico - ma doveva avere successo nel mondo terreno profano, al fine di dimostrare di essere stato prescelto da Dio. Naturalmente, non gli era consentito godere dei frutti del successo in nessun caso per non giocarsi la grazia divina rappresentata dalla ricerca di Cristo; doveva quindi fare del frutto del “lavoro” il punto di partenza per un sempre nuovo “lavoro” caratterizzato da un'aspra espressione di sofferenza e accumulare incessantemente ricchezze astratte senza goderne. Questa mentalità protestante si combinò con la fame di denaro degli Stati assolutisti della prima età moderna, e con la loro militarizzazione dell'economia. Mentre l'originario percorso cristiano di sofferenza verso il “lavoro” era stato scelto volontariamente, lo Stato lo trasformò invece in una legge sociale generale di costrizione. Il motivo religioso della sofferenza positiva mutò nel fine sociale secolarizzato del “lavoro”, mascherato da “razionalità economica”. In questo modo, le persone formalmente libere della modernità furono tutte sussunte sotto la forma immatura di attività che nell'antichità era apparsa come esistenza di servitù e quindi come sofferenza. L'attività libera e autodeterminata è stata ricondotta allo spreco temporale del cosiddetto “tempo libero”. La sfera centrale del “lavoro”, che era stata purificata nella sfera funzionale del fine astratto in sé, ora scindeva da sé le sfere della casa, della cultura, dell'istruzione, del gioco e della vita in generale. Andare al lavoro” divenne gradualmente un significato simile a quello che aveva “andare in chiesa”, anche se la società moderna dimenticò ben presto le origini storiche e religiose del “lavoro”. Ciò che è rimasto è il carattere positivamente ridefinito di un fatto in realtà negativo e spiacevole. Le persone si sono abituate a sacrificare la propria vita sull'altare del “lavoro” e a considerare come felicità la sottomissione a un “posto di lavoro” determinato dall'esterno.

Il liberalismo e il marxismo, hanno ripreso questa religione del "lavoro" dal protestantesimo e dai regimi assolutisti, e ne hanno completato la loro secolarizzazione. Nella totalità globale di un'attività in continuo movimento, la servitù è diventata libertà e la libertà è diventata servitù, vale a dire l'accettazione volontaria di una sofferenza che non ha altro significato che sé stessa. Il “lavoro” ha preso il posto di Dio, e in questo senso tutti gli uomini sono ora “servi di Dio”. Anche il management fa parte del “lavoro”, e assume su di sé la croce terrena della sofferenza al fine di trovare in essa la sua forza masochistica. L'eroe omerico Odisseo avrebbe disprezzato i cosiddetti governanti di oggi come dei miserabili servi, perché essi stessi si piegano sotto il giogo del “lavoro” e si collocano così nella forma sociale della immaturità. Anche il misero “tempo libero” oggi non è altro che la continuazione del “lavoro” con altri mezzi, come dimostra l'industria del tempo libero. La logica del “lavoro” si è nel frattempo impadronita delle aree scisse ed è penetrata nella cultura, nel gioco e persino nell'intimità. Allo stesso tempo, però, lo sviluppo delle forze produttive scientifiche ha portato ad absurdum sia la metafisica liberale che quella marxista del “lavoro”. Il principio della sofferenza, che è diventato positivo, non può più essere sostenuto, perché il capitalismo ha iniziato a liberare il “lavoro” dagli esseri umani. Così facendo, non solo disonora l'antropologia marxista, ma anche la propria. Con un concetto positivo di “lavoro”, l'emancipazione sociale non è più concepibile in futuro. Le persone non avranno altra scelta che invertire il risultato del capitalismo e liberarsi dal “lavoro”. Questa fine storica della sofferenza positiva non sarebbe la fine dell'attività umana nel confronto con la natura, ma solo la fine dell'immaturità non riflessa. Anche se i servi volontari vogliono assolutamente rimanere nella forma della sofferenza: il tempo del masochismo storico è finito.

- Robert Kurz - Pubblicato su Streifzüge Heft 2/1998  -

domenica 5 gennaio 2025

Traducendo…

In Italiano, Francese e Spagnolo, le "Decisioni" sono qualcosa che si... "prendono", quasi come fossero dei treni che possono portarti in qualche nuovo posto. Laddove, invece, in Inglese sei tu a “farle”, come se si trattasse di un prodotto, di qualcosa che è una tua creazione. Ma poi c’è anche il … Tedesco, nel quale, piuttosto, quello che si può dire è solo che qui le “Decisioni” si..."incontrano"; e qui abbiamo a che fare con come un qualcosa che fai con gli amici. Le altre non le so…

sabato 4 gennaio 2025

«in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo»…

Che cos'è la cattiveria? A volte, semplicemente, è il non trovare agio nel conformismo imperante, e percorrere una propria strada a dispetto di tutto e di tutti. Anche nel grande teatro della Torino e dell'Italia del Ventennio c'è un copione da recitare, e quando i destini dei protagonisti, Lotario e Giulia, si incrociano sul finire della guerra, i due si accorgono che, nel condurre la loro esistenza indipendente e disordinata, forse hanno comunque interpretato un ruolo. E lassù, dal cielo, Belzebù e un baffuto dittatore onnisciente si godono la recita dell'umanità, elargendo tiri mancini a profusione. Uscito per Einaudi nel 1956, Minuetto all'inferno è un libro controverso. Vittorini, che pure lo pubblicò nei Gettoni lo definì con spregio - in un'epoca in cui la letteratura si interessava soprattutto di sondare il reale - come «cupamente fantasticante: un incubo puramente libresco». Eppure il romanzo vinse il Premio Strega opera prima e anche oggi, a distanza di anni, si ha l'impressione che questa osservazione profonda della bassezza dell'animo umano e questo addentrarsi nel regno del fantastico lo rendano una lettura di valore imperituro.

(dal risvolto di copertina di: Elémire Zolla, "Minuetto all’inferno", Cliquot, pagg. 288, € 20)

Elémire Zolla: Favola gnostica in una Torino cupa e laboriosa
- di Giuseppe Scaraffia -

Aprendo il primo libro di uno dei pochi grandi italiani del Novecento, Elémire Zolla, si ha un’espressione di straniamento. Non solo perché siamo abituati alla sua straordinaria scrittura saggistica, ma anche per un fatto particolare. Per i contemporanei, il premio Strega è la quintessenza dei giochi di potere e ogni anno si sa con molto anticipo chi lo vincerà. Invece in quel lontano 1956 il premio Strega Opera Prima era arrivato a un esile trentenne «in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo». Per fortuna a guidarci c’è la straordinaria prefazione di Grazia Marchianò, sua compagna di vita e di avventure spirituali che, dopo un’insostituibile biografia, Il conoscitore di segreti, sta pubblicando per Marsilio tutta l’opera di Zolla, a lungo collaboratore anche di queste pagine. Ma è proprio allora che si può percepire tutta la differenza tra il giovane Zolla e i suoi contemporanei. Infatti, forte di quel riconoscimento, avrebbe potuto intraprendere la tradizionale carriera del letterato come aveva fatto, vari anni prima di lui, una sua frequentazione, Alberto Moravia. Ma a quel trentenne schivo non interessavano i premi né gli onori, anche se allora, come nel suo caso, poteva ancora girare la ruota della fortuna. Pochi conoscevano il difficile percorso che aveva portato il suo libro alla pubblicazione. I lettori di Einaudi (allora personaggi come Fruttero, Fenoglio, Vittorini e Calvino) erano rimasti sorpresi da quel romanzo così tortuoso e “decadente”, tanto lontano dalla retorica realista dei «Gettoni» in cui doveva essere pubblicato. Solo Fruttero era riuscito a incrinare il no di Vittorini, per il quale «lo Zolla è solo cupamente fantasticante; un incubo puramente libresco». Alla fine però Vittorini aveva ceduto, lasciando uscire quella «favola gnostica»: in una Torino «cupa e laboriosa», logorata dalla dittatura fascista, in cui si annodano pigramente le vicende di torbidi amori, fa irruzione un inquietante terzetto: un Demiurgo, Satana e un Dittatore. I tre condannano il ricco alla povertà e il fatuo all’umiliazione più grande, la normalità. «Si adatterà a essere come tutti gli altri, si conformerà, andrà alla partita di calcio, si esprimerà con luoghi comuni». Un colpo di scena sostenuto soprattutto da quella che si stava rivelando la grande scrittura di Zolla. «Si dice», conclude Marchianò, «che uno scrittore scriva per l’intera vita un unico libro dove svolge la formula cifrata del proprio destino. Mentre lo stile si acquista col tempo, la grazia del tema dominante è un dono concesso una sola volta».

- Giuseppe Scaraffia - Pubblicato su Domenica del 14/4/2024 -

Il Surrealismo di Dante !!!

Nel sesto paragrafo del suo saggio sul surrealismo, Walter Benjamin cita Erich Auerbach, o meglio, cita il libro di Auerbach su Dante (pubblicato nel 1929, lo stesso anno del saggio di Benjamin), e cita, in particolare, il passaggio in cui Auerbach parla dei poeti dello "Stil novo" come se fossero degli appartenenti a una "società segreta", dediti ad "avventure amorose" e alla ricerca di  quelli che chiamano "doni", ma che assomigliano più a delle Illuminazioni. Naturalmente, la parola chiave è “Illuminismo”, dal momento che Benjamin cerca di avvicinare Dante, e la sua “società segreta”, alla scena surrealista, la quale, da parte sua, cerca di interpretarla secondo un orizzonte assai simile (a partire da Rimbaud).  Subito dopo, nel paragrafo successivo, Benjamin approfondisce la sua analisi dei temi più cari ai surrealisti; insomma, una sorta di valorizzazione di tutto ciò che di norma non ha alcun valore per la società (gli stracci vecchi di oltre cinque anni, le prime fabbriche, le prime costruzioni in ferro, e così via), e che egli tiene sullo sfondo, avvicinandoli così a Dante e alla sua cerchia (una cerchia, quella di Dante, che rivitalizza poeticamente tutte quelle relazioni quotidiane che allora rimanevano invece del tutto inosservate dalle persone "normali"). E ancora dopo, ecco che arriva da Benjamin un secondo improvviso riferimento - assai recente, questo - a un saggio di Pierre Naville, "La rivoluzione e gli intellettuali", un testo pubblicato in francese nel 1926. Pertanto, in tal modo, Naville e Auerbach compaiono insieme nel saggio di Benjamin, mostrandoci così quello che è il  suo volto di intellettuale: un aggiornato pensatore poliedrico predisposto a saltare qua e là, da Dante al surrealismo, dai Demoni di Dostoevskij ai Passages di Parigi, da una lettera di Isidore Ducasse al "perfezionamento pacifico" dell'aeronautica militare tedesca. Tutte queste cose, Benjamin le scrive come nella foga del momento, marcando così il 1919 in quanto data decisiva: ci parla dell'inizio del Surrealismo, ma quello è anche l'anno del Trattato di Versailles, ed è anche  quello degli omicidi di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, in modo che così il discorso rappresenta quello che è qualcosa di decisivo nel dibattito tra "pessimismo" e "ottimismo". Un dibattito che Benjamin, in maniera chiara, traccia nel saggio sul Surrealismo, e che poi apparirà anche in altri testi come "Teorie del fascismo tedesco", "Malinconia di sinistra", "Esperienza e povertà", ecc.

fonte: Um túnel no fim da luz