venerdì 27 giugno 2025

Entropie…

Nel 2545 una nave interstellare viene lanciata dalla Terra. Centosessanta anni e sette generazioni circa più tardi, sta iniziando la sua decelerazione nel sistema Tau Ceti per iniziare la colonizzazione della luna di un pianeta, che è stata chiamata Aurora, e capire se l’umanità possa gettare le fondamenta di un futuro migliore al di fuori del Sistema solare. Duemila centoventidue esseri umani vivono all’interno di questa ultramoderna Arca di Noè, figlia della più avanzata ingegneria, al cui interno dove sono stati ricreati artificialmente i diversi ecosistemi terrestri. Qualsiasi cosa in questo sistema chiuso, dalla particella più piccola agli spostamenti interni e la riproduzione, è controllata da un’intelligenza artificiale che sembra avere coscienza e che racconta questo incredibile viaggio attraverso gli occhi di Freya, una ragazzina nel pieno dell’adolescenza, che si trova a scontrarsi con le impellenti e preoccupanti difficoltà del lungo e complesso atterraggio e della sopravvivenza dell’equipaggio sul nuovo suolo, che tutto si rivelerà fuorché una nuova casa. Un romanzo di fantascienza per riflettere sull’unica certezza che al momento abbiamo: la c’è un solo pianeta e dobbiamo prendercene cura.

(dal risvolto di copertina di: KIM STANLEY ROBINSON, "Aurora". Traduzione di Ilaria Mazzaferro, UBILIBER Pagine 576, €25)

L'astronave saggia delle generazioni
- di Vanni Santoni -

«Freya e suo padre escono a fare un giro in barca a vela. La loro nuova casa si trova in un edificio che si affaccia su un molo della baia, all’estremità occidentale del Long Pond…». Comincia così Aurora di Kim Stanley Robinson, con la lingua piana e descrittiva che caratterizzerà l’intero romanzo, e una situazione all’apparenza del tutto ordinaria. Ciò che però ordinario non è per nulla, è il fatto che la località di Long Pond è situata nel bioma Nuova Scozia di una colossale astronave, partita per un viaggio di due secoli verso il sistema di Tau Ceti, con a bordo 2mila umani (e poi i  loro figli, e poi i loro nipoti, e avanti così) distribuiti in una variegata gamma di micro-ecosistemi. Siamo nel Ventiseiesimo secolo, le fole d’iperspazio e varchi dimensionali sono da tempo svanite (o non ci sono mai state) e l’umanità è sì in grado di raggiungere altri sistemi stellari, ma solo per mezzo di «navi multigenerazionali» che affrontano il viaggio nella piena consapevolezza del fatto che solo i discendenti di chi è partito metteranno piede su nuovi pianeti. Un concetto che non apparirà nuovo a chi mastica fantascienza: si pensi ad esempio a Orfani del cielo (in alcune edizioni intitolato Universo) di Robert A. Heinlein, che già nel 1941 lo esplorava a fondo; o a Incontro con Rama di Arthur C. Clarke (1972) che dopo tanti romanzi a imitazione di quello di Heinlein venne a ribaltare l’idea di partenza, e a far incontrare ai terrestri una nave generazionale altrui; o ancora, più recentemente, alla novella Paradisi perduti di Ursula K. Le Guin, del 2002 (in Italia edito da Delos, 2013). Se, dunque, la nave intergenerazionale risulterà un concetto nuovo solo ai lettori poco avvezzi alla fantascienza classica, è altrettanto vero che il romanzo di Robinson, autore già distintosi nella sci-fi contemporanea per la sensibilità ecologica ed etica, unita a una maniacale attenzione alla plausibilità scientifica delle sue narrazioni, finisce per distinguersi dai suoi predecessori, e fissare un nuovo punto fermo — e una nuova asticella — nel proprio filone. Per far capire come mai Aurora meriti di esser letto, sarà necessario incorrere nel peccato mortale dello spoiler, dunque chi non vuole anticipazioni può fermarsi qui, informato del fatto che, se si riesce a passar sopra a uno stile di scrittura piuttosto insipido e a guardare ai soli contenuti, si tratta di una lettura valida sotto ogni punto di vista; anzi, a tratti esaltante e in ultimo pure commovente. Il fatto è, dunque, che nella quasi totalità dei casi precedenti di romanzi a tema nave intergenerazionale, si dava per scontato — secondo un ottimismo che in fondo era proprio di ogni decennio del Novecento dagli anni Cinquanta in poi — che le cose sarebbero andate bene, quantomeno a livello di colonizzazione e terraforming. Non è il caso di Aurora, che arriva in Italia grazie alla voce di Ilaria Tagliaferro e all’impegno della casa editrice Ubiliber. In questo romanzo, tanto per cominciare, la nave, dopo due secoli di «orti conclusi», comincia a far fatica: la mancanza di ricambio biologico si sente, i biomi prendono a collassare, e pure la popolazione non se la passa troppo bene. E questo è il problema minore. Sì, perché una volta che il sistema di Tau Ceti, pur ricco di lune e pianeti, viene finalmente approcciato, comincia a risultar chiaro che nessuno di essi è adatto al terraforming — disciplina, varrà la pena ricordare, di cui Robinson è esperto, dato che il suo capolavoro, La trilogia di Marte, edita nel nostro Paese da Fanucci, è dedicata proprio alla trasformazione del pianeta rosso in un pianeta blu e verde — e che gli eroici pionieri sono probabilmente condannati. I pionieri e qualcun altro.

   La nave, anzi Nave: l’intelligenza artificiale che gestisce il titanico vascello e che funge da narratore quasi-onnisciente del romanzo. Eccoci a uno degli aspetti più interessanti di Aurora, oltre all’approccio pessimistico per lo più sconosciuto alla fantascienza «coloniale» di qualche decennio fa. Le intelligenze artificiali sono il tema di questo momento storico, e anche se Aurora è uscito originariamente quasi dieci anni or sono, nel 2015, riesce ad affrontarlo in modo originale e, a differenza di quanto faccia rispetto all’impresa umana su Tau Ceti, ottimistico. All’inizio il lettore può trovarsi un filo spiazzato (e a tratti pure annoiato) dalle riflessioni filosofiche, quando non ontologiche, di Nave, che è facile scambiare per un espediente dell’autore per propinarci le proprie riflessioni filosofiche. Non è così. Via via che si procede, da una riflessione sulla natura della coscienza a una sul concetto di rischio, nulla è buttato là per mero gusto peripatetico-speculativo: in realtà, attraverso queste riflessioni, prende forma una delle più interessanti caratterizzazioni di un’intelligenza artificiale mai viste nella fiction. E per una volta l’IA non è malvagia come un Hal9000 né, com’è capitato tante volte, neutrale fino alla scarsa considerazione per la vita umana. Nave ha un’intelligenza diversa dalla nostra ma attraverso questa pur fredda mente giunge a una coscienza, e attraverso tale coscienza anche alle emozioni. Emozioni da nave spaziale partita per una lunga missione: devozione, dovere, fedeltà all’obiettivo… ma pur sempre emozioni. E avrà modo di dimostrarlo, non solo a parole. Ma non c’è solo Nave: Aurora è anche una grandiosa riflessione sull’entropia, quasi un’allargamento in romanzo, 55 anni dopo, del racconto Entropia di Thomas Pynchon (oggi reperibile nella raccolta Un lento apprendistato, e/o, 1988, ed Einaudi Stile libero, 2007, ndr), che fissò un modo nuovo di usare le scienze dure in narrativa; nonché una meditazione — è il caso di usare la parola: meditativo è proprio il tono del libro, che spiega anche perché sia edito da Ubiliber, casa editrice dell’Unione Buddhista Italiana — sulla testardaggine degli esseri umani contrapposta alla loro tendenza a infilarsi in situazioni senza uscita… E se qualcuno pensa a un riferimento alla crisi climatica, non si sbaglia.

- Vanni Santoni - Pubblicato su La Lettura del 30/6/2024 -

Dalla Notte dei Tempi !!

Quella che è la Fede comune a tutta questa "Sinistra", presuppone che vi sia una comprensione positivista delle categorie capitalistiche di base, e della loro accettazione in quanto dato ontologico e trans-storico; vale a dire, sarebbe come se la forma di vita sociale capitalistica - il mondo dell'Economia - fosse sempre esistita, fin dalla notte dei tempi!

«Alla soggettivazione, messa in atto dalla sinistra del Capitale, intendendolo come semplice volontà di sfruttamento da parte della “classe dominante” e a partire dal suo “potere di disporre”, ha sempre corrisposto la costruzione di un controsoggetto, ontologicamente stabilito, del “lavoro” eterno, il quale sarebbe stato soggiogato dal capitale (inteso come gruppo di soggetti) solo in modo esteriore. Di conseguenza, il “lavoro” non è stato riconosciuto in quanto astrazione reale specificamente capitalistica; fraintendendo del tutto la moderna costituzione feticista. Così facendo, il paradossale “soggetto oggettivo”, che poi dovrebbe essere la classe operaia, non poteva essere altro - “in sé e per sé” - che la maschera di carattere del “capitale variabile”; in modo che così, il movimento operaio storico, con grande dispiacere di Marx, non si è mai potuto comportare diversamente. Pertanto, l'opposizione sociale tra capitale e lavoro non ha costituito una giustificazione ontologica per la critica del capitalismo, ma ha semplicemente rappresentato, come lotta di classe, nient'altro che la forma del movimento immanente del feticcio-capitale. Solo una rottura nel contesto della forma comune, avrebbe potuto essere emancipatrice; e finora tale punto non è mai stato raggiunto.
Anziché riconoscere, e respingere come del tutto falsa, la questione affermativa di un “soggetto oggettivo” ontologizzato, a partire dal 1968, la nuova sinistra ha semplicemente ribaltato e capovolto la vecchia formula. Il fatto che siano stati invocati tutti i tipi di soggetti sostitutivi - dai “popoli” della periferia ai “gruppi marginali” (Herbert Marcuse) dei centri, passando per le donne, secondo un'ontologia della “femminilità”, oppure per mezzo dei portatori di un'immaginaria economia di sussistenza - ha finito sempre per rimandare tutto al vecchio soggetto del “lavoro”, diventato obsoleto, senza però che si sia mai pensato alla problematica che ne è derivata. Ma la scomparsa di un'ontologia del “lavoro”, e il declino empirico dell'oggettivo soggetto di classe che ad esso si riferisce, sono solo l'altra faccia del limite interno assoluto della valorizzazione; limite che si è raggiunto con la terza rivoluzione industriale. L'apparente sostenibilità del paradigma della lotta di classe, si basava sulla capacità del capitale di accumulare senza limiti; vale a dire di trasformare il “lavoro” in plusvalore. Il declino del “lavoro” e della lotta di classe è pertanto identico al declino della produzione reale di plusvalore, e quindi del comune sistema feticista di riferimento.
Il post operaismo, che ha avuto una notevole influenza sui movimenti recenti, anziché rendersi conto di questo contesto, ha creato invece un'ontologia completamente vuota del controsoggetto oggettivo che viene immaginato nella figura della cosiddetta “moltitudine”, la quale significa tutto e niente. Questo punto finale, e questo punto zero concettuale, del vecchio paradigma non viene più mediato da nulla, e pertanto può essere riempito, e caricato di significato, da quasi tutti i contenuti, o le espressioni, della soggettività capitalistica in decadenza. Simultaneamente, dietro il declino del pensiero basato sulla lotta di classe all'interno dell'ontologia del lavoro, insieme a tutti i suoi sostituti immaginari e alle sue aberrazioni, troviamo nascosto l'interesse concorrenziale, immanente e ben tangibile, di quella che è una particolare situazione sociale; svelata in parte solo di recente. Il processo di socializzazione capitalistica, ha dato origine a una nuova e vasta classe media in possesso di titoli accademici, la cui esistenza economica dipende dall'assorbimento della produzione reale di plusvalore. Con la perdita della sostanza-lavoro, tale esistenza, così come tutta la riproduzione capitalista, rimane sospesa a mezz'aria; e negli ultimi 30 anni è stata prolungata solo grazie al credito di Stato e all'economia della bolla finanziaria.
Conformemente ai cambiamenti sociali derivanti dal processo di crisi strisciante, dal 1968 a oggi, la sinistra e i cosiddetti nuovi movimenti sociali hanno rappresentato essenzialmente, dal punto di vista sociologico, un movimento borghese che in un primo momento si è voluto legare intellettualmente all'ideologia obsoleta del marxismo del movimento operaio, ma che poi, in realtà, immaginando dei sostituti al vecchio “soggetto oggettivo”, ha reso sempre più ideologizzato il proprio interesse personale; lo ha reso la misura delle cose. Nella nuova crisi economica mondiale che si è aperta, e che di colpo accentua bruscamente tutte le contraddizioni, portandole all'attenzione di tutti, ecco che quel passaggio - che dalla precarizzazione porta alla caduta del capitale umano qualificato dal punto di vista accademico - ora ci appare improvvisamente come una manifesta ideologia borghese che minaccia di scatenare quella che è tutta la furia di una coscienza di crisi neo-borghese.»

- Robert Kurz - da "VIES ET MORT DU CAPITALISME. Chroniques de la crise", © Nouvelles Éditions Lignes, 2011

giovedì 26 giugno 2025

Un democratico, strano ma affidabile …

La lotta contro gli oligarchi
- Il populismo si caratterizza a partire dal pathos democratico e da delle rivendicazioni socio-politiche, ma ha anche delle caratteristiche regressive, ed è questo il motivo per cui la sua variante di destra oggi ha più successo.
Tuttavia, il populista di sinistra Bernie Sanders sta guidando la protesta dei democratici contro Donald Trump.-

- di Lars Quadfasel -

Il populismo, che emerse nel Midwest rurale alla fine del XIX secolo, rappresenta il contributo degli Stati Uniti all'ideologia borghese. I padri fondatori, riuniti intorno a Thomas Jefferson, immaginavano la loro repubblica come un insieme di agricoltori liberi e uguali; negli anni del boom successivi alla Guerra Civile - beffardamente definita da Mark Twain  come Gilded Age ("età dorata") -  i loro rappresentanti, adornati di barbe maestose e del furore della rettitudine, iniziarono a rivendicare i loro diritti. Nel 1892, il "People’s Party", comunemente noto come "Populist Party" , venne formato a partire da una coalizione di organizzazioni contadine e operaie artigianali. La protesta contro l'impoverimento, promossa dai grandi proprietari terrieri, dai magnati delle ferrovie e dagli speculatori finanziari risultò, ovviamente, ambigua fin dall'inizio. Il populismo parlava di tutto ciò che fa parte del risentimento nei confronti delle cosiddette élite: l'anti-intellettualismo, la teoria del complotto, la glorificazione della povertà e la ristrettezza mentale. Non si può trovare miglior simbolo di questa ambiguità di quanto lo fosse William Jennings Bryan, candidatosi inutilmente per tre volte alle presidenziali democratiche dopo il declino del Partito Populista.  In particolare, Bryans chiedeva soprattutto che venisse aumentata l'offerta di moneta - aggiungendo un ancoraggio all''argento, oltre che quello all'oro, del dollaro americano - in modo da alleviare il peso del debito per i piccoli agricoltori. Il suo discorso della “Croce d'oro” del 1896, in cui proclamò che i "magnati della finanza” non avrebbero dovuto  «crocifiggere le masse lavoratrici su una croce d'oro» - un capolavoro di retorica politica - lo rese famoso; oggi, tuttavia, Bryan viene ricordato soprattutto per il suo ruolo di procuratore capo nel cosiddetto processo Scopes, del 1925, un caso giudiziario riguardante l'uso della teoria dell'evoluzione nelle lezioni statali di biologia, che lo rese - lui insieme ai suoi compagni di fede cristiana revivalista - uno zimbello nazionale. Pertanto, il populismo si declina, sia in una versione di destra che di sinistra, a seconda di come viene tracciata la linea di demarcazione tra alto e basso: o come difesa della "maggioranza silenziosa" contro i decompositori bolscevichi culturali, o come dichiarazione di guerra da parte dei 99% contro l'1%: nelle elezioni presidenziali del 2016,  entrambe le varianti hanno celebrato il loro grande ritorno. Ma mentre la retorica di Donald Trump poteva rifarsi a una ricca tradizione conservatrice, la straordinaria performance di Bernie Sanders, senatore del Vermont, alle primarie democratiche è apparsa quasi dal nulla. Quella che in realtà doveva essere vista solo come un'opportunità di utilizzare il palcoscenico della campagna elettorale, per denunciare il potere dei ricchi, e promuovere l'assistenza sanitaria nazionale; alla fine ha invece fatto sì che la scelta di Hillary Clinton, come candidata democratica, si trasformasse in un guaio da mangiarsi le unghie.

Senza Sanders, nessun Jeremy Corbyn
Questo straordinario risultato ha avuto ripercussioni ben oltre i confini degli Stati Uniti. Se persino nella terra del “hire and fire”, è stato improvvisamente richiesto un “socialista democratico”  - come si definisce Sanders - allora vuol dire che la politica sociale di sinistra si trova davvero in ascesa. Senza Sanders, possiamo perciò ipotizzare che non ci sarebbe stato nessun Jeremy Corbyn, e forse nemmeno un partito come la "France insoumise", guidato da Jean-Luc Mélenchon. Negli Stati Uniti, invece, dopo il successo elettorale di Trump, anche gli avversari di Sanders, all'interno del partito, hanno adottato l'interpretazione data dai suoi sostenitori: le elezioni del 2016 sono state una rivolta contro il neoliberismo, e quindi solo "Bernie"  avrebbe potuto battere Trump! Subito dopo, i democratici si sono spostati tutti notevolmente a sinistra; così, nella campagna per le primarie del 2020, quasi tutti i candidati hanno cominciato a superarsi l'un l'altro, vicendevolmente, con richieste progressiste per una maggiore immigrazione, leggi più severe sulle armi, protezione delle minoranze e politiche di redistribuzione statale. Sembrava dovesse essere un preludio, ma come si è scoperto in retrospettiva, il momento clou c'era già stato. Nel 2020, nel corso del secondo tentativo, da parte di Sanders, di diventare il candidato presidenziale democratico, la sua quota di voti è risultata essere ben al di sotto di quanto ottenuto nel 2016. A quanto pare, le masse non erano rimaste segretamente in attesa del salvatore con il programma socialdemocratico, ma ne avevano semplicemente avuto bisogno per mettere a tacere la loro antipatia per la Clinton; e questo indipendentemente dal fatto che si trattasse della sua difesa della guerra in Iraq, o che le donne in carriera siano semplicemente antipatiche. Senza la Clinton al ballottaggio, Sanders è rimasto da solo, con lo zoccolo duro di giovani attivisti, di sindacalisti delusi e di intellettuali precari. E ce n'erano molti come Sanders. Nel 2018, con Alexandria Ocasio-Cortez al timone, abbiamo visto i primi socialisti democratici, a definirsi tali, che sono entrati alla Camera dei Rappresentanti come rappresentanti democratici, come in una sorta di opposizione all'interno dell'opposizione. Nelle elezioni successive, tuttavia, si è scoperto che i loro rappresentanti possono vincere le elezioni solo nelle roccaforti democratiche; nel frattempo, però, il gruppo si è ridotto ai suoi quattro membri originali. Nel 2019, Corbyn ha vissuto una vera e propria debacle elettorale, come candidato principale del Labour, e anziché rivendicare il "muro rosso" nel nord dell'Inghilterra proletaria, gli unici collegi elettorali che il Labour è stato in grado di conquistare sotto la sua guida, sono stati i distretti più ricchi di Londra, dove la gente era stufa della "Brexit". Solo perché ci scrivi sopra che è la classe operaia, questo non significa che ci sia davvero la classe operaia. In generale, esiste una strana sproporzione tra contenuto e confezione. L'organizzazione della campagna di Sanders, "Our Revolution", non sostiene l'espropriazione degli espropriatori, bensì un'espansione dello stato sociale fordista. Anche coloro che hanno poche obiezioni a questo, dovranno ammettere che probabilmente i rivoluzionari delle generazioni precedenti non avrebbero accettato di nazionalizzare le compagnie di assicurazione sanitaria, per quanto una simile richiesta possa sembrare rivoluzionaria se vista sullo sfondo della storia sociale americana.

Il solito conservatorismo
La mancanza di immaginazione per non riuscire a poter fare di più, non può essere imputata solo ai protagonisti. Nelle condizioni attuali, chiunque lotti politicamente contro le innumerevoli e palesi ingiustizie del capitalismo contemporaneo, quasi automaticamente, si trova anche a combattere una battaglia difensiva: contro i crescenti tagli sociali, la sinistra invoca il compromesso di classe del dopoguerra, quando i sindacati erano ancora forti e l'aliquota fiscale massima sul reddito negli Stati Uniti era superiore al 90%. Sanders e i suoi sostenitori, si lamentano del fatto che i democratici si siano allontanati dalle "loro radici" e, come se fosse una contro-immagine, invocano la politica del New Deal di Roosevelt; come se essa non fosse stata meravigliosamente compatibile con il regime di apartheid (che, per inciso, è decisamente antisindacale) negli stati del sud. Malgrado il desiderio di un cambiamento, ciò ricrea il solito conservatorismo, la cui nostalgia per gli anni Cinquanta assomiglia in maniera imbarazzante alla nostalgia del “Make America Great Again”. Lo stesso Sanders - e di questo gli va dato atto - da tutto questo non ne ha tratto l'ovvia conclusione. Già nel 2020, era difficile percepire il cambiamento. Il candidato, che solo quattro anni prima aveva seccamente respinto i progressi della politica identitaria, ora utilizzava operazioni di sensibilizzazione per ottenere i voti di neri e latinos. Il candidato popolare, che prima aveva una fissazione quasi monomaniacale sui “milionari e miliardari”, era così diventato un moderno liberale di sinistra del tutto normale.

Un democratico, affidabile in materia di voto
Tutto questo si è reso evidente anche nel tour "Fighting Oligarchy", nel corso della quale, attualmente, Sanders & Ocasio-Cortez stanno fomentando il risentimento contro l'amministrazione Trump, attirando decine di migliaia di spettatori in numerose città. La corruzione dell'amministrazione Trump, e i tagli pianificati dai repubblicani nel settore sociale, offrono opportunità per la critica populista di Sanders al potere dei ricchi; mentre che, allo stesso tempo,mette in guardia sul fatto che Trump voglia trasformare la democrazia statunitense in una "forma autoritaria di società", alimentando l'entusiasmo sia degli elettori democratici che della base del partito attivista. Fondamentalmente, oggi Sanders, quando si tratta di votare, è un democratico strano ma affidabile, per quanto non abbia una tessera di partito. E anche Ocasio-Cortez vede chiaramente come il suo futuro sia nella leadership del partito, e non in una nebulosa terza via. Alcuni ex compagni di Sanders hanno illustrato il modo in cui si potrebbe svolgere la cosa. Ex collaboratori e sostenitori di spicco, tra cui i giornalisti David Sirota, Briahna Joy Gray, Glenn Greenwald e Matt Taibbi, a partire dalle sconfitte del 2016 e del 2020, hanno tratto la conclusione che la rivolta proletaria non sia fallita per mancanza di masse, ma proprio a causa delle macchinazioni del Partito Democratico - e che pertanto l'elezione di Trump sia stata la giusta punizione. Per questo motivo, hanno cercato di avvicinarsi alla cosiddetta “dirtbag left”, un movimento incentrato su alcuni noti podcast come “Chapo Trap House” e “Red Scare”, per i quali non esiste male peggiore dei liberali di periferia benintenzionati, i cosiddetti “shitlibs”. La dirtbag left, da parte sua, pratica una sorta di culto postmoderno del proletariato: l'appartenenza alla classe operaia non si dimostra più con la disponibilità a fare sacrifici, e con l'orgoglio di essere un lavoratore, ma con le battutacce sconce. Da qui all'estrema destra il passo è breve. Se avete gli stessi nemici della folla MAGA - la politica dell'uguaglianza, il “wokness”, la classe professionale-manageriale - allora perché non unire le forze? Greenwald va in tournée con il teorico della cospirazione Alex Jones ed elogia i repubblicani come se fossero il male minore; Taibbi, per conto di Elon Musk, rivela le scelte moderate dell'ex dirigenza di Twitter alla stregua di sinistre misure di censura contro i conservatori; il podcast “Red Scare” si impegna in una politica trasversale con i principali ideologi della Nuova Destra, sempre con una strizzatina d'occhio ironica, ovviamente. È così che il populismo torna a riunirsi.

Lars Quadfasel - Pubblicato su Jungle World il 5/6/2025 -

mercoledì 25 giugno 2025

Un terzo, un terzo e un terzo !!!

   Un giorno di ottobre del 1955, Arthur Koestler picchiò una donna fino a farla morire. Era una delle sue tante "amanti delle ombre", una ragazza con cui aveva trascorso un delizioso fine settimana qualche giorno prima: Mozart, vino bianco e una passeggiata a Oxford. Quindici anni prima, Walter Benjamin aveva dato a Koestler metà delle pasticche di morfina che poi avrebbe consumato, per suicidarsi, a Portbou. Koestler, arrivato a Lisbona, diede una delle pillole al suo amico Manès Sperber e poi, una notte, decise di togliersi di mezzo prendendo il resto delle pillole: ma non ci riuscì, la mattina dopo le vomitò tutte! Questa storia -  del suo tentativo di suicidio e del suo incontro con Benjamin - è stata poi raccontata a Gershom Scholem e a sua moglie; in proposito, entrambi considerarono, a causa del modo apparentemente frivolo ed egocentrico che Koestler aveva di spiegare tutto ciò che gli succedeva, che fosse un soggetto «vile e spregevole». Scholem scrisse ad Hannah Arendt una lettera, spiegando tutta la storia: «Ci ha detto che Benjamin gli aveva dato metà della sua morfina, peccato che non sia stato più generoso, visto che il buon vecchio Koestler, a Lisbona, l'ha poi ingollata tutta, per vomitarla subito, un giovane in ottima salute! L'unica cosa buona su di lui che posso sottolineare è il suo libro sui processi di Mosca». Scholem si riferiva al romanzo "Buio a Mezzogiorno", e mostrava di non essere in grado di capire che Koestler non avrebbe mai potuto scrivere un libro così tanto importante senza quella percentuale di disturbo mentale che poi lo avrebbe portato all'egomania feroce, all'alcolismo e alla violenza. Qualcosa, questo, che invece venne perfettamente compreso dall'agente dei servizi segreti britannici che assistette all'interrogatorio nel carcere di Pentonville, dove Koestler, era arrivato come rifugiato - nel bel mezzo della guerra mondiale - dopo essere sfuggito alle autorità francesi, subendo anche diversi mesi di internamento nel campo di concentramento di Le Vernet. L'agente britannico, concluse allora che lo scrittore era per un terzo un genio, per un terzo un farabutto e per un terzo un pazzo. Sarebbe bastata l'assenza di uno solo di questi tre ingredienti, per impedire a Koestler di essere quell'«intellettuale esemplare» che lo storico Tony Judt avrebbe poi visto in lui: ne "L'età dell'oblio. Le rimozioni del '900", Judt ha sottolineato, brillantemente e onestamente, l'importanza del genio di Koestler, senza però mercanteggiare circa i suoi problemi con l'alcol e con le donne, e soprattutto senza ignorare ciò che c’era in lui di folle e criminale. A ogni modo, si lamentava del fatto che Koestler fosse ormai un nome dimenticato, e che il suo libro più famoso, "Buio a Mezzogiornio", fosse solo un libro di nicchia. Ma tuttavia, se diamo un'occhiata ai libri di Koestler apparsi negli ultimi dieci anni, vediamo un'ottantina di nuove edizioni - soprattutto in tedesco, in francese e in inglese, ma anche in turco, in ceco, polacco, rumeno, italiano, svedese, hindi... -  e non solo di "Buio a Mezzogiorno", o dei suoi libri autobiografici, ma anche di altre opere più rischiose dal punto di vista editoriale (cioè, commerciale). Senza essere esaustivi, in Francia sono apparsi diversi libri di saggi, tra cui quello dedicato alla Palestina, ma anche "Lo yogi e il commissario", oltre a "I sonnambuli" (volume che include la sua favolosa e divertentissima biografia di Johannes Keplero), mentre in Turchia e in Ungheria – e anche, e di nuovo, in Francia – ha visto la luce il suo appassionante libro "La tredicesima tribù. L'Impero dei cazari e la sua eredità"). In tedesco e in francese, inoltre, è apparso anche un curioso romanzo inedito, "Die Erlebnisse des Genossen Piepvogel in der Emigration" (Le esperienze del compagno Piepvogel in esilio), il cui manoscritto è stato ritrovato in un archivio russo da Henrik Eberle e Julia Killet.

    Aveva ragione Tony Judt? Oggi, Koestler è davvero un autore dimenticato? Da un punto di vista globale, e soprattutto da un punto di vista europeo, non sembra che sia così; eppure è questa la sensazione che viene trasmessa dalla scena editoriale di lingua spagnola. In America Latina, negli ultimi dieci anni, sono apparsi solo due titoli: in Cile, "Los sonnambulos"; e in Messico il romanzo "Ladrones en la noche", in cui si parla della persecuzione degli ebrei e della "etica della sopravvivenza" (libro di cui Anthony Burgess ha detto: «Se il potere corrompe, è vero anche il contrario. La persecuzione corrompe la vittima, anche se forse la cosa avviene in modi più sottili e tragici»). La Spagna, da parte sua, salva un po' di più la faccia. La casa editrice "Página Indómita" ha recuperato i due libri di saggi selezionati che erano stati pubblicati, ai loro tempi, da Kairós, "Alla ricerca dell'utopia" e "Alla ricerca dell'assoluto". Da parte sua, "Libros del K.O." ha pubblicato un libro che era inedito in spagnolo, "L'Artico dalla finestra di uno zeppelin", metà del libro "Von weißen Nächten und roten Tagen" (Sulle notti bianche e i giorni rossi), sulle sue peregrinazioni in URSS tra il 1931 e il 1932. Inoltre, Jorge Freire ha pubblicato un'opera incentrata sulle avventure dell'intellettuale mitteleuropeo nel nostro paese: "Arthur Koestler, il nostro uomo in Spagna". Ma quando si è trattato di scommettere su Koestler, forse la più coraggiosa è stata "Ladera Norte", una nuova casa editrice, con la pubblicazione di "Schiuma della Terra", il libro autobiografico sull'odissea francese che si concluse, in sicurezza, a Pentonville; e anche con "Il Dio che ha fallito", un’antologia compilata da Richard Crossman e che include testi di sei ex comunisti: André Gide, Ignazio Silone, Louis Fischer, Richard Wright, Stephen Spender e, naturalmente, Arthur Koestler. Nel mondo occidentale, in qualche modo, Koestler è ancora vivo, e la sua fiamma non si è ancora spenta. La sua scrittura è appassionata, ma è soprattutto lucida e pulita, con sprazzi di quello che è un fine senso dell'umorismo, anche quando affronta i momenti più bui della storia europea. La sua intelligenza è insondabile, quanto lo è il suo umanesimo, e rimane da apprezzare il fatto che ci sia un pugno di uomini che insista a ripubblicarlo, mentre un altro buon manipolo metta mano alle tasche per comprare i suoi libri, fondamentali per illuminare il presente, sebbene siano stati scritti più di settant'anni fa.

   Koestler - nato nel 1907-  è stato figlio di un tempo e di un luogo. Era un intellettuale continentale, chiaramente mitteleuropeo. Sua madre era stata amica e paziente di Sigmund Freud, e Koestler si rivolse alle teorie freudiane per riuscire a spiegare per prima cosa sé stesso: la sua estrema timidezza, il suo complesso di inferiorità, le sue depressioni, i suoi impulsi suicidi e le sue inclinazioni politiche (oggi, probabilmente, si sarebbe fermato agli studi di genetica evoluzionistica – penso a Richard Dawkins – per capire cosa egli cercasse in Freud, all'epoca). Egli comprendeva tutto. Quando Anthony Burgess scrisse il suo romanzo, "Gli strumenti delle tenebre", si avvalse del suo protagonista, un anziano scrittore omosessuale, per collocarlo nei «punti più alti dell'umanità» durante il XX secolo. Anche Koestler fece lo stesso, però da sé da solo: nel 1926 lavorò in un kibbutz a Chefziba. Dieci anni dopo fu in Spagna durante la guerra civile e visitò entrambe le zone: subì con autentico terrore il bombardamento di Madrid, venne arrestato dai franchisti a Malaga per poi venire rinchiuso per diversi mesi a Siviglia. Visse in prima persona l'occupazione della Francia, passò quindi per il campo di concentramento di Le Vernet e riuscì a farsi portare in Inghilterra, dove si arruolò immediatamente nell'esercito. Finita la guerra, guidò la lotta ideologica contro il comunismo, creando il Congresso per la Libertà di Cultura, e quando aveva già detto e scritto tutto ciò che si poteva dire e scrivere sulla politica del proprio tempo, destinò parte della sua ricchezza ad aiutare gli intellettuali in fuga dal totalitarismo comunista, e il suo tempo a ricerche scientifiche sui fenomeni paranormali, cosa che nel corso del tempo gli sarebbe valso un certo discredito. Discredito che si riaccese dopo il suicidio, del 1983, con la moglie Cynthia: in molti sospettarono che avesse costretto la moglie a morire con lui.

   L'influenza politica di Koestler, la sua critica del totalitarismo comunista e la sua ferma difesa della verità, si sono definitivamente riflessi nel suo libro di saggi, "The Trail of the Dinosaur" (1955), dove incluse anche "Il diritto dell'uomo di dire no"; che fu il manifesto finale del Congresso per la Libertà Culturale – e "Per una legione europea della libertà", una proposta per creare un esercito europeo. Sebbene Koestler concepisse "Il sentiero del dinosauro" come sorta di un suo"addio alle armi" del mondo della politica, egli fu tentato di tornare nell'arena dei media, per esporre la sua visione del comunismo e della Guerra Fredda. Una di queste volte, si verificò alla fine degli anni '60, tramite un intellettuale polacco, esiliato involontario negli Stati Uniti, Witold Sworakowski. Sworakowski lavorava presso la Hoover Institution, e presso la Stanford University, preparando l'ultimo capitolo della sua serie di documentari, "The Red Myth", prodotta dal network californiano KQED. La serie, presentava la storia del comunismo, adattata per l'americano medio, senza intenzioni propagandistiche, sebbene il pregiudizio fosse, naturalmente, anticomunista. La sceneggiatura, era basata su delle frasi letterali di Marx, Lenin, Stalin, ecc., mentre i capitoli consistevano in drammatizzazioni, realizzate per mezzo di attori professionisti (una curiosità: il personaggio di Stalin era interpretato da Henry Leff (quello che nel film di Woody Allen, "Prendi i soldi e scappa", nascosto dietro occhiali, naso e baffi finti interpretava il ruolo del padre del protagonista). La serie ebbe un certo successo e venne trasmessa da numerose reti in tutto il paese, sebbene i critici non presero molto sul serio alcuni uomini sovietici che negli episodi parlavano un inglese perfetto. Al giorno d'oggi suona un po' ridicolo, non tanto per la sceneggiatura, quanto piuttosto per la messa in scena ormai datata. L'ultimo capitolo includeva una breve intervista a diversi rinnegati comunisti. Sworakowski, tra gli altri, aveva scelto Benjamin Gitlow, ex membro del Partito Comunista Americano e collega dello scrittore John Reed; Leonhard Frank, che pur non essendo un rinnegato vero e proprio - visto che non aveva mai appartenuto al partito - era tuttavia anticomunista, e conosceva molto bene il mondo sovietico fin nelle sue radici; lo spagnolo Enrique Castro Delgado, primo comandante del 5° Reggimento durante la guerra civile, e poi rinnegato del comunismo; e infine Arthur Koestler stesso. Koestler, aveva deciso di accettare l'invito di Sworakowski. Ma poi,  però, mentre preparava il suo discorso, si rese conto che il tempo che gli avevano chiesto - non più di 6 minuti - era assolutamente insufficiente per poter esprimere le sue idee con una certa profondità:

«Londra, 26 dicembre 1960,

Caro professor Sworakowski, La ringrazio molto per la sua lettera. Apprezzo la fatica che avete profuso per spiegare dettagliatamente il lavoro dell'Istituto. La verità è che ho visitato Stanford nel 1948 e conosco l'ammirevole lavoro che l'Istituto fa. Il motivo della mia apparente mancanza di collaborazione, è puramente personale. Nel 1955 pubblicai un volume di saggi, nella cui prefazione dicevo che, dopo essermi occupato del comunismo per un quarto di secolo, non avrei più scritto sull'argomento e che mi sarei concentrato su altre questioni. In questi cinque anni, ho mantenuto rigorosamente la mia parola. Dapprima, accettai il suo invito a partecipare al programma poiché pensavo che implicasse solo ripetere ciò che avevo ampiamente esposto nei miei libri. Ma quando ho cercato di formulare il mio discorso, mi sono trovato di fronte a un blocco psicologico, proprio perché non riuscivo a comprimere in quattro o sei minuti, se non semplificando eccessivamente, quello che cercavo di dire in più volumi. Non dubito che altri possano farlo; succede semplicemente che io non posso. Spero che possiate capirlo e scusiate l'inconveniente causato.

Con i miei migliori auguri, vi saluto sinceramente, Arthur Koestler»


   In realtà, Koestler continuò il suo lavoro intellettuale al di fuori del saggio politico, e fece delle piccole incursioni in televisione e alla radio, per parlare delle sue esperienze. Nel 1961 viene intervistato dall'emittente canadese CBC insieme ai colleghi de "Il dio che ha fallito” (con l'eccezione di Gide, che era già morto), per parlare della sua esperienza di comunista e di rinnegato; e nel settembre 1966 apparve davanti alle telecamere tedesche per essere intervistato dal critico teatrale Friedrich Luft, nel programma "Das Profil", dove parlava per circa mezz'ora della propria vita. Nel novembre dello stesso anno, partecipò al documentario "Crociata in Spagna" trasmesso anch'esso dalla CBC, dove parlò della guerra civile spagnola con Stephen Spender, tra gli altri intellettuali che avevano vissuto il conflitto e che furono intervistati dal giornalista inglese Malcolm Muggeridge, che era stato un altro rinnegato del comunismo, disilluso e disgustato dall'ideologia salvifica dell'essere umano, dopo aver visitato la Russia e avere appreso in prima persona del coinvolgimento sovietico nella carestia in Ucraina. Koestler, ha indubbiamente mantenuto la sua presenza mediatica anche mentre perseguiva i suoi bizzarri libri sulla scienza e sulla para-scienza, e non solo alla radio e alla televisione, ma anche sulla stampa, dove pubblicava regolarmente i suoi articoli. Sebbene fosse lontano dalla politica, le sue polemiche non ci hanno mai fatto dimenticare le sue origini di militante delle schiere della libertà. Nella sua testa, entrambe le cose erano curiosamente mescolate. Del resto, la sua unica ossessione era sempre stata la salvezza dell'uomo, come avrebbe spiegato Anthony Burgess, nel necrologio che ha dedicato all'ungherese:

«Nei suoi ultimi anni stava lottando per trovare una soluzione al disastro in cui versava l'umanità. Era preoccupato che gli esseri umani sembrassero fatti in un modo tale da non poter essere creati senza che fossero anche violenti. Ha fatto fatica a trovare una via d'uscita dall'impasse: qualche nuova terapia chimica, forse? La preoccupazione per l'umanità implicava una lotta perpetua. Alla fine, si è arreso».

   Credo che Burgess sia stato l'intellettuale inglese che abbia meglio capito Koestler. È sorprendente come l'ungherese sia stato citato da scrittori che lo ammiravano - come Martin Amis e Christopher Hitchens - ma che non hanno lasciato quasi nessuna traccia scritta delle ragioni della loro devozione. In effetti, anche il necrologio di Burgess non viene incluso in nessun libro (come tanti altri suoi testi giornalistici, è vero). È possibile che su di lui pesasse troppo l'ombra della sua violenza,  per poterla  sollevare e dissipare così la nebbia mefitica che emanava dalle sue alterazioni alcoliche, sebbene quelle riluttanze a parlare in profondità di Koestler forse avevano, piuttosto, più a che fare con il suo controverso suicidio. Di fronte alla sua figura, rimasero più scossi dall'orrore del tabù, che dalla forza del totem. In ogni caso - e almeno dal punto di vista politico - il suo capolavoro non fu un libro, ma il Congresso per la Libertà della Cultura, che egli chiuse dalla tribuna, il 29 giugno 1950. Il Congresso fu un vero e proprio grattacapo, per i sovietici e per i loro compagni di viaggio occidentali, ma lo fu anche per altri scrittori impegnati in qualche modo per la libertà.

   È il caso di Hannah Arendt. La tedesca disprezzava Koestler; com'è dimostrato nella corrispondenza che intratteneva con alcuni intellettuali del suo tempo. Il suo disprezzo arrivò al punto di non citare mai, nel suo articolo sugli ex-comunisti (Commonweal, 20 marzo 1953), chi fosse indubbiamente l'ex comunista più noto, più rilevante e influente; fornendo invece come esempio Whittaker Chambers, di cui affermava - falsificando la realtà - che sarebbe stato accettato dalla società come il portavoce degli ex-comunisti! In una lettera a Karl Jaspers, Arendt sosteneva che, nelle loro macchinazioni politiche e nella vita sociale, i comunisti usavano metodi totalitari. Ed è in questa lettera, che Arendt dimostra il suo disorientamento rispetto al comunismo (come vide Isaiah Berlin, ai suoi tempi) e rispetto alla lotta contro il comunismo. Parlando del Congresso per la Libertà della Cultura dice a Jaspers che «Dio sa che non ha mai mosso un dito in questo paese né per la cultura né per la libertà e [...] È diventato un punto di raccolta per quei ragazzi», riferendosi agli ex comunisti. Era anche preoccupata che Jaspers facesse parte della presidenza del Congresso, cosa di cui il filosofo si difendeva inutilmente, dal momento che lei continuò a criticare il Congresso e i suoi organizzatori in un modo tanto ossessivo quanto meschino («Penso che Counts sia un alcolizzato e so che è un completo idiota», disse a proposito dell' insegnante George Counts). Due anni dopo, tuttavia, accolse con entusiasmo l'invito del Congresso per la libertà culturale a recarsi in Italia. «Tutte le spese sono pagate!», scrisse. Il Congresso, tuttavia, era servito assai più che a pagare il viaggio di Hannah Arendt in Italia. L'idea dei suoi promotori era stata quella di scegliere Berlino, come modo per mettere davanti ai russi «un inferno alle porte del loro stesso inferno». Sebbene fosse stato screditato a causa dei finanziamenti che aveva dalla CIA; come sottolinea il professore di filosofia Gregorio Luri: «la CIA aveva non solo il diritto, ma l'obbligo, di partecipare alla guerra culturale, che era il vero fronte di battaglia della Guerra Fredda, promuovendo contro-valori che potessero competere efficacemente con i dogmi della cosiddetta arte socialista».

   Il successo ottenuto dal congresso portò a nuove convocazioni, ma la prima convocazione venne ricordata, non solo per il suo impatto simbolico, ma proprio per quell'inferno che bruciava alle porte dell'inferno comunista - che di lì a poco si sarebbe chiuso con il Muro – bruciava per la rivendicazione di un mondo libero che Koestler riassunse nel grido con cui si concluse l'ultima sessione, davanti alle quindicimila persone che avevano riempito i giardini della Torre delle Comunicazioni Ovest, dopo aver letto un manifesto in quattordici punti in difesa della libertà intellettuale e del diritto di avere ed esprimere le proprie opinioni, in particolare le opinioni che differiscono da quelle dei governanti, perché, privato del diritto di dire "no", l'uomo diventa schiavo: «Freunde, die Freiheit hat die Offensive ergriffen!» («Amici, la libertà è passata all'attacco!»). Ciò che aveva motivato il grido finale di Koestler, continua a essere valido in giorni burrascosi come lo sono quelli del presente, in questi tempi di tribolazione, di paura, di dubbi e di inquietudine per l'immediato futuro, in cui tutto scricchiola sotto i nostri piedi, come un sottile strato di ghiaccio, e scopriamo la fragilità delle nostre certezze, in cui vediamo la libertà e la democrazia messe in discussione da piccole orde di persone vocianti, ed è difficile per noi spiegare quali strade sbagliate siano state prese per arrivare a questa situazione, quali avvertimenti non sono stati ascoltati, quali sono stati ignorati per amore della tranquillità e della condiscendenza con i nemici della libertà. Il fatto che Koestler venga ancora pubblicato (e che, presumibilmente, continui a essere letto) rimane ancora una sorpresa più che piacevole; egli è l'emissario dell'ottimismo. Perché di Koestler, di quest'uomo che nella sua vita ha assunto i destini dell'Europa, di quest'uomo che è stato allo stesso tempo furfante, genio e pazzo, possiamo dire ciò che Cunqueiro ha detto di uno dei personaggi favolosi con cui ha popolato i suoi libri: «Dalla sua bocca sono usciti, in parole concertate, mille ordini tremanti al mondo: tale è la missione del poeta. Ha percorso le vecchie strade che hanno cucito insieme le terre e i cuori di un tempo, e senza le quali l'Europa - cioè la libertà - non è possibile».

fonte: Bremaneur

domenica 22 giugno 2025

Questo non è uno Slogan, è questione di sopravvivenza !!

Solo un'insurrezione operaia anticapitalista, può schiacciare queste due piovre capitaliste assassine e guerrafondaie
I lavoratori vengono impiegati in tutti i settori: nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, nei servizi comunali, nell'agricoltura, nell'industria, nei trasporti terrestri, marittimi e aerei, nell'energia e nei servizi pubblici, nell'edilizia, nella silvicoltura e altro ancora. Che si sia disoccupati, pensionati o gravati da un lavoro domestico non retribuito, apparteniamo tutti alla stessa classe operaia, unita dalla nostra esistenza sociale e dal nostro sfruttamento. Sopportiamo tutto il peso della dominazione capitalista: schiavitù salariata, repressione, privazione, genocidio, incarcerazione, tortura, violenza di genere, oppressione etnica, distruzione ambientale e tutte le calamità che questo sistema genera. Fino a poco tempo fa, in Iran, questa violenza ci veniva imposta direttamente solo dalla classe capitalista e dal regime islamico.
Ora, con la guerra in corso, ci troviamo di fronte a due mostri capitalistici: la borghesia iraniana e il suo regime da un lato, e i governi di Israele, degli Stati Uniti e dell'Unione Europea dall'altro.
Nonostante il loro conflitto interno, entrambe le parti impongono la stessa brutalità genocida. Sia dall'alto che dal basso - in quelli che sono tutti gli aspetti della vita - veniamo schiacciati dalla violenta macchina del capitale, che sia iraniano, israeliano, americano o europeo. Questa guerra non viene condotta tra "Stati", essa viene condotta contro di noi.
Decine di milioni di lavoratori ne sopportano il peso: sfollamento, senzatetto, fame, carestia, mancanza di acqua, di medicine, di cure, e morte di massa. Le nostre case vengono bombardate, i nostri cari giacciono insepolti, e il futuro dei nostri figli è incerto. A Teheran, Kermanshah, Isfahan e altrove, il costo della guerra è immenso. Tutte queste condizioni ci impongono di agire collettivamente, a livello nazionale e con un'organizzazione cosciente e consiliare.
Questo non è uno slogan. È una questione di sopravvivenza.
Dobbiamo unirci dove viviamo e dove lavoriamo – fabbriche, scuole, ospedali, porti, quartieri – per formare consigli. Questi consigli non dovrebbero essere isolati o locali; ma devono crescere in un movimento nazionale, capace di mobilitare tutte le risorse per poter soddisfare i bisogni urgenti: cibo, sicurezza, assistenza sanitaria, alloggio, istruzione. Questi consigli devono riunirsi, evolversi fino a diventare una forza anticapitalista unificata, e strappare  dalle mani della classe capitalista e del suo Stato il controllo della produzione, della ricchezza e delle infrastrutture. Proclamiamo al mondo che: noi vediamo tutte le classi dominanti – israeliane, islamiche, americane, europee – come i nemici genocidi della classe operaia.
Chiediamo ai lavoratori di tutto il mondo solidarietà e sostegno.
     
 

- Lavoratori anticapitalisti (Iran) - Giugno 17, 2025 - fonte: https://barbaria.net/ -
- foto: Proteste in Iran -

La Scomparsa della “Rivoluzione” ?!!???

L'anarchismo oggi
- Il pensiero libertario e la partecipazione popolare al XXI secolo -
di Miguel Amorós

« Non c'è anarchismo più autentico di quello capace di rivolgere verso di sé il più implacabile degli sguardi critici.» Tomás Ibáñez

Oggi, grazie a un apparato statale ipersviluppato, soprattutto sul piano militare, asservito a un mercato onnipresente, e in assenza di forze sociali che lo sfidino, la parola "rivoluzione" è scomparsa dal vocabolario degli oppressi e degli sfruttati. Da nessuna parte vediamo una massiccia convergenza di insoddisfazioni di vario genere che riesca a rendere inevitabili i grandi sconvolgimenti sociali. Nessuno sente l'avvicinarsi dei grandi cambiamenti, e sono pochi quelli che li vogliono. Anzi, al contrario, la maggior parte li teme. In queste condizioni, il rifiuto del principio di autorità – fondamentale per ogni libertario – si scontra con il muro invalicabile della rassegnazione e della paura, le piaghe ideali al fine di uno sviluppo infinito dello Stato. Il pensiero antiautoritario, incapace di coniugarsi con qualsiasi rivolta degna di questo nome, si rinchiude nella propaganda, laddove l'azione, rara e slegata dal pensiero veramente sovversivo, manca della “audacia dell'idea” (come direbbe Kropotkin) e quindi, dopo i primi momenti di euforia esistenziale, finirà per seguire percorsi che lo contraddicono, fino a svanire.
Da un lato, la lunga paralisi del movimento operaio ha ormai ridotto al minimo le organizzazioni anarco-sindacaliste; l'asse attorno al quale ruotava il movimento libertario. L'istituzionalizzazione burocratica delle trattative sindacali ha reso sempre più difficile l'azione diretta, per dei lavoratori sempre meno combattivi. Dall'altra parte, la disgregazione delle idee di modernità – universalità, ragione, progresso – ha fatto sì che l'anarchismo di oggi, quello che nasce dall'occupazione delle piazze, dalla musica punk e dall'alter-globalizzazione dei giovani, precipitasse nel presentismo, nell'intersezionalità, nell'identitarismo e nell'oblio. In aggiunta a tutto ciò, il fatto che la maggior parte delle persone coinvolte nei conflitti siano appartenenti alle classi medie salariate, che notoriamente si identificano con lo Stato, con i metodi autoritari e con le leggi borghesi, ha trasportato ogni e qualsiasi movimento di protesta all'interno di una fluidità relativistica, fatta di confusione e di possibilismo. Una volta evaporato il proletariato radicale, e consolidatasi la mentalità meso-cratica, anziché minare la supremazia dello Stato e il rispetto dei governi, la protesta sociale tende piuttosto a limitarsi nelle sue rivendicazioni, e a confinarsi nel locale, senza mettere di fatto in discussione la legittimità delle istituzioni, né tantomeno mettere seriamente in discussione il gioco politico del dominio. Con il pretesto di ottenere risultati immediati o di ripudiare la violenza, si evita l'impegno, e si rinvia la causa rivoluzionaria a un orizzonte lontano e irraggiungibile. Nella società, sotto il regime capitalista, ci sono stati molti cambiamenti regressivi, e non solo nel movimento sindacale: la divisione del lavoro, la sociabilità popolare, i legami generazionali, la diffusione delle psicopatologie, la burocratizzazione, ecc. Il sistema dominante è diventato più sofisticato, e man mano che il suo potere è cresciuto, e la sua portata è stata ampliata grazie alla tecnologia dell'informazione e del debito, si è rafforzato. Di conseguenza, lo schema bipolare della borghesia e del proletariato non spiega più nulla, poiché è stato troppo a lungo fuori dalla realtà. La rivoluzione risultante da un tale scontro di classe, è ora impossibile. Né tantomeno oggi esiste un progetto rivoluzionario credibile basato su questa presunta rivalità. La generalizzazione del lavoro salariato, dei servizi pubblici, dell'atomizzazione, dei consumi, della sorveglianza digitale e, ripetiamolo, dell'influenza politico-ideologica esercitata dalle classi medie, sono tutti fattori che hanno modificato sostanzialmente la natura delle classi e i loro rapporti di forza, acuendo gli antagonismi e la concorrenza, e disarmando le coscienze. I meccanismi di addomesticamento e di sottomissione appaiono essere sempre più efficaci, e i mezzi di controllo sociale dello Stato sono sempre più potenti. Il peso opprimente del presente, principale fonte di conformismo, e il conseguente disprezzo per la memoria, hanno diluito la fiducia nel futuro, e quindi nell'utopia su cui si basavano le speranze di trasformazione rivoluzionaria.
La questione sociale - che nella società delle classi contrapposte si rifletteva in modo unitario nell'obiettivo dell'emancipazione proletaria - oggi, senza un soggetto storico che la porti avanti, senza una comunità operaia che la incarni, senza un progetto sociale che la proponga, si disperde in una pluralità di questioni eterogenee e separate, ciascuna circoscritta nei propri "movimenti sociali": femminista, gay, ambientalista, antimilitarista, squatter, anti-sviluppo, pro-casa, vegana, ecc. Dove prima c'era una classe, ora ci sono diversi collettivi interclassisti, ognuno con i propri obiettivi e con le proprie dinamiche specifiche, incapaci di costituirsi come soggetto universale, dal momento che ognuno di essi non sarà mai in grado di fondere tutte le loro particolarità - comprese le proprie - in una sola. Non fanno nemmeno finta di provarci. Ciò che li caratterizza tutti, è la timidezza nell'azione e l'ambiguità dei loro obiettivi, che ben corrisponde alla volontà isolazionista, all'attivismo virtuale e al rifugio nel presente. In questo contesto, i gesti irrilevanti, le tattiche riformiste e la tendenza ad accogliere le istituzioni hanno la precedenza sulle reali alternative di cambiamento e sul desiderio di auto-organizzarsi per poterle realizzare. Dove mancano i riferimenti e prevalgono le misure legalitarie, dove l'azione si fonde con lo spettacolo e dove il dibattito rimane prigioniero delle reti sociali, ecco che l'autentica partecipazione si riduce a nulla: in uno scenario del genere, la democrazia diretta non è praticabile. E senza di essa, non c'è rivoluzione.
Molti degli autori vicini a essa, sono di grande valore – per esempio Murray Bookchin, James Scott, David Graeber, Jacques Ellul, Lewis Mumford, Günther Anders, Raoul Vaneigem – ma tuttavia non esiste un ragionamento speculativo, economico o scientifico, che spieghi in maniera convincente il momento presente nella sua interezza, né tantomeno offra una base teorica completa con cui orientarsi nella prassi. L'epoca attuale non è favorevole a una libera discussione collettiva, e nemmeno a una discussione in generale. L'ordine stabilito tiene le masse occupate con altre cose. Il pensiero delle masse rimane pertanto dormiente. Le ideologie progressiste e le ortodossie del passato - siano esse di tendenza operaista o meno - sono anch'esse una misera compensazione, in quanto sono superate, fuori dai giochi, proprio come lo è il concetto di proletariato del XIX secolo. Piuttosto, purtroppo, i tempi si prestano assai bene a delle formule salvifiche come la decrescita, la fuga nelle campagne, il cosiddetto "assalto" alle istituzioni, il Green New Deal, o l'economia circolare. Il momento appare favorevole anche ai fondamentalismi redentori, ai patriottismi parrocchiali e ai catastrofismi apocalittici; tutti spesso usati dal dominio. Ecco perché il pensiero libertario contemporaneo, se vuole essere utile, deve prima lottare contro tutti i discorsi irrazionali e astenersi dall'inventare un nuovo credo post-moderno, e ancor meno creare un'organizzazione polimorfa per diffonderlo. Deve svelare le menzogne dell'economia, e correggere i torti della storia. Deve smascherare la predicazione demagogica del potere. Deve smascherare le illusioni dell'ideologia e dimostrare la perniciosa inutilità dello Stato. Con tutti questi obiettivi bene in mente, deve partire dall'esistente in modo critico e penetrarlo, promuovendo, in maniera generale, tutte quelle evoluzioni dirompenti che portino a una società senza padroni: il processo di deindustrializzazione, di de-mercificazione, di de-urbanizzazione, di smilitarizzazione, di decentramento e di de-statizzazione.
Ovviamente, i partigiani del libero accordo, dell'autogestione, dell'equilibrio con la natura e con le forme di vita collettive o comunitarie, sono ben lungi dal poter opporre alle forze del dominio una forza di maggiore grandezza. Ma è anche vero che si stanno facendo delle piccole battaglie negli ambiti più diversi, le quali devono necessariamente convergere tutte l'una sull'altra, dal momento che esse hanno la loro origine nelle contraddizioni del sistema stesso: in materia di affitti, sfratti, occupazione, pensioni, patriarcato, sessualità, alimentazione, sanità, immigrazione, carceri, infrastrutture industriali e stradali, media, difesa del territorio e così via. Quando le lotte avranno raggiunto un certo livello, allorché andranno oltre l'ordine pubblico, allora si libererà un'energia sufficiente ad aumentare la capacità popolare di auto-organizzazione, di solidarietà e di unità, creando così le condizioni perché possano emergere  strutture comunitarie – orizzontali, assembleari e federative – per formare delle istituzioni autonome, al di fuori dello Stato, che saranno in grado di resistere alle manovre dei partiti e alle manipolazioni esterne.
Un clima di guerra civile, favorisce il risveglio delle iniziative popolari, e lo sviluppo intellettuale e morale degli oppressi. La distruzione - come direbbe Bakunin -  diventa una forza creatrice. Ma in quello che è un contesto di potere quasi assoluto della classe dominante, l'azione costruttiva riesce a provocare più crepe nell'immobilità imposta dal suo dominio, di quanto riesca a farlo l'azione distruttiva, la quale è assai meno praticabile. Tuttavia, la negazione va di pari passo con l'affermazione. Più che di tattiche interne, violente o pacifiche, si tratta di strategie di separazione e di demolizione. Se dobbiamo cercare la partecipazione paritaria nella pratica, anziché il pragmatismo sotto l'egida di un leader, allora è una questione di dibattito e di rotazione dei compiti. Più che di organizzazione, si tratta di tessuto sociale, di spazi vitali in seno ai quali ripensare le relazioni sociali a tutti i livelli; o piuttosto di una contro-società ribelle, con le proprie abitudini cooperative e difensive che si ponga ai margini dell'establishment. E contro-società significa contro-cultura, alla cui ideazione e sviluppo lo spirito libertario - purché si liberi della zavorra di modalità ideologiche fallimentari e di cliché alla moda - ha molto da offrire.

- Miguel Amorós, pubblicato sul sito Kaos en la red, il 9 febbraio 2025 -
- fonte: Atelier d'Écologie Sociale et Communalisme -

sabato 21 giugno 2025

Dal Complesso di Masada alla Sindrome di Sansone !!!

Moshe Zuckermann è un sociologo e storico tedesco-israeliano che ha scritto molto sulle relazioni di Israele con la Germania, così come sul loro rapporto ideologico con l'Olocausto. Egli critica severamente la politica israeliana e la strumentalizzazione dell'antisemitismo da parte dei vari governi israeliano e tedesco. Contrariamente a quanto immagina una certa sinistra de-coloniale, questa critica non ha nulla a che vedere con la messa in discussione dell'esistenza dello Stato di Israele; su cui esiste un consenso, all'interno della sinistra israeliana, che non è inutile ricordare se si vogliono gettare le basi per una soluzione della situazione in Medio Oriente. La sinistra israeliana può criticare i miti fondanti di Israele e le circostanze della sua creazione, senza mettere in discussione la pretesa di uno Stato ebraico, e questo - aggiungiamo - indipendentemente da quello che si pensa circa la forma moderna dello Stato-nazione, di cui Israele, da solo, non ne può certo costituire l'immagine repellente. Solo un osservatore esterno può associare queste critiche – quelle delle circostanze concrete della creazione di Israele, o quelle della forma statale – con l'assurda idea di mettere oggi in discussione l'esistenza dello Stato di Israele (e di esso solo). Qualunque cosa si pensi del sionismo storico, e per quanto salutare possa essere la sua critica, sia gli israeliani che i palestinesi devono ora affrontarne le sue conseguenze, senza ripetere continuamente lo scenario alternativo di ciò che sarebbe potuto accadere altrimenti, cento o ottanta anni fa. Oggi, la sinistra globale sta sabotando quella che potrebbe servire come base progressista per una soluzione del conflitto, e lo fa continuando a mescolare costantemente il livello della critica storica e politica - il quale è assolutamente necessario - con la questione dell'esistenza stessa di Israele. Questo testo di Zuckermann segna una netta distanza; sia da una sinistra filo-Hamas, la quale continua a invocare l'autodissoluzione di Israele all'interno di uno "Stato binazionale" – visto che al momento è fin troppo evidente che nessuna delle due popolazioni nazionali desidera – sia da una sinistra, soprattutto tedesca, fanaticamente impegnata nella difesa del "diritto a esistere" di Israele, poiché, fondamentalmente, non è questa la domanda,che stacca così un assegno in bianco all'estrema destra israeliana. In questo modo, il progetto sionista, conclusosi con l'effettiva creazione dello Stato viene lasciato sempre "aperto", e viene reso soggetto a una discussione fittizia. Ma senza il pathos legittimante della sinistra tedesca e dell'estrema destra israeliana, che copre le proprie atrocità proprio con l'escalation del "rischio esistenziale",  l'esistenza israeliana funziona molto bene. Tutto questo finisce per essere solo un diversivo dai problemi concreti - sia interni che esterni - sia della popolazione israeliana che di quella palestinese. L'autore insiste sul fatto che la realtà dell'imbarbarimento non giustifica il godimento apocalittico del peggio. La discussione odierna riguarda le conseguenze della creazione di Israele – detta in altre parole, la creazione del problema palestinese – e non l'effettiva esistenza di Israele, cosa che non è più in discussione. Presuppone un quadro di analisi sionista, o post-sionista, che di per sé non ha nulla a che fare con la messa in discussione della realtà fattuale di Israele. Zuckermann mostra come questi dibattiti interni di una sinistra occidentale centrata su sé stessa (e sui fantasmi del suo passato) ignorino profondamente le realtà israelo-palestinesi. Dal 7 ottobre, l'aggravarsi di questo "conflitto per procura", come venne definito da Robert Kurz, non fa altro che confermare le sue opinioni, espresse quindici anni fa. In che modo possiamo superare il pantano ideologico che alimenta questo conflitto, e non contribuisce a risolverlo? Robert Kurz rimproverava agli antifascisti di produrre un'immediata identità tra forma-pensiero e ideologia, portando così a quel riduzionismo tipico della critica dell'ideologia che riempie giornali, librerie e talk show. La teoria critica mira invece a un livello più fondamentale rispetto a quello della semplice denuncia dell'ideologia e vuole mostrare da quale terreno nascono e prosperano le ideologie: «La forma-pensiero in sé ”non è" un'ideologia, ed essa, in sé, non produce ideologia. Piuttosto, è l'ideologia a essere una produzione affermativa dei singoli soggetti individuali concreti, che sono di per sé in relazione, essi stessi, alla loro propria costituzione di forma-soggetto e alle proprie oggettivazioni, in un tentativo di spiegare la relazione negativa con il mondo della socializzazione, attraverso il valore e la sofferenza che essa implica, evitando di mettere in discussione la propria forma-soggetto e la propria forma di socializzazione.» (Robert Kurz, "L'ideologia antitedesca. Dall'antifascismo all'imperialismo di crisi: una critica dell'ultimo settarismo della sinistra tedesca e i suoi profeti teorici", Unrast, 2003, p. 268.)  L'incapacità - da parte della maggioranza della sinistra che si definisce "antimperialista" o "antifascista" - di distinguere tra questi livelli, la porta a ignorare il punto di vista della forma, e a perdersi in in una caccia alle streghe e a discussioni terminologiche speciose e interminabili prodotte da una immediata identificazione tra forma e ideologia. Robert Kurz era indignato dal fatto che perfino lo stesso Moshe Zuckermann fosse l'oggetto di una simile caccia alle streghe: «L'apice della perfidia denunciatoria viene raggiunto nel momento in cui gli ebrei vengono, senza il minimo scrupolo, fatti oggetto di imputazioni basate sulla logica dell'identità nel momento in cui essi non corrispondono alle idee anti-tedesche riguardo a ciò che i “veri ebrei” dovrebbero pensare. Ad esempio, negli ultimi anni abbiamo assistito a un attacco senza precedenti contro Moshe Zuckermann, direttore dell'Istituto di storia tedesca dell'Università di Tel Aviv, un pensatore ebreo nella tradizione della teoria critica di Adorno, che agli occhi degli ideologi anti-tedeschi avrebbe commesso l'imperdonabile crimine di non condividere le loro interpretazioni controfattuali della situazione mondiale, e in particolare della politica israeliana sotto il governo di destra del Likud.» (Robert Kurz, Ivi., p. 280.)

*** Il testo di Zuckermann, qui tradotto, è apparso per la prima volta in Moshe Zuckermann, "Sechzig Jahre Israel. Die Genesis einer politischen Krise des Zionismus", Bonn, Pahl-Rugenstein, 2009, pp. 131-137. È stato poi ripubblicato nel 2013 in Karin Wilhelm, "Neue Städte für einen neuen Staat", Bielefeld, Transkript, 2013, p. 31-35. Ci siamo permessi di introdurre dei paragrafi per migliorare la leggibilità del testo. Lo pubblichiamo in francese con il gentile permesso dell'autore. (S.A.)

- Sandrine Aumercier - su  https://grundrissedotblog.wordpress.com/ -

"Il Diritto all'Esistenza", e l'Esistenza
- di Moshe Zuckermann - 2009 -

In tutto il mondo, i dibattiti su Israele hanno la sfortunata tendenza a dover fingere di chiarire qualcosa di principio, compresa la questione polemica del "diritto di esistere" dello Stato ebraico. È notevole vedere con quanta ovvietà la sua mera esistenza, che dura ormai da 60 anni [*alla data della prima pubblicazione di questo testo, S.A.], possa essere invece messa in discussione, al punto che anche coloro che non la considerano un legittimo argomento di discussione si trovano potenzialmente trascinati in un atteggiamento apologetico. Ci sono diverse ragioni per questo. Da un lato, Israele è stato infatti proclamato in circostanze che hanno dato alla sua creazione formale un carattere artificiale: si trattava della creazione di uno Stato, la cui idea astratta aveva preceduto sia il dominio effettivo del territorio che doveva ospitarlo, sia l'esistenza fisica di una società che doveva popolare quel territorio. Da questo punto di vista, al momento della sua effettiva creazione, Israele non era solo una "comunità immaginata", ma è anche stata immaginata in un momento storico nel quale le condizioni materiali e sociali minime, per la sua realizzazione, appartenevano ancora a un futuro lontano. In secondo luogo, fin dall'inizio, il diritto di Israele a esistere è stato messo in discussione dai suoi vicini arabi, sia a partire dalla loro ideologia proclamata, sia nei periodici tentativi di fare la guerra (e distruggere) allo stato sionista. Il fatto che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad possa ancora oggi rivendicare l'eliminazione di Israele, sembra irreale e obsoleto a quasi tutti gli stati arabi, ma Ahmadinejad può comunque attingere a una tradizione propagandistica non troppo lontana di quegli stessi stati. In terzo luogo, poiché la creazione dello Stato sionista è stata accompagnata dall'ingiustizia storica commessa contro i palestinesi, quello che gli ebrei hanno visto come se fosse un atto di emancipazione è stato, agli occhi di molti, contaminato dal dubbio morale. Poiché il conflitto israelo-palestinese, scaturito da questa ingiustizia storica, non ha ancora trovato una soluzione politica (né, in questo momento, offre la prospettiva di una soluzione), lecco che allora 'esistenza reale di Israele rimane comunque segnata da un sentimento di incompletezza, da un sentimento che abita non solo i palestinesi, come soggetto collettivo vittime di questo conflitto, ma anche molti israeliani che hanno fatto dell'incertezza sul futuro il colore fondamentale del loro orizzonte storico. E dal momento che - in quarto luogo - gran parte del popolo ebraico non ha scelto di vivere in Israele, e la pretesa che invece fosse così era notevolmente svanita nel corso dei decenni, l'indeterminatezza sul futuro aveva ricevuto quasi una sorta di "legittimazione" psichica collettiva; di certo, a nessuno [in Israele, in Sud Africa] verrebbe in mente di mettere in discussione il diritto dello Stato a esistere, ma tuttavia parlare di esistenza futura ora non è più un tabù, come lo era una volta. Pertanto, la certezza collettiva di sé [degli israeliani, S.A.] si è estesa e ha investito la possibilità, ora accettata, di vivere fuori da Israele. Eppure, è chiaro che la tenace perpetuazione del discorso riguardo il diritto di esistere di Israele, non lo rende certo né più forte né più accettabile del discorso riguardo il diritto di esistere di qualsiasi altro Stato al mondo. Il riconoscimento di uno Stato, o il rifiuto di riconoscerlo, è storicamente soggetto a delle fluttuazioni cicliche ed è sempre guidato da interessi particolari. Ciò induce a mettere in discussione il diritto di affermare l'esistenza, nel suo "principio", senza che però questo fonda qualcosa di essenziale, o esprima qualcosa di universalmente inconfutabile.
Il diritto di esistere che hanno gli Stati non è disponibile per chiunque. Ciò è legato innanzitutto al fatto che un collettivo umano realmente esistente venga codificato, in modo astratto, in quanto "Stato"; codificazione, da un lato derivata dalla storia e, dall'altro (almeno nei tempi moderni), realizzabile da questo collettivo stesso, nella forma di un atto di autodeterminazione sovrana. Tale autodeterminazione, può essere rivista solo dalla collettività che si autodetermina. Certo, altri collettivi possono negare ideologicamente il diritto a questa autodeterminazione; possono persino trasformare il proprio rapporto negativo con la collettività autodeterminata in delle azioni politico-militari. Ma se lo fanno, minacciano l'esistenza reale dello Stato. senza però eliminare il suo diritto inalienabile a tale esistenza. Così, quando l'ex primo ministro israeliano Golda Meir, affermò risolutamente che non esiste un popolo palestinese (non da ultimo, per minare la richiesta palestinese di uno Stato-nazione), una simile affermazione non aveva alcuna rilevanza rispetto all'autodeterminazione palestinese, e alla loro aspirazione a uno Stato palestinese; e quindi non aveva nessuna rilevanza per quanto atteneva al postulato del diritto di esistere di un tale Stato. Si trattava semplicemente di una testimonianza rispetto a quale fosse, all'epoca (e, per certi aspetti, ancora oggi), la reale situazione dell'equilibrio di potere e di dominio tra israeliani e palestinesi. A questo proposito, Meir e Hamas si sono completati a vicenda. Chi trae vantaggio dalla controversia sul diritto di Israele a esistere? Innanzitutto, tutti coloro che portano avanti l'ideologia dello sterminio di Israele; vale a dire, i propagandisti arabi o islamisti che considerano il sionismo come un "corpo estraneo" da eliminare in Medio Oriente. La loro retorica viene a essere formulata interamente nello spirito della polarità amico/nemico, nel quadro del conflitto in Medio Oriente, carico com'è di odio e risentimento. Deriva pertanto la sua presunta legittimità, dalla logica della reale situazione politica nella regione. Al contrario, tra gli antisionisti occidentali e gli oppositori di Israele, il discorso sul diritto di esistere è principalmente dovuto alla proiezione eteronoma delle loro stesse condizioni sul conflitto in Medio Oriente. Questo schema proiettivo, è chiaramente percepibile In quella che è la ricezione tedesca del conflitto israelo-palestinese, nella quale le costruzioni ideologiche di orientamento anti-israeliano, neonazista e di "sinistra", così come le patetiche contorsioni dei solidaristi filosemiti israeliani, che si dilettano nel risentimento islamofobo, costituiscono la rete nervosa delle specificità tedesche e della sua catarsi psico-ideologica. È evidente che la storia catastrofica degli ebrei nel XX secolo, determina sia il risentimento verso lo “Stato ebraico” (compresa la “solidarietà” con i palestinesi) sia la nevrotica “identificazione” con gli ‘ebrei’ in quanto “sopravvissuti alla Shoah”. Tuttavia, tutte queste proiezioni non hanno quasi nulla a che fare con la realtà di Israele, o con quella del conflitto israelo-palestinese. Perché non si tratta tanto del diritto di Israele a esistere, quanto piuttosto dell'esistenza di Israele. E il fatto che sia minacciato, non deriva da un discorso astratto su una qualsiasi definizione dell'essenza del "popolo ebraico", o sulla valutazione normativa del "percorso storico sionista", ma solo dalle minacce interne ed esterne reali e concrete. La reale esistenza di Israele è innegabile: il paese ha visto svilupparsi una società piena di diversità, con mondi umani sfaccettati, a volte antagonisti, una vita quotidiana colorata, spesso isterica, e un particolare universo di esperienze collettive, con le sue specifiche coordinate di coesione e di conflitto; una società con alte pratiche culturali e comportamenti popolari impressionanti. Con conquiste e possibilità - notevoli conquiste scientifiche e tecnologiche - vediamo una cultura del dibattito a volte nervosa, ma anche vitale: in breve, un organismo sociale plurale che, nonostante tutte le sue divisioni e incoerenze, esiste come realtà vivente. Volerla liquidare astrattamente - e il che significa eliminarla - è altrettanto assurdo quanto lo è feticizzarla astrattamente, vedendola come un "rifugio del popolo ebraico", o come "l'unica possibilità di una vita autenticamente ebraica".
Quindi cosa potrebbe davvero minacciare questa esistenza? In primo luogo, naturalmente, gli atti di guerra commessi su larga scala. Negli ultimi anni, in particolare, a causa delle dichiarazioni virulente del suo presidente, l'idea di un Iran potenzialmente dotato di armi nucleari è stata molto discussa. Un tale paese deve infatti essere considerato una minaccia strategica per Israele, soprattutto perché si può presumere che, nonostante tutti gli sforzi (occidentali) per impedirlo, gran parte del Medio Oriente sarà prima o poi dotata di armi nucleari. Ma poiché le armi nucleari non possono essere usate a volontà, ecco che allora la loro natura estremamente minacciosa è stata, fin dai tempi della Guerra Fredda, in qualche modo disinnescata a partire da una "valvola di sicurezza" intrinseca: il famoso equilibrio del terrore. Si dovrebbe presumere che tutti gli Stati interessati nella regione, siano da tempo a conoscenza del segreto meglio custodito; vale a dire che nessun paese nemico può minacciare l'esistenza di Israele (con il nucleare o con altri mezzi) senza rischiare la propria. Sono concepibili piccole guerre regionali, condotte in modo convenzionale, così come una diffusa attività di guerriglia e di terrorismo, ossia sporadici lanci di razzi sulle comunità di confine israeliane, nel nord e nel sud del paese. Ma chi parla di guerra nucleare si esprime in modo molto diverso, in un modo che, se pensato in maniera coerente, la cosa implica uno scenario in cui gran parte dell'intero Medio Oriente potrebbe essere raso al suolo Possiamo rifiutare una visione così apocalittica, e rappresentarla in modo perverso e divertente come se si fosse in un videogioco. È vero. Ma chi - giustamente! - parte dal presupposto che Israele non sia interessato a un simile sviluppo, non può allo stesso tempo supporre che lo sia un altro Stato. La paura di una catastrofe che minaccia la vita e l'esistenza non è un monopolio israelo-ebraico, né un privilegio ideologico. La minaccia militare che incombe su Israele continua quindi a essere parte integrante della sua esistenza - non perché minaccerebbe effettivamente la sua esistenza, ma perché può contribuire in modo decisivo a determinare la forma e il contenuto di tale esistenza, e persino i suoi limiti. In assenza di pace, il bilancio per la sicurezza continuerà ad assorbire la maggior parte del bilancio nazionale, vale a dire, le risorse necessarie per finanziare molti altri settori della società civile, e lo stato sociale della società israeliana. In assenza di pace, non solo i focolai dei conflitti interni e gli assi problematici della società israeliana non potranno essere adeguatamente affrontati e risolti, ma porteranno sempre più alla fuga di capitali e alla fuga dei cervelli, cose queste che stanno già assumendo proporzioni preoccupanti, fino al punto di scuotere le fondamenta della società civile e il sistema sociale dei veri ambienti di vita.
Un Israele che non si integra in Medio Oriente, un Israele che rimane volontariamente un "corpo estraneo" in questa regione, un bastione armato fino al collo in un ambiente ostile, un Israele che non ha alcuna prospettiva storica se non un conflitto permanente e irrisolto, un'ideologia di violenza permanente, uno stato di eccezione come matrice identitaria psico-collettiva, una tale Israele non sarà in grado di esistere a lungo termine – si decomporrà dall'interno, rovinata dalle dinamiche del proprio stato di emergenza, e si dissolverà in elementi incompatibili derivanti dalla sua eterogeneità, carica di contraddizioni e conflitti. Nessun paese confinante è in grado di infliggere a Israele il danno che Israele infliggerà a sé stesso a lungo termine, se non vivrà in pace con il proprio ambiente, anche se questo ambiente gli appare, ideologicamente e genuinamente, come se fosse una minaccia permanente.  In questo contesto, “lungo termine” non significa le centinaia di anni di violenza che l'Europa ha “avuto” per consolidarsi come unione attraverso atroci guerre di religione, le rivoluzioni e i massacri militari del XX secolo. Nel caso di Israele, il tempo sta per scadere perché "l'esperimento storico del sionismo” ha raggiunto il punto in cui la decisione di creare le condizioni per la propria sopravvivenza gli è stata strutturalmente imposta. Indubbiamente, Israele è indubbiamente passato dal complesso di Masada alla sindrome di Sansone: ora non si possono più "gettare gli ebrei a mare". Tutti loro – sia gli ebrei che i loro nemici – sono sul punto di affondare tutti insieme. Ma questa non è certo una prospettiva per l'educazione dei bambini, non è una prospettiva per l'autodeterminazione collettiva, non è una prospettiva per un'esistenza umana che prenda sul serio l'umanità, e che aspiri alla sua realizzazione. La capacità di Israele di esistere non si misura a partire da definizioni astratte della sua esistenza, né dalle disposizioni presumibilmente vincolanti della sua "identità"; la quale si impone solo assicurandosi un'ideologia egemonica. Si sono sviluppati mondi umani, che devono essere compresi in base alla loro evoluzione storica, e non in base a dei criteri ideologici e rigidi del programma purista che il sionismo classico si è posto (o che forse è stato costretto a darsi). Tra gli abitanti di questo paese è maturato un senso di appartenenza, il quale va decodificato a partire dalla logica di questa rete globale di esistenza ebraica (compresa la sua evoluzione storica), e non per mezzo dei postulati medi dell'ideologia del "nuovo ebreo". Ma è proprio riguardo a questo, che lo Stato di Israele deve decidere ciò che vuole. Questa decisione non è facile alla luce delle spaccature e degli intrecci interni. E tuttavia, c'è una cosa che Israele non ha il diritto di volere, ed è quella di mantenersi in uno stato di stagnazione indefinito, nella storica zona grigia di un'aporia tra un'occupazione veramente perpetuata e una richiesta ideologica di pace. I palestinesi non lo permetteranno, né lo permetterà "il mondo", ma certamente non lo permetterà la logica strutturale interna di Israele, che ha ora raggiunto un bivio storico; se quello Stato vuole sopravvivere alle avversità storiche che ha causato.

Moshe Zuckermann, 2009 – ***

venerdì 20 giugno 2025

Libri non tradotti in italiano !!

Prefazione a  "The Spectre of Capital. Idea and Reality"
- by Christopher J. Arthur -

Questo lavoro è incentrato sulla spiegazione dell'idea di capitale. La sua particolarità è quella di sostenere che il capitale è esso stesso una “Idea”, e lo è nello stesso senso in cui è stata concepita da Hegel nella sua filosofia. Per lui un'Idea non è un'entità mentale, bensì la piena attualizzazione di un concetto, della sua “verità”, per così dire. Il capitale, in quanto Idea, diventa continuamente presente nella realtà. Questo libro vuole dimostrare che il capitale è il soggetto spettrale della modernità. Il concetto di “spettro del capitale” è stato coniato da me in un articolo del 2001. Esso riecheggia lo “spettro del comunismo” del Manifesto. Ma il comunismo era un movimento reale che mirava ad abolire lo stato di cose esistente, governato dal capitale. Ma quanto è “spettrale” e quanto è “reale” il capitale stesso? Paradossalmente esso è entrambe le cose. Pur avendo una presenza puramente spettrale, è senza dubbio un vero potere sociale, e lo rimane anche di fronte a qualsiasi critica come quella qui presentata. ( Per questo motivo, nella frase del nostro titolo - “Idea e realtà” - la “e” non va presa in modo contrappositivo, ma è indicativa dell'identità). Il metodo seguito nella mia esposizione del capitale, in quanto forma sociale, si basa sulla logica propria del carattere peculiare del suo oggetto. Per una descrizione della logica interna del capitale, sono necessari i parametri della “dialettica di sistema”. Questa presentazione sistematico-dialettica si basa sulla logica filosofica di Hegel. Non si preoccupa di recuperare la grande narrazione della sua filosofia della storia per poi metterla in relazione con il materialismo storico. Si concentra piuttosto sulla sua logica delle categorie. In questo caso, essa viene considerata architettonicamente omologa alle forme sociali del capitale. La dialettica sistematica viene utilizzata per articolare le forme di questo ordine sociale, vale a dire il capitalismo. Il mio metodo di sviluppo logico della forma si fonda sulla constatazione che il movimento dello scambio è analogo al movimento del pensiero, nella misura in cui viene generato un regno di forme pure, le quali si pongono in relazione logica l'una con l'altra, senza alcun contenuto. La presentazione è quindi basata sulla “teoria della forma-valore”. Si tratta di un approccio relativamente nuovo alla critica dell'economia politica. Afferma che le relazioni di valore svolgono un ruolo attivo nel determinare la forma e gli scopi della produzione materiale. La forma sviluppata del valore (merce, denaro, capitale) costituisce la forma sociale caratteristica delle relazioni economiche attuali. Per la teoria della forma-valore, Hegel è un riferimento naturale, dal momento che la sua logica si adatta bene a una teoria delle forme. Inoltre, lo sviluppo del sistema delle categorie di Hegel è diretto ad articolare la struttura di una totalità, mostrando come essa si sostenga negli e attraverso gli interscambi dei suoi momenti interni. Ciò presuppone che la totalità sia strutturata a partire da relazioni interne; e ciò si verifica per definizione nell'ambito di una logica delle categorie. Io sostengo che il capitale sia una totalità di questo tipo. Una teoria della forma sociale attiva, in particolare quella che si riferisce alla forma valore, richiede perciò una presentazione dialettica coerente. L'ambito di questo progetto si limita pertanto alla teoria di una società puramente capitalistica. Di più, esso è limitato alla sua “teoria pura”, ovverosia ai suoi principi, distinti dagli stadi di sviluppo del capitalismo, e sulla base dei quali è possibile condurre lo studio empirico di un capitalismo esistente in modo storicamente fondato. Inoltre, esso è ancora più limitato in quanto tutta la sua attenzione è rivolta al concetto di capitale in sé. Infatti, considero il concetto di capitale talmente ristretto da escludere persino la rendita, poiché la considero un'impurità rispetto al punto di vista teorico, che spiega solo quelle forme che sono necessarie al capitale in quanto concetto o, come farò, all'Idea di capitale. Nonostante un'impostazione così ristretta, viene però dimostrato un risultato importante: la tendenza logica dell'Idea di capitale è quella di completarsi attraverso il suo stesso sviluppo immanente, e di porre quindi in essere tutti i suoi presupposti; esso è auto-fondato, si autodetermina e si autoriproduce. Le riserve necessarie rispetto a questa audace tesi vengono affrontate, in maniera adeguata, nel corso dell'argomentazione stessa, a seconda dei casi. Questo tipo di studio è il necessario prolegomeno per qualsiasi adeguato studio scientifico del capitalismo. Tuttavia, si tratta di un esercizio puramente concettuale, che sviluppa un sistema di categorie che sono in relazione quasi logica. Pertanto, questo libro non è un'opera di economia, ma di filosofia. Per esempio, il “concetto di capitale” qui presentato è ben lontano da un concetto economico correttamente articolato. Lo stesso vale per la “produzione” e per molti altri temi toccati. Ciò è dovuto al fatto che la logica peculiare dell'oggetto ha essa stessa un carattere concettuale. La possibilità stessa di una teoria pura, o di una realtà dell'Idea di capitale, dipende da un'affermazione ontologica relativa al modo in cui il capitale stesso astrae rispetto alle sue basi materiali e costituisce un regno di forme pure. Spero di rivendicare questa importante affermazione anche sviluppando le categorie del capitale all'interno di un quadro sistematico-dialettico. Al contempo, si tratta di una critica delle categorie economiche che esso rappresenta. La critica dell'economia politica viene qui intesa non come una critica dell'apologia borghese del capitale, ma come una critica del sistema del capitale stesso nella misura in cui le sue forme mancano di verità. Nello sviluppo delle mie idee, ho avuto la fortuna di far parte del gruppo di ricerca dell'International Symposium on Marxian Theory, fondato da Fred Moseley nel 1991. Oltre allo stesso Moseley, ringrazio in particolare, per i loro pazienti commenti sul mio lavoro in corso, i membri di lunga data: Riccardo Bellofiore, Martha Campbell, Roberto Fineschi, Patrick Murray, Geert Reuten e Tony Smith. (Questi pensatori sono anche quelli che hanno prodotto in inglese le opere più significative sulla critica dell'economia politica). Per aver commentato il manoscritto originale di questo libro, ringrazio soprattutto Geert Reuten e Tony Smith. Mi hanno salvato da molti errori; ma, naturalmente, non hanno alcuna responsabilità per il libro stesso.

Christopher J. Arthur