giovedì 20 febbraio 2025

«una vera e propria immobilità cadaverica che pretende di essere una perenne forza viva» !!

Il Macchinario della Nuova Destra
- di Andrea Cavalletti -

1. Qualora non credessimo, o non fossimo interessati a credere, in quella che è un'autodefinizione tecnica, potremmo credere veramente all'esistenza di una “Nuova Destra”? E questo aggettivo, "nuovo", può essere applicabile a una fazione che, ad ogni costo e con ogni mezzo, ha sempre lavorato solo per conservare e salvaguardare le condizioni di dominio e di sfruttamento? Qualunque sia la risposta, il rischio rimane quello di continuare a ricadere nell'abitudine (un vizio antico, appunto) di cercare sempre dei fenomeni "nuovi" da capire, ossia di credere nel mito della novità (termine positivo), la quale sostituisce necessariamente tutto ciò che è stato scritto e trasmesso (termine negativo: il non nuovo). Questo mito si basa sulla linearità del progresso, e quindi sul presupposto secondo cui il vecchio fenomeno sarebbe quello che è stato già compreso; mentre invece quello nuovo diventa l'inconsueto, ovvero, ciò che dobbiamo capire. In altre parole, ci viene chiesto di comprendere un cambiamento: una novità della quale, però, supponiamo di conoscere già quali sono le condizioni. Ovviamente, una simile concezione della novità è paradossale, ma la sua ragion d'essere risiede proprio in quella forza dell'abitudine che nasconde l'evidenza. In realtà, l'idea stessa che ci sia sempre qualcosa di nuovo non è altro che l'affermazione secondo cui gli eventi seguono sempre il medesimo ordine, vale a dire, la pretesa di introdurre il consueto nell'insolito, lo stabile nell'instabile: si tratta sempre della stessa vecchia idea, la quale parla di un impulso al rinnovamento, e che rimane sempre la stessa. Riguardo ciò che oggi è il nostro problema, questa idea rappresenta l'altra faccia della concezione del fascismo, quella che lo vede come "fenomeno eterno": una definizione forse non incongrua, ma che va maneggiata con grande cautela e cura, poiché è proprio il fascismo (sia esso "vecchio" o "nuovo") che, per mezzo della particella "UR-", ne definisce i suoi concetti. Negli anni '70, quando il fascismo italiano (la cui continuità era rappresentata in parlamento dal Movimento Sociale Italiano) si impose sulla scena politica come se fosse qualcosa di nuovo, vale a dire, come "neofascismo", il mitologo Furio Jesi, nel suo libro "Cultura di destra", descrisse quello che è «l'elemento più caratteristico e diffuso della cultura di destra», definendolo come un «vero e proprio immobilismo cadaverico che pretende di essere una perenne forza vitale». Citando l'espressione di Oswald Spengler, «idee senza parole», Jesi descriveva l'ideologia di destra come una «macchina linguistica, o mitologica» che funziona diffondendo una fitta rete di cliché, stereotipi, luoghi comuni, formule che appaiono chiare proprio perché non hanno bisogno di essere compresi. Ecco che questo modo, ogni parola si riduce a essere un semplice intermediario di quello che precede tutte le parole, come se ognuna di esse alludesse a qualcosa, e che però non dovrebbe essere detto, un segreto che da sempre è stato condiviso dai soggetti e che, pertanto, li definisce in quanto appartenenti a un gruppo specifico. La macchina mitologica allude sempre a un mito, a qualcosa che risale al passato più remoto (identità, patria, origine, sangue e suolo). In altre parole, ci offre dei resoconti del mito (mitologie) che si riferiscono al mito, e allo stesso tempo lo nascondono. La macchina ci restituisce le mitologie di cui è fatta la sua superficie, mentre che allo stesso tempo allude alla presenza non verificabile del mito al suo interno. Per certi aspetti, questo modello linguistico e cognitivo ricorda la famosa descrizione che ci ha dato Foucault del dispositivo disciplinare del Panopticon, dove la presenza non verificabile del guardiano al centro della torre fa sì che i prigionieri si sentano sempre osservati. In maniera analoga, ai fini del funzionamento della macchina mitologica, non è essenziale che l'esistenza del suo contenuto sia certa: ciò che viene richiesto, è che semplicemente una tale esistenza sia possibile, ossia non verificabile. E se nel modello di Bentham la condizione coercitiva esclude tassativamente la possibilità di non credere alla presenza del guardiano, nel caso della macchina, cioè in assenza di coercizione, credere o non credere nell'esistenza del mito non è propriamente un'alternativa. La piena efficienza della macchina coincide con la sua totale indifferenza alle dicotomie vero/falso, credenza/incredulità. Ciò che dichiara di sostenere bisogna che sia semplicemente credibile, non vero in modo assoluto, ma possibilmente verosimile o plausibile.  Ad esempio, quando si tratta di razzismo antisemita: coloro i quali credono nei Protocolli dei Savi di Sion, non si preoccupano troppo della loro autenticità. La cospirazione non dev'essere un fatto comprovato, ma basta che essa sia semplicemente una possibilità. Pertanto, la macchina non opera sul piano della menzogna politica, e dell'azione politica  che richiede la menzogna: essa funziona a livello di chiacchiere e dicerie, che, per così dire, agiscono sulle azioni e le influenzano. E per quanto arrivi sempre “il punto, superato il quale mentire diventa controproducente”, e alla fine “il tentativo di sbarazzarsi dei fatti[*1] si dimostra fallimentare; c'è da dire che la macchina mitologica, tuttavia, non incorre in questi rischi. . Di conseguenza, la cultura di destra è per definizione una cultura complottista. Nelle parole di Jesi, si tratta della cultura, o della lingua, formata da quelle che sono idee senza parole, ossia formata solo da parole allusive, parole con la lettera maiuscola: Nazione, Famiglia... ma anche: Libertà, Rivoluzione [*2]. Come spiega Jesi: «la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale della destra [...] È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano» [*3]. Le mitologie possono cambiare e rinnovarsi, ma la macchina continua a funzionare per conto suo. Per essere più precisi (e anche un po' ripetitivi), ciò che nasconde il centro immobile - quello che allude all'origine, al passato molto remoto o non verificabile - è proprio la novità.. Inoltre, la macchina può essere paragonata al Panopticon, dal momento che essa rappresenta l'uovo di Colombo, secondo quello che Karl Kerényi chiamava la "tecnicizzazione del mito". Realizza, in modo automatico e con la massima efficienza, la produzione e lo sfruttamento di mitologie, per scopi politici. Ora, come sappiamo, le mitologie politiche sono state prodotte per influenzare le masse: il funzionamento della macchina mitologica non costituisce altro che la produzione della "massa" stessa. Potremmo dire che la macchina mitologica produce – o aiuta a produrre – l'uomo-massa, e potremmo anche definirla come un dispositivo di soggettivazione in grado di operare su larga scala. In tal senso, l'ideologia di destra è sempre vecchia e allo stesso tempo sempre nuova, poiché le mitologie si rinnovano e si modificano quando necessario, a seconda che si collochino nel polo positivo o in quello negativo di questo instancabile dispositivo: mitologie del benessere o della sicurezza, mitologie della libertà di espressione, mitologie del Credito o del Debito illimitato, la mitologia degli immigrati che «stanno avvelenando il sangue del paese», la mitologia della Grande Sostituzione e quella dello Stile di Vita Americano, la mitologia della Famiglia Cristiana Eterosessuale e quella dell'Eredità Ariana...
 
2. Che cos'è una massa, cioè, il prodotto e, allo stesso tempo, il soggetto agente della macchina mitologica? Nel 1936, Walter Benjamin descriveva le masse come la piccola borghesia, la cui essenza è puramente psicologica... «la massa, concepita come un'entità impenetrabile e compatta, la massa, di cui Le Bon e altri hanno fatto l'oggetto della loro "psicologia di massa", è quella della piccola borghesia. La piccola borghesia non è una classe; infatti, in realtà, si tratta solo di una massa. E quanto maggiore è la pressione che su di essa esercitano le due classi antagoniste [in mezzo a cui essa si trova] – la borghesia e il proletariato – tanto più essa diventa compatta. In tale massa, l'elemento emotivo descritto nella psicologia delle folle costituisce un fattore determinante» [*4]. Questa non-classe, questa massa compatta, o massa in quanto tale, questo "sociologico scherzo della natura", è costituita dalla moltitudine di consumatori che sono stati radunati dal mercato capitalistico, la cui aggregazione casuale, segnata dagli antagonismi reciproci, diventa per i soggetti stessi semplicemente perturbante: «In questa masse, infatti, l'elemento emozionale descritto nella psicologia delle masse è un fattore determinante - sia che esse diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, o all'odio per gli ebrei, o all'istinto di autoconservazione» [*5]. Ma questa disturbante vicinanza tra individui estranei l'un l'altro può venire da loro razionalizzata e vista come un «"destino" nel quale la "razza" si trova riunita» (Benjamin), o, potremmo persino dire, come identità, o come identità del "Popolo".  Le forze disgregatrici interne, vengono perciò rivolte contro lo straniero, il quale viene anche percepito come se fosse «il nemico nascosto in mezzo a noi». A questo punto, tornando al modello di Jesi, potremmo dire che la macchina mitologica funziona come uno strumento in grado di produrre e dirigere queste forze. La loro origine attiva risiede nella difficile, o impossibile, integrazione dell'individuo nella collettività, vale a dire, in quel sentimento di reciproca aggressività esistente tra consumatori, la quale non può e non deve essere placata, ma va piuttosto sfruttata e indirizzata verso un obiettivo che la macchina è sempre in grado di produrre. A dirigersi contro questo nemico, è una massa, una semplice moltitudine, la quale si definisce comunque popolo, presumendo così di avere una sola volontà. Tuttavia – e ancora una volta a rischio di essere ripetitivi e scontati – bisogna essere chiari: la massa in quanto tale non è un fenomeno naturale, ma è un prodotto storicamente caratterizzato. È la massa degli individui consumatori, isolati, egoisti, in competizione tra loro, ma uniti nello spazio del mercato capitalistico. La massa che razionalizza una simile condizione e che riconosce sé stessa in quanto "il popolo" è di conseguenza il risultato di un'ulteriore manipolazione. Quest'opera di fabbricazione viene portata avanti, e controllata, per mezzo di proiezioni mitologiche (e attraverso una prassi coerente fatta di intimidazione e di persuasione) dall'apparato statale: "il popolo", in realtà, non è altro che il soggetto della sovranità statale. Del resto, una perfetta trasformazione della massa in un popolo non potrà mai essere ottenuta, e ciò perché il mercato ha sempre bisogno di clienti, e il carattere antagonistico e competitivo di tutti questi clienti contraddice il carattere unitario de "il popolo". Il conflitto interno alla moltitudine (ovvero la competizione reciproca dei singoli soggetti messi insieme grazie al mercato capitalista) corrisponde così alla tensione continuamente irrisolta tra "massa" e "popolo". In altre parole, si tratta della tendenza contraddittoria in una moltitudine di individui che considerano oppressivo e illiberale proprio l'apparato stesso che dovrebbe costituirli in quanto "popolo", vale a dire, come quell'unità organizzata che essi affermano di essere (anche quando protestano).
 
3. La massa – o la folla – è un essere diviso, ed è - come è stato notato molte volte -  anche un essere effimero («un raggio di sole lo aggrega; un acquazzone la disperde», scriveva Gabriel Tarde, ed Elias Canetti gli farà eco: «la pioggia è la massa nell’istante della scarica, e della massa simboleggia pure il dissolvimento») [*6]: ma è scissa, perché la sua natura effimera dipende proprio dalla sua pretesa di essere duratura. L'economia di mercato capitalistica, con la sua sovrastruttura statale, è l'apriori storico della sua peculiare, instabile o "asociale socievolezza". Pertanto, anche in questo dobbiamo riconoscere la classica contrapposizione, evidenziata da Hobbes, tra il popolo e la moltitudine («la moltitudine contro il popolo»). Come si legge nel De Cive (XII, 8): «Il popolo è qualcosa che è uno, che ha una sola volontà, e al quale si può attribuire un'unica azione; niente di tutto questo può dirsi propriamente di una moltitudine. Il popolo governa in tutti i regimi. Perché anche nelle monarchie governa il popolo, poiché il popolo vuole per volontà di un solo uomo; ma la moltitudine sono i cittadini, cioè i sudditi. In una democrazia e in un'aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la corte è il popolo. E in una monarchia, i sudditi sono la moltitudine, e (per quanto paradossale possa sembrare) il re è il popolo. Il volgo e coloro che poco riflettono su queste verità parlano sempre di un gran numero di uomini come se fossero il popolo, cioè la città; Dicono che la città si è ribellata contro il re (il che è impossibile), e che il popolo vuole o non vuole ciò che i sudditi mormoranti e scontenti vorrebbero o non vorrebbero, con il pretesto che il popolo incita i cittadini contro la città, cioè la folla contro il popolo» [*7].  Abbiamo già citato la famosa formula di Kant. Ma ora dobbiamo anche ricordare le parole scritte da Carl Schmitt, proprio a proposito della teoria di Hobbes e del passaggio dalla moltitudine (cioè lo stato di natura o la guerra di tutti contro tutti) al popolo (cioè lo stato civile): «Gli uomini che si uniscono in angosciosa inimicizia non possono vincere l'inimicizia, la quale è la premessa della loro unione» [*8]. Inoltre, non possiamo dimenticare che l'opposizione hobbesiana è stata descritta molte volte anche nel gergo dei sociologi politici. Con riferimento alla democrazia moderna e alla psicologia di massa di Le Bon, questo è stato brillantemente espresso da Theodor Geiger: «La democrazia non è affatto il governo dei molti (oclocrazia), bensì il governo dei tutti [...]. Quando Le Bon parla contemporaneamente del "potere della democrazia" e del "potere della folla", non fa altro che confondere demos e plethos (ochlos), democrazia e popolo. Nella sua struttura intellettuale, la democrazia appare essere particolarmente instabile; un'oligarchia non può svilupparsi interamente sotto forme democratiche [...], né un'oclocrazia può emergere da essa senza intaccare le forme democratiche. Nella democrazia reale, che è estremamente rara, non ci sono ochlos. Questi appaiono solo quando la democrazia, a causa del problema del leader, inizia a fallire. In una democrazia, il tutto è portatore di una politica pianificata, organizzata e legale. La politica della strada è una politica del risentimento, i cui soggetti sono i polloi, una politica la cui caratteristica essenziale è proprio il rifiuto della politica legale e costituzionale. […] E la sensazione che ogni legame debba diventare schiavitù, a un certo punto porta alla negazione del vincolo cosciente, del sistema legale in generale. Tutte le masse sono anarchiche. Nello spirito di Tönnies, potremmo dire: è il ritorno alla volontà di coloro che disperano dell'ordine arbitrario; e l'ovvio paradosso di questa volontà è la tragedia sociologica delle masse» [*9]. Se, come è stato osservato, la trasformazione completa della massa in popolo è irraggiungibile, espressioni come "paradosso" o "tragedia sociologica" descrivono, secondo lo stesso schema logico, una situazione di stallo irrisolvibile. In realtà, ci troviamo di fronte a due facce della stessa medaglia: la voce del popolo non sarà mai un mormorio sedizioso, proprio perché la massa non formerà mai un'unità, perché una moltitudine di individui riuniti non avrà mai, in ultima analisi, una sola voce. Pertanto, il "popolo", come concetto efficiente all'interno della logica dello Stato, esiste paradossalmente in quanto la moltitudine non sarà mai un popolo. È quindi perfettamente logico e necessario che, dal punto di vista del capitalismo, una delle risposte a questa situazione sia l'anarco-capitalismo individualista. Il fatto che questa ideologia reagisca alla realizzazione, da parte delle masse, del loro tragico paradosso è dimostrato da quella che è la sua prima affermazione lamentosa: «Lo Stato non è "noi"» [*10]. Quando l'affermazione fondamentale dell'anarchismo («lo Stato è quell'organizzazione nella società che cerca di mantenere il monopolio dell'uso della forza e della violenza in una determinata area territoriale» [*11]) viene associata alla precisazione secondo cui «lo Stato vive necessariamente della confisca forzata del capitale privato, ed [...] è profondamente ed essenzialmente anticapitalista» [*12], appare evidente che né lo Stato né l'anarchia, ma il Capitale, è la vera fonte di questo mormorio che ora cerca di trasformare la propria debolezza in un punto di forza, la sua problematica dispersione in voci individuali discordanti, nella soluzione del suo problema. Naturalmente, questo trucco magico può avere solo un certo successo sul palcoscenico statale. D'altra parte, di fronte all'impossibilità di costituire soggetti reciprocamente antagonisti in un popolo, non si può che rispondere – come fece Schmitt – offrendo il mito dell'identità tra popolo e nemico: si potrebbe credere che questa risposta sia data in buona fede, dato che proviene da chi non può non credere nel popolo; tuttavia, essa è la risposta della controrivoluzione preventiva, vale a dire di coloro che, intimiditi o meno, confidano nella forza dell'apparato statale e devono salvaguardarlo a tutti i costi i due poli, la massa e il popolo; i quali non sono in realtà altro che i due poli funzionali (nella loro tensione più o meno latente) della macchina statale: è infatti che la capacità di governare all'interno del suo campo di tensione, a volte molto turbolento, ciò che dà senso al nome stesso di governo, o alla cosiddetta "arte di governare". I due estremi, storicamente caratterizzati e in collaborazione all'interno di questo sistema in costante oscillazione, sono: la prevalenza del demos, della democrazia organizzata e giuridica nel senso di Geiger; il prevalere della moltitudine, la follia disgregatrice delle masse, la quale tuttavia deve necessariamente assumere la forma dello Stato, questa volta totalitario. Quest'ultimo punto è una prova innegabile di qualcosa che era già evidente a Ortega y Gasset: «È piuttosto sconcertante sentire Mussolini proclamare, con esemplare petulanza, come se fosse una prodigiosa scoperta appena fatta in Italia, la formula: "Tutto per mano dello Stato; nulla al di fuori dello Stato; nulla contro lo Stato". Questo dovrebbe bastare a vedere nel fascismo un tipico movimento di uomini-massa. Mussolini ha trovato uno Stato mirabilmente costruito, non da lui, ma proprio dal quelle idee e da quelle forze contro cui sta combattendo: dalla democrazia liberale. Lui si limita solo a usarlo in maniera spregiudicata […] Attraverso e per mezzo dello Stato, una macchina anonima, le masse agiscono per sé stesse» [*13]. Una simile azione - veramente tipica delle masse - non nega in alcun modo la loro "tragedia", ma la conferma e la porta fino all'estremo. Così ora, ormai mitologicamente identificate con il popolo o con lo Stato, le masse, credendo in questo mito, non possono più fare altro che - in preda alla follia della guerra, in un impulso che è insieme distruttivo e autodistruttivo - rivoltarsi contro sé stesse.
 
4. Ora, si dirà che questo rapido schizzo mostra, nel migliore dei casi, solo quelli che sono alcuni aspetti del vecchio fenomeno novecentesco, ma che la nuova destra è qualcosa di ben diverso, così come è vero che, nei secoli, il capitalismo non rimane lo stesso. Diamo allora un'occhiata alle circostanze attuali. Più volte, è stato sottolineato come il liberalismo democratico si sgretoli, e che al suo posto stanno emergendo due nuove forme: da un lato, la democrazia illiberale, ossia la democrazia identitaria senza diritti (ad esempio, l'Ungheria di Orbán); dall'altro, il liberalismo globale antidemocratico (neoliberismo radicale europeo o americano). Come è stato osservato anche di recente e giustamente, a questa situazione non corrisponde una vera e propria dicotomia tra i due sistemi, quanto piuttosto un "equilibrio bipolare" [*14]. Da parte nostra, si può dedurre che questo equilibrio, pericolosamente teso fino al limite estremo del conflitto, è in realtà possibile solo all'interno del quadro costruito dalla stessa democrazia liberale democrazia liberale (uno sfondo che solo una situazione veramente dicotomica eliminerebbe dalla scena).Tuttavia, l'equilibrio bipolare viene mantenuto, ed esiste, anche all'interno dei due sistemi, i quali poi sperimentano anche delle influenze reciproche, confermando in un modo o nell'altro il vecchio paradosso delle masse: la democrazia senza diritti deve rafforzare le sue difese (autoritarie e poliziesche) contro le pressioni di una massa democratica latente; la democrazia illiberale, d'altra parte, non appare pacificata al suo interno, né lo sono le ultime vestigia delle democrazie liberali (basti pensare all'attuale minaccia neonazista in Germania). Walter Benjamin - marxista eterodosso - nel 1936 citava il vecchio e reazionario Le Bon. Seguendo la stessa logica, forse noi potremmo ancora ricordare Ortega y Gasset e il suo "señorito satisfecho"[giovane soddisfatto] [*15]. L'insoddisfazione è un lusso che il gentiluomo soddisfatto di sé può permettersi. Essa non è altro che il segno negativo nella scala della soddisfazione, che può anche arrivare (e non c'è contraddizione in questo) all'estremo della povertà vera e propria. La massa cronicamente insoddisfatta, che mormora contro lo Stato, è sempre e solo la massa-popolo, paradossalmente unita nel suo reciproco dissenso, e diretta, più o meno violentemente ed esplicitamente, contro i più deboli, contro gli ultimi della terra. Questo accade sia quando rivendica democraticamente i "suoi" diritti civili, o addirittura i diritti dell'individuo capitalista di fronte allo strapotere dello Stato, sia quando, al polo opposto, vota per partiti di estrema destra o scatena la propria violenza unendosi a dei gruppi fascisti. La massa piccolo-borghese dei clienti soddisfatti-insoddisfatti, alimentata dalla "cultura di destra", non sperimenterà mai una situazione di vera e propria contraddizione. Allo stesso tempo — e questo è il suo aspetto paradossale e persino tragico — deve a tutti i costi impedire che la contraddizione reale maturi. Per la folla di clienti insoddisfatti e insicuri che protestano o borbottano contro lo stato, le catene non potrebbero mai essere radicali. E le catene non saranno mai radicali finché la macchina alluderà a idee senza parole propagando mitologie contraddittorie, ma che proprio per questo sono in definitiva coerenti (Patria, Suolo, Tradizione, Identità... ma anche: Democrazia, Libertà, Diritti, Progresso...).
 
5. Oggi, i concetti di classe, di classe rivoluzionaria, di lotta di classe, che Benjamin opponeva alla moltitudine fascista, godono di ben poco credito. Ma l'errore sta nello sguardo, si potrebbe replicare che le “catene radicali” non possono e non devono apparire nella prospettiva dominante delle masse o della «piccola borghesia planetaria in cui si sono dissolte tutte le vecchie classi sociali» [*16]. Dall'altra parte, bisogna anche chiederci se il nostro quadro interpretativo sia utile, o del tutto inutile a comprendere il tema della "Nuova Destra"; o, piuttosto, della novità in quanto tale. Questa incapacità potrebbe, infatti, corrispondere a un condizionamento della macchina mitologica. Il rischio, da cui Jesi stesso ci metteva in guardia, è quello di prendere troppo sul serio il modello, e pertanto di esserne paradossalmente affascinati. Proviamo a tornare ancora una volta, da questo punto di vista, alle circostanze attuali e riferiamoci a un esempio tratto da notizie assai recenti. In un articolo pubblicato qualche settimana fa (sul numero di aprile di Le Monde diplomatique), il saggista franco-israeliano Marius Schattner ha riflettuto sulle parole che sono state usate da Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre, e soprattutto sulla questione dii quale sia la loro reale ed effettiva novità. Come è noto, «in una conferenza stampa tenuta a Tel Aviv il 28 ottobre 2023, e in una lettera del 3 novembre indirizzata ai soldati dell'IDF, nella quale elogiava la loro "lotta contro gli assassini di Hamas"», il primo ministro israeliano ha citato il passaggio del Deuteronomio (25.17): «Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalek». L'utilizzo di questa retorica corrisponde, ovviamente, al tentativo di voler affermare la novità, o meglio al carattere inedito del conflitto in corso, conferendogli una "patina religiosa". Ma è proprio contro questa pretesa, che Schattner ripristina i diritti del principio di realtà. Infatti - come egli stesso sottolinea - «questo linguaggio [...] precede la reazione alle atrocità di Hamas del 7 ottobre». Le autorità israeliane hanno usato questa retorica per diversi anni, «anche se meno apertamente»: durante l'operazione Piombo Fuso nel 2008-2009, il rabbino capo dell'IDF Avichai Rontzki ha esortato i soldati dell'"esercito di Dio" a non mostrare pietà per il nemico, invocando le guerre di conquista in Canaan, la Terra Promessa. E nel 2014, durante l'operazione Protective Edge a Gaza, il generale Ofer Winter [...] ha scritto in un dispaccio ufficiale: «La storia ci ha scelto per essere in prima linea nella lotta contro il nemico terrorista di Gaza, che abusa, bestemmia e maledice le forze [di difesa] del Dio di Israele». All'epoca, simili dichiarazioni, da parte di un alto ufficiale militare, causarono uno scandalo e ne interruppero la sua carriera nell'esercito [*17]. Sembra, allora, che la "novità" consista in questo: per dispiegarsi nel modo più flagrante, la retorica politico-religiosa deve trovare il suo momento opportuno. Questo momento è stato offerto dalla violenza senza precedenti dell'attentato del 7 ottobre, il quale ha anch'esso un carattere innegabilmente mitologico, opposto e allo stesso tempo corrispondente. Nella stessa pagina del giornale, Anne Waeles cita lo storico dell'ebraismo Amnon Raz-Krakotzkin, autore di "Exil et souveraineté", ricordando anche l'avvertimento di Gershom Scholem circa i pericoli e le ambiguità dell'ebraico moderno nel suo ruolo di lingua nazionale; Raz-Krakotzkin sottolinea come l'ideologia dei coloni di estrema destra (rappresentati oggi dall'ala religiosa ultranazionalista del governo israeliano) sia coerente con un atteggiamento politico a lungo termine, vale a dire con lo sfruttamento di quell'ebraismo che il sionismo ha portato avanti in funzione del suo messianismo secolare. La posizione dei coloni, scrive, «non è diversa da quella dei sionisti laici; l'hanno semplicemente portata alla sua logica conclusione» [*18].
 
6. A questo punto, per trarre una conclusione, riprendiamo il modello della "macchina mitologica" e proviamo a spostare lo sguardo dalla cronaca di oggi a quella di ieri. In un articolo del 1968, intitolato "Gli arabi e Israele. Sionismo politico e spirituale", Furio Jesi ha espresso la sua riluttanza circa la dipendenza del sionismo spirituale dallo Stato, visto come mezzo o percorso verso l'obiettivo spirituale di Sion. Esprimeva dubbi sul fatto che un tale cammino verso la meta spirituale della perfezione potesse fermarsi proprio nello Stato di Israele, il quale, come tutti gli Stati, era allora, e sarà sempre, fatalmente coinvolto in un complesso gioco di interessi politici. Oltre a ciò, Jesi criticava aspramente anche il sionismo politico che, estraneo alla religione, ne prendeva, e faceva propri, elementi di propaganda. Ha espresso la sua «… ripugnanza verso qualsiasi strumentalizzazione politica di miti o credenze religiose, [...] ripugnanza nei confronti del comportamento di uomini come David Ben-Gurion, studioso di testi biblici, ma notoriamente laicista, disposto – quando la ragione politica lo richiede – a indossare il mantello rituale e a pregare in pubblico» [*19]. Se la nostra preoccupazione per la retorica di Netanyahu, oggi assomiglia al sentimento di repulsione che Jesi ha provato quasi sessant'anni fa, ciò non è perché quella retorica sia vecchia, e non nuova. Se succede, è perché ieri come oggi la macchina funziona riferendo gli eventi storici attuali a un passato mitico, cioè trasformando il nemico di oggi in un "eterno nemico". Se questo accade, è perché ieri come oggi la macchina lavora riconducendo l'attualità storica a un passato mitico, vale a dire trasformando il nemico di oggi nel “nemico eterno”. In tal modo, essa proietta questo Ur-passato sull'attualità del presente al fine di fabbricarlo. Così facendo, ancora una volta, la cultura di destra - «una vera e propria immobilità cadaverica che pretende di essere una perenne forza viva» - non ha mai smesso di rigenerarsi. In altre parole, la macchina opera manipolando il tempo storico: continua a far apparire la novità, mettendola in relazione con un fenomeno eterno. Pertanto, è invincibile o indistruttibile? Porre questa domanda significa, in un certo senso, anche attivare il meccanismo, e quindi cedere efficacemente al suo potere di fascinazione. Invece, come ha sottolineato Jesi, «quel che è necessario distruggere, non sono  le macchine, le quali si riformerebbero come fanno le teste dell'Idra, quanto piuttosto la situazione che rende le macchine reali e produttive. La possibilità di questa distruzione è esclusivamente politica...» [*20]. La risposta alla domanda in che cosa consista la novità della destra, e a quella sui problemi e i pericoli  della nuova destra, consiste nel porre la questione della distruzione. Ogni e qualsiasi distruzione, che però rimane interna al funzionamento della macchina, è di fatto condannata al fallimento, all'inanità, al risentimento o al sacrificio di sé e degli altri (febbre della guerra, odio per gli “stranieri” e così via). È tuttavia possibile non rimanere sopresi dalla presenza di residui della cultura di destra anche laddove meno ce lo aspettiamo. È possibile analizzare il funzionamento della macchina e, di conseguenza, possiamo anche vedere quali sono le condizioni di questo funzionamento. Infine, e di conseguenza, è anche possibile non essere solidali con tali condizioni e con il ruolo che esse ci assegnano. Solo questa possibilità può coincidere con un tipo nuovo di solidarietà, che potrà essere veramente e positivamente distruttiva.

- Andrea Cavalletti - pubblicato come «The New Right Machinery» su Crisis & Critique, vol. 11, °1, 16/7/2024.

NOTE:

1 -  Hannah Arendt, Lying in Politics. Reflections on the Pendragon Papers, in Crises of the Republic. Lying in Politics, Civil Disobedience, On Violence, Thoughts on Politics and  Revolution (New York: Harcourt Brace & Co., 1972), pp. 7–12.
  2  - Furio Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista (Andrea Cavalletti ed) (Nottetempo, 2011), p. 285. (Per quanto riguarda il termine Rivoluzione, si vedano le considerazioni di Jesi su Rosa Luxemburg e il suo «pessimismo concreto sulle utopie di una rivoluzione riuscita una volta per tutte», in Furio Jesi, ”Il tempo giusto della rivoluzione: Rosa Luxemburg e il problema della democrazia della democrazia operaia”, in "Spartakus. La simbologia della rivolta", (a cura di Andrea Cavalletti. Bollati Boringhieri).
pp. 173–182).
  3 - Ivi.
4 - Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'era della sua riproducibilità tecnologica. Einaudi
5 - Ivi
6 - Cfr. Gabriel Tarde, «Le Public et la foule» (1898), in L'Opinion et la foule, Paris, PUF, 1989 [1901], p. 39; Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi
7 - Thomas Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino (De cive). Utet
8 - Carl Schmitt, Sul Leviatano [1938], Il Mulino. Purtroppo, sappiamo da quale punto di vista politico Schmitt fece la sua analisi critica del Leviatano nel 1938.
9 - Theodor Geiger, Die Masse und ihre Aktion: ein Beitrag zur Soziologie der Revolutionen, Stuttgart, Ferdinand Enke, 1926, pp. 44, 101.
10 -  Murray N. Rothbard, Anatomy of the State (Auburn: Ludwig von Mises Institute, [1974] 2009), p. 11
11 - Ivi.
12 - Ivi, p. 42.
13 - José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE.
14 - Massimo De Carolis, Convenzioni e governo del mondo, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 180.
15 - José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE.
16 - Giorgio Agamben, La comunità che viene. Bollati Boringhieri
17 - Marius Schattner, "I pretesti biblici dell'estrema destra per l'espulsione di massa", su Le Monde diplomatique, aprile 2024, p. 10.
18 - Anne Waeles, "La cooptazione dell'ebraismo da parte del sionismo", in Le Monde diplomatique, aprile 2024, p. 10. Vedi anche Amnon Raz-Krakotzkin, Exil et souveraineté. Judaïsme, sionisme et pensée binationale, pref. Carlo Ginzburg, trad. Catherine Neuve-Église, Paris: La Fabrique, 2007.
19 - Furio Jesi, "Gli Arabi e Israele. Sionismo politico e spirituale. Gli opposti nazionalismi", in Resistenza. Giustizia e libertà, marzo 1968, p. 3. (settembre 1968
20 -  Furio Jesi, "Conoscibilità del Festival "(1976), in "Il tempo della festa", a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo.

lunedì 17 febbraio 2025

I.A.: l’Ultima Bolla ?!!???

La rivoluzione dell'I.A divora i suoi figli
- La società cinese Deepseek sta abbassando il prezzo dei servizi basati sull'intelligenza artificiale e sta mettendo in discussione il modello di business dei suoi concorrenti statunitensi. -
di Tomasz Konicz [***]

L'onda d'urto, trasmessa dal modello di Intelligenza Artificiale cinese DeepSeek, ha scosso l'industria high-tech americana, e la cosa ha prodotto anche dei momenti decisamente comici. OpenAI, sviluppatore di ChatGPT e supportato da Microsoft, ha accusato di furto di dati e di spionaggio la startup cinese. Il modello di business del pioniere americano dell'Intelligenza Artificiale, che si basa sul «furto di dati ai danni dell'intera Internet»,  ora «si lamenta del fatto che DeepSeek venga addestrato a partire dai risultati ottenuti da OpenAI», come ha affermato il critico tecnologico Ed Zitron, citato da PC Gamer [*1]. Il team, guidato dal guru dell'intelligenza artificiale Sam Altman, ora riceverà una dose della sua stessa medicina, ha tuonato Zitron. Insomma, OpenAI ha progettato una «macchina per il plagio», solo per poi lamentarsi del fatto che ora i suoi plagi vengono utilizzati per generare nuove macchine per il plagio. L'industria definisce questo processo col nome di "distillazione della conoscenza", dove, grazie alla quale, è possibile risparmiare molto denaro e risorse utilizzando l'output di un modello linguistico assai ampio, al fine di poter addestrare specificamente un modello assai più piccolo, ed economico. Secondo quanto riferito, il concorrente cinese a basso costo di Open AI avrebbe portato a termine il suo modello spendendo poco meno di sei milioni di dollari USA. Ironia della sorte, il pioniere statunitense dell'Intelligenza Artificiale, che ama propagandare in modo aggressivo il potenziale di razionalizzazione macroeconomica dei suoi sistemi, sembra ora cadere egli stesso vittima della razionalizzazione. Finora, il processo di apprendimento automatico ha divorato miliardi di dollari di investimenti, fatti nella speranza che le grandi aziende informatiche statunitensi ottenessero una sorta di monopolio sui sistemi di Intelligenza Artificiale - proprietari e chiusi - che avrebbero dovuto essere venduti in tutto il mondo. Ma ecco che non appena le innovazioni del modello linguistico cinese - in gran parte open source - verranno generalizzate, i sogni di monopolio andranno in frantumi. In tal modo, Deepseek ha innescato uno shock dirompente, nel quale il software proprietario è stato sconfitto dal principio open source, che consente una collaborazione e un'innovazione globale assai più rapide (solo il ritardatario Meta ha perseguito un approccio open source - con il suo modello linguistico di grandi dimensioni Llama - proprio perché Facebook & Co. non dipendono dai ricavi del business dell'intelligenza artificiale) [*2]. Ragion per cui, ora i profitti provenienti dal software, sognati dai giganti dell'industria dell'Intelligenza Artificiale, in gran parte non si materializzerebbero, perché ben presto ogni azienda di medie dimensioni sarà in grado di deliziare i propri clienti con degli strumenti di intelligenza artificiale altrettanto fastidiosi, come ha dimostrato Microsoft, investendo miliardi nel suo già odiato Copilot - il cosiddetto "Clippy" [*3] dell'era dell'intelligenza artificiale [*4]. Secondo il Financial Times, la "grande innovazione" di Deepseek consiste nel ridurre al minimo l'impiego di manodopera umana nel corso di quella che è l’"etichettatura" corretta dei dati.
Un'analogia, tratta dal mercato dei sistemi operativi, può servire a illustrare la frattura che si sta verificando: l'industria dell'intelligenza artificiale voleva perseguire un modello simile a quello adottato da Microsoft, con il suo sistema operativo Windows già fin dagli anni '90, nel quale il prodotto che viene monopolizzato è il software stesso. Con DeepSeek, invece il software diventa gratuito e/o più economico, nel mentre che i servizi e le personalizzazioni ora devono essere monetizzati; in modo simile, ad esempio,  a quanto fa Red Hat con il suo Enterprise Linux. Si tratta di un principio commerciale realistico, ma va detto che il potenziale volume di mercato dell'Intelligenza Artificiale è assai più piccolo, e questo già anche prima che essa venga ampiamente implementata. Dopo lo shock di DeepSeek, anche i produttori di hardware, le cui capacità di calcolo hanno reso possibile il boom dell'Intelligenza Artificiale, hanno dovuto accettare delle gravi perdite sui mercati azionari . Il produttore di schede grafiche Nvidia, non solo ha trovato una vena d'oro grazie alle sue schede di elaborazione ottimizzate per i processi di Intelligenza Artificiale, ma l'ha anche ampiamente monopolizzata, aumentando così, in due anni, il prezzo delle sue azioni di quasi dieci volte: ma dopo DeepSeek è crollato del 20%. L'intero boom dell'Intelligenza Artificiale, il quale di fatto mantiene in una fase di espansione speculativa solo il mercato finanziario statunitense (l'UE  si è già ampiamente disaccoppiata), rischia ora di esaurirsi. Cosa accadrebbe se le speranze di un nuovo regime di accumulazione, di nuovi mercati e di nuovi settori generatori di posti di lavoro all'improvviso crollassero, come è avvenuto ad esempio  durante la deflazione della bolla delle dot-com all'inizio del millennio? Così, in quello che è uno dei pilastri più importanti dell'economia statunitense - la quale può mantenere la sua posizione eccezionale solo grazie al dollaro statunitense - ora si sono aperte delle notevoli crepe, e questo a seguito di un massacro dei prezzi che a febbraio è già equivalso a circa mille miliardi di dollari [*5]. DeepSeek non solo sta indebolendo il boom del mercato finanziario statunitense, ma questo strumento di intelligenza artificiale rappresenta anche una sfida geopolitico-militare al predominio di Washington, il quale ora può essere mantenuto solo grazie alla potenza della macchina militare statunitense. Ecco perché la Casa Bianca – a parte le banalità di Trump sull’effetto di promozione dell’innovazione della concorrenza – si è immediatamente mossa per ridurre al minimo la portata dell’app, e vietarne semplicemente l’uso nelle agenzie governative. Inoltre, la tempistica del rilascio di DeepSeek sembra avere umiliato l'amministrazione Trump e i suoi tecno-oligarchi, che solo pochi giorni prima avevano annunciato Stargate, un programma di investimenti in Intelligenza Artificiale da 500 miliardi di dollari, che ora sembra essere invece diventato semplicemente ridicolo [*6]. Il segnale inviato dal capitalismo di Stato cinese è chiaro: l'efficienza cinese batte l'approccio americano, che si basa sulla forza bruta americano. Inoltre, la Cina ha dimostrato l'inefficacia delle sanzioni americane sui prodotti ad alta tecnologia; sanzioni che  avevano lo scopo di impedire lo sviluppo di un'Intelligenza Artificiale cinese che fosse competitiva sullo sfondo della lotta per l'egemonia tra Washington e Pechino, e questo proprio a causa del potenziale spaventoso che hanno le applicazioni militari dei sistemi di Intelligenza Artificiale. Per contro, DeepSeek sostiene di aver fatto di necessità virtù, con tutta una serie di innovazioni nelle fasi di addestramento dell'IA, le quali hanno portato alla possibilità di limitare l'uso dei chip Nvidia solo per 2048 vecchi modelli H800 (DeepSeek non ha confermato la presunta distillazione di conoscenze che ha scandalizzato OpenAI) [*7]. Tuttavia, sembra che ora siano proprio questi vantaggi in termini di costi, per la concorrenza cinese, che vengano messi in discussione da uno studio del think tank informatico SemiAnalysis [*8]. Si dice che il fondo speculativo cinese High-Flyer, che ha finanziato DeepSeek, disponga di una computer farm con circa 60.000 schede Nvidia, e che i costi per il personale altamente qualificato, e lo sviluppo di metodi di formazione innovativi, non siano stati inclusi nel calcolo dei costi sostenuti dai produttori di DeepSeek, ragion per cui le spese reali del fondo speculativo High-Flyer, nella "Repubblica Popolare", ammonterebbero a un miliardo di dollari. Sebbene gran parte di questa contabilità occidentale dei costi corrisponda alla realtà, la sua logica implicita è errata. DeepSeek è open source, i suoi costi di sviluppo sono irrilevanti ai fini di un utilizzo futuro, poiché le innovazioni di processo che hanno portato al suo sviluppo non rimangono occulte, diventano di dominio pubblico e inevitabilmente abbassano il prezzo dei servizi basati sull'intelligenza artificiale che l'industria informatica americana avrebbero voluto monopolizzare. La torta dell'Intelligenza Artificiale si sta squagliando. E tutte queste innovazioni sono reali; non sono solamente delle copie a basso costo, come ha riconosciuto il MIT Technology Review [*9]. Ora, la concorrenza statunitense sta lavorando duramente per riuscire a copiare queste innovazioni che sono state favorite dalle sanzioni di Washington. I nuovi metodi di compressione dei dati, come Multi-head Latent Attention, hanno consentito di ridurre il consumo di memoria, e di minimizzare quei colli di bottiglia derivanti da una larghezza di banda di memoria insufficiente [*10].
Un altro passo fondamentale nell'innovazione compiuta da DeepSeek, riguarda l'automazione estesa della fase di formazione che ora si svolge in più fasi. Secondo il Financial Times (FT) [*11] la “grande innovazione” di DeepSeek riguarda il ridurre al minimo l’impiego di manodopera umana nella“etichettatura” corretta dei dati. Questa tecnica, utilizzata nella fase finale della formazione, nota nel settore col nome di «apprendimento rinforzato dal feedback umano» (RLHF), è costosa e vuole molto tempo, dal momento che  richiede un «piccolo esercito di etichettatori di dati» [*12]. Lavoratori giornalieri dell'era dell'intelligenza artificiale, i quali per lo più ricevono una paga oraria inferiore a due dollari USA, e che vengono reclutati principalmente in regioni periferiche come l'America Latina o l'Africa, i quali trascorrono la loro giornata lavorativa etichettando ripetutamente dei dati digitali per l'intelligenza artificiale che somigliano un po' a quei "captcha"  da mettere sui semafori, sulle biciclette o sui cani che un tempo venivano richiesti al momento di scaricare un file. E questi lavori miserabili e ripetitivi - che oggi occupano centinaia di migliaia di persone, attraverso il cui sfruttamento, nell'ambito della RLHF, l'industria high-tech del XXI secolo sta in un certo senso facendo rivivere il XVIII secolo - diventeranno ben presto obsoleti. Secondo il Financial Times, DeepSeek è stato in grado di automatizzare "l’apprendimento rinforzato” grazie a dei meccanismi di ricompensa digitale che si attivano quando il sistema di Intelligenza Artificiale fornisce risposte corrette. Una volta che questo processo viene ripetuto abbastanza spesso, il modello linguistico inizia a «risolvere spontaneamente i problemi, senza supervisione umana», e facendolo su vasta scala, una volta  che è stato superato il punto di svolta. Secondo il quotidiano finanziario, che cita i resoconti dei ricercatori cinesi di Intelligenza Artificiale, si è verificato un «momento di illuminazione», a partire dal quale DeepSeek ha iniziato a valutare nuovamente le domande, adattando a esse il suo tempo di elaborazione. Per poter replicare tutto questo, non c’è più alcun bisogno di lavoratori AI, ma c'è piuttosto bisogno di «un modello molto forte e ben pre-addestrato», oltre a un’ottima infrastruttura in grado di portare avanti «il processo di apprendimento rinforzato, su larga scala». È in questo modo che l'Intelligenza Artificiale sta divorando anche i suoi figli più miserabili. In ogni caso, i salariati della periferia del sistema mondiale tardo-capitalista - che ora rischiano di perdere anche il loro lavoro precario - verranno ben presto seguiti nella loro obsolescenza anche da milioni di dipendenti dei centri. Per quanto l'I.A. riesca a trasformare radicalmente le società dei Centri, come già avvenuto con Internet e nel corso della prima fase della digitalizzazione, ciò comunque non porterà a un boom economico a lungo termine, nel senso che non ci sarà alcun nuovo regime di accumulazione che sia in grado di utilizzare masse di forza lavoro nel processo di produzione del capitale. Piuttosto sarà il contrario, e continuerà la de-sostanzializzazione del capitale e la migrazione del lavoro salariato dalla produzione di beni e dal settore dei servizi. Ecco perché i timori di un crollo della domanda di chip per l'Intelligenza Artificiale sono del tutto infondati; quanto meno Nvidia continuerà a godere di una domanda sana. Ovunque, oggi, ci siano «persone esperte che continuano a premere sempre gli stessi pulsanti, come in una gara», prima o poi a prevalere sarà la pressione della razionalizzazione mediata dal mercato [*13]. La riduzione dei prezzi delle unità di formazione per i grandi modelli linguistici, non faranno altro che accelerare l'adattamento di questa tecnologia nel processo di valorizzazione del capitale, il quale per decenni è riuscito a portare avanti la sua esistenza zombie solo grazie alla produzione di una domanda, sui mercati finanziari mondiali, generata dal credito e dal capitale fittizio. L'ultima eco, negli Stati Uniti, di questa bolla economica globale dell'era neoliberista in declino, è oggi la bolla dell'Intelligenza Artificiale.

- Tomasz Konicz [***]  - Pubblicato il 16 febbraio 2025 su Tomasz Konicz. Wertkritik, Krise, Antifa -

*** NOTA: Il lavoro giornalistico di Tomasz Konicz è finanziato in gran parte grazie a donazioni. Se vi piacciono i suoi testi, siete invitati a contribuire - sia tramite Patreon che con un bonifico bancario diretto, dopo una richiesta via e-mail:  https://www.patreon.com/user?u=57464083

NOTE:

1 https://www.pcgamer.com/gaming-industry/the-brass-balls-on-these-guys-openai-complains-that-deepseek-has-been-using-its-data-you-know-the-copyrighted-data-its-been-scraping-from-everywhere/#comment-jump

2 https://www.nytimes.com/2025/01/29/technology/meta-deepseek-ai-open-source.html?searchResultPosition=6

3 https://9to5mac.com/2017/04/26/clippy-microsoft-office-mac/

4 https://www.zdnet.com/home-and-office/work-life/the-microsoft-365-copilot-launch-was-a-total-disaster/

5 https://www.dqindia.com/news/deepseek-sparks-1-trillion-tech-stock-meltdown-8662575

6 https://apnews.com/article/trump-ai-openai-oracle-softbank-son-altman-ellison-be261f8a8ee07a0623d4170397348c41

7 https://www.dw.com/de/deepseek-ki-aktie-b%C3%B6rse-nvidia-v3/a-71434687

8 https://winfuture.de/news,148575.html

9 https://www.technologyreview.com/2025/01/24/1110526/china-deepseek-top-ai-despite-sanctions/

10 https://towardsai.net/p/artificial-intelligence/una-visiva-guida-dellattenzione-latente-multi-testa-di-deepseeks-mla-%EF%B8%8F

11 https://archive.ph/IeaPD#selection-2425.166-2453.178

12 https://www.cbsnews.com/news/labelers-training-ai-say-theyre-overworked-underpaid-and-exploited-60-minutes-transcript/

13 https://archive.ph/8itUg#selection-2523.37-2523.240

domenica 16 febbraio 2025

Due fratelli per due culture…

A metà degli anni Cinquanta Kurt Vonnegut accetta un incarico di redattore nell’ufficio pubblicitario della General Electric a Schenectady, dove suo fratello maggiore, Bernard, lavora come scienziato nel laboratorio di ricerca, la “Casa della magia”. Mentre il primo scrive brevi comunicati stampa ma ambisce a diventare romanziere, attingendo a piene mani spunti e temi dall’ambiente aziendale, il secondo si cimenta in soluzioni all’avanguardia di controllo del clima destinate a far fiorire i deserti, costruendo generatori a ioduro d’argento e ideando tecniche per “sparare” ghiaccio secco nelle nuvole. I suoi esperimenti attirano l’attenzione del governo: le condizioni meteorologiche si erano rivelate un fattore decisivo nella seconda guerra mondiale, e se i militari fossero stati in grado di controllarle avrebbero potuto programmare più missioni di bombardamento. Ma quando l’esercito prende in carico il “Project Cirrus”, Bernard inizia a nutrire dubbi sugli effetti nell’atmosfera e sulle applicazioni dannose delle sue invenzioni. Ginger Strand racconta l’intreccio delle vite dei due fratelli in un momento in cui le possibilità della scienza sembravano infinite. Restituisce così tutta la complessità dei loro dilemmi, le loro frustrazioni e disillusioni di fronte alle inquietanti questioni etiche del loro tempo, mostrando come i reali progetti di intervento dell’uomo per modificare il mondo naturale abbiano influenzato uno dei romanzieri più inventivi del Novecento.

(dal risvolto di copertina di: Ginger Strand, "I fratelli Vonnegut". Treccani, pagg. 408, € 27)

Due fratelli compresi tra due culture
- Ginger Strand ha scritto l’originale biografia di Kurt e Bernie Vonnegut, scrittore l’uno e scienziato l’altro. Un intreccio del grande Novecento -
di Goffredo Fofi

Posso vantarmi di essere stato tra i primi e più forti ammiratori avuti da Vonnegut in Italia, da bravo lettore adolescente dei romanzi di “Urania” e di “Galaxy”, e di aver trascinato, in anni ormai lontani, nella mia ammirazione amici che fecero molto perché egli venisse letto e rispettato anche in Italia – e forse prima in Italia che in altri paesi: Grazia Cherchi e Stefano Benni. E ricordo quanto mi disse Giovanni Jervis di ritorno da Berkeley che tanti studenti con cui aveva dialogato – siamo nei primi anni 60 del Novecento – citavano Ghiaccio-nove come un saggio di filosofia politica, un manuale utile alle prossime rivoluzioni… Fabio Deotto, il prefatore di quest’ottimo libro e presumibilmente il suggeritore della sua traduzione italiana, presta molta attenzione a Ghiaccio-nove più ancora che a Mattatoio n.5, che è il più celebre tra i molti romanzi che Vonnegut ha scritto – con ragione il più noto, perché il punto di partenza era il terribile bombardamento di Dresda a cui assistette e in cui patì il soldato americano Vonnegut prigioniero dei tedeschi – in una interrogazione semplice e complessa, primaria e fondamentale sul bene e sul male, e sul portato micidiale della scienza, ché le bombe sganciate dagli aerei alleati che rasero al suolo Dresda anticiparono di poco l’orrore di Hiroshima e Nagasaki. La preferenza che è possibile portare a Ghiaccio-nove non deriva solo dal suo assunto (a suo modo pre-ecologista), del prodotto chimico che trasforma tutte le acque del pianeta in ghiaccio, provocando né più ne meno che la fine dell’uomo e della natura, la fine della vita. Ma in Ghiaccio-nove c’è un altro tema fondamentale nella storia dei due giovani molto radicali e decisamente rivoluzionari, che optano per una divisione dei loro compiti, delle loro scelte: il primo diventerà un leader rivoluzionario, farà la rivoluzione, mentre il secondo, da profeta più religioso che politico, dovrà criticarne attivamente idee e azioni, creando in tal modo una dialettica che potrà dare alla rivoluzione sia una più alta idealità che una più lunga durata. Non è questo che sembra interessare per prima cosa né Deotto né Ginger Strand, l’autrice di questo vivace ed eccitante saggio biografico che punta l’attenzione sul rapporto tra Kurt e il fratello maggiore Bernard, sinora poco studiato. I due fratelli hanno lavorato entrambi alla General Electric, ma Kurt vi aveva un compito, diciamo così, da ufficio stampa, mentre Bernard era un vero e proprio scienziato, coinvolto in un’idea tanto grandiosa quanto micidiale: quella, che non sembrò affatto assurda, di agire chimicamente sulle nuvole controllando in tal modo le precipitazioni, scatenando piogge che avrebbero potuto combattere la siccità ma che avrebbero potuto anche provocare delle vere e proprie alluvioni.
Ovviamente la visione che Kurt ha delle cose è diversa da quella degli scienziati, ma si forma in un rapporto, affettivamente forte, con il fratello. E tutto questo non può che rinviare al grande dibattito di quegli anni che trovò la sua più chiara espressione in un celeberrimo saggio di C. P. Snow, del 1959, appunto su Le due culture, sulla distanza tra quella umanistica e quella scientifica. Il rapporto tra i due fratelli Vonnegut diventa così, per la Strand, esemplare del confronto tra le “due culture”, ed è questo a fare il pregio maggiore del suo libro. Senza dimenticare che i romanzi di Kurt, decisamente umanistici, non solo freddamente o astutamente fantascientifici come quelli di tanti suoi colleghi, insistono molto concretamente su una visione del futuro, del rapporto tra uomini e natura e tra uomini e cosmo, decisamente attiva e positiva. Si può immaginare un mondo migliore del nostro? Si può, e Kurt ne era convinto. I suoi libri sono anche formidabili storie di ammaestramento, di morale e di politica. Seguendo passo passo il confronto tra i due fratelli, Ginger Strand non ci regala soltanto notizie preziose su uno dei maggiori scrittori del Novecento, ma ci aiuta a capirne meglio le storture e a guardare con una certa angoscia a quello che la scienza come la politica non hanno saputo o voluto fare. Dell’importanza di Vonnegut nella storia della cultura del Novecento anche i rappresentanti della cultura più ufficiale e più accademica – meglio tardi che mai! – si sono dovuti via via convincere. E questo non diversamente da come in passato quella cultura aveva dovuto convincersi della assoluta grandezza di Mark Twain, forse l’unico scrittore americano a cui Vonnegut può essere comparato, fino al punto che tanti hanno potuto definire Vonnegut il Mark Twain del Novecento… E davvero non è poco. Ginger Strand segue il legame fraterno e dialettico tra Kurt e Bernard Vonnegut, e aiuta a convincerci ancora di più della grandezza dello scrittore. La differenza di Kurt Vonnegut da tanti scrittori e di Bernie Vonnegut da tanti scienziati sta, credo, nell’affermazione di una dialettica tra scienza ed etica, e per Kurt tra etica e letteratura. Mettendo a confronto Kurt e Bernie e le loro scelte e le loro idee a partire non dai loro diversi interessi ma dalle loro scelte “professionali”, dai loro diversi talenti e dalle loro diverse competenze, e sia dentro una realtà famigliare che dentro una realtà storica e sociale, Strand fornisce preziosa materia per le riflessioni dei lettori sul fronte delle “due culture”: la differenza tra le quali può apparirci oggi perfino più profonda che in passato.

Goffredo Fofi - Pubblicato su Domenica del 12/5/2024 -

sabato 15 febbraio 2025

La quercia di Coriolano e le ghiande ai Maiali…

Nella vita di Coriolano, proprio all'inizio, nella terza sezione, Plutarco racconta come l'allora giovane guerriero ricevette dal suo comandante una corona fatta di foglie di quercia; cosa che, per usanza, veniva concessa a chi salva la vita a un compagno d'armi, proteggendolo con lo scudo. Com'è tipico di Plutarco (cosa che, senza dubbio, costituisce uno degli elementi che nel corso dei secoli ha assicurato il valore del suo stile), egli dà inizio a una digressione, e lo fa sfruttando il tema della "quercia": un albero che rimanda agli Arcadi e all'Arcadia, e che, tra tutti gli alberi selvatici, è il più fertile; e tra tutti  gli alberi coltivati il più vigoroso. «Non bisogna dimenticare», aggiunge Plutarco, «che con le sue “ghiande”, oltre ad essere la fonte dell'idromele, la quercia offre nutrimento, e grazie al suo "vischio" serve ad aiutare nella caccia agli "uccelli commestibili"». Come spesso accade anche in Plutarco, molti dei riferimenti, da lui mobilitati nel corso del tour, servono a un apprezzamento, seppur parziale, del mondo greco. È, per esempio, il caso dell'evocazione delle ghiande delle querce: detto per inciso, Plutarco scrive che era stato un "oracolo", un tempo, a definire gli Arcadi come dei "mangiatori di ghiande". Un’occorrenza di questa espressione, la troviamo nell'Antologia Palatina, la quale riporta il seguente "Oracolo della Pizia", di autore ignoto: «Chiedi l'Arcadia? Chiedi molto, non te lo darò! / In Arcadia ci sono molti uomini che mangiano ghiande / e che ti ostacoleranno sulla strada» [da: Erodoto (1.66), il quale, nel trasmettere l'oracolo, sottolinea che esso venne dato dalla Pizia agli Spartani]. Così, nei versetti 20-21 della decima Bucolica, Virgilio salva uno dei suoi pastori, Menalca, per poi presentarlo come «bagnato dalla messe delle ghiande»; nella nota di un traduttore viene aggiunto che: «La raccolta del frutto della quercia, per sostenere i maiali e i buoi in inverno, viene effettuata nella stagione delle piogge e del freddo. Il pastore arriva bagnato proprio a causa di questo compito invernale. La cosa può essere interpretata anche in un altro modo.» E ancora, Catone, De Agricola, 54, e Columella, VII, 9, 8, riferiscono che «i rustici tenevano le ghiande in acqua per un loro utilizzo successivo» (p. 314-315, n. 18). Infine, nel canto XIII (versi 409-410) dell'Odissea, Omero fa incontrare Eumeo a Ulisse, e nel farlo descrive quale sia l'attività dei maiali: «bevono acqua torbida e mangiano molte ghiande saporite, adatte all'ingrasso».

fonte: Um túnel no fim da luz

venerdì 14 febbraio 2025

«Amore e Psiche, finalmente uniti, genereranno Voluttà»…

La favola di Amore e Psiche, tramandata dalle Metamorfosi di Apuleio, è forse la più affascinante e misteriosa di ogni tempo. Il figlio di Afrodite, Amore, si innamora di Psiche, l’anima, ma il loro amore ha una condizione: Psiche non dovrà mai vedere il volto del suo amato. Amore diventa così lo sconosciuto amante notturno, che la possiede nel buio e all’alba sparisce. Psiche però, vinta dal desiderio di conoscere il suo amante, lo coglie nel sonno e gli illumina il volto con una lampada. Amore fugge, lasciando Psiche nella disperazione, ma i due innamorati, dopo un lungo periodo di peripezie, si ritroveranno e si uniranno in matrimonio: dalla loro unione, nascerà Voluttà. La favola ha dato vita a un numero infinito di variazioni. Secondo La Fontaine, per cui «tutto l’universo obbedisce all’Amore», i due amanti rappresentano la prova che l’illusione e il desiderio, cioè l’amore al buio, siano da preferire alla realtà. Per Keats, che diventa il «sacerdote di Psiche», Amore e Psiche simboleggiano il trionfo dell’amore. Secondo Heine, la colpa di Psiche, che «si lascia morire perché i suoi occhi hanno visto il corpo nudo del suo Amore», rappresenta i mali del cristianesimo. Per Leopardi, la curiosità di Psiche, «che era felicissima senza conoscere», è la prova dei danni della conoscenza. Secondo Pascoli, Psiche è l’emblema dell’impossibilità dell’amore, e non a caso ritroverà il suo Amore solo «oltre la morte». Per Marina Cvetaeva, la favola è il simbolo di quello che l’amore dovrebbe essere: «anima senza corpo». Il significato di Amore e Psiche, quindi, rimane un mistero, che rispecchia, forse, l’enigma dell’amore.

(dal risvolto di copertina di: Barbara Castiglioni (a cura di), "Amore e Psiche. L’enigma dell’amore". Marsilio, pagg. 262, € 18)

Sei verità sull’amore (E PSICHE)
- Rileggere il mito. Oltre a quella di Apuleio, Barbara Castiglioni considera le varianti di La Fontaine, Keats, Heine, Leopardi, Pascoli fino a Marina Cvetaeva -
di Piero Boitani

È una delle favole più belle del mondo, quella di Amore e Psiche. Ce l’ha tramandata lo scrittore africano, ma latino di lingua Apuleio. Nelle sue Metamorfosi, note anche come L’asino d’oro, occupa uno spazio enorme tra il IV e il VI libro. Riprendendo un perduto originale greco, Apuleio narra in questo romanzo le avventure di Lucio, un giovane animato da insaziabile curiosità. Trasformato per errore in asino, dovrebbe mangiare delle rose per tornare uomo, ma viene portato via da ladroni e usato come bestia da soma. Nel covo dei briganti conosce Carite, una giovane rapita a scopo di riscatto; la vecchia governante, per consolarla, le racconta la favola di Amore e Psiche: destando nel lettore i sentimenti più contrastanti: incanto e stupore davanti a una vicenda di cui sembra protagonista indiscusso l’eros, ma anche perplessità, dubbi, persino disappunto. Perché Psiche in greco vuol dire «anima», e quindi Apuleio avrà voluto suggerire una qualche dimensione morale, o magari filosofica, perfino teologica. Psiche, ci dice la storia, pare più bella di Venere. E si sa, le dee dell’Olimpo sono gelose, soprattutto riguardo alla bellezza. L’«anima» pagherà cara la propria beltà, e anche la sua curiosità. A Psiche è infatti proibita la vista dell’essere che l’ha sposata, pena la separazione immediata da lui. Ma Psiche, come Lucio, non resiste alla curiosità e, spinta dalle sorelle, spia Amore mentre dorme. Quel che vede è una vera e propria rivelazione: di un essere così bello da far tremare la candela che Psiche usa per guardarlo. Delle gocce di cera bollente cadono dal lume sul corpo dello sposo, Amore si sveglia e fugge. Disperata, Psiche si dà a cercarlo, mentre lui si rifugia, ed è in effetti prigioniero, nella dimora di sua madre, Venere. La quale punisce la fanciulla con ogni sorta di angherie e incaricandola di missioni sempre più difficili e pericolose. Alla fine, è lo stesso Cupido a volar via dal palazzo materno e implorare Giove di aiutarlo. Il maggiore degli dèi decide che tra i due debba essere celebrato un matrimonio olimpico, fastoso e solenne. Amore e Psiche, finalmente uniti, genereranno Voluttà. Di questa lunga storia Barbara Castiglioni, in un agile volume della serie “Variazioni sul mito” della Marsilio fondata e curata da Maria Grazia Ciani, ci offre, oltre a quella di Apuleio, sei varianti: di La Fontaine, Keats, Heine, Leopardi, Pascoli e Marina Cvetaeva.
E il tutto fa precedere da una introduzione di una cinquantina di pagine – distesa, ragionata, affascinante – nella quale analizza episodi e versioni all’insegna delle parole della Cvetaeva, «l’invisibile, noi l’amiamo in eterno perché è l’assente». Nel corso dei secoli, quasi venti ormai, dalla sua comparsa in Apuleio, la favola ha infatti ricevuto un’infinità di interpretazioni, ispirate al Neoplatonismo o al Cristianesimo. Apuleio stesso era fervente neoplatonico e aveva composto un De deo Socratis e un De Platone et eius dogmate, e dette alle Metamorfosi un finale diciamo “mistico”, con l’iniziazione di Lucio tornato uomo ai misteri prima di Iside, poi di Osiride. Il merito di Castiglioni è quello di non inseguire l’esegesi moralizzante o allegorica (da Fulgenzio in poi, come l’autrice mostra in un singolo paragrafo, esse si moltiplicano esponenzialmente, e l’unica che io conosca che sia dotata di una qualche chiarezza è del Boccaccio), ma invece di guardare fissamente le maglie letterarie, a cominciare dai precedenti più antichi di Apuleio, come per esempio Meleagro, e poi soprattutto i successori, sicché fra i testi riportati nella loro interezza e quelli menzionati nell’Introduzione viene a crearsi una rete interattiva, fatta – cito solo alcuni esempi – del poema cavalleresco medievale Partenopeo di Blois, del Boiardo, di Calderón, Molière, Stendhal, Poe, Proust, per non parlare delle versioni per musica e di quelle, qui impossibili veramente da affrontare senza illustrazioni, delle arti visive. L’“enigma dell’amore”, lo chiama Barbara Castiglioni, e a ragione. Dai testi che antologizza è appunto ciò che emerge: da alcuni, credo, più che da altri. Personalmente, provo una certa allergia verso la pur notevole, delicata grazia di La Fontaine, ma basta leggere pochi versi dell’Ode to Psyche di Keats per sentire appieno la forza che ne sprigiona, quando il sogno rivela «due splendide creature / distese nell’erba folta / sotto un tetto che sussurrava / foglie e fiori tremanti, / vicino a un ruscello nascosto». Eccoli, tra un trionfo di fiori freschi e profumati, «in un intreccio di braccia ed ali», labbra che non si toccano at tender eye-dawn of aurorean love: «nella tenera alba dell’amore». Non è l’Urna greca e neppure l’Usignolo, ma è pur sempre il pindarico, estatico Keats, uno dei tre o quattro maggiori poeti romantici d’Europa insieme a Leopardi (qui presente con un brano dello Zibaldone), Hölderlin e Shelley. Gli si avvicina, a piccoli passi, Heine. Poi, dopo il lungo pezzo pascoliano, esplode la Cvetaeva, che chiude il libro con la strofa più bella e più disperata: «Vestimi del tuo splendore, / Abbi pietà e salvami. / E questi poveri cenci sfatti / Portali in sagrestia».

- Piero Boitani - Pubblicato su Domenica del 5 maggio 2024 -

giovedì 13 febbraio 2025

La Prigione di Vetro dell'Artista moderno...

Il fantasma delle belle arti
- Perché, nell'era moderna, la società non può più riflettere esteticamente su sé stessa -
di Robert Kurz

   La separazione tra arte e vita è un vecchio trauma della modernità. Tutti gli artisti che vogliono esprimere una verità, e che per farlo si consumano esistenzialmente nelle loro creazioni, hanno sempre sofferto questa separazione. Sia che l'arte mostri una bellezza ben proporzionata o che al contrario attui l'estetica della bruttezza nelle sue varie rappresentazioni, sia che critichi la società o che cerchi di riscoprire la ricchezza delle forme nella natura e che sia orientata al realismo o alla fantasia: essa rimane tuttavia, sempre e comunque, separata dalla vita quotidiana, e pertanto dalla realtà sociale, come da un’impenetrabile parete di vetro. In tutto il mondo, le creazioni artistiche o vengono ignorate, o sono famose come oggetti da museo, già morte prima ancora di nascere. L'artista sembra così assomigliare a un qualche personaggio delle tragedie dell'antichità: dove l'acqua e la frutta si ritirano per sempre davanti all'assetato Tantalo, così come la vita si ritira davanti a lui; come il re Mida che dovette morire di fame poiché sotto il suo tocco ogni oggetto si trasformava in oro; e così l'artista, in quanto essere sociale, deve morire di fame poiché al suo tocco tutti gli oggetti si trasformano in puri reperti; e così, come Sisifo, anch'egli continua a rotolare, sempre invano, la sua pietra: la sua opera rimane separata dal mondo. Così, tutti i tentativi fatti dall'arte, per cercare di uscire dal suo ghetto di vetro, sono falliti. Le sculture allestite nelle fabbriche e i dipinti sulle pareti degli uffici sono rimasti corpi estranei; le letture letterarie nelle chiese, o nelle scuole, non andavano mai oltre il carattere di eventi obbligatori. Quando i dadaisti ricorrevano alla provocazione, per disperazione, e trascinavano nelle sacre sale dell'arte le tazze dei water o dei tubi di ferro arrugginiti, per farsi beffe della borghesia, una tale offerta veniva accettata con serietà animale come se si trattasse di oggetto d'arte, e perciò veniva catalogata come le sculture di Michelangelo o i dipinti di Picasso. La definizione tautologica è che: l'arte è tutto ciò che la società percepisce a priori in uno spazio separato - in una riserva chiamata "arte" - e pertanto, nella sua impregnata oggettività artistica, possa così essere raccolta indipendentemente da qualsiasi sia il suo contenuto, così come si fa con i francobolli, o con gli insetti. Non importa cosa l'arte voglia, e per come lo presenti, comunque sia i suoi effetti vengono sempre disinnescati e banalizzati.

   L'arte è "autorizzata" a tornare alla realtà sociale solo se essa si arrende, e capitola incondizionatamente: svolta come progettazione di merci e come industria culturale per l'uso domestico dei capitalisti, non può più essere arte, dato che essa allora cessa di rappresentare un riflesso estetico della società e della relazione tra gli esseri umani e il mondo. Dal momento che il design e l'industria culturale sono di per sé privi di qualsiasi riflessione, quanto ne è priva la gestione aziendale, ecco che allora la forma estetica della merce non si riferisce più all'intera natura e alla società, ma diviene sufficiente a sé stessa. Nel momento in cui l'estetica della produzione artistica individuale non contiene più alcuna riflessione circa quale sarebbe la posizione dell'oggetto in un contesto complessivo più ampio - e visto che essa non fa più parte di alcun "cosmo" estetico - ecco che allora smette di essere arte. E ciò perché l'essenza dell'artistico consiste proprio nella riflessione estetica svolta da parte di un "cosmo" culturale, laddove il singolo oggetto d'arte riflette sempre, e in una maniera particolare, il tutto. Pertanto, all'arte nell'età moderna rimane soltanto la scelta di venire appropriata dall'industria culturale, in quanto oggetto economico ordinario, oppure condurre un'esistenza illusoria "elevata", come se si trattasse di un corpo estraneo morto, e non realizzato, accanto alla vita reale. Le viene pertanto sistematicamente impedito di adempiere al proprio compito di una riflessione estetica sul Tutto, svolta in quanto parte integrante del processo della vita sociale. E come avviene per tutti quelli che sono i suoi problemi specifici, la modernità ha elevato allo status di un qualcosa che sarebbe sovrastorico e universale, anche questo dilemma dell'arte. Ma nel momento in cui c’è una cosa che, nella meravigliosa era moderna, appare fondamentalmente sbagliata, ecco che allora avviene che non si suppone mai che questa cosa possa essere un problema storico, un problema che potrebbe essere superato attraverso la critica, ma si fa sì che rimanga sempre come una sorta di condizione, in sé irrevocabile, dell'esistenza, con la quale l'umanità deve e dovrà purtroppo per sempre convivere. Pertanto, il modernismo percepisce il dilemma della separazione tra arte e vita, vedendolo anch'esso attraverso questa lente della falsa ontologizzazione. Per cui, si fa finta di credere che nell'antica Grecia l'artista fosse un venditore delle sue opere tanto quanto lo è oggi, e che persino gli antichi Egizi esponessero le loro immagini degli dei in gallerie e musei oppure le mettessero all'asta. Ma nelle civiltà più antiche non c'era alcun dipartimento sociale separato che venisse chiamato "arte", o "cultura", nel senso in cui oggi intendiamo tali cose. La struttura moderna, fatta di sfere separate e reciprocamente indipendenti, la quale determina anche il nostro linguaggio e il nostro pensiero, era completamente estranea a tutte le società precedenti. A prescindere dai limiti umani, dai problemi e dai rapporti di forza sociali che tali società avevano, esse non suddividevano la propria esistenza in aree funzionali separate. Una simile suddivisione della vita sociale, si è sviluppata allorché, nell'era moderna, la cosiddetta economia si è staccata da tutto il resto della vita; un cambiamento essenziale che non verrà mai sottolineato abbastanza. La recente teoria dei sistemi considera questo come se fosse stato un "progresso", e lo stato precedente dell'umanità come una mancanza di "differenziazione", assumendolo in maniera assiomatica come primitività. Vista da una simile prospettiva, una società, più è integrata attraverso un contesto culturale globale, e più essa è primitiva; mentre, viceversa, più una società è "differenziata", più si è divisa in sfere separate (basate sull'indipendenza dell'economia capitalista), più appare "sviluppata", e più "opportunità" si suppone che essa ci offra. Un simile modo di pensare è diventato così talmente evidente, che oramai a nessuno sembra assurdo che il più alto raggiungimento dell'evoluzione sociale sarebbe stato raggiunto grazie al fatto che l'essere umano funzionalmente ridotto abbia finito per rappresentare soltanto quella che è un'intersezione di strutture sistemiche. Ma in realtà, va detto, le civiltà premoderne non erano affatto primitive, ma altamente differenziate; solo che questo genere di differenziazione non corrisponde al concetto di differenziazione accettato oggi. Le vecchie società - prevalentemente agrarie - non avevano una cultura, vista nel senso per cui oggi essa consisterebbe nell’essere un oggetto esterno e casuale, ma tuttavia esse ERANO una cultura. Ciò, lo si esprime anche nel nostro linguaggio scientifico, sebbene il più delle volte questo accade inconsciamente: si parla volentieri di "cultura" dell'antico Egitto, dell'antichità, del Medioevo, ecc. e di regola si indicano in questo modo tanto i manufatti speciali e le rappresentazioni artistiche della scultura, della pittura o della letteratura quanto, di contro, la corrispondente civiltà; assieme alla sua struttura sociale e alla sua relazione con il mondo in generale. Del resto, nel momento in cui si parla di "cultura moderna", quello che si intende è solo quell'aspetto particolare delle forme espressive artistiche che sono state relegate in una sfera separata, e mai ci si riferisce al contesto sociale nel suo complesso. Ed ecco che, pertanto, "sappiamo", inconsciamente, che la cultura era tutto l'intero, e non una sfera funzionalmente separata volta all'edificazione dell'individuo che guadagna denaro nelle sue gite domenicali al museo.

  Infatti, la parola latina "cultus", dalla quale deriviamo il nostro concetto di cultura, significa allo stesso tempo tanto "piantare" quanto "agricoltura", ma è anche "culto", "stile di vita", "socialità", "educazione", e persino "abbigliamento" (per certe occasioni). Questa terminologia stratificata indica quanto e quale fosse il carattere culturalmente integrato delle antiche civiltà agrarie. I contenuti e le forme differenziate, sia del loro "metabolismo con la natura" (Marx), sia delle loro relazioni sociali ed estetiche, non vengono assorbiti in quanto “sottosistemi” - ciascuno con una “propria logica” -  ma hanno sempre continuato a essere solo degli aspetti diversi di un'unica e coerente modalità culturale di esistenza. Detta in termini moderni, la descrizione di una simile esistenza, culturalmente integrata, deve sembrare confusa: la produzione era estetica, l'estetica era religiosa, la religione era politica, la politica era culturale e la cultura era sociale. In altre parole, tutti quegli aspetti sociali che per noi sono distinti erano intrecciati tra di loro, e ogni area della vita era, in una certa misura, contenuta in ciascun'altra. Si potrebbe anche persino essere tentati di parlare di queste culture agrarie come costituite religiosamente, dal momento che apparentemente la religione era l'elemento integrativo più forte per questa “società intesa come cultura”. È ben noto che, non solo tutti i tipi di artigianato artistico, ma anche il teatro e le competizioni sportive, emergevano da pratiche cultuali; più precisamente, si trattava di attività cultuali di tipo speciale. Ma anche, perfino, le attività piuttosto ordinarie della vita quotidiana avevano un carattere fondamentalmente sacrale; perfino l'umorismo e l'ironia erano integrati in maniera sacrale. Tuttavia, sarebbe assolutamente sbagliato individuare la "religione" come se fosse essa il momento sistemicamente determinante di tutte queste società, poiché, così facendo, vorrebbe dire che si sta già pensando solo a quello che è il nostro concetto funzionale di sfere separate. Anche la religione non era una religione nel senso moderno del termine, non era una semplice “credenza”, non era un'opportunità circoscritta ai pensieri trascendentali e sicuramente non era una “questione privata”. Ragion per cui non si dovrebbe, pertanto, immaginare il carattere religioso delle culture antiche semplicemente come una relazione restrittiva e irrazionalmente coercitiva; questo discorso si applica assai più all'economia capitalistica, “separata”, della modernità contemporanea. Nelle civiltà più antiche, l'aspetto religioso costituiva simultaneamente sia l'aspetto pubblico che la forma del dibattito di ciò che noi chiamiamo "politica". Non per niente la parola latina “privatus” ha un'accezione piuttosto negativa e dispregiativa, che risulta ancora più chiara se guardiamo al termine corrispondente nell'antica Grecia: lì, il “privato” che non partecipa quotidianamente alla vita pubblica diventa un “idiota”. Il fatto che l'aspetto religioso costituisca la forma della vita pubblica, e comprenda tutta la vita quotidiana, non è tuttavia un indice dei limiti di questa società, come sostiene l'ideologia della moderna auto-legittimazione. Al contrario, si potrebbe benissimo dire che una tale civiltà avesse molto più spazio per l'opinione pubblica e per il dibattito, rispetto al sistema moderno, nel quale la maggior parte degli affari della società vengono risolti automaticamente, e senza alcun dibattito, attraverso i meccanismi dell'economia "separata". Da qualsiasi punto di vista la si guardi, quella che è la concezione moderna di noi stessi non ci consente di fare i conti con l'esistenza di una società culturalmente integrata. Non abbiamo alcun concetto in merito.

  In una “società intesa come cultura”, la quale non conosceva alcuna sfera funzionale separata, “l'arte” doveva essere necessariamente sempre parte della vita quotidiana; era quindi del tutto impensabile concepirla come esposizione “dietro un vetro” di qualcosa che apparteneva a una sfera sterilizzata e morta. Ma è stato proprio per questo che allora non esisteva l’arte in quanto arte, ma essa era piuttosto un momento specifico in quello che era un contesto sociale integrato. "L'artista", potrebbe perciò essere solo un artista, ed essere riconosciuto come portatore di un'abilità tecnica, ma non come se fosse un rappresentante sociale dell'arte, al di là e separato dalla vita quotidiana. Per contro, nella modernità, che è culturalmente disintegrata a causa di un'economia indipendente, l'estetica dissociata assume una forma assurda. Sebbene, per le persone, ogni manifestazione della vita abbia sempre un aspetto estetico, il mondo "economizzato" della modernità ha negato questo fatto elementare. Il "lavoro" non è estetica, l'economia non è estetica, la politica non è estetica, la vita in generale non è estetica; solo l'estetica è estetica. Le “belle arti” sono diventate un fantasma. È come se l'estetica delle cose stesse conducendo un'esistenza astratta e fantasmatica accanto alle cose; esattamente come, analogamente, la socialità legata alle merci conduce un'esistenza speculare rispetto alle merci viste nella loro forma astratta di denaro, diventato un fine in sé; laddove la logica formale astratta, in quanto “denaro della mente” (Marx), assume una sua vita propria accanto alla logica concreta delle relazioni personali reali. La prigione di vetro dell'artista moderno, consiste proprio in questa separazione strutturale dell'estetica. L'arte, si dibatte in questa prigione senza alcuna speranza; essa non è più la forma artistica di un contenuto sociale - e quindi un riflesso estetico della totalità - ma solo una “formalità” dissociata, una forma priva di ogni contenuto comune e socialmente definito; così, in ultima analisi, diventa solo fine a sé stessa e, in quanto “arte per l'arte”, è solo una caricatura involontaria dell'economia “separata”. Ma non appena, nella sua angoscia, si è perdutamente e irrimediabilmente innamorata di sé stessa, vediamo che l'arte comincia a rimuovere il suo paradosso, e lo fa “estetizzando”, in quanto tali, le creature prodotte dalla scissione funzionalista. Ma se la struttura della modernità non viene criticata, e la sua stessa esistenza irrisolta viene estetizzata, ecco che allora anche i corpi dilaniati dalle granate, le donne violentate, i bambini affamati e l'oscenità del potere possono anch'essi apparire come dei semplici oggetti estetici. Una siffatta “estetizzazione della politica” senza una critica del sistema fatto di divisioni porta necessariamente e direttamente alla barbarie. È stato questo il segreto del fascismo, il quale ha messo in scena la disintegrazione sociale come se si trattasse di una sanguinosa Gesamtkunstwerk neroniana. Per contro, anche la “politicizzazione dell'estetica”, per lungo tempo propagandata dalla sinistra, si è rivelata essere un vicolo cieco. Quando l'arte si abbandona al cosiddetto “agit-prop” - anche con le migliori intenzioni sociali – essa capitola altrettanto incondizionatamente di quando si trasforma in design e industria culturale. Se l'arte non vuole appassire e tacere per sempre, deve rendere pubblico il suo paradossale dissidio; e lo deve fare, però, non adattandosi alla politica tradizionale, ma attraverso una critica estetica radicale dell'ordine esistente. Se l'arte non riesce più a riflettere positivamente l'insieme frammentato, allora dovrà farlo negativamente, rendendoci consapevoli dell'intollerabilità estetica del mondo “economizzato”. In una certa misura, è necessario che l'arte diventi militante, con i propri mezzi, e che esiga che l'economia venga subordinata a un nuovo “cosmo” culturale di sua invenzione (che non sia più tradizionalmente vincolato), dove l'estetica dell'insieme prevalga e  trionfi sulla cosiddetta efficienza economica. Solo un'arte che supera sé stessa, in quanto diventa critica della de-estetizzazione sociale, può tornare a vivere.

- Robert Kurz - Pubblicato su Folha de S. Paulo il 4/4/1999 -

mercoledì 12 febbraio 2025

Il Disoccupato Felice ha il suo Manifesto!!

Vent’anni fa i lavoratori potevano ancora mettere in discussione il loro lavoro, e il lavoro. Oggi devono dire che sono felici per il solo fatto di non essere disoccupati, e i disoccupati devono dire che sono infelici per il solo fatto di non avere un lavoro. Il Disoccupato Felice se la ride di un simile ricatto. Perché tutti i disoccupati hanno comunque a disposizione una cosa inestimabile: il tempo. Questo potrebbe costituire un’opportunità storica, la possibilità di condurre una vita piena di significato, gioia e ragione. Possiamo definire il nostro obiettivo come una riconquista del tempo. Siamo quindi tutt’altro che inattivi, mentre la cosiddetta “popolazione attiva” può soltanto obbedire passivamente al destino e agli ordini dei propri superiori. Ed è proprio perché siamo attivi che non abbiamo tempo per lavorare.

(Chômeurs Heureux: "MANIFESTO DEI DISOCCUPATI FELICI".  Nautilus. Pagine 48, € 5,00)

Sappiamo tutti che la disoccupazione non sarà mai eliminata.
La ditta va male? Si licenzia. La ditta va bene? Si investe nell’automazione e si licenziano le persone.
Una volta i lavoratori servivano perché c’era il lavoro, oggi il lavoro serve perché ci sono i lavoratori, e nessuno sa cosa farsene, perché le macchine lavorano più velocemente, meglio e a costo inferiore. L’automazione è sempre stata un sogno dell’umanità. Il Disoccupato Felice, Aristotele, 2300 anni fa diceva: «Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione dietro un comando o prevedendolo in anticipo, le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi». Oggi il sogno si è avverato, ma in un incubo per tutti, perché le relazioni sociali non si sono evolute così velocemente come la tecnica. E questo processo è irreversibile: mai più i lavoratori sostituiranno robot e automi. Inoltre, laddove il lavoro “umano” è ancora essenziale, viene delocalizzato in paesi a basso salario, o vengono importati immigrati sottopagati per svolgerlo; in una spirale discendente che solo il ripristino della schiavitù potrebbe fermare. Questo lo sanno tutti, ma nessuno può dirlo.
Ufficialmente si tratta ancora di “lotta contro la disoccupazione”, ma di fatto è "lotta contro i disoccupati". Le statistiche vengono manipolate, i disoccupati vengono “occupati” nel senso militare del termine, si moltiplicano i controlli molesti. E dal momento che, nonostante tutto, tali misure non possono bastare, si aggiunge un tocco di moralità, affermando che i disoccupati sarebbero responsabili della loro sorte, richiedendo di dare prova della loro “ricerca attiva di un lavoro”. Il tutto per forzare la realtà a rientrare negli schemi della propaganda. Il Disoccupato Felice sta semplicemente dicendo ad alta voce ciò che tutti già sanno.
Disoccupazione” è una parolaccia, un’idea negativa, l’altra faccia della medaglia del lavoro. Un disoccupato è semplicemente un lavoratore senza lavoro. Il che non dice nulla della persona come poeta, come vagabondo, come ricercatore, come colui che respira. In pubblico si può parlare solo della carenza di lavoro. Soltanto in privato, lontano da giornalisti, sociologhi e altri fiutatori di merda, ci permettiamo di dire quello che abbiamo nel cuore: «Mi hanno appena licenziato, fantastico! Finalmente potrò fare festa tutte le sere, mangiare qualcosa che non sia cotto al microonde, coccolarmi senza limiti.» Alla domanda se dobbiamo abolire questa separazione tra virtù private e vizi pubblici ci viene detto che non è il momento, che si trasformerebbe in una provocazione, che farebbe il gioco degli zoticoni. Vent’anni fa i lavoratori potevano ancora mettere in discussione il loro lavoro, e il lavoro. Oggi devono dire che sono felici per il solo fatto di non essere disoccupati, e i disoccupati devono dire che sono infelici per il solo fatto di non avere un lavoro. Il Disoccupato Felice se la ride di un simile ricatto.

fonte: XXMILA LEGHE