martedì 15 ottobre 2024

Contro il sogno della libertà e di una vita migliore !!

L'imperialismo liquido e la colonialità del potere
- di Frederick Harry Pitts -

Come notato in precedenza, in un certo qual modo, l'analisi della Wertkritik relativa a uno sviluppo intrecciato del capitalismo e del conflitto che spinge verso l'attuale "guerra civile mondiale", risuona con altre analisi che si collocano all'interno di una linea marxiana, come quella della "Colonialità del potere ed eurocentrismo in America latina", da parte di Anibal Quijano (2007). Quest'ultimo concetto, è stato ampliato anche in un recente intervento del dissidente marxista siriano Yassin al-Haj Saleh (2023) che segue una linea di argomentazione che mette in discussione la rilevanza delle teorizzazioni convenzionali che vedono l'imperialismo come lo "stadio supremo" del capitalismo, e che appare quindi simile a quelle prodotte dai pensatori della Wertkritik relative ai conflitti e alle crisi del periodo contemporaneo. Saleh, traccia il modo in cui le forme passate di imperialismo siano state prima sepolte, per poi venire completamente riconfigurate nella guerra civile mondiale contemporanea; e lo fa usando la Siria come un caso di studio nelle iniziative e nelle priorità concorrenti dei diversi attori. Descrive il modo in cui gli Stati Uniti, la Russia, l'Iran, la Turchia e Israele - per non parlare dell'ISIS e dello stesso regime di Assad - portino in sé delle storie associate in qualche modo all'imperialismo o al colonialismo, che oggi modellano secondo le loro ambizioni regionali. Tutto questo produce un insieme complesso e intersecante di alleanze e rivalità, basate su storie coloniali e imperiali, che Saleh definisce «imperialismo liquido». E lo fa usando il concetto di Quijano, di "colonialità del potere", al fine di capire in che modo lo stesso regime di Assad oggi occupi una posizione coloniale in riferimento al territorio che governa, estendendola poi per mezzo dell'invito fatto alla Russia e all'Iran, a intervenire in suo nome contro gli stessi cittadini siriani. La Russia ha stabilito per la prima volta una presenza in Siria, al di là della sua tradizionale sfera di influenza, su invito del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Nel frattempo, come suggerisce Saleh, il cosiddetto "asse della resistenza" dell'Iran in Medio Oriente (2023) dispiega la retorica "antimperialista", usandola come "cortina fumogena", volta a celare l'espansionismo della Repubblica islamica, e usando il sostegno alle dittature regionali contro la ribellione popolare e la destabilizzazione dei governi, attraverso milizie settarie come gli Houthi; nonché istituendo una rete per procura, che è stata messa al lavoro contro obiettivi civili e militari, appartenenti a Israele e all'Occidente, nel conflitto regionale recentemente scoppiato sulla scia degli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Nel frattempo, gli islamisti salafiti-jihadisti, che hanno fatto deragliare la lotta di emancipazione contro il regime di Assad, rappresentano anche una forza esterna che ha dei disegni imperiali per dominare e controllare la Siria, vista come parte di un califfato fondamentalista. Saleh, suggerisce che lo spazio - per far sì che i diversi "imperialismi liquidi" possano sbarcare in Siria - è stato aperto, non a partire da dei processi rimasti confinati solo all'autoritario "asse della resistenza", apparentemente opposto all'Occidente, proprio dalla guerra al terrore portata avanti da quest'ultimo, nella quale, a volte, abbiamo visto attori del calibro di Stati Uniti e Regno Unito coordinarsi con la Russia, al fine di combattere i crociati salafiti-jihadisti che erano entrati nella regione. Anche durante le fasi peggiori dell'assalto congiunto Assad-Putin-Soleimani al popolo siriano, l'Occidente si è impegnato in un'attenta danza di "de-conflitto", e di divisione del lavoro riguardante la distruzione dell'ISIS. La combinazione di questa calibrazione con l'inimicizia generale ha evidenziato il carattere "liquido" dei progetti imperiali in gioco. La complessità con cui si è espressa la partecipazione delle potenze occidentali e della NATO al conflitto, è evidenziata - suggerisce Saleh – proprio a partire dal modo in cui gli Stati Uniti hanno collaborato con le forze curde, in quanto alleato contro l'ISIS in Siria; e questo sebbene le forze curde mantengano anche un'intesa strategica con le forze militari di Assad. Nel frattempo, la Turchia, alleata degli Stati Uniti, nella NATO, è intervenuta in Siria per combattere il PKK curdo, esportando così la propria guerra civile, dal Kurdistan turco al Kurdistan siriano, vedendola come parte della più ampia guerra civile siriana,e  conseguenza della rivoluzione popolare contro Assad. Il ramo siriano del PKK, il PYD, era un alleato degli Stati Uniti nella lotta contro l'ISIS, ma gli Stati Uniti alla fine hanno tradito i curdi, nel contesto di un mercanteggiamento con la Turchia su altre questioni militari e diplomatiche legate alla loro vicinanza alla Russia di Putin. Pertanto, negli interessi strategici in gioco, esiste ben poca coerenza - o consistenza - rispetto a quella che veniva garantita dagli imperativi materiali, o economici, dell'imperialismo classico.

Come suggerisce Saleh, l'adesione della sinistra a quella che è stata una comprensione dell'imperialismo debitrice della concettualizzazione di Lenin riguardo la "fase suprema del capitalismo", ha causato la tendenza a limitarne la sua applicazione solamente alle democrazie liberali occidentali, facendolo per di più in base alla fantasia secondo cui la Russia e la Cina di oggi, in qualche modo, recherebbero, proveniente dal loro proprio passato, un contenuto non capitalistico, per quanto poi siano in pratica capitaliste esse stesse. Così, in tal senso, "l'imperialismo liquido" fornisce una spiegazione alternativa e coglie la complessità e l'estensione delle attuali pratiche "imperiali", come dimostrato in Siria e oltre. Le diverse potenze che si sono abbattute sul paese - nelle loro risposte, a volte contrastanti, alla rivolta popolare contro una brutale dittatura, - stanno perseguendo strategie che mancano di "solidità o coerenza", e stanno collassando o cambiando a causa dell'assenza da parte loro di qualsiasi "missione civilizzatrice", o di interessi materiali di sostegno, come quelli legati alle risorse naturali che ne avevano definito lo scopo nei passati periodi di rivalità inter-imperialista. Di fatto, Saleh suggerisce che gli Stati Uniti e l'Occidente in generale, ben lungi dallo spingere a un "cambio di regime" in Siria - come vengono spesso visti fare nelle teorie del complotto dell'immaginario "antimperialista" - hanno in realtà perseguito una politica di "conservazione del regime", in quanto mezzo di stabilizzazione. Da questo punto di vista, il concetto di "imperialismo liquido" risuona insieme a quello di "guerra civile mondiale", descrivendo uno stato di conflitto globale sempre più incoerente e complicato, nel quale l'antagonismo, o la contraddizione fondamentale, permea le azioni e gli approcci da parte di specifici Stati, piuttosto che separarli nettamente l'uno dall'altro, rappresentando così una frattura nel tessuto della stessa società mondiale, anziché l'imposizione di una logica esterna su una democrazia liberale altrimenti armoniosa. Tuttavia, mentre esistono affinità tra la narrazione dello "imperialismo liquido" - che Saleh propone vedendolo come un'estensione della "colonialità del potere" - e quella della "guerra civile mondiale" teorizzata dalla Wertkritik, si danno anche delle differenze. "L'imperialismo", sostiene Lohoff (2023b), qui non vale poiché esso presuppone che il comportamento degli Stati sia determinato da interessi economici in nome del capitale nazionale. Questa rappresentazione del potere mondiale, può aver avuto una certa plausibilità nell'era del colonialismo, oppure anche nell'epoca del confronto incentrato sui blocchi e associato alla Guerra Fredda, quando le economie nazionali erano in gran parte separate e indipendenti. Oggi, ciò non avviene a causa dell'intreccio delle economie nazionali nei mercati globali e nelle reti di produzione. I conflitti contemporanei non impongono alcuna integrazione nei processi di commercio o di saccheggio da parte di una potenza rispetto all'altra, proprio perché da tutte le parti abbiamo già un'integrazione, senza che ci sia la necessità di un intervento militare per garantirla; che si tratti di risorse russe, di materie prime cinesi o di servizi occidentali. Nell'attuale "guerra civile mondiale" - scommette Lohoff - qualsiasi dimensione imperiale apparente si riferisce unicamente a delle "fantasie imperiali" che derivano più da idee che da interessi materiali, come nel caso russo, per esempio, dove agisce una «ideologia legittimante la guerra preventiva contro il sogno della libertà e di una vita migliore».


- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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lunedì 14 ottobre 2024

Guerra Civile Mondiale

L'era post-statalista
- di  Frederick Harry Pitts -

«Nelle guerre dell'ordine mondiale dell'Occidente, per la prima volta nella storia militare, i missili sono più costosi degli obiettivi». (Ernst Lohoff, 2013)

Dal 1648 al 1989, gli stati di guerra e di pace sono sempre stati temporalmente chiari, distinti e limitati. Ma, nell'era "post-statalista" che è seguita, continueranno sempre più a confondersi. Con la supremazia degli Stati Uniti, stabilitasi alla fine della Guerra Fredda, è arrivato l'emergere di guerre post-stataliste "a bassa intensità", nelle quali un numero qualsiasi di attori ha potuto impegnarsi sul terreno militare, fermandosi in sicurezza, prima della minaccia di distruzione totale su cui si basava l'era statalista e le sue tecnologie. Mentre lo stato bellico ha visto una grande spesa per la corsa agli armamenti, al fine di garantire la capacità di distruggere i combattenti nemici, nell'era post-statalista, le cosiddette "nuove guerre" sono state invece combattute "a buon mercato", con budget bassi e mezzi modesti (Lohoff, 2013). Nello spazio apertosi, quest'era post-statalista - un'economia di guerra basata sulla riproduzione del potenziale produttivo della società nel suo complesso - è diventata, in molte parti instabili del mondo, una sorta di "economia del saccheggio", basata sulla riproduzione di specifici "attori militari"(Lohoff, 2013). Piuttosto che la distruzione dei combattenti, la guerra ha spesso preso la forma di un intervento sulla vita dei non combattenti, intervenendo sia nella circolazione delle merci sia nella vita quotidiana in senso più ampio. Mentre nell'era della guerra statalizzata, le infrastrutture e le linee di rifornimento sono sempre state prese di mira in quanto corollario della ricerca della distruzione degli eserciti nemici, nel nuovo paradigma post-statalista, gli attacchi alla vita civile e alle istituzioni sono diventati gradualmente sempre più centrali. Nel nucleo capitalista, nel frattempo, il processo di neo-liberalizzazione, pur trasformando il ruolo dello Stato in riferimento ad altri settori dell'economia e della società, non ha eliminato il monopolio statale della violenza e dei mezzi militari. In effetti, per gli Stati Uniti e per i loro alleati, la fine della Guerra Fredda li ha consolidati, non solo a livello nazionale, ma in tutto il mondo. Ciò ha messo in discussione la distinzione "westfaliana" tra violenza "statalista interna" e violenza internazionale, dal momento che l'Occidente esercitava sempre più quel tipo di "potere di polizia" che esprimeva un monopolio della violenza, così come veniva solitamente esercitato all'interno degli Stati, proiettato verso l'esterno del mondo, sotto forma di capacità di arrestare e perseguire che veniva applicata invece su tutta la scena globale (Lohoff, 2013). Il mondo post-Guerra Fredda vedeva ancora la stragrande maggioranza della spesa per la ricerca, negli Stati Uniti e altrove, incanalata in progetti e istituzioni militari. Ciò ha prodotto dei sostituti tecnologici per il lavoro distruttivo immediato che veniva svolto dalle forze di spedizione convenzionali, sferrando poi, nello stesso periodo, il colpo finale al soldato cittadino, nello stesso modo in cui le nuove tecnologie hanno eroso i posti di lavoro e le condizioni dei lavoratori. Forme di violenza sempre più astratte e automatizzate, hanno segnato il culmine del processo attraverso il quale le armi a lunga gittata - dalla prua lunga al bombardiere B-52 - avevano reso, attraverso successive fasi di meccanizzazione, il combattimento corpo a corpo un ricordo del passato. La forma di guerra a distanza, grazie ad armi che queste innovazioni offrivano, vedeva i nemici come una sorta di "biomassa" passiva, annientata da altrettanto passivi "lavoratori della distruzione". Come avveniva in altri luoghi emergenti di lavoro digitalizzato, l'astrazione del lavoro associata alla "economia politica delle armi da fuoco" ha continuato a ritmo sostenuto. In un contributo contemporaneo, Lohoff (2023c) colloca l'attuale conflitto in Israele e Palestina, all'interno di questo quadro post-statalista, il quale deve il suo carattere specifico proprio ad Hamas, in quanto progetto politico e militare. In una fase iniziale del lungo conflitto, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina aveva mantenuto un calcolo "clausewitziano" della violenza, vista come estensione delle lotte politiche con altri mezzi, nel quale queste ultime erano state esaurite. Per Hamas, tuttavia, l'eccessiva violenza antisemita non costituisce solo la forma che viene assunta dalla lotta, ma anche il suo contenuto. Si tratta di un fine in sé, che è esso stesso infinito, nella misura in cui cerca di risolvere, non la creazione di uno Stato palestinese, come ha fatto l'OLP, quanto piuttosto l'annientamento di Israele, così come la presenza del popolo ebraico in Medio Oriente più in generale. Caratterizzata dalla centralità della violenza spettacolare, questa campagna è temporalmente infinita, dal momento che, per i suoi esponenti, i suoi grandiosi obiettivi non verranno mai portati a termine in maniera soddisfacente (Lohoff, 2023c). Da questo punto di vista, più che di un progetto coerente di costruzione dello Stato, secondo Lohoff, Hamas rappresenta proprio quella (geo)politica "post-statale" teorizzata da Kurz. Nel suo dominio sul popolo di Gaza, Hamas non replica nessuna delle funzioni tradizionali di uno Stato moderno, lasciando alle organizzazioni umanitarie internazionali la mediazione della riproduzione sociale, liberando così tempo e risorse da dedicare ad attività terroristiche, all'interno contro coloro che sono sotto il suo controllo, ed esternamente contro le comunità al di là del confine, in Israele. In questo modo, sostiene Lohoff, Hamas tiene "in ostaggio" la popolazione dello Stato palestinese collassato, e lo fa al fine di promuovere gli interessi della sua ricca organizzazione criminale, insieme a quelle dei suoi alleati e benefattori, nella regione più ampia. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, Hamas fa parte della rete di alleati dell'Iran in Medio Oriente e altrove. Allo stesso modo, in Libano – un paese con cui non condivide un solo confine – l'Iran ha costruito una forza per procura, Hezbollah, che si ingrassa a partire dal caos e dalla sfortuna che si abbatte sullo Stato collassato cui si attacca come un sanguisuga mentre persegue il suo unico obiettivo di confronto con Israele, rappresentando proprio quell'archetipo "post-statalista" che viene descritto da Kurz.

«La totale razionalizzazione, e la piena economizzazione delle relazioni sociali crea una serra in cui prospera il suo opposto immanente: l'irrazionalità, sempre già carica di violenza». (Ernst Lohoff, 2013)

La crisi del 2008, sostiene Kurz (Kurz, 2013b), ha posto in rilievo alcuni degli elementi stabilizzanti e destabilizzanti della cosiddetta era "post-statista". La preoccupazione comune a tutta la Wertkritik, è che ci si sia concentrati sull'aspettativa che lo sviluppo tecnologico porterà il capitalismo a sovra-produrre merci, che pertanto così diminuiscono di valore. Molti commentatori di sinistra, hanno visto la finanziarizzazione come se essa fosse il risultato di un capitale sovra-accumulato, che, a corto di altri percorsi produttivi per gli investimenti, cerca di tornare in un'economia caratterizzata da un settore dei servizi gonfio, e da una sovraccapacità manifatturiera causata da delle potenze emergenti guidate dalle esportazioni. Ma, secondo Kurz, l'idea che la crisi fosse stata causata da una battaglia di blocchi imperialisti – che contrapponeva la Cina all'egemonia in declino degli Stati Uniti – appariva come bloccata in quella che rimaneva una mentalità assai più adatta alla storia così com'era stata prima che ci fosse la "rottura epocale" del 1989. Mentre, durante gli anni della Guerra Fredda, il mondo era realmente diviso in blocchi politici in competizione - in quelle che erano le loro guerre per procura - l'egemonia degli Stati Uniti, definitivamente stabilita nel 1989, non rappresentava più il dominio imperiale di un tipo di Capitale specificamente nazionale. Piuttosto, il Capitale statunitense ha mediato le catene globali del valore, nel loro complesso, e pertanto ha definito qual era il carattere comune del capitalismo contemporaneo, in tutto il mondo, Cina inclusa. Ciò significava che la crisi andava collocata anche al livello della "interdipendenza del capitale mondiale", anziché all'interno di quelle che sarebbero state delle dinamiche competitive tra potenze in competizione (Kurz, 2013b). Fino al 2008 - sostiene Kurz - il complesso militare-industriale degli Stati Uniti aveva sostenuto il suo ruolo egemonico, garantendo la crescita interna e l'occupazione, e proiettando all'estero il potere della "polizia" americana, agendo e intervenendo in qualsiasi parte del mondo, in nome della stabilità. Tutto ciò, è stato esemplificato in quelle "guerre di ordinamento mondiale" che l'Occidente ha intrapreso contro il terrorismo religioso, e contro gli Stati canaglia negli anni Novanta e Duemila, alla ricerca di una sorta di "gestione precaria della crisi planetaria". Questo potere ha contribuito a coniare quello che Kurz ha chiamato un "dollaro delle armi", distribuito in obbligazioni; il che significava che l'eccesso di ricchezza del mondo fluiva nelle casse degli Stati Uniti premiando il complesso militare-industriale con dei nuovi investimenti. La centralità del dollaro, ha fatto sì che nel 2008 Wall Street si trovasse nell'occhio del ciclone. Ma, con il sostegno del governo, questo ha anche permesso, ai consumi privati e alle imprese degli Stati Uniti, di evitare una crisi ancora peggiore, assorbendo una parte, se non tutta, della produzione di sovrapproduzione globale, sulla scia dell'espansione della capacità manifatturiera che aveva seguito l'ascesa della globalizzazione, e la terza rivoluzione industriale (Kurz, 2013b). La Finanza, è stata identificata come se fosse essa la colpevole della crisi - come ha fatto anche gran parte della sinistra, dopo il 2008 - criticando soltanto la distribuzione e la circolazione del valore nella società capitalistica, allo stesso tempo in cui si giustificano le condizioni in cui si crea.   
E’ stato questo - per Kurz – ad aver espresso «il disperato desiderio di fuggire tornando ai tempi della prosperità fordista e della regolamentazione keynesiana», rappresentati dall'economia della Guerra Fredda. In assenza di un "Euro delle armi", europeo, in grado di assorbire la sovrapproduzione globale, sostiene Kurz, gli elementi della sinistra post-crisi hanno riposto tutte le loro speranze in una coalizione simile a quella dell'era della Guerra Fredda, per una "riforma mondiale", che riuscisse a unire la Russia di Putin, la Cina autoritaria, il "caudillismo petrolifero" del Venezuela e il "regime islamista antisemita" dell'Iran. Rappresentando questa “riforma” come un'alternativa indesiderabile e non plausibile, Kurz ha previsto invece una guerra civile mondiale derivante dalla "crisi mondiale in maturazione", prodotta dalla sovrapproduzione causata dalla terza rivoluzione industriale (Kurz, 2013b). In definitiva, come ha sostenuto più di recente Trenkle (2022a, 2022b), questa economia capitalista fallimentare ha fornito scarse basi per qualsiasi tentativo di stabilire un ordine post-1989 di libertà democratiche e di mercato. E lo sviluppo neoliberista ha solo aggravato la devastazione della modernizzazione di recupero sotto il socialismo "reale" nel periodo della Guerra Fredda. Tra le rovine, è fiorito l'arricchimento cleptocratico delle cricche dominanti, a spese delle popolazioni su cui governano. Questo appare ovviamente superficialmente simile ai processi di privatizzazione e di neo-liberalizzazione associati all'Occidente, anche se prive di qualsiasi base per l'integrazione sociale e politica, che non sia il fondamentalismo nazionale, etnico e religioso (Lohoff, 2023c). Mentre il "socialismo reale" e il comunismo sovietico avevano fornito copertura a molti paesi che combattevano il colonialismo nel Sud del mondo durante il periodo della Guerra Fredda, il suo crollo ha lasciato un vuoto che è stato colmato da queste ideologie settarie, dirette contro una serie di nemici esterni e interni. Ciò ha generato una disgregazione sociale e politica che, quando i governi occidentali sono intervenuti militarmente per riportare l'ordine, ha finito solo per peggiorare ulteriormente il disfacimento. In risposta a tale disfacimento, suggerisce Lohoff (2022), l'Occidente ha abbandonato il "senso liberal-democratico della sua missione" espresso in quelle "guerre per i diritti umani" che hanno visto gli Stati Uniti e altri tentare di giocare negli anni Novanta e Duemila al "poliziotto mondiale". In questo contesto, per Lohoff (2023b), l'attuale confronto tra le democrazie liberali occidentali e gli Stati autoritari non si presta a una spiegazione basata sulla nozione antiquata di "imperialismo", ma costituisce piuttosto l'espressione di una "guerra civile mondiale" in cui la distinzione tra politica interna ed estera si offusca. Questa guerra, suggerisce Kurz, non sarà combattuta tra "blocchi di potere nazional-imperiali per la ridistribuzione del mondo", come nel XX secolo, ma avverrà all'interno degli interstizi dell'ordine stesso ormai in declino (Kurz, 2013b).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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domenica 13 ottobre 2024

La Guerra Totale e il Lavoro Nazionale Totale

Lo stato di guerra
- di Frederick Harry Pitts -

«Se c'è qualcosa che assomigli a un'esperienza "Ur" per "l'homo fordisticus", è l'esperienza dei fronti di battaglia della Prima Guerra Mondiale». (Ernst Lohoff, 2013)

La guerra moderna è stata caratterizzata dall'intensificazione della dipendenza da queste relazioni sociali mediate. Il loro carattere mediato e impersonale può aver ridotto l'aggressione diretta e la violenza nella vita quotidiana, ma queste relazioni sociali mediate sono state garantite e sostenute da una più ampia capacità di sterminio e distruzione totale, concentrata nelle mani dello Stato e dei suoi eserciti. Con lo sviluppo di queste condizioni sociali e politiche, la conclusione logica delle precedenti guerre assolute, basate sulla sconfitta totale e sul rovesciamento di un nemico, si trovava così nella "guerra totale" del ventesimo secolo. Dal XX secolo in poi, con la capacità produttiva della società in piena mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico, le infrastrutture civili divennero un obiettivo militare. Ciò produsse un'economia di guerra difensiva e offensiva permanente. La modernizzazione, che si è svolta dal XIX al XX secolo, ha rappresentato una serie di modi di gestire questa economia di guerra di base, sia sotto le spoglie del liberalismo del New Deal, della socialdemocrazia, del comunismo, o dei tipi di pianificazione caratteristici del cosiddetto "Stato in via di sviluppo" (Kurz, 2011b; Kurz, 2011c). Tutto ciò si basava sulla massificazione della produzione in linea con le esigenze fondamentali dell'economia di guerra, che estendeva l'astrazione del lavoro dagli eserciti permanenti alla società nel suo complesso. In questo contesto, sostiene Kurz, il "lavoro nazionale totale" ha raggiunto un nuovo status come parte centrale dello sforzo bellico e delle forme di "modernizzazione recuperativa" e di riforma sociale che ne sono seguite (Kurz, 2016). Decisivi, per questa maggiore astrazione del lavoro, suggerisce Kurz (2013a), sono stati i progressi scientifici e tecnici costretti a partire dal conflitto e dalla competizione tra gli Stati. Il processo lavorativo è stato rimodellato e reso più produttivo dalle nuove tecnologie, dalla gestione scientifica e dal sostegno statale alla ricerca e allo sviluppo di tecnologie a duplice uso civile-militare come l'elettronica, il cui risultato è stata la catena di montaggio. Nella grande produzione diretta dallo Stato, resa necessaria dalle due guerre mondiali, queste innovazioni hanno preso, insieme, la cooperazione soggettiva, individualizzata, arbitraria e immediata presente nella produzione durante le prime fasi dello sviluppo industriale, e l'hanno sottoposta a un quadro oggettivo, de-individualizzato, sistematico e mediato che ha trasformato attivamente l'esperienza concreta della vita lavorativa. Dopo le due guerre mondiali, sostiene Kurz, lo sviluppo della produttività sul posto di lavoro è rimasto contenuto nella "logica della competizione politico-militare", vista nella forma della Guerra Fredda. Mentre non c'è stato un ritorno alla vastità della violenza a cui si era assistito nella prima metà del XX secolo, Lohoff (2013) suggerisce che la Guerra Fredda ha visto un aumento dei poteri di distruzione investiti nello Stato, con la promessa di una distruzione reciproca assicurata, e con lo sviluppo di una capacità di uccidere sempre maggiore, in Occidente e in Oriente. Così, laddove gli anni della guerra avevano incubato le "forze produttive della seconda rivoluzione industriale" sotto forma di forze di distruzione, ecco che la Guerra Fredda le ha scatenate (Kurz, 2013b). Essendo stata perfezionata l'organizzazione fordista del processo lavorativo da parte dello Stato di guerra, i rapidi aumenti di produttività che essa generò in tempo di pace minacciarono di sovra-produrre merci rispetto alla domanda, svalutando le merci stesse e creando le condizioni per la crisi economica. Ma le innovazioni degli anni della guerra avevano portato a nuovi settori di produzione che hanno soddisfatto le nuove esigenze sbloccate in un'epoca di consumo di massa; ad esempio le automobili e gli elettrodomestici. Quindi, proprio come l'economia di guerra rappresentava l'applicazione scientifica del lavoro civile al servizio della distruzione, il successivo sviluppo della produzione e del consumo di massa di merci rappresentava la "continuazione della distruzione con altri mezzi", civile (Lohoff, 2013). La stabilità del capitalismo, nel contesto di questa rapida spinta alla produttività, è stata sovrastata dal forte ruolo dello Stato nel periodo della Guerra Fredda. Questo "capitalismo organizzato", sostenuto dal comando politico esercitato dallo Stato, sembrava, ad alcuni, aver sospeso la legge del valore stessa.

Affamata di tasse e di creazione di mezzi militari, sostiene Lohoff (2013), l'economia di guerra ha di fatto subordinato la produzione al consumo statale apparentemente "improduttivo". Piuttosto che dalle forze di mercato, la terza rivoluzione industriale è il risultato di un'ampia spesa statale in ricerca e in sviluppo, fatta in nome delle esigenze militari. Avendo "dissolto" tutto in "politica", in nome della lotta tra grandi potenze, lo Stato della Guerra Fredda veniva considerato come se fosse stato colui che aveva sfidato l'economia, e rimosso qualsiasi "limite interno oggettivo" alla produzione capitalistica, come dice Kurz (2016). Caratteristico del lavoro di Kurz e della Wertkritik in generale, tuttavia, è l'attenzione proprio a quei limiti interni, e alle tendenze alla crisi che essi generano. Come è emerso, l'apertura dell'economia occidentale alle pressioni competitive e alla capacità manifatturiera generate dalle tendenze alla modernizzazione in altre parti del mondo, ha finito per indebolire la posizione economica dell'Occidente in termini di "flussi di merci e capitali". La lunga recessione che ne seguì, tuttavia, fece ben poco per ostacolare l'espansione del cosiddetto "complesso militare-industriale" che aveva prosperato nella "economia di guerra permanente" dopo il 1945. Con la "terza rivoluzione industriale", la microelettronica ha rivoluzionato e computerizzato i sistemi d'arma ad alta tecnologia. Sotto Reagan, gli Stati Uniti vinsero in modo decisivo la corsa agli armamenti contro il loro rivale sovietico, attraverso una sorta di "keynesismo armato", che accumulò debito pubblico, interamente, contro l'assalto repubblicano alla spesa sociale keynesiana in altri settori dell'economia (Kurz, 2013b). La Guerra Fredda, sostiene Lohoff, rappresentò l'apice dello stato bellico. La corsa agli armamenti ha superato tutte le forme esistenti di distruttività e le sue implicazioni scientifiche ed economiche hanno completamente rivisto il terreno della competizione capitalistica all'interno e tra gli stati nazionali. Fino a un certo punto, l'Unione Sovietica è rimasta competitiva scientificamente e tecnologicamente, ma una serie di fattori ha esaurito questo stato di cose: l'ascesa delle tecnologie dell'informazione; un'economia più globalizzata in Occidente che consenta l'accesso alla produzione ad alta intensità di lavoro per evitare la crisi; e "l'accesso privilegiato degli Stati Uniti al capitale transnazionale", che ha permesso una maggiore spesa militare. La vittoria, che questi fattori hanno reso possibile, ha stabilito un ordine mondiale unipolare storicamente senza precedenti in cui qualsiasi nozione di equilibrio di potere è stata abolita (Lohoff, 2013).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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Sangue e sporcizia da ogni poro !!

Dal «padre di tutte le cose» all'Economia Politica delle Armi da Fuoco
- di Frederick Harry Pitts -

«Dietro l'onnipresente compulsione moderna a guadagnare denaro, c'è la logica dei cannoni tonanti» (Kurz, 2011a).

Per la Wertkritik, come per Eraclito, la guerra è davvero «il padre di tutte le cose» (Lohoff, 2013). A tal proposito, come dimostra Lohoff, la Wertkritik si rifà a dei pensatori come Hobbes ed Hegel. Alla base, la soggettività umana si lega alla capacità di oggettivare gli altri: un processo che, in vari tempi e luoghi, assume una veste più o meno violenta. Così facendo, le forme di riconoscimento, diritto e libertà, consolidate nello Stato moderno si ricollegano a una comune capacità umana di violenza, e alla volontà di rischiare la propria vita in combattimento. Laddove la capacità di uccidere o di essere uccisi va continuamente rinnovata - in quanto condizione dell'autocoscienza umana - lo Stato moderno rappresenta invece la sua sospensione e sublimazione; la lotta per la vita o la morte viene dislocata su altri tipi di attività sociale, vale a dire nel lavoro. Ma in ultima analisi, l'instaurazione di una tale pace sociale non fa che mediare, in un'altra forma, il soggiacente contenuto della violenza e della distruzione; un processo che potrà invertire facilmente rotta, allorché si scatenano la decadenza e la deregolamentazione. Teorici del calibro di Lohoff (2013) prendono ispirazione anche dai pensatori militari classici, come Clausewitz, il quale vedeva notoriamente la guerra come «la continuazione della politica con altri mezzi». Ciò però non significa che la politica ponga una soluzione al conflitto, e nemmeno che il fatto di mettere i mezzi della violenza nelle mani dello Stato ne segni la razionalizzazione. La politica non è una forma di ragione che viene imposta alla guerra e alla violenza, ma essa esercita la propria irrazionalità che - piuttosto che estinguere il conflitto - ne agisce invece proprio come scintilla e acceleratore. Essendo guidata da dei fattori ideologici ed emotivi non materiali, la politica manca di limiti, creando una tendenza alla guerra che cerca di raggiungere quel carattere "assoluto" che Clausewitz temeva. Tracciando queste inevitabili connessioni con la guerra, la Wertkritik va contro il senso del pensiero borghese classico. In particolare, mette in discussione l'idea che la società capitalista sia emersa dal - o sia sinonimo di - baratto pacifico, dalla laboriosità imprenditoriale, o da un'etica del lavoro secolarizzata. Per la Wertkritik, l'idea che la guerra, la violenza e il libero mercato siano incompatibili, e che l'estensione del commercio e la sua garanzia di un mondo in pace sia un'illusione generata dal fatto che il capitalismo è stato inizialmente associato al confinamento della violenza e della guerra, viene vista come una questione di Stato. Ma le garanzie di libertà, fraternità e uguaglianza si basano in ultima analisi su quella che è solo una sospensione temporanea e parziale, e una sublimazione della violenza, portata avanti nella commercializzazione della violenza e nella sua irreggimentazione nelle mani dello stato (Lohoff, 2013). Accanto a tali omelie liberali, l'altro obiettivo primario della Wertkritik è l'approccio del marxismo alla guerra e al conflitto, e il loro ruolo nella costituzione del capitalismo. Mentre Marx, nel suo capolavoro, Il Capitale (Marx, 1990), ha enfatizzato le radici violente del capitalismo, e altre tradizioni di studiosi hanno notato la relazione esistente tra le forme di colonialismo e l'accumulazione primitiva e il capitalismo (Quijano, 2007; Mignolo, 2011), il marxismo, invece, ha spesso omesso di considerare la connessione. Come sostiene Kurz (2011a), il carattere ambiguo e incerto dello sviluppo sociale ed economico precedente all'ascesa del capitalismo, ha fatto sì che molti marxisti si siano semplicemente e supinamente allineati dietro quello che era un resoconto fondamentalmente borghese della storia. Tradizionalmente, il marxismo ha sempre sostenuto un materialismo storico che enfatizza il ruolo svolto dalle forze produttive – tecnologia, tecniche di gestione e così via – nel far avanzare la storia, dalla società agraria a quella industriale. La ragione per cui i marxisti hanno sempre trovato difficile affrontare le origini del capitalismo, che «sgocciolavano dalla testa ai piedi, e da ogni poro, sangue e sporcizia», come ha detto Marx (1990, p. 926), è ciò perché questo non si adattava bene alla visione di uno sviluppo storico, che passa senza soluzione di continuità per le diverse fasi, successive e necessarie, e che porterebbero all'emancipazione umana; una prospettiva, questa, ripresa in blocco paro pari dalle nozioni liberali di progresso. Ancora oggi, simili seducenti critiche radicali alla società capitalista, a partire da questa visione, non spiegano da dove siano sorte tutte queste forze di sviluppo. Ad esempio, non basta indicare semplicemente l'avvento dell'energia a vapore, vista come catalizzatore della rivoluzione industriale. Proprio allo stesso modo in cui Marx dispiega progressivamente gli strati di determinazione storica nel Capitale, in primo luogo bisogna scavare negli imperativi politici, sociali ed economici che hanno guidato lo sviluppo di queste forze.

Per fare questo - suggerisce Kurz - dobbiamo concentrarci non sulle forze produttive all'inizio della modernità capitalista, quanto piuttosto sulle forze della distruzione, vale a dire, sull'invenzione delle armi da fuoco. Come suggerisce Kurz (2011a, 2011b), la storia si svolge - e da questo sorge il processo lavorativo capitalistico - attraverso l'imposizione progressiva della nuova economia politica delle armi da fuoco, sulla vecchia. Le guerre pre-capitaliste erano affari limitati, rituali e sportivi, essendo in gran parte volte all'edificazione o all'avanzamento delle classi aristocratiche. Nel Medioevo, la vita quotidiana per lo più non era in gran parte influenzata dal fatto che i propri superiori sociali fossero o meno in guerra. Ma alla fine del 1400, e nel 1500, tutto questo cambiò a partire da macchine militari sempre più sofisticate che venivano messe in servizio per combattere le "guerre assolute" clausewitziane, condotte come un'estensione delle dispute politiche. Ciò ha scatenato un'esplosione delle spese militari, e le precedenti economie di saccheggio e bottino sono state sostituite da quelle della tassazione, del finanziamento degli eserciti permanenti, e della produzione di potenza di fuoco. Come spiega Kurz (2011a), le «guerre per la costruzione dello Stato» della prima età moderna, che, attraverso la produzione di "marine oceaniche", hanno visto gli Stati impegnarsi in un'espansione colonialista, hanno istituzionalizzato quelle che sono diventate strutture di potere durature, le quali hanno poi dato vita alla politica vista come una sfera di attività specifica e relativamente autonoma, che rappresentava il complemento amministrativo di un'economia sempre più dinamica. In questa rivoluzione militare, è stata decisiva quella che Kurz chiama «economia politica delle armi da fuoco» (2011b). Le armi da fuoco, neutralizzarono il potere della cavalleria feudale, e quindi rimodellarono la società a immagine di quelli che erano nuovi e più intraprendenti poteri di classe. Le esigenze di una produzione di cannoni e moschetti, richiedevano che si passasse da delle piccole officine, a maggiori economie di scala in quella che divenne ben presto una nascente industria bellica. La maggiore potenza distruttiva che essa rappresentava richiedeva nuove infrastrutture come le fortezze. La competizione tra le imprese e tra gli Stati ha spinto l'innovazione tecnologica nei mezzi di distruzione, spinta a sua volta dalla corsa agli armamenti e dalla ricerca di nuove e maggiori quote di mercato. Come sostiene Kurz (2011a), le «migliori possibilità sociali sono state sempre più "sacrificate" alla macchina militare sotto forma di personale e conoscenza». Nonostante i progressi nell'equipaggiamento militare, nel XVIII secolo, le guerre combattute dagli Stati assolutisti furono limitate nella loro capacità di cercare la distruzione totale dei nemici da parte dei mercenari, e quindi dal carattere costoso e inaffidabile degli eserciti a loro disposizione. Ma tuttavia, e sempre più, le crescenti dimensioni e complessità delle armi ben presto significarono che i soldati non erano più autosufficienti nella loro fornitura, diventando invece sempre più dipendenti dalla fornitura proveniente da depositi centralizzati sotto il controllo dei nascenti poteri statali. Kurz (2011a) descrive il modo in cui si è sviluppata una sfera militare separata - distinta dalla vita civile e dalla società civile - con un esercito permanente più o meno professionalizzato. L'ascesa del cittadino soldato di leva, spinto non da interessi mercenari, ma da una fanatica devozione allo Stato-nazione, permise a personaggi come Napoleone di rompere quelli che fino a quel momento erano stati gli schemi del comando militare, sconfiggendo in tal modo i nemici in delle battaglie decisive. Sono stati questi eserciti permanenti, suggerisce Kurz (2011a), ad aver costituito quella prima parte della società che è passata, da relazioni dirette e personali tra le persone, alle relazioni indirette e impersonali mediate dal mercato, dal denaro e dallo Stato moderno. L'universalizzazione del cittadino in uniforme, ha incorporato i gruppi precedentemente esclusi, trattandoli come soggetti uguali agli occhi della legge. Nelle società precedenti, dove i mezzi di violenza venivano distribuiti solo tra i padroni sociali - sostiene Lohoff - era il loro potere a comandare una società di «lealtà e dipendenza». C'è voluta la concentrazione dei mezzi di violenza nelle mani dello Stato, per spianare la strada a una società di diritto universale e di uguaglianza tra individui formalmente liberi.

Il monopolio della violenza posseduto dallo Stato, costituisce quindi la precondizione del «dominio politico adeguato alla società delle merci»; un'uguaglianza astratta che si é imposta all'interno dei confini della nazione in quanto «spazio geografico astratto» (Lohoff, 2013). Furono queste le condizioni che produssero soldati professionalizzati e che divennero, di fatto, i primi lavoratori salariati, i quali, per la loro riproduzione non dipendevano dalla famiglia, ma dal denaro e dal consumo di merci. Il loro lavoro prefigurava il lavoro astratto e svuotato del capitalismo industriale, e questo nella misura in cui la lotta ora non riguardava più una motivazione intrinseca legata agli ideali o alla parentela, quanto piuttosto all'ordine, proveniente dallo Stato, di uccidere in generale. Kurz sostiene (Kurz, 2011a) che lo status di cittadini-soldati, emergenti come i primi lavoratori salariati, ha innescato, nel tempo, tutte le conseguenze legate al lavoro astratto: immiserimento dei soldati e degrado del loro lavoro; la loro separazione dai mezzi indipendenti di produzione e di acquisizione delle condizioni di vita; insieme all'irrompere dell'onnipresente possibilità della disoccupazione, nella sua veste moderna. I primi soggetti della storia a essere "disoccupati", in questo modo formale, allorché scoppiò la pace tra le due guerre e i soldati si vennero a trovare ai margini, sorvegliati come se fossero un problema sociale, e in quanto popolazione in eccesso. Nel frattempo, mentre i loro incarichi diventavano l'archetipo della classe operaia, i comandanti militari diventavano a loro volta l'archetipo della classe capitalista, impadronendosi del bottino di guerra e cercando di investire e accumulare a partire da quei bottini; e infine, i loro capitani si trasformavano negli archetipi dei manager. In quanto tale - per Kurz - è stata la guerra a incubare le nuove forme di soggettività di classe caratteristiche della società capitalistica, insieme alle tecniche di gestione e ai rapporti di lavoro attraverso i quali tali forme si esprimono. La scala e la diffusione della produzione necessaria per poter armare e sostenere gli eserciti permanenti, richiedeva l'approvvigionamento di quella che era diventata un'«economia di guerra permanente», che eclissasse i modi di vita agrari della vecchia società (Kurz, 2011b). Anche l'ascesa della finanza, che serviva a colmare i buchi nelle casse dello Stato, finanziando le guerre in cambio di pagamenti, Kurz l'attribuisce alla rivoluzione militare. Tuttavia, i finanzieri di guerra non sarebbero stati sufficienti, in sé e per sé, a finanziare l'«economia politica delle armi da fuoco». Dal XV al XVIII secolo, per sbarcare il lunario, venne messo in atto un forte aumento delle tasse. Precedentemente, le tasse erano sempre state riscosse in un modo un po' "rilassato", nei confronti dei fattori naturali, come la resa agricola. Ma le tasse che dovevano sostenere l'economia politica delle armi da fuoco dovevano essere raccolte con la forza da parte dei nascenti Stati assolutisti, ed essere soggette a un rapporto completamente astratto e mediato con la produzione di ricchezza. Le guerre del XVIII e del XIX secolo videro così concentrarsi il controllo nelle mani di uno Stato sovrano, il quale comandava all'estero un apparato specializzato di violenza, sostenuto a sua volta dalle tasse dei non combattenti in patria. Le tasse erano il prezzo della non partecipazione alla guerra, e del mantenimento della stabilità nella sfera nazionale interna; ma servivano anche a collegare sempre più le fortune della produzione di merci in patria alle fortune degli eserciti all'estero. Gli Stati finanziavano le guerre attraverso sistemi di tassazione che costringevano i cittadini e le imprese a fare soldi in modo da riuscire così a pagare quanto dovuto, accumulando un vasto potere amministrativo e burocratico indispensabile a porre in atto le riscossioni. In questo modo - suggerisce Kurz (Kurz, 2011b) - la necessità che aveva lo Stato di aumentare le tasse, per finanziare le spese militari, ha liberato dai vincoli esistenti non solo lo Stato moderno, ma anche tutta un'economia basata sulla produzione e sullo scambio monetario di merci alla ricerca di un valore espanso. Come sottolinea Kurz, la società agraria aveva fornito una ben scarsa base finanziaria per riuscire a realizzare il suo ruolo di «potere governante anonimo» (Kurz, 2011a). I progressi nella produttività, hanno generato un surplus, ma la logica dell'investimento produttivo e dell'accumulazione non ha governato il modo in cui questo surplus è stato goduto, o speso. Così, la conseguenza della rivoluzione militare e dell'«economia politica delle armi da fuoco» è stata quella di "sradicare" dalla società uno «spazio funzionale separato per le imprese»; un "soggetto autonomo", anche se con le sue capacità produttive e industriali spesso coordinate dallo Stato (Kurz, 2016). La "astrazione" di questo apparato dai semplici "bisogni materiali" della società ha messo in luce il potere del denaro in quanto filo conduttore della sussistenza e dell'esistenza sociale (Kurz, 2011a).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

2 – Continua  -

sabato 12 ottobre 2024

Dalla “Rivoluzione Militare” alla “Poli-Crisi”…

Nuova guerra fredda o "guerra civile mondiale"?
- Wertkritik e la teoria critica del capitalismo in un'epoca di conflitti -
di Frederick Harry Pitts

Introduzione: Il post-neoliberismo e la "policrisi"
La Wertkritik, o "Critica del Valore", è un filone del pensiero critico marxiano, emerso in Germania alla fine del XX secolo (Larsen et al., 2014; Neary, 2017; Robinson, 2018; van der Linden, 1997). Tra i suoi pensatori chiave troviamo Robert Kurz (2003, 2009;); Ernst Lohoff (Lohoff, 2013), Anselm Jappe (Jappe, 2017), Roswitha Scholz (Scholz, 2013) e Norbert Trenkle (Trenkle, 2013). I temi chiave hanno a che fare con una rigorosa teorizzazione del valore e del lavoro nella produzione e nella circolazione (vedi Pitts 2020, Cap. 2; Pitts 2022, cap. 5), una feroce critica dell'antisemitismo di sinistra, l'analisi dello Stato, in quanto parte inseparabile della società capitalista, e una teoria del crollo capitalista incentrata sulla sua ineludibile capacità di sovrapproduzione, a causa di uno sviluppo tecnologico sempre più fuori controllo. Un altro aspetto della Wertkritik, spesso meno documentato nella sua ricezione anglofona, riguarda tuttavia la sua attenzione alla guerra. Qui, è particolarmente interessante il resoconto, da parte di Kurz, delle origini del lavoro astratto così come viene tratteggiato nel suo "economia politica delle armi da fuoco", che mostra il modo in cui essa si è sviluppata, a partire dalla "rivoluzione militare", decisiva per l'ascesa del capitalismo; così come dagli scritti di Lohoff sulla "guerra civile mondiale", e dalla diagnosi culturale di Trenkle, a proposito dei conflitti che caratterizzano i nostri tempi.

La prima parte di questo testo introduce questo corpus di lavori, applicando la Wertkritik alla comprensione della storia, del presente e del futuro della relazione esistente tra la guerra e il modo in cui essi teorizzano lo sviluppo del capitalismo, contro le affermazioni dei commentatori mainstream e radicali. Dopo aver introdotto questo filone sottovalutato del pensiero marxiano moderno, la seconda metà dell'articolo esplora la luce potenziale che, in un'epoca di conflitti, la Wertkritik può gettare sul capitalismo contemporaneo. La seconda metà inizia considerando come la Wertkritik differisca da altri approcci che, nei loro resoconti della violenza e del capitalismo, mettono in primo piano l'imperialismo o il colonialismo. Secondo Lohoff e Trenkle, gli eventi recenti accrescono la sensazione di lunga data che il concetto convenzionale di imperialismo abbia ormai esaurito la propria utilità. Essi sostengono che l'attuale "ordine imperiale" - nella misura in cui esiste - non è più contrassegnato, come nelle fasi precedenti, da un'egemonia occidentale orientata alla realizzazione dei propri interessi economici. L'idea che, per esempio, l'Occidente sia coinvolto in una sorta di imperialismo per mezzo dell'espansione dell'UE o della NATO, nelle parti orientali dell'Europa, così facendo proietta sul desiderio di sicurezza degli stati baltici e nordici, una visione del mondo che sarebbe più a suo agio nel diciannovesimo secolo, piuttosto che nel ventunesimo. Inoltre, l'espansionismo militare dei paesi opposti all'Occidente - come la Russia - si basa assai meno su un evidente desiderio di impegnarsi in una corsa alle risorse legata a interessi economici razionali, piuttosto che su patologie nazionali irrazionali, o su una volontà di potenza impermeabile alla minaccia di una rovina economica per mano delle sanzioni occidentali. L'assenza di interessi economici tradizionali che spingono i conflitti contemporanei – compresi quelli in Medio Oriente di cui sono parte diverse potenze globali e regionali – mette in discussione sia l'attribuzione di termini come "imperialismo" sia l'idea stessa che il contesto attuale assomigli davvero a una "nuova" o "seconda" versione della guerra fredda, realista e razionalmente calcolatrice, testimoniata nel ventesimo secolo (Achcar, 2023; Schindler et al., 2023). Quello che invece vediamo, è un complicato terreno di conflitto attraversato dalle rivendicazioni in competizione, da parte di una gamma di poteri di dimensioni diverse, che agiscono in combinazioni a volte contraddittorie, nel contesto di un dato teatro.

Alcuni di questi poteri - suggeriscono i pensatori qui trattati - si pongono come se fossero una resistenza antimperialista contro un Occidente decadente, mentre contemporaneamente si impegnano in violenze espansionistiche all'estero, in una repressione autoritaria in patria, e tentano attivamente di far avanzare le loro economie grazie al commercio con l'Occidente sui mercati mondiali. Nel frattempo, le democrazie liberali dell'Occidente, acquisiscono esse stesse delle caratteristiche autoritarie, in quanto adattano le loro sfere interne per poter affrontare la sfida posta da questa rivalità sempre più intensa, cercando in gran parte di mantenere la stessa apertura al commercio che aveva caratterizzato il periodo della globalizzazione. La «strana forma di cooperazione e confronto», come la chiama Lohoff (2022), insita in questa convergenza, ben difficilmente rappresenta quel tipo di "nuova" o di "seconda" guerra fredda che alcuni vedono attualmente dividere il mondo in due, rappresentando invece piuttosto precisamente proprio quella «guerra civile mondiale» che Kurz teorizzava occupasse gli interstizi sfilacciati dello stesso ordine globale o imperiale; dal momento che gli attori statali e non statali cercano di rimodellarlo radicalmente a loro immagine. Proprio come accade con le nozioni obsolete di "imperialismo", ecco che inquadrare il panorama delle minacce in evoluzione disponendole intorno a una «nuova guerra fredda» in arrivo, ci porta a una visione del conflitto visto come se si trattasse di un gioco giocato da attori razionali, i quali possono allocare risorse rispetto a  particolari problemi apparenti basati su una relazione esterna tra forze in competizione. Comprendere l'attuale conflitto come una più complessa «guerra civile mondiale», e farlo secondo le linee teorizzate dai pensatori della Wertkritik, evidenzia proprio le complicate relazioni tra potenze in competizione tra di loro, e il carattere intrecciato dei fattori interni e internazionali; dal momento che i rivali si confrontano e convergono l'uno con l'altro in quella che è una scena globale frammentata. È interessante notare che i recenti commenti dei pensatori della tradizione della Wertkritik tendono verso una spiegazione, e a una risposta, fondamentalmente culturale per molte di queste tendenze; piuttosto che verso quella che, in una fase iniziale, era la spiegazione materiale-economica offerta da Kurz e altri.

Un risultato di tutto questo, è l'osservazione secondo cui un'errata «esternalizzazione dell'autoritarismo» - come afferma Trenkle (2022a, 2022b) - possa spingere a una risposta in Occidente che sta assumendo dimensioni autoritarie, nel migliore dei casi nazionalistiche o militaristiche, mentre le democrazie liberali cercano di isolarsi politicamente ed economicamente dalla minaccia aliena da essi percepita. Trenkle identifica il riarmo e l'aumento delle spese militari, vedendoli come esempi del modo in cui «le società del cosiddetto Occidente arrivino sempre più ad assomigliare al loro stesso nemico esternalizzato». È importante sottolineare che il resoconto qui presentato, mette sotto una luce diversa quella che è stata ampiamente vista come una svolta "post-neoliberista" nel capitalismo (Davies & Gane, 2021), la quale coinvolge in una politica industriale rafforzata, la maggiore invenzione statale espressa catturata nella "Bidenomics" – che è a sua volta una continuazione di alcuni aspetti del trumpismo negli Stati Uniti – che fornisce un caso di studio di alcune di queste tendenze superficialmente "neo-keynesiane" (Merchant, 2023). Questo modello di capitalismo, apparentemente post-neoliberista - e il suo impegno per l'innovazione e la politica industriale - sembrano essere evidentemente orientati verso lo sviluppo di economie più verdi, più dinamiche e più inclusive, basate sulla stimolazione delle forze produttive; in risposta a un periodo di cosiddetta "poli-crisi" caratterizzato da turbolenze finanziarie, dalla pandemia di COVID-19 e dalla catastrofe climatica. Tuttavia, a volte il concetto popolare di "poli-crisi" nasconde all'interno come un vago senso di tutto ciò che è collegato in relazione a ciò che invece fa davvero funzionare le cose. La Wertkritik richiama l'attenzione su una spiegazione alternativa, per il carattere mutevole del capitalismo, che si basa, non sulla "poli-crisi" o sullo sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto sulle forze irrazionali e distruttive in gioco nelle forme intensificate di conflitto e confronto che emergono all'interno e tra le potenze in competizione.

Piuttosto che i cambiamenti economici o ecologici di per sé, che spingono la riconfigurazione del capitalismo nel tempo presente, o le modalità convenzionali di "competizione sistemica", ci viene suggerito che qualcosa di più oscuro e più profondo sostiene quelle trasformazioni che vengono valutate positivamente da tutta una serie trasversale di voci politiche. In questo senso, la Wertkritik aggiunge peso alle affermazioni che emergono da alcuni osservatori – sia critici che favorevoli – secondo cui la tendenza "neo-keynesiana" o "post-neoliberista" del capitalismo contemporaneo, incarnata nella Bidenomics, non rappresenti tanto una risposta economica razionale alla poli-crisi, quanto piuttosto una mossa strategica in quella che è un'epoca di conflitti sempre più in intensificazione (Anderson, 2023; Luce, 2023; Mercante, 2023). Gli impatti di quella che alcuni vedono come una nuova era dell'imperialismo, mentre altri inquadrano invece come se si trattasse di una "seconda" o "nuova" guerra fredda, hanno pertanto delle ampie conseguenze per quel che riguarda la teorizzazione del capitalismo. In alternativa agli attuali approcci, radicali e mainstream, alla comprensione del momento presente, queste dinamiche dovrebbero essere viste come parte integrante della combinazione di convergenza e scontro espressa dal concetto di guerra civile mondiale, nella quale l'assalto autoritario, nelle democrazie liberali, permea sempre più la struttura interna della società e dell'economia, come se fosse una salva nelle lotte sulla scena internazionale. In questo processo di convergenza, gli Stati stanno cercando una soluzione a un problema costruito in termini di una «nuova guerra fredda» che taglierebbe il mondo e i suoi paesi in due, piuttosto che di quella che invece potrebbe essere meglio caratterizzata come se fosse una guerra civile mondiale, che attraversa i paesi stessi e alla quale potrebbe essere necessaria una serie diversa di risposte. Dopo aver notato che, a partire dalla critica marxiana dell'economia politica che si trovava nella spiegazione data da Kurz della guerra e del capitalismo, ora l'odierna Wertkritik tenda piuttosto a mettere al primo posto una critica della cultura, più vicina nello spirito alla tradizione della teoria critica, concludiamo considerando quali sono le implicazioni dovute ai modi alternativi di prassi nell'attuale epoca del conflitto. Per i pensatori della Wertkritik - concludiamo, notando - qualsiasi risposta dev'essere incentrata su una lotta sociale emancipatrice volta a difendere e ad estendere gli imperfetti diritti e le libertà promesse ma non completamente realizzate dalle democrazie liberali, all'interno e soprattutto al di là delle società, sempre più ripiegate su sé stesse, dell'Occidente borghese.

Frederick Harry PittsPubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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venerdì 11 ottobre 2024

Un odore di morte…

L'ordine della violenza e la logica dello sterminio
- di Ernst Lohoff - Pubblicato in Krisis, Novembre 2023 -

“«Ho sempre sognato», esclamò con violenza, «un gruppo di uomini decisi ad accantonare ogni scrupolo nella scelta dei mezzi, forti abbastanza per definirsi apertamente dei distruttori, e liberi dalla peste di quel pessimismo rassegnato che manda il mondo in malora. Nessuna pietà per nulla, neanche per sé stessi, e la morte arruolata per sempre al servizio dell’umanità – ecco quanto avrei voluto vedere»” - da Joseph Conrad, ne "L'agente segreto" -

La grande negazione
I vincitori occidentali erano fermamente convinti che la rottura epocale del 1989 promettesse l'inizio di un'era di pace. In un mondo unito sotto la bandiera della democrazia, dei diritti umani e dei mercati globalizzati, la guerra e la violenza sarebbero diventati dei vecchi modelli obsoleti. Tale speranza ha ripreso i due antichi presupposti fondamentali del pensiero illuminista e li ha riuniti in sé. Da un lato, ha riproposto il famoso mito che circola dal XVIII secolo, secondo il quale nell'ambito dei principi fondamentali della modernità, della ragione, della libertà e del diritto non ci sarebbe posto per lo spargimento di sangue. Le guerre sono sempre state iniziate da attori statali, che non si basano su questi principi di libertà, uguaglianza e fraternità. Con la vittoria finale dell'Occidente, tali forze sono scomparse, ergo la terra si è trasformata in un'oasi di pace. Del resto, il processo di globalizzazione in corso è stato inteso come una garanzia di pace, visto che con il trionfo del mercato totale, il potenziale potere bellico dello Stato sta visibilmente perdendo terreno rispetto al presunto potere di pace del mercato. L'assunto è quello secondo cui la politica e lo Stato stiano perdendo il proprio peso, subordinandosi completamente alla logica del mercato; cosa che, secondo l'assunto, rende sempre più improbabili le guerre in sé. L'idea che laddove il mercato e le sue leggi danno il tono, anche le armi tacciono, e che il trionfo della logica economica significa pacificazione, ha anche delle profonde radici storiche. Fin dai tempi di Adam Smith e di Immanuel Kant, esso ha fatto parte del repertorio standard degli economisti liberali e dei filosofi dell'Illuminismo: «È lo spirito del commercio, che non può coesistere con la guerra, e che prima o poi si impadronirà di ogni popolo» [*1], lasciando a Thomas Paine il compito di dare all'aspettativa liberale della pace la sua forma classica. Nel suo "Rights of Man", pubblicato nel 1792, egli celebrava non solo gli ideali che brillano nel cielo borghese dei principi, in quanto pacificatori - ma allo stesso tempo celebrava il mercato come «un sistema pacifico che lavora per avvicinare le persone, rendendo le nazioni e gli individui utili gli uni agli altri». «L'invenzione del commercio rappresenta il più grande passo verso una civiltà generale, che tuttavia è stata fatta usando mezzi che non derivano direttamente dai principi morali».[*2] Lo sviluppo dell'ultimo decennio, ha del tutto smentito le aspettative secondo le quali il mondo, con la vittoria finale dell'Occidente, sarebbe diventato più pacifico. Naturalmente, questa negazione non va intesa nel senso che gli ottimisti avrebbero tratto conclusioni affrettate da quelle che in fondo erano giuste premesse. Piuttosto, le ipotesi di base originate dal fondo del pensiero illuminista sono insostenibili. Esse capovolgono il contesto reale. Da una parte, libertà, uguaglianza e fraternità non fanno affatto rima con pace e riconciliazione. Anzi, se si annusa più da vicino, questi principi hanno sempre emanato un odore sgradevolmente dolce, un fluido di morte e omicidio che oggi si sprigiona sempre di più. D'altra parte, l'equiparazione tra mercato e pace è fuorviante. Di certo, l'ascesa della società mercantile è stata caratterizzata dal fatto che la violenza e la guerra sono diventate sempre più l'unico affare di Stato. E tuttavia, ciò non significa affatto che i processi di de-statizzazione in corso faranno scomparire la violenza e la guerra. Ma stanno semplicemente subendo un cambiamento di forma in quella che è l'imminente epoca della crisi. Soprattutto nel contesto della globalizzazione, in gran parte del mondo fioriscono veri e propri mercati della violenza, mentre nuovi tipi di attori violenti stanno comparendo sulla scena. Sotto forma di signori della guerra e di dominio mafioso, l'imprenditoria bellica familiare fin dall'epoca rinascimentale, e da conflitti come la Guerra dei Trent'anni, sta tornando in gran parte del Terzo Mondo. Ma il regime statale di violenza presente nei centri occidentali subisce anch'esso metamorfosi che equivalgono alla liberazione, piuttosto che alla scomparsa, di potenziali di violenza. Il saggio inizia con un esame approfondito della storia intellettuale. Analizzando in maniera esemplare Hegel, Hobbes e Freud, si vede sviluppare la tesi secondo cui, in ultima analisi, il canone occidentale dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità si basa sulla momentanea sospensione dell'omicidio e dell'omicidio colposo. Il soggetto merce si forma attorno a un nucleo di violenza. La seconda parte esamina il processo di nazionalizzazione della guerra e della violenza, che vede l'ascesa dello Stato come unico attore legittimo della violenza, nel contesto di un duplice processo di impianto e di addomesticamento di questo unico nucleo di violenza. La terza parte descrive la dissoluzione del regime di violenza gestito dallo stato. La base omicida repressa, che sottende la costituzione del soggetto e dei valori occidentali, viene alla luce ed emerge.

Ernst Lohoff - Pubblicato in Krisis, Novembre 2023 -

NOTE:

1 - Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden, Stoccarda 1984, p. 33.

2 - Citato da Karl Otto Hondrich, Lehrmeister Krieg, Amburgo 1992, p. 16.

martedì 8 ottobre 2024

Religiosismi !!

"Politica dell'identità religiosa"
- Cenni sul fondamentalismo religioso con un'enfasi sull'ebraismo -

di Julian Bierwirth

1. La modernità capitalista come reinvenzione della religione.

L'imposizione di una società capitalista globale ha creato un quadro di riferimento standardizzato non solo per i processi economici, ma anche per i riferimenti culturali. Questo processo viene spesso interpretato come secolarizzazione. In realtà, però, si tratta più che altro di una trasformazione della religiosità. Da un lato, ciò si esprime nel fatto che i sistemi di credenze tradizionali sono stati sostituiti da nuovi riferimenti quasi religiosi ("religioni di questo mondo"). La religione in quanto tale, d'altra parte, non è scomparsa; Si è solo avvicinata, per quanto riguarda il suo carattere, le sue giustificazioni e le sue pratiche, ai modi moderni di pensare e di agire.
1.1 Il quadro di riferimento uniforme della modernità capitalistica non si riflette in una convergenza delle condizioni della vita sociale, ma, al contrario, in un costante rafforzamento delle gerarchie sociali. Questo è legato a un'economia dinamica, che minaccia costantemente i valori fino ad allora dati per scontati e, quindi, crea uno scenario di paura generalizzata. Non è solo all'interno delle società capitalistiche prese individualmente che ci sono differenze nell'opportunità di accedere alla ricchezza sociale. Anche tra le diverse parti del capitalismo globale, non solo ci sono occasionali differenze estreme, ma anche sempre timori di declino e speranze di ascesa.
1.2 L'imposizione di questo quadro di riferimento stabilisce una serie di nuovi sistemi di pensiero che assumono un carattere quasi religioso e determinano il pensiero di gran parte dell'umanità. Questo vale per l'Illuminismo (fede nella scienza come fiducia tecnico-manipolativa nel progresso), così come per il nazionalismo (fede nell'eternità della nazione) e il socialismo (fede nel sacro principio del lavoro e della classe come unità di tutti coloro che lavorano). Attraverso queste grandi religioni di questo mondo, sono stati creati nuovi riferimenti che hanno fornito stabilità e guida alle persone in un mondo in continua evoluzione.
1.3 L'ascesa delle religioni laiche mette inizialmente le religioni tradizionali sulla difensiva. Si allontanano dall'individuo e, con la socializzazione che si fa più densa, le conversioni tra le religioni sono sempre più comuni. Negli anni '60 c'era già un boom esoterico che individualizzava e rendeva più flessibile la ricerca di significato. Gli individui cominciarono a vedere la propria identità non come determinata dalla religione; piuttosto, è la religione che viene intesa come parte di qualcosa che essi stessi hanno cercato, assemblato e liberamente riconosciuto come corretto. Ciò significava anche che il contenuto dei sistemi di credenze individualizzati cominciava a cambiare costantemente, secondo le esigenze dell'individuo. Questa specificità della religiosità individualizzata gioca ancora oggi un ruolo importante quando le persone si rivolgono a una religione per la prima volta (conversione) o di nuovo (risveglio).

2. Il moderno sistema di credenze come condizione per l'attribuzione del significato.

La società capitalista mondiale è un sistema altamente dinamico che esige molto dagli individui in termini fisici e mentali. Le nuove religioni secolari, così come i sistemi di credenze metafisiche modernizzati, forniscono all'"individuo isolato" l'aiuto per soddisfare queste esigenze.
2.1. La "funzione" concreta può essere diversa a seconda del sistema di credenze. La fede nel progresso, ad esempio, permette l'idea che presto andrà tutto bene (anche se non sembra essere così). Oggi svolge questa funzione soprattutto nel dibattito sulla politica climatica (nella discussione sulla CCS o sulla tassa sul CO2). Esprime l'idea che la natura funziona come una macchina e che, quindi, gli esseri umani possono regolare i processi ecologici su questo pianeta attraverso una gestione ingegnosa della natura. Attualmente stiamo assistendo a un ultimo sussulto di questa idea, che perde credibilità di fronte all'escalation della crisi climatica.
2.2 La fede nella nazione permette l'idea che l'esistenza dell'individuo derivi il suo significato non dal suo successo sul mercato, ma dall'appartenenza alla comunità immaginaria della nazione. Soprattutto nelle regioni che dispongono ancora di notevoli risorse energetiche nonostante un reale o imminente declino economico-politico, questa idea rimane molto popolare (USA, Germania, Russia). Si riflette nel successo elettorale di nuovi attori neo-autoritari (Trump, AfD, ecc.). Queste correnti combinano l'invocazione della nazione con l'idea che il suo rafforzamento migliora anche le condizioni di vita di ogni individuo.
2.3 La credenza nel sacro principio del lavoro rende possibile vivere il lavoro pesante stesso come la soddisfazione dei "bisogni produttivi". L'idea di una comunità di lavoro, la "classe", offre anche la redenzione: quando tutti i membri della comunità agiscono nel modo giusto, la rivoluzione mondiale porterà direttamente al regno socialista dei cieli. Questa idea costituisce la base della rinascita delle organizzazioni neo-autoritarie della sinistra politica (ZORA, Migrantifa, Lotta dei Giovani, Klasse gegen Klasse, Kommunistischer Aufbau, ecc.).
2.4 Nella postmodernità, i tipi ideali di questi sistemi di credenze secolari cominciano a confondersi e mescolarsi. Nella media borghesia, ad esempio, il culto della performance produce una forma di culto del lavoro per le persone già orientate in quella direzione che gode di grande popolarità. Qui la fede nel lavoro si unisce alla fede nel progresso. L'"Alleanza Sarah Wagenknecht", d'altra parte, combina la fede nella nazione con la fede nel sacro principio del lavoro. Resta da vedere se questa combinazione avrà successo. Temo che questo sia esattamente il potenziale per un movimento regressivo politicamente di successo.
2.5 Il ricorso alle comunità religiose non è affatto scomparso come fonte di significato. Il numero di persone che si uniscono alle comunità religiose è in aumento in tutto il mondo da decenni. Con il fondamentalismo indù e islamico, l'ebraismo ultra-ortodosso e varie sette evangeliche (in particolare il movimento pentecostale), queste fonti di significato sono diventate sempre più influenti negli ultimi decenni.

3 La religione come fenomeno moderno.

Le varie interpretazioni fondamentaliste delle religioni possono anche essere intese come fenomeni moderni. Ernst Lohoff chiama questa ideologia "religiosismo". La religiosità non è in alcun modo un ritorno a un sistema di credenze tradizionale-conservatore originale. Sono essenzialmente ultramoderni, e rompono con gli aspetti fondamentali dell'ortodossia religiosa.
3.1 La religione islamica è una reazione all'integrazione del mondo arabo nella moderna economia di mercato. La tradizione filosofica di Jamal ad-Din al-Afghani, ad esempio, è incentrata sull'idea di un Islam modernizzato. Questo fa sì che il mondo musulmano abbandoni le pratiche religiose tradizionali e quindi abbia il proprio posto nel mondo. Da un lato, si affermano gli aspetti concreti e materiali della modernizzazione (produzione industriale, tecnologia, padronanza razionalizzata della natura) e si respingono gli aspetti astratti della modernizzazione finalizzata all'economia monetaria e al moderno stato di diritto (banche, tassi di interesse e diritti umani sono considerati non-islamici in questa tradizione). Inoltre, però, il religiosismo islamico imita le forme di determinazione ideologica della modernità. La ummah, per esempio, indica una forte somiglianza con una versione non spaziale della nazione; Il riferimento ai testi religiosi è destinato a sostituire il moderno codice di leggi, diventando un'interpretazione letterale. La comunità non dovrebbe più essere siriana, irachena o libanese, ma "islamica". L'identità comune ha un nemico che si trova al di fuori della sua stessa comunità: l'Occidente.
3.2. Il religiosismo cristiano è anche ideologicamente orientato verso un cambiamento degli aspetti ideologici del liberalismo. L'obiettivo è quello di creare una nazione cristiana, non una nazione americana o tedesca. Ciò deve essere fatto anche sulla base di un'interpretazione letterale dei comandamenti dei testi religiosi tradizionali. L'immagine moderna di sé si riflette nell'idea del pieno diritto dei genitori di educare i propri figli, rifiutando l'influenza dello Stato e della scuola nell'educazione. I bambini appaiono qui come "proprietà" assegnata esclusivamente alla sfera del controllo stesso e al compito di educarli e metterli sulla "retta via" come il (presunto) diritto del cristiano decente. Questo vale anche per i dibattiti su (o contro) il diritto all'aborto, che esprimono rivendicazioni di dominio sul corpo delle donne. Queste varianti della "possessione fantasma" (Eva von Redecker) sono una linea centrale lungo la quale i cristiani fondamentalisti in Nord America o in Europa demarcano la loro identità comune contro un nemico situato nella loro stessa società: il mainstream woke e secolarizzato che tradisce la nazione.
3.3. L'ebraismo (ultra)ortodosso è anche una reazione alla diffusione della moderna società mercantile. Qui troviamo una grande enfasi sulla parola di Dio, così come sulla sua interpretazione letterale. Anche in questo caso si rifiutano gli aspetti astratti della società moderna, pur ricorrendo naturalmente alle innovazioni tecniche. Questa prospettiva è particolarmente evidente nel messianismo religioso, che si è sempre più diffuso in Israele dopo la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni. Con la sua miscela di una profonda fede nella parola dei testi sacri, la pratica simultanea della superstizione mistica e il rifiuto talvolta aggressivo della maggioranza della società israeliana, questa corrente è paradigmatica del nuovo religionismo nella postmodernità.

4. Il religionismo come politica identitaria.

Come le religioni laiche, anche il religiosismo funziona come politica identitaria. Proprio perché la religiosità è tutt'altro che evidente nelle società secolarizzate, deve essere modernizzata attraverso indicatori pubblici. L'indicazione dell'identità diventa il meccanismo centrale per stabilire la propria identità nei confronti di una società a maggioranza secolarizzata. Ciò che queste tendenze hanno in comune è l'idea che per migliorare la situazione nel mondo è necessario conciliare i modelli culturali con i simboli religiosi. In questo processo, elementi religiosi, nazionalistici e altri elementi ideologici si combinano in modi specifici in ogni regione.
4.1. Nell'Islam, la componente identitaria e politica si manifesta principalmente nel codice di abbigliamento. La questione di come un uomo propriamente musulmano dovrebbe portare la barba è importante quanto i requisiti per l'abbigliamento e il velo delle donne musulmane. Ciò che sembra essere particolarmente importante qui sono gli indicatori inviati nello spazio pubblico.
4.2 In Germania, viviamo le lotte politico-identitarie del cristianesimo fondamentalista, principalmente come una battaglia per la croce nello spazio pubblico. [N.d.A.: Com'è noto, in alcune correnti del cristianesimo, l'immagine di un martire in croce è il simbolo unificante della fede. In questo è già evidente la volontà latente di questi gruppi di usare la violenza.] Anche i ben noti dibattiti sulla centralità del Natale e della Pasqua per la "nostra identità" rientrano in questo ambito delle politiche identitarie religiose.
4.3. Per la religione ebraica, anche la differenziazione dalla maggioranza della società israeliana gioca un ruolo centrale. Ciò si ottiene principalmente attraverso codici di abbigliamento adeguati. Il requisito comune di vestirsi in modo modesto e modesto è chiamato tzeniut. Include indumenti che coprono il corpo senza enfatizzare le forme del corpo. Gli uomini ortodossi a volte indossano uno shtreimel e le cosiddette donne scialle, sottolineando la religiosità che vogliono esprimere con i loro abiti, ricordano molto le regole per indossare il velo conosciute dal fondamentalismo islamico. Nei circoli ultra-ortodossi, la distinzione del mainstream laico è segnata anche dalla lingua, preferendo lo yiddish all'ebraico moderno. La crescente importanza dei ristoranti kosher in Israele fa anche parte di questa tradizione religiosa di fare le differenze, soprattutto con il mondo esterno. Anche la disputa politica su chi può essere considerato ebreo/ebreo fa parte di questa messa in scena politico-identitaria. La conversione all'ebraismo è un prerequisito per la cittadinanza israeliana. Tuttavia, questo è riconosciuto dai rabbini ortodossi solo se i (nuovi) fedeli rendono la propria fede sufficientemente visibile al mondo esterno. Il carattere moderno dell'Ortodossia si riflette anche nell'importanza centrale attribuita ai codici di abbigliamento.
4.4 Diverse costellazioni sociali e storiche in diverse regioni portano anche a differenze nella manifestazione delle ideologie religiose. In Medio Oriente e Nord Africa, ad esempio, la critica della dipendenza coloniale o imperiale dai centri europei e americani gioca un ruolo centrale. In Europa e Nord America, d'altra parte, la paura del declino e la percezione della minaccia di altri attori culturali ed economici, presumibilmente in aumento, giocano un ruolo chiave. In Israele, d'altra parte, il conflitto sul sionismo e l'onnipresente antisemitismo mondiale modellano l'immagine di questa manifestazione regionale della religione.

5 Il sionismo e l'ebraismo neo-ortodosso nel contesto della modernizzazione capitalista.

Il sionismo è essenzialmente un movimento nazionale laico nella tradizione delle tre religioni laiche. Combina le idee dell'Illuminismo, la religione del lavoro e la nazione. L'ebraismo ultra-ortodosso, d'altra parte, è anche una variante del religiosismo. Può essere inteso come un tentativo di rinunciare ai (presunti) falsi tentativi di secolarizzazione a favore di una nuova religiosità. Tuttavia, non si tratta semplicemente di un ritorno alle tradizioni religiose arcaiche, ma di una reazione mascherata della religione alle sfide della modernità capitalista.
5.1. Per molti ebrei, l'Illuminismo era visto come un'opportunità: vedevano la possibilità di diventare una parte naturale della maggioranza della società nel quadro di un nazionalismo secolare in espansione. Questo desiderio è stato rafforzato anche dalla creazione di una forma di isolamento specificamente moderna. La loro posizione, sempre minacciata da questo isolamento, portava gli individui a sentirsi parte di un tutto più grande. Questi ebrei riformati e laici volevano combinare gli aspetti religiosi e culturali dell'ebraismo con la modernità. Erano radicati sia nella borghesia liberale che nel movimento operaio socialista. Il ramo religioso del sionismo ("Mizrachi") si unì al movimento solo nel XX secolo, e all'inizio fu in gran parte emarginato. Pertanto, può già essere intesa come una reazione all'imminente secolarizzazione della comunità ebraica.
5.2. Il sionismo è la reazione al fallimento dei tentativi di integrazione, che è diventato evidente, soprattutto con l'affare Dreyfus. Alcuni pensatori giunsero alla conclusione che l'integrazione nelle società nazionali esistenti non era possibile e che quindi gli ebrei avevano bisogno di un proprio stato-nazione. Il fatto che il mainstream sionista si consideri laico; da un lato, ma dovendo sempre ricorrere a temi religiosi, dall'altro (come l'idea di Sion, che compare già nel nome), ha dovuto produrre contraddizioni insolubili che ancora oggi sono al centro del dibattito socio-politico in Israele. Ad esempio, il rapporto tra una società dello spettacolo e della difesa da un lato e la cultura ebraica e l'Ortodossia dall'altro si riflette in un dibattito interno israeliano sull'introduzione del servizio militare obbligatorio per gli ultra-ortodossi. In questo senso, il sionismo è un fenomeno di "centro" o di "sinistra". L'attuale slogan popolare "Il sionismo è di destra" ignora le sue origini storiche.
5.3 Nel corso della secolarizzazione, ci sono stati anche sforzi per riformare la fede ebraica. Nel cosiddetto "ebraismo riformato", alcuni elementi furono importati dal protestantesimo nella pratica religiosa ebraica. L'emergere dell'ortodossia ebraica, d'altra parte, è una reazione alla diffusione di questo movimento laico, orientato ai diritti umani e influenzato dall'Illuminismo. È caratterizzato dalla paura dell'assimilazione e quindi vuole aggrapparsi a una presunta tradizione. Ruota attorno a una pratica religiosa rigorosa e letterale. Questa corrente segnata dalla religione è ancora oggi opposta al progetto sionista. Secondo la comprensione (ultra)ortodossa della fede, l'espulsione dai luoghi dell'ebraismo storico è una punizione imposta da Dio. Pertanto, non è legittimo tornare nella regione senza un chiaro segno divino. (Gran parte) di queste correnti rifiuta ancora la colonizzazione della regione del Medio Oriente/Nord Africa e dello Stato di Israele.
5.4. La maggior parte della società ebraica dell'Europa orientale reagì all'Illuminismo e all'emarginazione socioeconomica che lo accompagnò con un desiderio di assimilazione. Ciò fu rafforzato dall'istituzione di leggi che escludevano gli ebrei dalla vita sociale e talvolta portavano a conversioni al cristianesimo. Il movimento chassidico è una parte centrale delle nuove pratiche religiose che rispondono alle sfide dell'Illuminismo da una prospettiva conservatrice. Emerse nell'Europa orientale nel XVIII secolo e fu alimentata dall'insoddisfazione per le pratiche religiose di molte comunità ebraiche. La loro religiosità sembrava al chassidismo un mezzo molto debole contro le tentazioni della secolarizzazione. Invece, si è cercato di enfatizzare gli aspetti mistici ed esoterici della religione per distinguersi dall'Illuminismo. Il movimento rispose alle sfide dell'Illuminismo e si rivoltò contro i metodi tradizionali di insegnamento e discussione, in cui il testo religioso veniva interpretato attraverso l'esame di argomenti e contro-argomentazioni. Questa complessa tradizione religiosa è stata sempre più denigrata come verbalismo e sostituita dalla lettura letterale. Il chassidismo introdusse anche una serie di innovazioni nella pratica religiosa, sia in termini di orari di preghiera che di formulazione di alcune preghiere. In questo senso, qui si era già verificato un rinnovamento delle pratiche religiose (anche se in ambito molto limitato).
5.5 Nel contesto delle vittorie israeliane nella Guerra dei Sei Giorni, alcune parti dell'Ortodossia interpretarono tali vittorie inaspettate di un piccolo paese contro gli eserciti di paesi vicini molto più grandi come un segno di richiesta divina, e quindi come un appello per una colonizzazione aggressiva degli ex insediamenti. Questa corrente è dietro la parte del movimento dei coloni che ha stabilito nuove occupazioni in Cisgiordania ed è politicamente contraria a qualsiasi restituzione dei territori amministrati da Israele. Questo movimento non si considera sionismo. Il suo obiettivo non è uno stato-nazione ebraico o la conquista di altri stati da parte del potere politico. Invece, l'obiettivo dichiarato è quello di ripopolare le stesse aree dell'ebraismo storico. In questi luoghi, gli ebrei dovevano seguire la loro fede da soli, ma letteralmente. Nella società israeliana, questi sono i gruppi politici di estrema destra. I "destri" in Israele, quindi, non sono sionisti.
5.6. La rottura centrale che questo gruppo fa con la tradizione religiosa non deve essere sottovalutata. Si esprime, soprattutto, nel cambiamento del messianismo ebraico. Le speranze tradizionali nel Messia sono sempre state passive, perché speravano che Dio prendesse l'iniziativa e che con la sua azione riconducesse gli ebrei alla Terra Promessa. Oggi, questa visione del mondo viene progressivamente sostituita da un messianismo attivo che vuole far avanzare la "causa ebraica" da sola.

Julian Bierwirth - Pubblicato su História e Desamparo il 10/9/2024 -

lunedì 7 ottobre 2024

Fino alla luce di «un’ombra più bianca del pallore» …

Cinquanta sfumature di rosso. Il marxismo e la pluralizzazione del conflitto sociale
- di Alexis Piat -

Introduzione: Il rosso delle origini – Marx e la teoria materialista del conflitto

1 - Pochi autori sono più difficili da leggere di Marx. Non perché la concettualità marxiana sia particolarmente astratta o complessa – se è indiscutibilmente così, queste dimensioni appartengono di diritto a qualsiasi grande pensiero – ma perché il lettore deve sempre assicurarsi di leggere Marx correttamente, senza le innumerevoli scorie lasciate dalla storia che ricopre il testo. Se tale recupero avviene, il lettore non legge più Marx: sogna il pensiero o la pratica di un altro, quello di Althusser nel migliore dei casi, quello di Stalin quando le cose vanno davvero male. Tutti sanno che per Marx «la lotta di classe è il motore della storia». Tuttavia, sarebbe difficile fare riferimento a una tale formula quando essa sembra essere una figura imposta di commento (al punto che è difficile rintracciarne l'origine), dal momento che invece non appare da nessuna parte, come tale, nell'opera di Marx. [*1]
2 - D'altra parte, è indiscutibile che la prima sezione del Manifesto del Partito Comunista si apre con l'affermazione che «La storia di ogni società fino ai giorni nostri è la storia delle lotte di classe» [*2]. Tuttavia, è necessario fare diverse osservazioni su questa affermazione. In primo luogo, non è strettamente equivalente alla formula generalmente utilizzata dal commento: è infatti descrittiva, piuttosto che analitica, e la storia stessa deve essere intesa come il periodo su cui i resoconti scritti danno conto, e non come la sostanza del futuro delle società umane [*3]. In secondo luogo, si colloca all'interno di un testo il cui statuto non è strettamente teorico: il Manifesto è un documento di propaganda e, per quanto sia una propaganda di ottima qualità, e direttamente radicata nella teoria, il suo rigore è subordinato alle necessità dell'azione rivoluzionaria. Il Manifesto non può quindi essere considerato l'ultima parola di Marx ed Engels in termini di teoria sociale: per quanto questo documento contenga tesi essenziali sulla strategia rivoluzionaria, esso è anche sotto molti aspetti approssimativo.
3 - Tali chiarimenti appaiono indispensabili nella misura in cui, in loro assenza, il pensatore che cerca di pensare al conflitto potrebbe considerare Marx essenziale per la comprensione della lotta di classe, ma secondario rispetto alla comprensione di qualsiasi altro antagonismo sociale. Il presente articolo mira a dimostrare che una tale conclusione sarebbe non solo sbagliata, ma anche dannosa: Marx sta infatti sviluppando un quadro teorico che, se non senza difficoltà, fornisce le basi per una teoria generale essenziale del conflitto, che viene dimenticata solo a proprio danno. Chiunque conosca le opere di Marx e la tradizione marxista non può ignorare il fatto che esse non cessano mai di tematizzare conflitti che tuttavia non possono essere ridotti alla lotta di classe: la competizione inter-capitalistica [*4], le tensioni tra proletari di diverse nazionalità,[*5] le relazioni di genere [*6], solo per citarne alcuni. Questi conflitti, nonostante la loro diversità, sono tutti pensati attraverso il prisma dello stesso metodo, che costituisce il contributo specifico di Marx alla teoria sociale: il materialismo storico.
4 - Si tratta innanzitutto di una precisa tesi che riguarda l'origine dei pensieri umani, siano essi dell'uomo comune o del filosofo. Per Marx, il pensiero è prima di tutto pratico [*7]: si elabora cercando di risolvere i problemi che sorgono nel corso della vita. Di conseguenza, il pensiero è sempre ancorato a un dato contesto sociale e storico: gli stessi problemi filosofici "eterni" vengono a sorgere solo perché risultano da una determinata pratica, che porta alla loro evidenziazione e li fa apparire, in un dato momento e per una popolazione circoscritta, come importanti. Tuttavia, la pratica sociale ha due caratteristiche essenziali. Da un lato, ogni società è costituita da un insieme di pratiche interdipendenti [*8]: ciascuna di queste pratiche pone problemi particolari e sviluppa, in coloro che vi si impegnano, una visione del mondo determinata da questi problemi e dalle soluzioni che sono state fornite ad essi. Ogni società è quindi necessariamente attraversata da visioni del mondo diverse e potenzialmente conflittuali. Ogni visione del mondo sviluppata nel quadro di questa divisione del lavoro è infatti segnata da determinati interessi, che non sono immediatamente conciliabili con gli altri. La divisione del lavoro genera anche disuguaglianze in sé: certe posizioni permettono di esercitare il potere su altre, un potere che permette un'appropriazione privata della ricchezza sociale [*9]. D'altra parte, l'interdipendenza tra le diverse pratiche sociali è ineguale: se il filosofo ha bisogno del lavoro dell'agricoltore per la sua sussistenza, questo d'altra parte il più delle volte fa benissimo a meno del lavoro del filosofo. La vita sociale deve quindi essere intesa integralmente come una produzione, in cui il soddisfacimento dei bisogni materiali gioca un ruolo decisivo. È infatti il soddisfacimento di questi bisogni che condiziona la possibilità di altre pratiche, come quelle che permettono una vita intellettuale, politica o religiosa. Il conflitto sembra quindi essere all'intersezione di queste due dimensioni. In primo luogo, deve essere sempre prodotto, vale a dire che anche quando sembra dispiegarsi nella sfera delle idee pure (come una disputa filosofica), la sua origine deve essere legata a tutta la vita della società in cui è inserito. In secondo luogo, è il risultato di pratiche che sono in conflitto tra loro, sia perché sono intrinsecamente incompatibili tra loro sia, al contrario, perché sono interdipendenti ma portano a disaccordi sulla ripartizione del loro prodotto comune.
5 - Ciò che sorprende, quindi, è la relativa rarità dei conflitti e la capacità delle società di mantenere una certa unità. Questa unità deve infatti essere mantenuta con la forza: il potere politico, "il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra"[*10], è l'autorità sociale responsabile della sua realizzazione. Tuttavia, questa autorità non può basarsi solo sulla violenza: è nell'interesse delle classi dominanti far credere alla gente di dominare nell'interesse generale, in modo da facilitare il loro dominio [*11]. D'altronde, l'unificazione di una società divisa appare effettivamente necessaria, e il potere politico è l'unico a realizzarla: è quindi facile per esso presentarsi come garante dell'interesse generale, e far passare questo discorso di legittimazione come la ragione della sua esistenza [*12]. La vita sociale, presa nel suo insieme, appare quindi composta da livelli di importanza diseguale. Si basa sulla produzione di vita materiale, che ne costituisce l'infrastruttura, ma questa infrastruttura non può essere mantenuta senza una sovrastruttura politica che ne garantisca la coerenza, e un'ideologia, costituita dall'insieme delle forme di coscienza sociale determinate da questo tutto [*13]. Tra queste forme di coscienza, l'ideologia con cui la classe dominante giustifica il suo dominio gioca un ruolo centrale [*14].
6 - Il conflitto sociale appare quindi irriducibile al conflitto di classe: ogni pratica sociale, in quanto conduce a una visione del mondo e a interessi specifici, rischia di entrare in conflitto con le altre, così come è essa stessa attraversata dai conflitti. Questo conflitto deve anche essere prodotto: sia le questioni su cui si riferisce che i mezzi che mobilita (idee, supporti materiali di queste idee, armi, ecc.) sono in realtà il risultato cosciente o il sottoprodotto delle pratiche. È dunque da queste pratiche che dobbiamo partire per comprenderlo, e non per dare un'interpretazione idealistica, nel senso che Marx dà a questo concetto [*15], vale a dire, facendolo derivare da una semplice divergenza di idee che sarebbe primaria e costituirebbe un ordine autonomo di spiegazione. Se la lotta di classe ha allora una centralità, non è perché costituisce l'unico conflitto, e nemmeno la realtà nascosta di ogni conflitto sociale, ma perché è il conflitto principale che attraversa il livello fondamentale della realtà sociale, l'infrastruttura, da cui derivano tutti gli altri livelli. Questo non vuol dire che tutti i conflitti che si svolgono a questi altri livelli derivino da esso. La domanda allora è la seguente: come si conciliano questa centralità della lotta di classe e l'inevitabile molteplicità degli antagonismi sociali?

Un po' rosso sbiadito – Althusser e la sovradeterminazione del conflitto sociale
7 - Nulla sembra adattarsi meglio al modello di una pura lotta di classe di una rivoluzione comunista. Ora, come sottolineava Gramsci già nel 1918 [*16] la Rivoluzione d'Ottobre fu condotta sostanzialmente contro le previsioni del capitale: non in uno dei paesi capitalistici più avanzati, sulla base di un grande proletariato, ma al contrario in un paese arretrato, in gran parte agricolo, con una classe operaia certamente in espansione ma ancora embrionale. L'Ottobre dovrebbe quindi essere letto come la negazione dello schema marxista di una determinazione del conflitto sociale attraverso le contraddizioni dell'infrastruttura? La situazione è senza dubbio più complessa. Fu infatti la prima guerra mondiale che portò alla decomposizione del potere zarista: e questo, come ha dimostrato Lenin [*17], ha effettivamente trovato la sua radice nelle dinamiche economiche del capitalismo. Le grandi potenze capitalistiche, alla continua ricerca di nuovi sbocchi per far fronte alla tendenza alla sovraccumulazione del capitale da parte delle industrie nazionali, sono spinte a un'espansione coloniale che, in un mondo limitato, le porta necessariamente in conflitto tra loro. La guerra costituisce quindi un conflitto che, pur trovando la sua fonte ultima nelle infrastrutture, si dispiega fondamentalmente a livello degli Stati, in altre parole nella sovrastruttura. Lungi dal costringerci a rinunciare alla lotta di classe, ci costringe a constatare che essa trova ora la sua occasione centrale nella guerra stessa, e quindi in un evento di sovrastruttura. Diventa quindi urgente pensare a conflitti che, se sono radicati nelle infrastrutture, si dispiegano comunque altrove pur costituendo un'arena privilegiata per la lotta di classe.
8 - L'opera di Althusser può essere considerata come l'espressione teorica più compiuta di tale concezione, i cui lineamenti si trovano nell'opera teorica e pratica di Lenin, ma anche di Mao [*18], che rivendica esplicitamente [*19]. Per Althusser, ogni contraddizione sociale è, fondamentalmente, sovradeterminata: si riferisce a una molteplicità di fattori determinanti, e non a una singola causa. La contraddizione tra capitale e lavoro, dimensione centrale della lotta di classe sotto il capitalismo, non si presenta mai in forma pura: è [*20] costantemente mediata sia dalle sovrastrutture che dall'ideologia. Questi hanno un'efficienza propria, che è precisamente la base della loro esistenza. Riconoscere la loro efficacia implica pensare alla loro relativa autonomia, attraverso [*21] la quale essi sono attraversati dalle loro stesse contraddizioni e generano i loro stessi conflitti, che sono a loro volta sovradeterminati dall'insieme sociale in cui sono integrati. La società deve quindi essere pensata non come una totalità in senso hegeliano, emanante da un unico principio che genererebbe tutti i conflitti che la attraversano, ma come una struttura articolata dominante, attraversata da contraddizioni secondarie irriducibili alla contraddizione principale [*22]. Se la contraddizione di classe può tuttavia essere sempre chiamata principale, è perché domina tutte le altre contraddizioni della struttura, che devono necessariamente essere articolate con essa anche se non si riducono ad essa.
9 - Definire "secondaria" una contraddizione non significa, tuttavia, svalutarla. Una contraddizione secondaria può, infatti, senza perdere questo carattere secondario, arrivare a svolgere il ruolo principale in una determinata congiuntura politica [*23], perché tutte le altre vengono ad articolarsi attorno ad essa. Le guerre mondiali appaiono così come contraddizioni secondarie della fase imperialista del capitalismo, che sono diventate così mostruose da assumere necessariamente il ruolo principale e diventare sia il motivo essenziale che il momento opportuno per l'azione rivoluzionaria. Inoltre, anche quando non svolgono il ruolo principale, le contraddizioni secondarie non sono di per sé prive di importanza. L'ideologia e le sovrastrutture hanno conseguenze esistenziali molto concrete: Althusser fa così l'esempio dello stalinismo, che ai suoi occhi [*24] è principalmente un fenomeno sovrastrutturale, e della persistenza di uno stato autoritario di transizione su un'infrastruttura socialista. Questo stalinismo può allora essere oggetto di una critica morale, che è ideologica, ma che tuttavia ha la sua legittimità, essendo l'ideologia la forma in cui gli individui prendono coscienza della loro lotta e la portano fino in fondo [*25]. Non si tratta quindi di dire che, per il marxista, tutto ciò che non si riduce al conflitto di classe non è importante: vale davvero la pena lottare per la scienza o la libertà contro l'oscurantismo e l'oppressione. Tuttavia, gli effetti teorici di queste lotte ideologiche devono essere denunciati [*26]. E' infatti pericoloso fraintendere l'effettiva importanza delle contraddizioni secondarie, il che significherebbe perdere di vista il loro legame con la contraddizione principale. Perché allora si corrono diversi rischi: quello certo di dedicare la propria vita a cambiare le cose che alla fine contano poco, ma anche quello di esaurirsi in contraddizioni che, anche se cruciali, dipendono talmente dalla contraddizione principale da non essere suscettibili di una soluzione autonoma.
10 - Resta il fatto che la sovradeterminazione e la gerarchia delle contraddizioni sembrano andare di pari passo. In primo luogo, perché, come ci ricorda lo stesso Althusser [*27], non è a posteriori che i conflitti generati nell'infrastruttura sono regolati dalla sovrastruttura e dall'ideologia. Al contrario, è dalla fabbrica in poi che i lavoratori sono sottoposti a un'organizzazione della produzione destinata a soggiogarli e a spezzare le loro lotte, e a un discorso volto a camuffare il carattere ideologico della produzione. Da allora in poi, come sottolinea giustamente Foucault [*28], non è più possibile postulare alcun primato dei rapporti di produzione sui rapporti di potere: i rapporti di potere diventano infatti forze direttamente produttive, vengono utilizzati non solo per regolare la produzione, ma anche per massimizzarla.
11 - In secondo luogo, perché, come sottolineano Laclau e Mouffe [*29], la molteplicità dei punti di conflitto e delle relazioni di potere che funzionano in una società complessa la spinge a organizzare questi conflitti attorno a blocchi egemonici, in cui posizioni che non sono collegate a priori sono articolate insieme dalla sola grazia di un progetto comune che permette a ciascuno di loro di condurre la propria lotta. È allora il discorso, che costruisce questi blocchi egemonici articolando le richieste che provengono da posizioni diverse, che diventa l'organo decisivo per la costituzione dei conflitti sociali in conflitti politici. E non c'è, a priori, alcuna ragione per cui questo discorso debba essere costruito in modo privilegiato su una base di classe, quando tanti altri conflitti attraversano la società. Il pensiero di Althusser aprì allora la porta, nonostante le intenzioni dell'autore, all'abbandono del marxismo e al ritorno all'idealismo. Tuttavia, un tale abbandono sembra sconsiderato fin dall'inizio: la moltiplicazione delle linee di conflitto che attraversano la società, delle posizioni definite da queste linee, così come l'affievolirsi del conflitto di classe a causa dell'espansione delle classi medie, sembrano in ultima analisi essere gli effetti della complessificazione sociale, derivante dallo sviluppo delle infrastrutture. Inoltre, le analisi di Mouffe e Laclau non portano a una vera teoria del conflitto: portano solo a presentare il conflitto come il risultato di una costruzione, il cui successo o fallimento appare quindi casuale. Una teoria materialista del conflitto è quindi ancora necessaria. Ma se questa deve necessariamente partire dalle infrastrutture, non può più stabilire alcun primato della lotta di classe [*30].

Una sfumatura più scura – Kurz e la critica del valore
12 - La confusione a cui conduce la teoria del conflitto di Althusser non deve portare all'abbandono del marxismo, per la semplice ragione che non gli è del tutto fedele. Althusser – ed è essenziale ricordare qui che egli non è che il rappresentante più brillante di una tradizione teorica che lo ha preceduto in quanto deriva dalla pratica dell'Internazionale comunista e che ha avuto ancora una certa posterità dopo di lui – considera il marxismo fondamentalmente una teoria della lotta di classe. Ora, come ci ricorda Kurz, e con lui tutta la corrente nota come "critica del valore", il gesto essenziale del marxismo non è primariamente quello di una teoria della lotta di classe, ma quello di una critica del capitalismo [*31]. Il capolavoro di Marx, Il Capitale, non parte dunque da un'analisi della lotta di classe, ma da quella della categoria centrale dell'esistenza capitalistica, che è il valore [*32]: le classi non sono il punto di partenza dell'analisi, ma una delle sue tappe intermedie, in quanto la loro esistenza è oggetto di una [*33] deduzione logica. Il conflitto non è quindi al punto di partenza dell'analisi marxista, la sua spiegazione richiede al contrario che sia stato spinto a un punto relativamente avanzato. Il marxismo inizia con lo studio della produzione, e questo non è immediatamente conflittuale: nel capitalismo, il suo obiettivo primario non è né lo schiacciamento della concorrenza né lo sfruttamento dei lavoratori, mira semplicemente all'aumento del valore anticipato dal capitalista, ed è su questa base che può poi diventare conflittuale.
13 - In quanto tale, questa analisi non ha motivo di limitarsi al capitalismo: che l'analisi marxista parta dalla logica della produzione, e solo allora ne deduca gli antagonismi sociali, non è vero solo nel Capitale, ma anche nell'Ideologia tedesca ̧ dove il ragionamento intende essere applicabile a qualsiasi modo di produzione. Se la corrente della critica del valore rifiuta tuttavia una tale generalizzazione, è perché ai suoi occhi il lavoro, in quanto sfera separata dal resto dell'esistenza, è una realtà specifica del capitalismo: altre forme di società [*34] non conoscono nulla di simile al "lavoro" nel senso moderno del termine. Vale a dire, il lavoro in generale, ma solo le attività che si differenziano fin dall'inizio e che non sono raggruppate in una categoria globalizzante, le uniche da raggruppare sono quelle che equipareremmo al lavoro servile. Da un punto di vista pratico, questa restrizione è secondaria, poiché il capitalismo oggi tende a sussumere tutte le relazioni sociali [*35]. Da un punto di vista teorico, d'altra parte, la cosa è importante, e ci sembra essenziale qui ricordare che, anche se il rifiuto dell'applicazione universale della categoria del lavoro da parte della critica del valore è fondato, resta il fatto che l'esistenza sociale, in tutti i suoi aspetti, ha bisogno di essere prodotta. Come diceva lo stesso Marx [*36], il feudalesimo non poteva vivere di religione, anche se la religione costituiva la forma con cui veniva compreso come società dotata di una coerenza. Ogni conflitto coinvolge idee, supporti per quelle idee e armi, tutte cose che devono essere prodotte. Di conseguenza, l'analisi materialistica del conflitto deve sempre partire dalla produzione (intesa qui nel senso più ampio di un divenire), anche quando riguarda le società non capitaliste.
14 - Essendo esplicite queste riserve, la critica del valore permette tuttavia di sottolineare che la lotta di classe non gode di alcun privilegio giuridico nell'analisi materialistica del conflitto. Esso è certamente consustanziale al capitalismo, poiché i capitalisti sfruttano necessariamente i salariati in esso. Tuttavia, altre contraddizioni e aree di conflitto lo attraversano: il capitalismo non è quindi meno necessariamente basato su un insieme di relazioni sociali non di mercato, il cui mantenimento è generalmente devoluto alle donne, e che portano allo sviluppo di norme che non sono riducibili a quelle della redditività e entrano in conflitto con esse. Il capitalismo presuppone quindi necessariamente la produzione di una femminilità in posizione subordinata, vale a dire l'esistenza di un patriarcato [*37], che genera un conflitto tra uomini e donne. Il capitalismo è anche caratterizzato da una competizione generalizzata, non solo tra capitalisti, ma anche tra lavoratori e persino tra Stati, che hanno bisogno di risorse per portare avanti le loro politiche.
15 - La centralità della lotta di classe nel capitalismo appare quindi legata a un momento specifico del suo sviluppo, segnato dal carattere miserabile della classe operaia [*38]. Questa classe operaia è stata tuttavia gradualmente integrata nel capitalismo, sia [*39] con mezzi politici (lo sviluppo dell'imperialismo e dello stato sociale) che con mezzi economici (crescita economica e ampliamento della gamma dei salari, introducendo divisioni all'interno dei lavoratori stessi). Anche se sarebbe sbagliato dire che tali sviluppi sono sufficienti a riconciliare gli sfruttatori e gli sfruttati, essi tendono tuttavia a trasformare la lotta di classe in un semplice battibecco sulla spartizione della torta, la cui ricetta [*40] nessuno più contesta. Altri conflitti possono poi venire in primo piano: in particolare quelli relativi allo stile di vita, come l'ecologia o il femminismo, che la sociologia ha spesso definito "nuovi movimenti sociali" [*41]. La pluralizzazione del conflitto sociale, che Laclau e Mouffe usarono come pretesto per respingere il marxismo nella sua versione althusseriana, è così spiegata in termini materialistici. Allo stesso modo, si dimostra che è impossibile rispondere alle nuove esigenze politiche del tempo senza uscire dal capitalismo. Nella misura in cui la trasformazione sociale sottomette l'intera produzione sociale all'esigenza di un aumento di valore, ogni progetto di trasformazione sociale incompatibile con questo aumento deve diventare rivoluzionario per rimanere coerente. Il pericolo dell'idealismo è quindi di nuovo in agguato per l'analisi: come spiegare che gli individui potrebbero voler uscire dal capitalismo, se tendono a essere prodotti in conformità con le esigenze del capitale e se quest'ultimo soddisfa i loro bisogni integrandoli nel sistema? Il rischio è allora quello di invocare una decisione etica, la cui origine rimarrebbe misteriosa.
16 - Se un tale rischio è evitabile, è perché il capitalismo è attraversato da un conflitto ineliminabile, che in ultima analisi si rivela molto più decisivo della lotta di classe: la competizione. Questo sta infatti spingendo verso l'adozione di processi produttivi sempre più efficienti, ovvero sempre più automatizzati. Il lavoro tende quindi a diventare obsoleto, anche se il suo sfruttamento è la condizione per ogni redditività sotto il capitalismo [*42]. Di conseguenza, la concorrenza tende a far precipitare il capitalismo nella crisi, che diventa essa stessa un fattore di intensificazione della concorrenza. Questo tende poi a portare a una recrudescenza dei conflitti sociali: il numero dei soprannumerari, esclusi dalla concorrenza, esplode, la logica dell'esclusione si moltiplica [*43], così come gli atti di predazione e saccheggio [*44], che vanno dal piccolo brigantaggio alle guerre civili negli stati falliti. Mentre tutti sentivano il terreno cedere sotto i piedi e cercavano di aggrapparsi ai pochi luoghi stabili, il conflitto si diffuse in tutta la società mondiale, che tendeva allora verso una situazione hobbesiana di guerra generalizzata. Questo tempo non fu solo quello del mantenimento dell'ordine attraverso la generalizzazione dello stato di eccezione [*46], ma anche di una riattivazione fascista delle vecchie opposizioni sociali, in particolare razziste e sessiste, che si ritenevano obsolete [*47], e delle esplosioni di violenza individuale legate alla generalizzazione di un narcisismo consumistico [*48].
17 - Se questo quadro, che siamo qui costretti a riassumere, sembra fornire sotto molti aspetti un riassunto sorprendente del nostro presente, non è tuttavia privo di difficoltà. La posizione estremamente onnicomprensiva adottata dalla critica del valore sembra quindi suggerire che nulla è possibile nella fase del collasso capitalistico, dal momento che l'unico atto politico che si suppone sia quello di lavorare affinché questo collasso conduca al socialismo piuttosto che alla barbarie. Tuttavia, bisogna ammettere che non tutto ciò che si dispiega alla fine del capitalismo è uguale: Kurz è quindi costretto a riconoscere che il nuovo estremismo di destra deve essere combattuto per se stesso, anche se può essere sconfitto a lungo termine solo con l'uscita dal capitalismo [*49]. Se è certamente necessario riconoscere che ogni conflitto sociale è mediato dalla forma di valore [*50] nel capitalismo – che determina sia la politica, che ha sempre bisogno di essere finanziata, sia l'ideologia, che viene ora diffusa sotto forma di merci la cui produzione deve essere redditizia – questa mediazione non ci esime dall'interessarci al suo contenuto. A questo si rinuncia tanto meno in quanto, nell'epoca del crollo della forma valore e della moltiplicazione dei soprannumerari, il conflitto emerge proprio dalle zone del mondo sociale che non sono più sussunte nella forma del valore. Il problema, sollevato dall'interno della corrente stessa della critica del valore di Roswitha Scholz [*51], di una teoria marxista del conflitto, è quindi ora quello di un'articolazione della dinamica della forma valore con la diversità dei contenuti della totalità sociale concreta.

A Lighter Shade of Pale – Deleuze, Guattari e la cospirazione del conflitto
18 - Se c'è un'innegabile eleganza nell'aspettare impassibile che il vecchio mondo perisca, è chiaro che trascorriamo la maggior parte della nostra vita in sovrastrutture. Il tumulto che vi si svolge, se è superficiale dal punto di vista storico, costituisce tuttavia il tessuto quotidiano della nostra esistenza. Sembra quindi che ci sia qualcosa di un po' "poliziotto" nella tendenza della critica del valore a spazzare via come irrilevanti i conflitti transitori che attraversano l'esistenza del capitalismo per insistere sulla sua tendenza alla crisi. Perché l'imminenza stessa di quest'ultimo non ci esime dal dover vivere, e come tale abbiamo ragione di dare estrema importanza al transitorio. La stessa critica, del resto, può essere rivolta all'idea di una gerarchia delle contraddizioni che troviamo in Althusser. Ogni contraddizione è la principale per chi combatte sul fronte che disegna.
19 - Da questo punto di vista, il pensiero di Deleuze ha il merito di ricordarci che un concetto ha senso solo in relazione al problema che si propone di risolvere: la gerarchia dei conflitti [*52] è quindi destinata ad essere essa stessa conflittuale, in quanto presuppone sempre un criterio, elaborato sulla base di una determinata posizione nel tessuto dei conflitti che costituisce la società. Fatta questa constatazione, non si tratta di rinunciare a ogni materialismo, ma di pensare a una forma di articolazione strategica delle lotte. Tutti i conflitti si svolgono in uno spazio strategico in cui alcune azioni sono aperte ai lottatori, mentre altre sono condannate a priori: agire politicamente significa saper cogliere il virtuale, che Deleuze definisce il possibile in quanto costituisce una dimensione oggettiva delle cose [*53]. Se questo virtuale non comanda di per sé alcuna azione, è tuttavia concepibile solo sulla base di esso [*54]. Tuttavia, è necessario notare con la critica del valore che il capitalismo in crisi, rendendo redditizio un numero sempre minore di idee e politiche, non cessa mai di ridurre lo spazio che le cose oggettivamente lasciano al possibile. Il capitalismo è stato certamente il primo a essere il virtualizzatore per eccellenza, a causa dell'astrazione stessa della forma merce, indifferente al suo contenuto, che permette l'esistenza di tutto ciò che è redditizio. Tuttavia, man mano che questa forma entra in crisi e diventa più vincolante, sembra al contrario esercitare un potere di de-virtualizzazione sempre più forte. Per dirla in termini più concreti: se l'ascesa del capitalismo ha permesso alle lotte operaie di portare alla sicurezza sociale, la sua crisi porta non solo alla messa in discussione delle conquiste operaie, ma anche alla radicale impossibilità di politiche ecologiche o femministe ambiziose, queste ultime sempre riferite alla "mancanza di mezzi".
20 - È quindi impossibile essere, nel contesto della crisi del capitalismo, risolutamente ecologisti o femministi senza essere anticapitalisti proprio per questo motivo. Tuttavia, la prospettiva di Deleuze ci permette di andare oltre, e di pensare più in generale all'inclusione di qualsiasi lotta nel suo contesto. Con Guattari, Deleuze sviluppa una visione della società in cui essa può essere pensata interamente in termini di produzione: la società è un'immensa macchina, [*55] che collega non solo macchine produttive, ma anche macchine di potenza e macchine di enunciazione. Le dichiarazioni politiche, nella misura in cui organizzano conflitti, devono quindi essere intese non in base a ciò che dicono, ma in base al modo in cui funzionano [*56]. L'efficacia di un tipo di enunciato implica quindi diversi criteri: in primo luogo, che enunciati di questo tipo possano essere prodotti in quantità sufficienti per avere un effetto trasformativo, il che implica che siano trasmessi da dispositivi di enunciazione che fungono da supporto materiale [*57]. In secondo luogo, che queste affermazioni colgano potenzialità che sono suscettibili di offrire efficacemente un appiglio per l'azione [*58]. Infine, che si basano sulla preesistenza di un certo tipo di desiderio nella società, a cui danno un oggetto, che orientano e che possono aiutare a rafforzare. La disposizione dell'enunciazione così formata è solo un pezzo di un più ampio apparato di potere, che aiuta a portare all'esistenza. Nella misura in cui queste disposizioni e dispositivi sono qui pensati nel quadro di una teoria del conflitto, è ovvio che devono essere pensati in relazione ad altri accordi e dispositivi, con i quali sono tendenzialmente incompatibili. Agire strategicamente significa allora costruire assetti e meccanismi di potere che permettano di portare avanti la propria lotta fino alla fine [*59].
21 - È a questo livello di analisi, che è strettamente materialista, che le lotte contemporanee per l'emancipazione devono cercare le loro prospettive. È quindi chiaro che non possono sfuggire alla questione dell'egemonia, intesa come quella dell'articolazione delle diverse lotte in un insieme coerente. Ma questa domanda non può essere posta nel senso di conferire centralità al discorso: il discorso diventa efficace solo nella misura in cui articola desideri preesistenti, assicura i canali della sua diffusione e si basa su una considerazione strategica dei propri effetti. In questo senso, la ripetizione e l'accuratezza del discorso sono meno importanti del suo inserimento in una configurazione strategica e del ruolo che svolge in essa: qualsiasi militanza che trascuri questi parametri corre il rischio di tagliarsi fuori dai potenziali alleati e di vedersi, nel lungo periodo, spazzare via le proprie vittorie da un contraccolpo alimentato da tutti i risentimenti che avrà suscitato.
22 - Da questo punto di vista, nessuna lotta per l'emancipazione può permettersi di trascurare la coerenza degli assetti che affronta e la loro iscrizione nel contesto del capitalismo in crisi: la tendenza di quest'ultimo non solo a de-virtualizzare, ma anche a rendere impossibile ciò che esisteva solo ieri, lo fa funzionare come un'immensa macchina per la produzione di inquietudini e atteggiamenti reazionari. dominato dalla logica della predazione e dell'esclusione. In un tale contesto, dare all'uno è necessariamente prendere dall'altro, il che porta sia a una moltiplicazione dei fronti sia a una proliferazione delle logiche identitarie. In questa configurazione, quindi, solo gli accordi che già esistono o sono conformi alle esigenze dell'assiomatica capitalistica possono mantenere la coerenza: avete il diritto di essere neri, donne o pazzi finché siete redditizi, per il resto, qualsiasi richiesta di un trattamento dei problemi che vi riguardano a pieno titolo sarà accolta dal ridicolo dei media e dai manganelli della polizia.
23 - Detto questo, nessun movimento rivoluzionario può pretendere di essere indifferente al contenuto delle lotte concrete per l'emancipazione: da un lato, perché è proprio da esse che gli individui prendono coscienza della necessità della trasformazione sociale, dall'altro, perché la de-virtualizzazione non è una vittoria totale e parziale, che anzi migliora la vita di chi le conquista, sono ancora in parte possibili. I marxisti, nella misura in cui ereditano l'analisi materialistica della società e del conflitto, sono precisamente nella posizione migliore per identificare le strategie in grado di ottenere queste vittorie parziali, di articolare insieme le diverse lotte, organizzando al contempo una strategia globale di uscita dal capitalismo. Marx ed Engels non chiedevano nient'altro per i comunisti del loro tempo [*60]. Tuttavia, ciò richiede organizzazioni capaci sia di effettuare le necessarie analisi materialistiche sia di risolvere sulla base di esse i conflitti che inevitabilmente sorgeranno tra i diversi movimenti di emancipazione, così come tra questi e i loro avversari.
24 - In assenza di tali organizzazioni, i movimenti di emancipazione sono oggi più frammentati e più deboli che mai. La crisi del capitalismo tende a stabilire, su scala globale, l'egemonia di un nuovo estremismo di destra che le denunce senza analisi non fanno che rafforzare. E' quasi la mezzanotte del secolo, ed è proprio nella misura in cui i conflitti che ci attendono non sono semplici conflitti di classe che il materialismo storico è, più che mai, prezioso per pensarli, vincerli e superarli. Non si tratta, naturalmente, di realizzare una società senza conflitti: la pace perpetua esiste solo nell'utopia, dove tutti sanno che ci annoiamo. D'altra parte, si tratta di creare un mondo in cui il conflitto sia una fonte di sviluppo vitale piuttosto che un'opportunità per scatenare istinti di morte [*61]. È, naturalmente, troppo presto per delineare il volto di un mondo del genere e le istituzioni con cui risolverà i suoi conflitti. Ma sappiamo già che il materialismo storico, come teoria della produzione della società in sé, rimarrà uno strumento indispensabile per la sua analisi e costruzione.

- Alexis Piat - Pubblicato sul n°23/2024 di “Amnis” -

NOTE:

1 - Sebbene l'ideologia tedesca contenga alcune formule simili, queste possono tuttavia essere intese solo negativamente, in opposizione alle analisi idealistiche della storia, che vedono nello svolgersi della storia l'effetto del movimento autonomo delle idee.

2 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "Manifesto del Partito Comunista".

3 Ivi-

4 Marx, Karl, "Il Capitale, Libro I".

5 Engels, Friedrich, La situazione della classe operaia in Inghilterra.

6 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "L'ideologia tedesca"

7 Marx, Karl, "Tesi su Feuerbach".

8 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "L'ideologia tedesca".

9 Ivi.

10 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "Manifesto del Partito Comunista".

11 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "L'ideologia tedesca".

12 Ivi.

13 Marx, Karl, "Critica dell'economia politica".

14 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "Manifesto del Partito Comunista".

15 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "L'ideologia tedesca".

16 Gramsci, Antonio, "La révolution contre le capital", Ecrits Politiques I (1914-1920), Paris, Gallimard, 1974, pp. 135-138.

17 Lenin, Vladimir, L'imperialismo, la fase suprema del capitalismo, Parigi, Le Temps des Cerises, 2001.

18 Mao, Zedong, De la pratique et de la contradiction, Parigi, La Fabrique, 2011.

19 Althusser, Louis, "Contraddizione e sovradeterminazione", Pour Marx, Parigi, La Découverte, 2005, pp. 92-93.

20 Ivi, p. 113.

21 Ivi, p. 111.

22 Althusser, Louis, "Sulla dialettica marxista", op. cit., p. 211.

23 Ivi, p. 219.

24 Althusser, Louis, "Contraddizione e sovradeterminazione", op. cit., p. 116.

25 Althusser, Louis, "Al lettore", op. cit., p. 262.

26 Ivi.

27 Althusser, Louis, Sur la reproduction, Parigi, Presses Universitaires de France, 1995.

28 Foucault, Michel, Surveiller et punir: naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.

29 Laclau, Ernesto & Mouffe, Chantal, Egemonia e strategia socialista: verso una radicalizzazione della democrazia, Parigi, Fayard, 2019.

30 Meiksins Wood, Ellen, Il ritiro dalla classe: un nuovo socialismo "vero", Londra e New York, Verso, 1986.

31 Kurz, Robert & Lohoff, Ernst, Il feticcio della lotta di classe, Albi, Crisi e critica, 2021, p. 11.

32 Marx, Karl, "Il Capitale, Libro I", Œuvres I – Economie I, Parigi, Gallimard, 1963, pp. 561-619.

33 Kurz, Robert & Lohoff, Ernst, op. cit., p. 12.

34 Krisis, Manifeste contre le travail, Parigi, 18/10, 2004, sezione V.

35 Ibidem, sezione VIII.

36 Marx, Karl, "Il Capitale, Libro I", Œuvres I – Economie I, Parigi, Gallimard, 1963, pp. 616-617.

37 Scholz, Roswitha, Il sesso del capitalismo: "mascolinità" e "femminilità" come pilastri del patriarcato produttore di merci, Albi, Crise et Critique, 2019.

38 Lohoff, Ernst, La fine del proletariato come inizio della rivoluzione, Albi, Crisi e critica, p. 29.

39 Postone, Moishe, Tempo, lavoro e dominazione sociale: una reinterpretazione della teoria critica di Marx, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 314-324.

40 Kurz, Robert & Lohoff, Ernst, op. cit., pp. 29-40.

41 Scholz, Roswitha, Forma sociale e totalità concreta: sull'urgenza di un realismo dialettico oggi, Albi, Crisi e critica, 2024, p. 53.

42 Kurz, Robert & Lohoff, Ernst, op. cit., pp. 70-71.

43 Kurz, Robert, Imperialismo dell'esclusione e Stato di eccezione, Parigi, Divergenze, 2018, p. 88.

44 Ivi, p. 16.

45 Ibidem, pp. 8-9 (Prefazione di Anselm Jappe).

46 Ivi, pp. 56-57.

47 Kurz, Robert & Scholz, Roswitha, Quando la democrazia divora i suoi figli: osservazioni sui fascismi storici e il nuovo estremismo di destra, Albi, Crisi e critica, 2024

48 Jappe, Anselmo, La società autofaga: capitalismo, eccesso e autodistruzione (edizione digitale), Parigi, La Découverte, 2017, pp. 255-263.

49 Kurz, Robert & Scholz, Roswitha, op. cit., p. 147.

50 - La forma valore designa, per Marx, il fatto che tutto il lavoro nel capitalismo si presenta sotto forma di merce con un valore, che gli permette di essere messo su un piano di parità con gli altri. Questa proprietà non è naturale, ma sociale, e determina tutti gli aspetti della vita sotto questo modo di produzione, compresi quelli che non riguardano la produzione stessa.

51 Scholz, Roswitha, Forma sociale e totalità concreta: sull'urgenza di un realismo dialettico oggi, Albi, Crisi e critica, 2024.

52 Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione, Parigi, Presses Universitaires de France, 1968, pp. 169-218.

53 Ivi, p. 269.

54 Piat, Alexis, "Deleuze e Platone. Usi strategici del comune e dell'universale", Savoirs en lien [online], n° 2, 2023.

55 Deleuze, Gilles & Guattari, Félix, L'Anti-Œdipe: capitalisme et schizophrénie I ̧ Paris, Minuit, 1972

56 Deleuze, Gilles & Guattari, Félix, Mille Plateaux: capitalisme et schizophrénie II, Paris, Minuit, 1980, p. 100.

57 Ivi, p. 101.

58 Ivi, p. 106.

59 Ivi, p. 102.

60 Engels, Friedrich & Marx, Karl, "Manifesto del Partito Comunista", Opere I – Economia I, Parigi, Gallimard, 1963, p. 174.

61 Guattari, Félix, Les trois écologies, Parigi, Galilea, 1989.