mercoledì 20 novembre 2024

GUARDARSI LAGGIÙ DENTRO ...


«Ho qualcosa laggiù dentro che mi riporta all’infanzia – è la luce dello stallo del tempo nel dopo-pranzo in quel momento in cui gli orologi ticchettano e i cuori tacciono, e i padri se ne vanno per tornare al lavoro, e le madri stanno al lavello del cucina a riflettere su qualcosa che non ti diranno mai. Tu ricordi troppo, mi ha detto di recente mia madre: "Perché tenersi tutto dentro?" E io: "E dove mai potrei metterlo?". È passata a una domanda sugli aeroporti».

- Anne Carson - da "Whacher"***

*** NOTA:  Una lezione autografa di Emily Brontë, di solito emendata in “whether”, qui recuperata come equivalente di “watcher”, usato prima come sostantivo, e poi anche come verbo, to whach (per to watch, “guardare, osservare”).

martedì 19 novembre 2024

A che serve, in pratica, la teoria ???

Ecco un libro che incarna perfettamente la frase di Franz Kafka: «Un libro deve essere l'ascia che rompe il mare ghiacciato che è dentro di noi». Ripercorrendo la storia della sinistra, questo saggio demolisce ogni mito, fa vedere ogni ingranaggio arrugginito di quella che è una concezione feticizzata del rapporto tra prassi e teoria, e la smonta pezzo per pezzo decostruendola con implacabile rigore. E malgrado tutto, esiste ancora chi si aggrappa a queste reliquie altrettanto dogmatiche della “ prassi ” stessa, arrivando persino a invocare, sulla questione, un personaggio insignificante come Mao... L'autore riesamina interamente il problema della relazione tra prassi e teoria, e scardinandone le fondamenta classiche, ne ridefinisce i termini e spazza via le false opposizioni: Horkheimer, Adorno, Bloch, Gramsci, Anderson, Foucault, Althusser, Negri, Tronti, Holloway, Debord, il marxismo di Stato, quello (post)operaista e quello di liberazione nazionale, la sinistra postmoderna heideggeriana; niente e nessuno viene risparmiato, soprattutto la critica della dissociazione-valore, la quale deve continuare a essere incessantemente trasformata.

«Grigia è, mio caro amico, ogni teoria, verde l'albero d'oro della vita.» Ribaltando questa famosa frase del Faust di Goethe, Robert Kurz ridefinisce i termini di quella che rimane una questione classica: «A che serve in pratica la teoria?», e nel farlo critica tanto l'impazienza attivistica per l'immediato divenire-prassi della teoria, quanto la pseudo-attività nella quale si immobilizza e rimane bloccata questa volontà di agire. Ponendo in evidenza il fatto che la falsa unità di teoria e pratica continua a muoversi all'interno di un sistema patriarcale produttore di merci, in tal modo l'autore prende in contropiede il marxismo tradizionale, che legge in maniera acritica l'undicesima Tesi su Feuerbach, secondo cui «I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo.», quando mentre Marx invece non concepiva affatto la «trasformazione del mondo» come se si trattasse di un manuale di istruzioni da seguire. Partendo da Adorno e andando oltre, l'autore ci fornisce una vasta contro-storia dei dibattiti che hanno affrontato il «problema della prassi», e la sua relazione con la teoria tra i pensatori e i movimenti di sinistra: Horkheimer, Bloch, Gramsci, Anderson, Foucault, Althusser, Negri, Tronti, Holloway, Debord, i marxismi di Stato, i movimenti di liberazione nazionale, la sinistra postmoderna e post-operaista. La riproposizione e il ripensamento del concetto di «pratica teorica» consente di affinare una teoria critica che non si riduca a un'interpretazione immanente della realtà capitalistica, ma la superi in direzione di una critica categorica; vale a dire, riferendosi alla costituzione feticista della modernità capitalistica.

Indice dei contenuti

1.  Disagio nella teoria
2.  Adorno, le esigenze tronche della pratica e la "pseudo-attività".
3.  "Pratica teorica" e interpretazione-reale capitalista.
4.  Trattamento della contraddizione e "pratica ideologica".
5.  Il capitalismo come trasformazione del mondo: critica affermativa e critica categoriale.
6.  Teoria della struttura e teoria dell'azione.
7.  La "modernizzazione di recupero" e il postulato di una "unità inscindibile" tra teoria e prassi.
8.  La ragione strumentale.
9.  La svolta teorica dell'azione. Il marxismo occidentale e la "filosofia della prassi".
10. "Marxismo strutturalista" e la teoria politica dell'azione.
11. Il pendolo di Foucault. Dal marxismo di partito all'ideologia di movimento.
12. Il ritorno del "soggetto". Metafisica dei diritti dell'uomo e falsa autonomia.
13. "Noi siamo tutto": Miseria del (post)operaismo.
14. Dalla capitolazione dell'ideologia autoreferenziale del movimento a un nuovo concetto di "pratica teorica".

Sotto un sole nero…

4 citazioni da: Sous le Soleil Noir du Capital, di Anselm Jappe

«Nessun gruppo sociale definito dal suo ruolo nella produzione di valore può, in quanto tale, essere considerato “ di per sé” estraneo alla logica del capitalismo, e pertanto necessariamente votato a superarla. Non esiste alcun soggetto necessariamente “rivoluzionario” - che si tratti della classe operaia, dei popoli del Terzo Mondo, delle donne o degli emarginati - non esiste alcun “polo buono” che sia pronto ad appropriarsi del mondo, e a cui venga impedito di farlo solo attraverso la “manipolazione”, o la violenza delle classi dominanti. Il valore costituisce una forma “a priori” - in senso kantiano - identica per tutti, e questo significa che, per ciascuno, i propri interessi si presentano primariamente nelle medesime forme astratte del denaro e dei “diritti democratici”.» - p. 46

«Il marxismo tradizionale non ha saputo riconoscere nelle classi una categoria che deriva dal feticcio della relazione capitalistica. Ma le ha erroneamente considerate come se fossero le reali protagoniste della società, sussumendo ogni categoria riproduttiva del capitale sotto la extrema ratio di una soggettività sociologica. I soggetti collettivi, al pari delle classi, non sono in realtà gli attori della Storia, ma vengono essi stessi costituiti, ricomposti e poi dissolti nel movimento senza soggetto del valore, e del quale rappresentano immanentemente le differenti personificazioni e aggregati sociologici; con interessi contrapposti, ma all'interno di una forma comune presupposta.  Il conflitto tra proletariato e borghesia non è stato altro che un conflitto all'interno della relazione capitalistica: il conflitto tra un polo personificato di questa relazione e uno opposto. Poiché l'auto-movimento tautologico e senza soggetto dell'accumulazione del capitale non è una ripetizione dell'identico all'interno delle stesse forme empiriche, sociologiche e storiche, la fenomenizzazione sociologica della relazione capitale-capitale non sempre ha assunto la forma delle grandi classi sociali evocate da Marx nel XIX secolo, e considerate erroneamente come l'essenza del capitalismo. Essa costituisce piuttosto una relazione dinamica che continuamente modella e ricodifica i suoi supporti concreti e visibili per renderli adeguati alle sue condizioni che si trasformano. Per questo motivo, la struttura sociologica derivante dal capitalismo cambia anch'essa nel corso della sua storia e della sua traiettoria di produzione.» p. 50-51

«Il capitalismo è un sistema feticista e incosciente, governato dal “soggetto automatico” (Marx) della valorizzazione del valore. Il dominio personale dei proprietari giuridici dei mezzi di produzione sui venditori di forza lavoro non è che la traduzione “sociologica”, visibile in superficie, del meccanismo autoreferenziale di accumulazione del capitale.» p. 66


«Il fatto che le attività dissociate non producano direttamente valore, non significa affatto che esse costituiscano una dimensione “libera” o “non reificata”: esse svolgono un ruolo di supporto al lavoro astratto, e ne recano in sé l'impronta. Detto in termini concreti, se non avesse una moglie che si occupa del suo benessere, dei lavori domestici e dell'educazione dei figli, il “lavoratore” maschio non sarebbe in grado di creare valore. Pertanto, il valore è strutturalmente “maschile”, sebbene le donne possano produrre valore e talvolta persino comandarne la produzione. Secondo la critica della dissociazione del valore, la società del valore e del lavoro è fondata, storicamente e logicamente, su una logica di esclusione: vengono considerati “soggetti” a pieno titolo solo coloro che hanno interiorizzato completamente la mentalità del lavoro e i suoi corollari; autodisciplina, razionalità, durezza verso sé stessi e gli altri, spirito competitivo, ecc.,  respingendo tutto il resto (e questa è la “dissociazione”). A livello di soggettività, il soggetto “maschile” e il non-soggetto “femminile” si costituiscono sulla base di questa dissociazione-valore. La dissociazione non riguarda solo le donne dal punto di vista socio-psichico. Per sopravvivere ed essere performante nell'universo delle merci e del lavoro, della politica, della scienza e dello Stato, lo stesso soggetto maschile socialmente dominante deve interiorizzare, attraverso la violenza verso se stesso e l'autodisciplina, le costrizioni sociali oggettive per potersi rendere adeguato al funzionamento di un tale mondo. Un processo, questo, che renderà il suo genere il “sesso del capitalismo”. In questo processo di soggettivazione, l'uomo adotta la forma del soggetto moderno. Egli è da quel momento in poi il soggetto della conoscenza e della volontà, ed è soprattutto, a livello logico e storico, il soggetto economico e il soggetto politico - homo economicus e homo politicus - e alla fine anche il soggetto che imbriglia e domina la natura. Ma egli può diventare tale soggetto dominante solo pagando il prezzo di una dissociazione interna: il maschio deve espellere e reprimere tutto ciò che non riesce ad assumere la forma del lavoro e del valore, e deve attribuirlo all'esterno, al non-soggetto dell'Altro: alla donna e al non-bianco, allo zingaro e al superfluo. E questo processo di espulsione e rimozione di ciò che è dissociato verrà inoltre costituito anche dalla paura di un suo ritorno, che potrà sempre trasformarsi in odio verso le donne, in una paura della smaschilizzazione, e così via. Pertanto, l'esclusione delle donne, dei non bianchi e di tutti gli altri soggetti “minori” non rappresenta una “incongruenza” nell'ambito di una logica del valore del tutto priva di contenuto e che, in base ai suoi principi, dovrebbe includere il mondo intero, e che un giorno potrebbe anche farlo; al contrario, questa esclusione è stata invece costitutiva fin dall'inizio, per quanto le sue forme empiriche siano molto cambiate rispetto all'Illuminismo.» p. 78-79

lunedì 18 novembre 2024

L’Inconscio, l’Emancipazione e la Critica… contro la Sintesi !!

 

Il tema dell'inconscio e il soggetto della teoria sociale, insieme, sono solubili?
- di Sandrine Aumercier e Frank Grohmann -

Introduzione
Se rileggiamo le conclusioni di Robert Kurz a quella che lui chiamava la storia sociale di quel genere di catastrofe naturale che rappresenta il capitalismo [*1], non si può fare a meno di pensare che l'imbarbarimento del mondo è progredito, così come aveva predetto nel 1999. Contro la barbarie non si è frapposta alcuna linea di resistenza, non c'è stato alcun assalto globale alle macchine socio-economiche. È stato tutto come se noi non avessimo fatto altro che dormire per un quarto di secolo. Kurz sapeva che un'insurrezione del genere non avrebbe mai potuto fare a meno di una critica radicale del modo di vivere capitalista. Senza di essa, non ci può essere nessun contro-movimento radicale, nessun formarsi di una contro-società, nessuna cultura del rifiuto, nessuna cultura della discussione e nessun movimento di massa capace di occupare i luoghi sociali, di appropriarsi direttamente delle potenzialità sociali e gestire autonomamente tutta la riproduzione. Sebbene non ci sia nulla a suggerire che questa critica fondamentale non esista, l'anti-modernismo emancipatorio, che da essa dovrebbe derivare da essa, non ha avuto luogo. Ma se Kurz ritiene che l'abolizione delle forme, delle categorie e dei criteri sociali dominanti sia una questione di coscienza, allora quel divario che il salto di coscienza deve superare, per poter arrivare al vero criterio dell'emancipazione rimane, d'altra parte, ben lontano dall'essere stato esplorato [*2]. E tuttavia, tale criterio – inteso nel senso sopra indicato (quello secondo cui non c'è critica senza ribellione, e non c'è ribellione senza critica) – continua a essere inseparabile dalla questione del soggetto. È impossibile concepire qualsiasi tipo di liberazione senza presupporre un soggetto di questa liberazione, proprio come la critica delle condizioni esistenti presuppone necessariamente la critica radicale del loro soggetto, tanto nella dimensione dell'azione quanto in quella della conoscenza. Questo ci impegna nell'esame del legame dialettico tra il soggetto dell'inconscio, il soggetto dell'emancipazione sociale e il soggetto della critica. Questi tre "momenti" permetteranno di mappare le confusioni intorno alla nozione di soggetto. Esse sono, inoltre, inseparabili da quelle che circondano la nozione di oggetto. La moderna filosofia della conoscenza e la filosofia politica presupponevano un soggetto sovrano, maschile, «padrone e possessore della natura» (Cartesio), il quale costituiva attivamente i suoi oggetti di conoscenza e il suo ambiente sociale. Ma psicoanalisi, marxismo e teoria critica, sono arrivati e hanno sfidato l'ipertrofia del soggetto costituente e hanno fatto emergere le determinanti – interne ed esterne – di un soggetto costituito. Dietro l'apparente semplicità di questa prima contrapposizione – che si può riassumere schematicamente nella classica contrapposizione tra attività e passività, o tra libertà e determinismo – si cela un'opposizione assai più fondamentale: non appena l'esame critico arriva a essere sufficientemente avanzato, il soggetto non può più essere semplicemente posto di fronte al suo oggetto, né semplicemente avallate le antinomie che ne derivano; ma il dualismo soggetto-oggetto si rifrange all'interno della nozione stessa del soggetto, sia dal suo lato politico che da quello individuale:

1/ La psicoanalisi, non pretende che il soggetto sia determinato meccanicamente da forze interne. Esplora le modalità di un'“attività inconscia” che, pur essendo agita dal soggetto, è allo stesso tempo sottomessa ad esso, precisamente dove crede di essere più autonoma. In quanto soggetto, il soggetto si trova comunque coinvolto attivamente nel suo assoggettamento. È proprio questo il senso dell'esplorazione analitica.
2/ Da parte sua, la critica sociale marxiana e post-marxiana non si accontenta del postulato positivista di un soggetto autonomo capace di rovesciare il dominio delle forze esterne, ma non cessa mai di evidenziare la costituzione sociale di questa attività costitutiva, di cui il soggetto del feticismo è un soggetto interessato. Apparentemente soggetto delle sue proprie azioni, il soggetto è allo stesso tempo agito da forze sociali che sfuggono al suo controllo, ma che egli stesso riproduce attivamente.

Pertanto, su entrambi i versanti - quello del soggetto dell'inconscio e quello del soggetto della costituzione-feticcio - quella che incontriamo non è l'opposizione dualistica, in fondo semplice e rassicurante, tra soggetto e oggetto, tra individuo e società, o tra passività e attività, ma piuttosto un doppio scoglio, che impone molteplici mediazioni teoriche su ciascun versante. Così, da un lato, il soggetto dell'inconscio partecipa all'assoggettamento cui è sottoposto, e, dall'altro lato, vediamo che il soggetto politico partecipa alle strutture di dominio che esso denuncia così tanto volentieri. Non si tratta solamente di una partecipazione psico-sociale alle forze del dominio personale, incarnate dai rappresentanti edipici o dai rappresentanti sociali. Questa partecipazione è infatti ancorata al corpo; è un modo di stare al mondo plasmato dalla forma della vita sociale. Non è un semplice errore di giudizio, che informazioni sufficienti sarebbero sufficienti a dissipare; ma si tratta proprio del motivo per cui una teoria critica della conoscenza diventa un momento essenziale nella sua delucidazione. A partire da questo, abbiamo pertanto due forme di partecipazione soggettiva, una interna e l'altra esterna, nel contesto di un'esperienza alienante, insoddisfacente, e così anche un motivo infinito di lamentele. Quindi la domanda successiva è: abbiamo qui a che fare con lo stesso argomento? Il soggetto che subisce – partecipandovi attivamente – tutti i trucchi del proprio inconscio è, simultaneamente, anche lo stesso soggetto che subisce – partecipando attivamente ad esse – le strutture del dominio sociale e del dominio impersonale del capitale? La risposta a questa domanda ci impone di distinguere tra il soggetto in quanto individuo, vale a dire, una persona, un essere umano, il membro di una collettività, e il soggetto visto come presupposto logico della nostra indagine. Se parliamo del soggetto empirico, come persona o come individuo, ecco che allora appare evidente che si tratta  della stessa persona: di quella che subisce attivamente gli effetti della sua struttura psichica, così come gli effetti della struttura sociale. La persona non viene tagliata a metà. Ma, come oggetto di esame, la persona è prima di tutto solo un fenomeno che non può fare a meno di una costruzione teorica. La fenomenologia – psicologica e sociologica, psicosociologica o socio-psicologica – delle disposizioni e dei vissuti del soggetto, se non assume una propria dimensione teorica, ci rinchiude proprio in quel dualismo che pretendiamo di chiarire. Tutta la psicologia e tutta la sociologia moderna – quando non sono critiche – si basano sulla separazione tra soggetto-oggetto e individuo-società; il che è precisamente l'oggetto della nostra indagine, e il punto di fuga di una vera teoria critica. La questione del soggetto è evidente per la sua assenza, anche quando non si fa altro che parlarne! Il nostro viaggio, si baserà qui su tre momenti essenziali di questo percorso. Ci ricondurranno a una riflessione su Robert Kurz, Sigmund Freud e Theodor W. Adorno. Mostreremo in che modo questi tre autori affrontano la questione del soggetto con gli strumenti imposti dal loro stesso sviluppo teorico. Mostreremo in che modo ciascuno di loro arrivi a intuire categoricamente l'unità negativa, dove si intersecano e allo stesso tempo si scontrano i limiti metodologici intrinseci al loro approccio. La nostra trattazione non è progressiva: detto in altri termini, nessuno di questi autori rappresenta un progresso rispetto agli altri, ma ciascuno affronta il problema da quella che potremmo definire la sua porta d'ingresso. I tre autori avrebbero anche potuto essere presentati secondo un ordine diverso. Ognuno di essi, ci sembra contribuire a una "meta-teoria" negativa della moderna forma-soggetto, cui ciascuno attraversando una porta diversa. In tal modo, i diversi percorsi di critica possono affilarsi a vicenda, come se fossero coltelli che si affilano uno sopra l'altro. Ma, infine, diremo anche perché questo approccio non può che essere negativo, e lo perché resiste alla sintesi.

I - «La necessità di divenire-soggetto contro il soggetto stesso»
A partire dalla fine degli anni '80, Kurz tematizza il problema di un soggetto merce che non viene percepito come determinato dal valore, per quanto l'abolizione del valore sia la conditio sine qua non per la liberazione di quel soggetto [*3]. Kurz mirava pertanto a definire un approccio rigoroso nella mediazione tra la teoria del soggetto, la teoria del valore e la critica della produzione di merci.[*4]. Non ha mai cessato di tener conto del fatto che il capitalismo è costituito dagli stessi soggetti, sebbene ciò avvenga alle loro spalle: il superamento e l'abolizione consapevole delle determinazioni proprie della forma, si scontrano innanzitutto con gli ostacoli, quasi insormontabili, presenti nel soggetto stesso [*5]. Nel 1993, Kurz denuncia la soggettività empirica perché apparenza e formula il compito di dissimulare gli obiettivi, la volontà e l'azione soggettiva dei soggetti produttori di merci: si tratta infatti di una soggettività senza soggetti, la mera esecutrice di una forma feticcio presupposta per tutti [*6]. Questa critica riguarda perciò il rapporto interno tra soggetto e a-soggettività [*7]. La leva che egli usa, è il concetto marxiano di feticismo. Inevitabilmente, Kurz incontra qui la difficoltà di una meta-riflessione riguardo la relazione tra soggetto e costituzione feticcio, all'interno delle forme stesse di pensiero di tale relazione. Una relazione che egli chiama «lo stadio supremo dell'incoscienza della forma» [*8]. La coscienza costituita in maniera feticistica ha inizio con l'oggettivazione dell'essere della relazione sociale, e poi, a sua volta, oggettivizza il soggetto come se fosse un burattino di tale forma oggettivata. Ma se siamo d'accordo sul fatto che la relazione sociale non è un "essere", ecco che allora ne consegue un paradosso: «Il soggetto è un burattino che si tira i fili da sé solo. Ma questo è impossibile. O più esattamente, è la metafora di qualcosa di impensabile nelle forme di pensiero presupposte, dove come punti di riferimento per il soggetto, o ci sono oggetti privi di coscienza (natura) oppure altri soggetti. Il feticcio non può essere altro che un oggetto, una natura, e quindi un ineluttabile. Ora, i concetti di feticcio e di seconda natura (...) ci indicano che c'è un "qualcosa" che non può essere ridotto al dualismo soggetto-oggetto; un qualcosa che non è esso stesso né soggetto né oggetto, ma che da solo costituisce questa relazione» [*9]. Di fronte all'enigma dell'incoscienza, al livello della determinazione sociale della forma, l'analisi di Kurz cerca così di chiarire quale sia la natura di questa terza parte, che non è né soggetto né oggetto, ma che, in quanto cieca forma-costituzione della coscienza, costituisce allo stesso tempo soggettività, oggettività e dominio. Il livello di analisi si colloca pertanto al di là del dualismo soggetto-oggetto: al livello della società umana, e allo stesso tempo in ogni individuo. Ma poiché nemmeno lo stesso Freud ha tematizzato questo problema della forma socio-storica della coscienza, secondo Kurz, l'idea di un dominio senza soggetto può essere tematizzata solo quando il concetto di inconscio viene elevato al livello di riflessione di una forma di coscienza comune a tutti i membri della società, e quindi anche della costituzione-feticcio. Kurz sottolinea che le determinazioni della forma nascono, certo, dall'attività sociale e passano poi attraverso i soggetti umani in quanto agenti. Ma questi soggetti, in quanto seconda natura di un sistema di dominio senza soggetti, nel corso di un lungo processo storico sono diventati autonomi [*10]. Osserva così, uno stato di incoscienza che, per poter agire su tutto, rende necessaria una deviazione che passa attraverso una forma sociale di generalità astratta. Con Marx, Kurz qualifica tale costituzione inconscia di una tale generalità astratta, come feticismo [*11]. Questo si traduce in ciò che Kurz chiama una «scissione dell'Io» strutturale [Spaltungsirresein: schizofrenia] che opprime il soggetto della merce: «Poiché la scissione della coscienza umana tra una coscienza relativa della 'prima natura', da un lato, e l'assenza di coscienza della costituzione di una vera e propria "seconda natura" storico-sociale, dall'altro, si riflette necessariamente in tutte le espressioni, le azioni, le istituzioni, le riflessioni, ecc., del "soggetto" che nasce da questa contraddizione» [*12]. L'assurda dinamica che accompagna la costituzione inconscia di questa generalità astratta si forma, secondo Kurz, sugli individui e negli individui – e questo perché la loro identità è proprio quella di non avere identità, e la loro azione consiste nel riprodurre la forma di un soggetto privo di qualsiasi contenuto [*13]. Dal punto di vista della macchina capitalistica, la soggettività non può designare altro che un soggetto immanente alla forma feticcio, il quale prevale su tutte le possibilità di scelta [*14]. Si tratta di un soggetto del valore condizionato dalla forma del denaro, e che non è altro che un momento nel movimento globale del capitale. L'universalismo negativo di un simile soggetto, è radicato nella forma totalitaria del valore. Questa forma è caratterizzata dal fatto che, ovviamente, si pone in modo astratto e generale, ma allo stesso tempo è anche essenzialmente di genere, ed è occidentale-coloniale. Tuttavia, la decifrazione della specificità storica e sociale di questo soggetto di valore si scontra con la polarità negativa del soggetto e dell'oggetto. L'attore individuale e il "soggetto automatico" (Marx) della valorizzazione del valore, si condizionano l'un l'altro in quello che è il centro stesso della forma-valore. In tal modo, la forma generale del soggetto, da un lato, si pone di fronte ai suoi vari portatori in quanto soggetto automatico mentre, dall'altro, si frammenta in delle forme di coscienza, identità, percezione, pensiero, attività e azione sociale. In quanto soggetto di genere, di conoscenza e riflessione, di lavoro, di circolazione, di diritto, di politica e di consumo di merci, il soggetto costituisce la forma stessa di questa frammentazione: «È proprio a causa della loro soggettività che i soggetti si oggettivizzano, come portatori di azione all'interno del movimento incessante del feticcio, per poi tornare a sé stessi» [*15]. Da qui, Kurz concepisce il soggetto come se fosse l'istanza di una relazione feticistica in cui quell'astrazione reale che è il valore è diventata autonoma, nella forma dell'apparenza del mezzo reale (il denaro), per trasformarsi in un fine in sé. In quanto forma di equivalente della falsa oggettività all'interno dell'individuo agente, il soggetto non ha perciò «alcuna possibilità di diventare un individuo (inteso come libera associazione di individui autonomi)» [*16]. Poiché, in sostanza, la forma-soggetto non può essere un'istanza di emancipazione, ecco che il soggetto empirico è quindi tutt'altro che il possibile portatore di tale emancipazione. L'autoriflessione critica, deve andare oltre la forma di pensiero immanente al processo di modernizzazione, negare il soggetto come forma di coscienza generale del sistema feticistico, rompere il rapporto di costrizione della forma soggetto in generale; deve, in breve, rompere con l'individuo astratto. Pertanto, all'inizio del ventunesimo secolo, Kurz è convinto che fino a che la critica radicale del capitalismo condividerà le basi ontologiche della soggettività borghese, essa non avanzerà di un passo. Mentre, al contrario, l'antimodernismo emancipatorio che egli difende dovrà invece prendere sul serio la dialettica negativa – al di là di Adorno e del materialismo storico – e farla definitivamente finita con l'ontologia del soggetto dell'Illuminismo [*17]. Da allora in poi, Kurz parte dal principio secondo cui qualsiasi ricorso alla forma soggetto, e a una storia delle idee che legittimasse la socializzazione negativa della modernità, qualsiasi fossero i suoi riarrangiamenti, come critica, non poteva altro che essere screditata [*18]. Quanto più la critica del soggetto e quella dell'Illuminismo convergono, tanto più il soggetto appare quasi come un fantasma: «A partire dall'Illuminismo, le moderne teorie della società, in gran parte non hanno fatto altro che porre le nozioni di individuo e di soggetto come dei sinonimi. Questa concezione corrisponde esattamente alla stessa illusione ottica che ci fa vedere la forma feticcio e l'individualità come due gocce d'acqua, in modo che si finisce per pensare che l'individualità esista solo sotto la produzione di merci» [*19]. Per quel che riguarda lo spettro del soggetto-forma vuoto, il concetto stesso di soggetto-forma [Subjektform] viene sostituito da quello di forma-soggetto [Form-Subjekt]. E poiché la critica di questa forma-soggetto, come critica del nucleo della forma-feticcio moderna, non è stata condotta in modo coerente, non si può fare altro che portare avanti tale critica seguendo una logica di negazione [*20]. Tuttavia, qui Kurz sottolinea anche che il momento soggettivo di negazione-emancipazione non è in alcun modo identico a questo soggetto stesso, e quindi non è identico alla forma-soggetto e alle sue conseguenze; ragion per cui, paradossalmente invoca «la necessità del divenire-soggetto contro il soggetto stesso» [*21].Già all'inizio degli anni '90, Kurz aveva previsto che l'apparato concettuale di Freud si riferisse a un contesto storico reale che non può più essere risolto attraverso una semplice critica teorica, o con una terapia individuale oppure - al contrario - semplicemente rifiutando i presupposti fondamentali di Freud. Inoltre, le categorie della critica dell'economia politica - così come le categorie della psicoanalisi - non si possono concepire in modo positivo e ontologico. Ciò che Kurz aveva in mente era il duplice superamento sia della teoria marxiana che di quella freudiana; cosa che - secondo lui - la teoria critica di Horkheimer e Adorno non era riuscita a realizzare. In altre parole, la decifrazione, da parte di Marx, del "geroglifico" della forma merce e della forma-pensiero, andrebbe seguita dalla decifrazione, da parte di Freud, della forma merce e della forma psichica. Fin dall'inizio, l'ipotesi fondamentale di Kurz era stata che la formazione e la deformazione storica incosciente del "sé-merce" teorico e pratico, e lo sviluppo superiore dell'inconscio sociale, corrispondessero alla formazione e alla deformazione dell'inconscio, ovvero all'emergere di un inconscio differenziato [*22]. Ragion per cui, nel 2003 Kurz lanciò quel programma, che aveva già indicato dieci anni prima come preliminare a un approccio critico alla psicoanalisi: sviluppando quindi un approccio che prendeva sul serio la critica marxiana del feticcio visto nelle nuove condizioni della socializzazione del valore, e che doveva essere in grado di dissolvere la positività delle categorie borghesi di base. Pertanto, spinto dal suo stesso oggetto, Kurz è sempre più costretto a radicalizzare la critica del soggetto dell'Illuminismo; la cui struttura egli identifica nella dissociazione sessuale e nel suprematismo bianco (il maschio bianco occidentale). Ma equiparando l'inconscio [das Unbewusste] con la forma dell'inconsapevolezza sociale [die Bewusstlosigkeit], Kurz finisce per privarsi di una distinzione fondamentale tra la struttura sociale e i concetti metapsicologici di Freud (come la pulsione, la rimozione, la sessualità infantile); i quali, questi ultimi, a loro volta, si avvicinano alla struttura aggredendola al livello del soggetto. In un suo articolo del 1993, Kurz parla dell'inconscio in maniera piuttosto metaforica. Da allora in poi, non si riferisce più alla psicoanalisi, ma sviluppa una nozione del soggetto che tendeva a ricadere in una sociologia, o psico-sociologia, della soggettività. In particolare, il suo prendere in prestito la nozione di pulsione di morte non è meta-psicologico. Naturalmente, Kurz rimane fedele al suo progetto di sviluppare una teoria strutturale della forma soggetto. Ma così facendo, egli va a definire la forma in modo oggettivato (a partire dalle determinanti formali della dissociazione e della soggettività borghese), e trascura l'attività soggettiva inconscia, la quale non è invece immediatamente derivabile dalla critica della forma sociale. Una derivazione affrettata, potrebbe portare a far cortocircuitare le due critiche; quella del soggetto e quella della società. Da un punto di vista freudiano, infatti, un massacro non è una manifestazione della "pulsione di morte", più di quanto non lo sia il tranquillo "business as usual" del capitalismo. Le fragilità identitarie non sono manifestazioni del narcisismo più di quanto non lo siano le altre manifestazioni psicopatologiche appartenenti alla fase ascendente del capitalismo. In senso freudiano, il narcisismo non è un tipo psicologico distinto dalla struttura isterica o ossessiva. Proprio come alcuni anticapitalisti troncano la propria critica del capitalismo, interpretandola attraverso la sola lente del neoliberismo, qui appare il rischio di criticare il soggetto attraverso la lente di certi fenomeni sociali, i quali, sebbene sembrino rappresentare un paradigma della forma sociale, oscurano invece quella che è la struttura della meta-psicologia psicoanalitica. Così, più Kurz sviluppa una teoria della socializzazione capitalistica, più si avvicina alla questione cruciale della forma soggetto; ma lo fa al costo di ignorare la condizionalità psichica del soggetto. Quanto più giustamente egli pone il problema del soggetto moderno – cosa che il suo oggetto lo costringe a fare – tanto più egli cede a una psico-sociologia della soggettività borghese, la quale finisce per smussare l'acutezza della punta dell'analisi logica del soggetto. Kurz si trova così bloccato in un'aporia, dovuta tanto al suo oggetto di ricerca quanto ai limiti interni del suo presupposto metodologico: esercitato nel suo massimo rigore, il metodo marxiano mette in luce il funzionamento del capitalismo, e lo fa in un modo che l'osservazione empirica da sola non ci consente di rivelare. Ma i concetti che tale metodo produce per rivelare questo funzionamento, sono validi solo sulla base del suo presupposto oggettivista; non appena vengono applicati al "soggetto" - che necessariamente incontrano alla fine dell'impresa critica - i concetti marxiani perdono allora quella che costituiva la loro forza teorica nel quadro di un'analisi delle determinazioni oggettive della socializzazione capitalistica. Come affrontare questo paradosso, e come passare da una critica dell'oggettività capitalistica a una critica del soggetto nel capitalismo?

II - "Dov'era, devo venire".
Le cose si complicano quando ci rendiamo conto che Freud si è trovato di fronte a una difficoltà simile partendo dalla parte opposta, se così possiamo dire. L'opera di Freud si basa sulla distanza da quella che egli chiama la "psicologia della coscienza" che prevaleva prima di lui [*23]. In altre parole, Freud decentra radicalmente il "dato" della coscienza ordinaria, che sembra così ovvio e su cui si basano l'esperienza individuale e la psicologia empirica. Nei suoi analizzanti, egli nota quelli che chiamava "fatti nuovi" – pensieri inconsci – per cui si trova costretto a inventare nuovi concetti. Nei suoi studi sull'isteria, fa la seguente osservazione: «Una volta che ho seguito l'intera catena delle idee, mi è impossibile distinguere gli elementi che il paziente riconosce come ricordi da quelli che non riconosce come tali. In una certa qual misura, vedo solo le punte [die Spitzen] delle catene del pensiero che sprofondano nell'inconscio, contrariamente a quel che è stato affermato a proposito dei processi normali.»[*24] Così, non si consente che la punta di un pensiero si mantenga alla presunta altezza della coscienza, ma essa si perde nell'inconscio, continuando solo in quel modo il suo movimento originale. In tal modo, la questione dell'inconscio non è più una questione psicologica, ma è diventata definitivamente la questione della psicologia. Da allora in poi, Freud parla della coscienza come di un organo sensoriale per la percezione delle qualità psichiche. Egli definisce la percezione della coscienza come il corretto funzionamento di un particolare sistema psichico. Tuttavia, questo non ci permette ancora di comprendere la gamma di tutti i problemi legati alla coscienza [*25]. Nel suo successivo tentativo di elaborare una teoria metapsicologica, Freud osservò che lo studio della vita pulsionale a partire dalla coscienza, presenta delle difficoltà quasi insormontabili, poiché il contenuto rappresentativo del pulsione viene radicalmente rimosso dalla coscienza [*26]. Non è pertanto possibile una chiara attribuzione delle rappresentazioni inconsce: «L'essenza del processo di rimozione non consiste nel sopprimere, nell'annientare una rappresentazione che rappresenta la pulsione, bensì nell'impedirle di diventare cosciente. Diciamo allora che è nello stato "inconscio" - e possiamo fornire prove solide - che, sebbene inconscio, può produrre effetti, alcuni dei quali alla fine raggiungono anche la coscienza»[*27]. Freud definisce l'assunto, secondo cui tutto ciò che accade nella psiche debba essere noto alla coscienza, una "pretesa insostenibile". La coscienza ricopre solo un contenuto minimo, in un dato momento, e il che squalifica l'assimilazione convenzionale di ciò che è psichico da parte del conscio. Freud, afferma senza ambiguità il fatto che nessuna rappresentazione fisiologica, nessun processo chimico, ci dà accesso a stati psichici che non sono coscienti. Per dedurre l'ipotesi dell'inconscio, egli non si basa sulla speculazione metafisica, ma sull'esperienza ordinaria: dalla coscienza dei nostri stessi stati psichici deduciamo negli altri, senza sperimentarli, degli stati analoghi. Nel pensiero animistico, questa inferenza si estende a tutto ciò che esiste, mentre il pensiero critico la riduce al solo nostro prossimo. Ma rimane il fatto, secondo Freud, che, in entrambi i casi, l'ipotesi della coscienza è solo un'inferenza. Freud propone semplicemente di estendere questa deduzione alla persona: «Bisogna dire che tutti gli atti e tutte le manifestazioni che noto in me stesso, e che non so come rapportare al resto della mia vita psichica, devono essere giudicati come se appartenessero a un'altra persona, e devono essere spiegati attribuendo loro una vita psichica. L'esperienza mostra anche che, se nel caso della persona stessa si rifiuta di riconoscere certi atti come psichici, allora si è molto bravi a interpretare questi stessi atti - vale a dire a integrarli nella psiche nel suo insieme - negli altri»[*28]. La razionalizzazione sarà pronta a vedere nella coscienza una seconda coscienza, ma l'idea di una coscienza inconscia è però una contraddizione in termini. «Non c'è altra soluzione rimasta alla psicoanalisi» - conclude Freud - «se non quella di dichiarare i processi psichici come inconsci in sé stessi, e confrontare la loro percezione da parte della coscienza con quella della percezione del mondo esterno da parte degli organi di senso» [*29]. Dei dodici saggi sulla metapsicologia che Freud aveva intenzione di scrivere durante la prima guerra mondiale, ne conservò solo cinque e distrusse tutti gli altri; tra i quali c'era anche un saggio dedicato alla coscienza. Un simile gesto, può essere inteso anche come l'impossibilità di affrontare il problema della coscienza, separatamente dal resto della vita psichica: «Nella misura in cui vogliamo accedere a una concezione metapsicologica della vita psichica, dobbiamo imparare a emanciparci dall'importanza data al sintomo: "il fatto di essere coscienti" [Bewusstheit]»[*30]. Non ne consegue che l'inconscio debba essere mistificato, come l'espressione "psicologia del profondo" tende a suggerire. Non c'è nulla da cercare "in profondità". È rimanendo al livello stesso della percezione cosciente, ma senza fare alcuna selezione, che emergono i processi inconsci: l'analizzante deve imparare, dice Freud, a «rimanere solo alla superficie della sua coscienza, a scartare ogni critica, qualunque essa sia, diretta contro ciò che trova» [*31]. Freud parla sempre più spesso della coscienza come di una funzione particolare situata al confine tra l'esterno e l'interno. Egli chiama "coscienza" la funzione dello strato più esterno dell'Io destinato a percepire il mondo esterno [*32]. Nella nuova serie di corsi introduttivi alla psicoanalisi, tenuti nel 1932-1933, l'organo sensoriale viene d'ora in poi chiamato sistema Pc-Cs (Preconscio-Cosciente), ed esso sarebbe «rivolto verso il mondo esterno, trasmette percezioni, in esso si costituisce il fenomeno della coscienza, durante il suo funzionamento» [*33]. Ma dal momento che la coscienza non è un'istanza coerente e separata, la psicoanalisi non consiste in alcun modo nel "rendere coscienti" i contenuti inconsci. Freud definirà il lavoro analitico per mezzo della famosa formula: «“Wo Es war, soll Ich werden» [Laddove c'era l'Es, ci sarà l'Io]. Questa frase enigmatica ha ricevuto un numero considerevole di commenti e traduzioni diverse, che potrebbero aver contribuito a creare ulteriore confusione. Ma possiamo intenderlo in questo modo: l'Io che deve emergere è l'Io dell' enunciato, il quale si assume la responsabilità di quei contenuti che rimangono fondamentalmente alieni, oscuri, scandalosi o imbarazzanti. Per la psicoanalisi, la questione della conoscenza è pertanto subordinata a una posizione etica: non si tratta di accumulare su sé stessi delle nuove conoscenze che poi si cercherà di applicare al proprio cambiamento soggettivo (è questo il modo in cui la psicologia comportamentale affronta le cose!), ma si tratta piuttosto dell'assunzione di quei contenuti e di quei processi che il soggetto è incline a non riconoscere come propri. Non basta quindi che ci sia più conoscenza, ma ci deve anche essere un soggetto che dica: «questi sono affari miei, questo mi riguarda». È facile capire che senza dubbio è qui che ci troviamo di fronte all'ostacolo principale a qualsiasi prospettiva di cambiamento. L'elaborazione, da parte di Freud, dell'ipotesi dell'inconscio, sulla base di quei fatti che non trovano posto nelle concezioni della psicologia ordinaria e accademica, lo porta ad approfondire sempre di più la dinamica dei processi inconsci, assumendola come oggetto di ricerca sui generis, e ad avvicinarsi così alla struttura oggettiva del soggetto dell'inconscio. Nei suoi ultimi testi, egli descrive questa struttura come fondamentalmente separata [*34]. Non è divisiva tra una parte conscia e una parte inconscia, ma essa è strutturalmente scissa, e questa scissione interessa sia la coscienza che l'inconscio. Ed ecco che pertanto la messa in discussione del rapporto tra l'individuo e la società solleva altre nuove difficoltà. Un approccio meramente intersoggettivo alla collettività è insufficiente. Freud dedicò molti testi alla "cultura", cercando anche di porre il problema del rapporto tra individuo e società. Ovviamente, tutte queste incursioni al di fuori dello stretto campo di competenza della psicoanalisi, rappresentano per lui una necessità. In esse, egli sviluppa sia ipotesi riguardante uno sviluppo culturale che «avviene "al di sopra" dell'umanità» [*35], sia i fenomeni collettivi di cui è testimone. Tuttavia, Freud era ben consapevole che il rigore stesso del suo tema gli impediva di generalizzare e di trasmettere le sue scoperte senza ulteriori indugi: «Non è facile trasferire i concetti della psicologia individuale alla psicologia collettiva, e dubito che si possa trarre qualche beneficio dallo stabilire il concetto di un inconscio collettivo. Il contenuto dell'inconscio non è forse in ogni caso collettivo? Non è forse esso una proprietà generale dell'umanità? Usiamo, quindi, per adesso solo delle analogie» [*36]. Va notato come, in questa formulazione, Freud consideri la forma dell'inconscio come individuale, e il suo contenuto come collettivo. A ogni modo, la difficoltà di applicare sistematicamente i risultati di un campo di ricerca a un altro conduce a una teoria tronca della relazione tra individuo e società: 1/ analogia tra funzionamento primitivo e funzionamento nevrotico [*37]; 2/ analogia tra ontogenesi e filogenesi [*38]; 3/ analogia tra processi psichici individuali e processi collettivi [*39]; 4/ Analogia tra il Super-Io individuale e il Super-Io culturale [*40]. Va notato che in ciascuna delle circostanze in cui Freud ricorre a tali analogie, egli si scusa sempre per esse, e tuttavia le mantiene; apparentemente in mancanza di qualcosa di meglio. Ciò significa che un'ipotesi genetica gli sembra inevitabile, anche quando essa rappresenta una speculazione rispetto alla quale rimane fondamentalmente sospettoso, ansioso com'è di non abbandonare mai il campo dei fatti scientifici. Le formulazioni di Freud costituiscono pertanto un compromesso tra la sua audacia teorica – impostagli dall'oggetto stesso – e l'ambito del metodo scientifico. Costretto a fare ipotesi circa lo "sviluppo della civiltà" - sviluppo di cui rileva il carattere autonomo - non smise mai di inciampare sulla difficoltà di teorizzare il passaggio dall'una all'altra. Quanto più Freud è fedele al proprio metodo, tanto più egli si avvicina alla struttura stessa del suo oggetto, ma lo fa al costo di ignorarne la condizionalità sociale. Al contrario, quanto più cerca di applicare le sue scoperte alla società o alla cultura – cosa che fa in molte occasioni – tanto più cede al limite dei propri concetti, accontentandosi di analogie. Egli finisce quindi per rimanere rinchiuso in un'aporia dovuta ai presupposti soggettivistici del suo metodo: esercitato nel suo massimo rigore, questo metodo gli consente di scoprire fatti psichici altrimenti inaccessibili, ma a condizione che ci si limiti a quel campo; allargati alla "cultura", ecco che i concetti della psicoanalisi perdono rilevanza, e vengono smussati da un approccio analogico: come spiegare questo paradosso e come passare da una critica psicoanalitica del soggetto a una critica della forma sociale?

III - "Criticare l'individuo non è mirare alla sua soppressione".
Riassumiamo gli elementi che abbiamo in questa fase. La critica dell'economia politica, radicalizzata dalla critica della dissociazione del valore, è stata condotta, per così dire, suo malgrado, in prossimità di una critica radicale della forma soggetto che non è più possibile ignorare. Ma non riuscendo però ad accettare l'ipotesi dell'inconscio, essa si avvicina allora al soggetto facendolo alla maniera di una critica sociale e pratica, con un approccio tronco al "soggetto", sotto questo aspetto. Da parte sua, la psicoanalisi – con Freud e dopo Freud – è costretta, anche suo malgrado, a teorizzare il vasto campo della "cultura", e il rapporto irrisolto tra cultura e individuo. Ma non tenendo conto del funzionamento oggettivo del capitalismo, anch'essa si accontenta di scorciatoie teoriche, che allargano indebitamente le categorie della vita psichica all'oggettività sociale. L'incontro tra Marx e Freud, è destinato a fallire sempre, a causa della lente di specializzazione insita nei loro rispettivi oggetti, mentre la punta della loro radicalità è dovuta proprio a questa stessa specializzazione? E non è forse evidente che qui non ci si può accontentare di armonizzarle l'una con l'altra, appiattendo le due tradizioni concettuali; vale a dire smussando i loro rispettivi spigoli, come si sono invece applicati a fare tanti freudo-marxisti? Non appena la critica della dissociazione del valore e la psicoanalisi ammettono la necessità di un rapporto categoriale tra i due lati della critica (il feticismo della merce di Marx, la teoria dello sviluppo culturale di Freud), ecco  che viene di nuovo ripreso il vecchio problema della loro articolazione. Come può una teoria dell'inconscio dire qualcosa di rilevante sulla società? E come può una critica radicale della forma sociale capitalista dire qualcosa di rilevante sull'individualità? Come possiamo teorizzare adeguatamente questo duplice problema senza accontentarci di una derivazione logica inadeguata? A identificare e formulare questo problema ci aiuterà Theodor Adorno, mentre allo stesso tempo ci perde nei luoghi e nei meandri di quella spaventosa aporia che egli ha intravvisto. Adorno, ha dispiegato gli elementi di questa dialettica in uno dei suoi ultimi testi intitolato "Soggetto e oggetto"; il quale costituisce certamente la quintessenza della teoria critica. Per lui, la separazione tra soggetto e oggetto «esprime ciò che, nella condizione umana, è necessariamente diviso», ma questo «non deve essere ipostatizzato e trasformato come per magia in una invariante» perché essa diventa ideologia «non appena viene congelata senza mediazione» [*41]. Adorno rifiuta l'idea di uno stato di armonia originaria, nella quale vede piuttosto il terrore di uno «stato di indifferenziazione». Secondo lui, il soggetto trascendentale è in realtà molto più l'incarnazione dell'homo oeconomicus, che l'idealizzazione delle capacità di dominio e di creazione che questo soggetto attribuisce a sé stesso. L'invarianza e la fissità del soggetto trascendentale kantiano testimoniano inconsapevolmente il fatto che il carattere feticistico «è storicamente diventato l'antecedente di ciò che, secondo il suo concetto, doveva essere piuttosto la conseguenza» [*42] . Il feticismo è un prodotto storico che è stato invertito, in quanto antecedente storico sotto forma di coscienza trascendentale. In questo testo, Adorno sviluppa la sua celebre idea del primato dell'oggetto, che non significa un primato dell'oggettività, ma una doppia correzione apportata al riduzionismo oggettivista: da un lato, rifiutare la riduzione oggettivista del positivismo e, dall'altro, rifiutare la riduzione soggettivista, che ne è l'inevitabile correlato logico. In questo rifiuto di affrontare il soggetto attraverso la porta del soggettivismo, Adorno vede proprio un'opportunità per cogliere la partecipazione soggettiva, invece di negarla ipostatizzandola di fronte all'oggettività. L'oggettivismo non può essere corretto "iniettando" il soggetto in esso, né viceversa [*43]. Si tratta, piuttosto, di riscoprire le loro mediazioni, frutto di una dialettica negativa della separazione tra soggetto e oggetto. «Il soggetto è tanto più perché è tanto meno, ed è tanto meno perché crede di essere più di qualcosa di oggettivo in sé. Ma come momento, è indistruttibile» [*44]. Si tratta, insomma, di riscoprire la co-determinazione di oggettivo e di soggettivo, al di là dell'opposizione astratta in cui essi si determinano a vicenda in modo reificato. «Se il soggetto ha un nucleo costituito da un oggetto, ecco che allora le qualità soggettive dell'oggetto vengono a essere, a maggior ragione, un momento dell'oggettivo»[*45]. Simili formulazioni suggeriscono una sorta di riflessione infinita del soggetto nell'oggetto e viceversa, ovvero una serie di mediazioni che non possono essere risolte semplicemente teoricamente. A partire da questo, Adorno ne trae la seguente conseguenza: «La critica della società è una critica della conoscenza, e viceversa». O ancora: «La riflessione del soggetto circa il proprio formalismo costituisce una riflessione sulla società» [*46]. L'idea che esistano punti di vista "soggettivi" è smentita dall'ipotesi di una soggettività intesa come forma stessa dell'oggetto. «È importante portare il soggetto stesso all'oggettività» [*47]: ciò non può essere fatto mediante la semplice somma di determinanti separati, ma grazie a un movimento dialettico interno. L'opposizione fenomenica astratta tra soggettivismo e oggettivismo manifesta così, al di là della sua apparenza di opposizione, la forma più pura della loro reciproca determinazione formale: il soggettivismo manifesta l'autonomia formale dell'oggettivismo, così come l'oggettivismo manifesta l'autonomia formale del soggettivismo. Secondo Adorno, questa intuizione comporta un momento di necessità. Mentre, allo stesso tempo, è «la necessità di questa apparenza che dovrebbe essere eliminata». «Ponendosi in quanto sé stesso, il soggetto è l'apparenza, ed è allo stesso tempo qualcosa di molto reale nella storia» [*48]. Questa apparenza, che deve essere eliminata, non può essere semplicemente negata, e quindi non ci si può più rifugiare in nessuna unità immediata di ciò che sarebbe stato separato. Nel realismo ingenuo, la reciproca codeterminazione del soggettivismo e dell'oggettivismo rimane ferma al momento dell'opposizione astratta e inconscia dell'altro. È questo il motivo per cui le due parti sembrano così spesso in grado di ribaltarsi a vicenda. I confronti superficiali sembrano poter dar luogo ad analogie o a omologie che sembrano toccare il problema della forma, ma che invece non escono dal livello rappresentativo. Ognuno di essi contiene l'altro sotto forma di divisione interna: il soggettivismo contiene l'oggetto come la sua ombra e l'oggettivismo contiene il soggetto come la sua ombra. Finiscono sempre per cadere l'uno sull'altro nel momento in cui pensano di essere più immuni a questo brutto incontro. «La differenza tra il soggetto e l'oggetto, attraversa il soggetto così come l'oggetto» [*49]. Il soggetto non si avvicina mai alla struttura della separazione, come lo fa quando si abbandona alla sua esperienza: «Dove la ragione soggettiva percepisce una contingenza soggettiva, il primato dell'oggetto indica che in questo oggetto non c'è l'aggiunta di una soggettività» [*50]. Pertanto, questo abbandono non costituisce uno sfogo soggettivistico, quanto piuttosto un percorso che, a partire dall'esperienza soggettiva, incontra la propria contingenza e perciò rimanda all'oggetto nel soggetto. I problemi teorici che sono stati trattati, prima da Kant e poi da Hegel nella loro purezza logica, vengono così collocati, da Adorno, nella costituzione storica. Adorno percepisce assai bene l'impossibilità di "far vedere" la separazione partendo solo dall'oggetto separato o dal soggetto separato. Deve questa idea alla sua lettura combinata di Kant e di Hegel. Ma nel volerli storicizzare, egli si scontra così con un altro tipo di problema che l'idealismo tedesco aveva sterilizzato: ciò che sembrava solubile nell'elemento della logica, non lo è nell'elemento storico (il che porta necessariamente Adorno a una riflessione parallela sulla teoria e sulla prassi). In altre parole, la logica trascendentale (Kant), o l'unità speculativa degli opposti (Hegel), è solo la teorizzazione logica di uno stato di cose reale che non può essere risolto dalla logica, se non in modo puramente logico. Non si cambia la vita con una soluzione logica. In realtà, il fatto della separazione impedisce qualsiasi riconciliazione – se non in modo puramente logico – tra soggetto e oggetto, mentre la loro unità a posteriori non ci consente di teorizzare la loro reale separazione. La separazione tra soggetto e oggetto, ci costringe così ad affrontare il problema da un solo lato, e a toccare l'universale senza però tuttavia uscire da quella che Adorno chiama «la prigionia categoriale della coscienza individuale» [*51]. Le moderne scienze positive, vittime della divisione del lavoro, si trovano bloccate proprio in quegli stessi presupposti che esse si danno per poter definire la propria specificità. Sebbene condividano un rapporto formale con l'intero campo del sapere, per loro, questo rapporto è inaccessibile in quanto tale: o incontrano l'universale senza superare l'individuo (a livello pratico), oppure incontrano l'individuo senza superare l'universale (a livello logico). Eppure sono proprio questi i problemi avvertiti da Adorno in un vecchio testo del 1955 intitolato "Sui rapporti tra psicologia e sociologia", seguito da un "Poscritto" nel 1966. In questi due testi – ma anche in molti altri, sebbene in modo meno esplicito – Adorno cerca di teorizzare la separazione tra psicologia e sociologia (nella quale la separazione tra soggetto e oggetto costituisce l'essenza logica). Non lo fa sempre in modo metodico, ma con un'ostinata intuizione secondo cui in questo luogo risiederebbe il cuore della reificazione e, di conseguenza, l'oggetto fondamentale della teoria critica. A partire da questo, egli critica sia la falsa coscienza di una separazione radicale tra psiche e società – di cui la psicologia e la sociologia costituiscono la ricaduta – sia la falsa coscienza di una sintesi a posteriori di quello che è stato separato. Le insidie teoriche presenti in questo ambito, sono molteplici: da un lato, accomodare la costituzione scientifica di oggetti separati, persistendo nel trattarli ciascuno per sé, senza alcuna relazione con gli altri; dall'altro, riunire questi stessi oggetti separati secondo una loro falsa unità immediata, nella quale Adorno vede proprio quella che è l'essenza del positivismo (si pensi, ad esempio, alla "interdisciplinarietà"). Adorno rileva la presenza di questa tendenza, tanto in una sociologia acritica quanto nella stessa psicoanalisi, la quale, secondo lui, assolutizza i propri risultati senza vedere che «l'individuo singolarizzato, il puro soggetto dell'autoconservazione, incarna il principio più intimo della società, e lo fa in opposizione ad essa» [*52]. La psicologia individuale, o una certa psicoanalisi, realizza così il programma di adattamento sociale che è esattamente quello del «mondo amministrato», e poi trasformato in un invariante storico. La doppia esigenza metodologica di non cedere né all'unificazione immediata né al trattamento atomizzato di campi separati ci dà quindi la chiave di una dialettica senza riconciliazione che si trova più tardi, logicamente purificata, nella dialettica negativa e in "soggetto e oggetto". Adorno è colui che si è avventurato più in là in questa spiegazione negativa del rapporto di unità negativa tra soggetto e oggetto. Tuttavia, questa spiegazione non è esente da certe incongruenze. La sua vecchia tesi secondo cui il capitalismo monopolistico era succeduto, a suo avviso, al capitalismo liberale si accompagnava a una scomparsa dell'individuo, e ossessionava il suo lavoro sul rapporto esistente tra psicologia e sociologia, e continuò fino al "Poscritto" del 1966. Avrà sicuramente attraversato tutta la sua opera. Presuppone una concezione dell'individuo visto come un'unità discreta, di una massa sociale in cui egli finisce per assorbirsi e scomparire. Adorno crede di trovare i segni di questa scomparsa in molti fenomeni culturali di massa contemporanei (ad esempio, la "generazione radiofonica"). Questa idea contiene il presupposto di un altro soggetto politico – e precisamente quello del liberalismo classico e dell'Illuminismo – che ancora possedeva, secondo Adorno, il potenziale di un'emancipazione che sarebbe andata perduta con l'ingresso in questa nuova fase del capitalismo. La dialettica invocata da Adorno è infatti - in ultima istanza - una dialettica del soggetto: «Il soggetto si oppone all'incantesimo sociale per mezzo di forze provenienti da quello strato nel quale il principium individuationis – attraverso il quale la civiltà si è imposta – si afferma ancora una volta contro il processo di civilizzazione, che, da parte sua, lo liquida» [*53]. Si noti che Adorno fa uso del termine vago di "civiltà", che era anche di Freud e che, in teoria, non ci permette di distinguere la specificità della forma sociale capitalistica. Se su questo punto Adorno si appella al verdetto di un'indagine relativa alla "psicologia sociale", egli però qui mescola considerazioni tratti dalla teoria della conoscenza a considerazioni fenomenologiche che finiscono per essere dannose per la sua stessa analisi. In tutto questo, Robert Kurz vede sia una diagnosi storicamente prematura della decomposizione del capitalismo (dal momento che lui stesso la colloca a partire dagli anni '70) sia la tentazione di salvaguardare un soggetto della circolazione capitalistica idealizzato, al quale, in assenza di un'analisi sufficientemente approfondita della produzione capitalistica, verrebbe attribuito un potenziale di emancipazione che lui non ha mai avuto. In ogni caso, secondo Kurz, la critica di Adorno alla logica dell'identità circolatorista non dovrebbe portare a salvare il soggetto della circolazione. Una vera critica del circolazionismo lo avrebbe condotto al piano più radicale della costituzione stessa della forma soggetto. Pertanto, Adorno resterebbe quindi confinato, secondo Kurz, in una metafisica della storia, la quale trasforma la storia del progresso nella storia della sua decomposizione, e che ha l'effetto di salvare il soggetto dell'Illuminismo. L'evocazione di Adorno della forza negatrice del soggetto, lungi dal giungere a un superamento trasformativo della forma soggetto, rimane legata alla nostalgia di una potenziale realizzazione di questo stesso soggetto [*54]. Pertanto, la differenza fondamentale tra Adorno e Kurz risiede in quella che è la loro concezione ultima del soggetto dell'Illuminismo, del quale Adorno cerca di salvare il potenziale rivoluzionario, mentre invece Kurz è portato a proporne una critica radicale, avendo compreso che non è possibile criticare la forma borghese senza allo stesso tempo criticare anche il suo soggetto. Ciò che li accomuna, tuttavia, è proprio una critica della forma che intravvede l'apporto indispensabile della psicoanalisi, ma è allo stesso tempo priva di quella che è la vera portata dell'ipotesi freudiana dell'inconscio, la quale non può essere derivata dalla forma sociale, pur condividendone la stessa genesi logica.

CONCLUSIONE
Abbiamo visto che Freud considera la forma dell'inconscio come individuale, e il suo contenuto come collettivo. Con ciò, egli sembra dire esattamente il contrario di quel che dicono Kurz e Adorno – sebbene ciascuno in modo diverso – per i quali la determinazione della forma è soprattutto sociale. Ma non perdiamo di vista il fatto che queste diverse posizioni teoriche definiscono soprattutto il rispettivo oggetto del loro autore, e l'approccio critico che questo oggetto imporrà a ciascuno di loro, per così dire, contro la sua volontà. Questo è ciò che Adorno chiama il "primato dell'oggetto", non per difendere un approccio oggettivista - come è stato detto - ma proprio per far apparire il soggetto al centro dell'oggetto, e l'oggetto al cuore del soggetto. Tuttavia, questo oggetto di ricerca è caratterizzato dalla separazione, in quanto conosce sia un limite esterno (quello impostogli dal suo campo di definizione) sia un limite interno (il modo in cui la separazione reale si rifrange su sé stessa). Nel far questo, l'approccio critico è una violenza fatta all'oggetto. E questa violenza è l'effetto dello svelamento immanente di quei presupposti metodologici che organizzano la descrizione di tale oggetto, e ciò avviene proprio nella misura in cui la critica viene spinta abbastanza in là. Ecco che, a questo punto, la violenza fatta all'oggetto si trasforma in violenza fatta al soggetto che esercita la critica, poiché lo costringe, per così dire, a togliersi da sé solo il tappeto da sotto i piedi. La critica radicale non ha da offrire alcun conforto morale e intellettuale. Il confronto tra Robert Kurz, Sigmund Freud e Theodor Adorno ci consente però di individuare una linea di ricerca che attraversa tutti e tre gli approcci senza che essa possa essere sintetizzata in uno solo: l'esame del soggetto dell'inconscio, dell'oggetto scientifico o del funzionamento capitalistico finisce sempre per scontrarsi con una divisione che alla fine deriva proprio dalla moderna frammentazione funzionale delle facoltà individuali e sociali al servizio stesso della riproduzione capitalistica. Il paradosso della teoria della conoscenza, che Adorno ha meglio di tutti evidenziato, è che questa divisione interna viene tanto più percepita e teorizzata, quanto meno si cerca di superarla per mezzo di una falsa unificazione esterna di ciò che prima era separato. Ci troviamo pertanto di fronte a un'aporia, che metteva in imbarazzo Freud ogni volta che voleva occuparsi di "fatti culturali". L'imbarazzo, anche da parte di Kurz e di Adorno non è meno percepibile, non appena viene loro posta la domanda su quale sia l'argomento in gioco allorché essi parlano del tema dell'emancipazione. Perché questo soggetto, la cui forma deve essere superata (Kurz), è anche quello che viene assunto necessariamente affinché una critica sia possibile (Adorno), tanto che l'inasprimento della critica porta così a un punto di impossibilità interna: si deve in qualche modo sopprimere quella che è la sua condizione stessa! Così facendo, però, si arriva al punto in cui, insieme, la forma soggettiva e la forma sociale si trascendono perché, insieme, sono diventate superflue. Ed è proprio questo che scopre la psicoanalisi quando teorizza la scissione dell'Io (Freud): una scissione che non si tratta di rimuovere con l'autorità – nemmeno con quella dell'azione della psicoanalisi – ma che non dev'essere condannata dalla natura a venire trasformata in psicopatologia. Per quanto riguarda la separazione tra soggetto e oggetto, ogni tentazione di saltare «il muro costruito dalla storia» [*55] spinge la psicoanalisi, sia verso un riduzionismo soggettivista,dal quale Freud è stato a volte attratto, sia verso un riduzionismo oggettivista che minaccia anche le elaborazioni di Adorno e Kurz ogni qual volta essi mettono in relazione la questione del soggetto con un principio tratto dalla critica sociale: il principio di identità dello scambio di merci in Adorno, e il feticismo della forma-valore in Kurz. In effetti, questa costrizione della forma, pur essendo realmente attiva, non deve farci dimenticare l'esistenza di quei processi psichici, che sono altrettanti trattamenti soggettivi irriducibili della contraddizione, e che raddoppiano la dicotomia iniziale di una parte dell'attività psichica autonoma. Si potrebbe dire che la separazione tra l'individuo e la società – teorizzata da Marx come autonomia delle forze sociali oggettivate di fronte al soggetto – costituisce un primo giro di serratura, che verrà poi rifratto e riprodotto all'interno di tutti i suoi prodotti sociali (istituzioni e oggetti scientifici), in modo da formare così un secondo giro di serratura. È questo secondo giro di serratura quello che si confronta con la critica del soggetto della merce, così come anche con la critica del soggetto della conoscenza e con la critica del soggetto della coscienza. Questi tre "soggetti" costituiscono altrettante serrature, che nessuna critica ha il potere di scassinare. La separazione, tematizzata in maniera diversa da Kurz, da Freud e da Adorno non può essere superata attreaverso un atto di pensiero. Non è semplicemente una falsa coscienza che possa essere rettificata per mezzo di un'adeguata conoscenza. Il feticismo della merce, ancorato al corpo dei soggetti della merce, corrisponde alla negazione della scissione ancorata al corpo del soggetto dell'inconscio; dove però i percorsi che portano a intravvedere tali corpi non sono riducibili né alla conoscenza né a una teoria della conoscenza. Esse costituiscono la condizione stessa dell'esperienza soggettiva nel capitalismo. Un buon esempio di ciò, è l'abisso esistente tra "L'interpretazione dei sogni" di Freud e l'approccio del regista del film "Sognare sotto il capitalismo" [ https://festivaldirittiumani.it/rever-sous-le-capitalisme-di-sophie-bruneau/ ], oppure l'abisso tra la psicoanalisi di Freud e la socioanalisi di Bourdieu. È infatti lo stesso "individuo" (il sognatore, o l'oratore), è infatti lo stesso "mondo" (capitalista), ma tuttavia l'approccio freudiano è irriducibile a quello di Sophie Bruneau o a quello di Pierre Bourdieu, senza doversi escludere a vicenda. Perché, allora, dovremmo a tutti i costi trarre una formulazione sintetica dalla critica sociale, se è vero, come ci ricorda giustamente Adorno, che non è possibile sintetizzare ciò che è stato precedentemente separato senza, così facendo, rinnovare la falsa coscienza della separazione stessa? La differenza tra "il soggetto dell'inconscio" e "il soggetto del valore" (Robert Kurz), costituisce un risultato immediato di quello che è il carattere reale e operativo di quel dualismo che costituisce entrambi. Essi richiedono pertanto una trattazione separata, ma che dev'essere fatta secondo una separazione dialettica che non perda mai di vista un meta-livello di riflessione, e cioè che siano entrambi il prodotto di una medesima costituzione storica, rispetto alla quale, insieme, formano la loro stessa condizione comune. Nessuna delle condizioni – diciamo quella del soggetto dell'inconscio e quella del soggetto della merce – ha un'anteriorità logica rispetto all'altra. Esse sorgono logicamente a partire da una sola medesima forma fondamentale. Questo rende impossibile separare l'uno dall'altro, a differenza di come hanno fatto tanti tentativi teorici falliti. Si dà una separazione sociale operativa tra soggetto e oggetto, che si suddivide in soggetto dell'inconscio e soggetto della costituzione del feticcio, e ciascuno dei due soggetti trova per conto proprio, alla fine del proprio processo - quando viene spinto abbastanza lontano - la rispettiva divisione dal quale ciascuno procede. Il rigore, però, obbliga, nonostante questa «identità negativa» (Robert Kurz), a non fare quel salto analogico che porterebbe a identificare l'uno con l'altro, o a far derivare l'uno dall'altro. Resta il fatto che la separazione di cui stiamo parlando è difficile da situare "ontologicamente". I tre autori su cui ci siamo basati, si impigliano tutti nella questione, situando storicamente la separazione in un modo che è spesso troppo rappresentativo, vale a dire, troppo concentrato su quella che Kurz chiama una «metafisica della storia», e alla quale  perfino egli stesso a volte soccombe: vale a dire l'idea di una successione di stadi, in cui la prima natura animale viene soppiantata da una seconda natura premoderna, che poi, essa stessa, viene sostituita da una seconda natura capitalistica, la quale, alla fine un giorno, dovrebbe essere soppiantata da una seconda natura di un altro tipo: autocosciente. In Freud, la storia della civiltà viene rappresentata sotto forma di uno sviluppo continuo, il quale non ci consente in alcun modo di renderci conto della specificità ontologica del capitalismo. La stessa tendenza la si ritrova anche in Adorno, il quale mescola spesso,indistintamente, considerazioni sulla "civiltà in generale" a considerazioni sulla ragione moderna in particolare; la quale per lui costituisce solo una sorta di apogeo di quella che è una storia di dominazione immemorabile. Kurz, al contrario, vede e segnala questa trappola teorica; per quanto il suo ricorso a un'emancipazione, intesa come "uscita dalla preistoria" (Marx), conservi una sorta di illusione relativa all'avvento storico di uno stato che trascenderebbe la propria storia di costituzione, nel quale non si viene completamente liberati dalla metafisica della Storia ,che però egli critica altrove [*56]. «Ciò che fino ad allora aveva obbedito a un cieco meccanismo di regolazione, deve ora essere trasferito nella "coscienza cosciente" degli individui, nell'autocoscienza»[*57]. Che cosa significa l'affermazione enfatica e ridondante di una "coscienza cosciente"? Kurz non sta qui riabilitando le basi della soggettività borghese, che sta cercando di liquidare sottolineando i limiti di Freud e Adorno? Ma non è un caso che Kurz si soffermi a lungo sulla questione della relazione tra prima e seconda natura. Dove il problema del soggetto viene il più delle volte liquidato dall'esaltazione postmoderna dell'esilio umano dalla natura, che è solo la controparte del riduzionismo delle scienze naturali. Ma un simile approccio non se la cava meglio sul piano teorico, poiché esso contrabbanda anche quella che è una preoccupazione assai moderna per la propria supremazia sul resto del mondo, vista come verità ontologica di separazione dalla natura, e che non pone più la questione dell'essenza sociale della separazione. La questione sociale viene pertanto così assorbita nelle considerazioni sulla "ominizzazione". Questa ossessione a voler celebrare l'uscita dalla natura, coincide con l'ossessione di una civiltà che, avendo perso ogni rapporto simbolico con la natura trasformata in materia inerte, ormai conosce solo l'identificazione immediata con questa stessa natura, oppure la presunta rottura assoluta con essa, al punto da immaginare di poter riprogrammare il mondo a proprio piacimento (per cui, finalmente, l'identificazione e la separazione riuscirebbero a incontrarsi in una sorta di ciclo che si richiude su sé stesso). Così facendo spaccia la propria ontologia sociale per una realtà antropologica naturalizzata: la natura umana è definita dal suo strapparsi dalla natura, e lo ha sempre fatto. Per quanto indiscutibile possa sembrare questa affermazione, il suo potere affermativo testimonia un disagio nei confronti di un'altra separazione che non viene teorizzata e che viene, per così dire, trattata per procura. L'affermazione del nostro distacco dalla prima natura non può sollevarci dalla preoccupazione di esaminare la separazione sociale del soggetto moderno che viene visto come l'effetto. Kurz ha teorizzato questo problema più di chiunque altro: certo, la questione onnipresente che accompagna la questione del soggetto moderno, è sì quella della separazione, ma non di una separazione, in quanto - a essere così facilmente confusa con la più ampia questione delle relazioni con la prima natura - si tratta qui della questione delle proprie relazioni sociali reificate. La teoria critica ha perciò il compito di non confondere i livelli di separazione di cui parla, e non deve ipostatizzare, come ha dimostrato anche Adorno, né una separazione ontologica né l'unità immediata degli opposti, ma seguire dall'interno, senza riconciliazione, tutta quella serie di mediazioni implicite nella situazione storica che eredita. Quel che ne consegue, è che il soggetto dell'inconscio e il soggetto della merce non possono più essere naturalizzati da un trattamento che assolutizza le loro determinanti separate, né possono essere confusi come se fossero un unico e medesimo "soggetto", dal momento che non sono "esseri", ma delle costruzioni teoriche immanenti al loro stesso campo di ricerca, il quale, a sua volta, viene necessariamente a essere atomizzato in "specialità", come risultato della moderna divisione del lavoro. Se la separazione va veramente riconosciuta nel suo carattere operativo e reale, allora non è possibile «fondere questi concetti teorici, apparentemente ancora molto lontani tra loro, per unificarli in modo storico critico» [*58]. Kurz, lo avrebbe poi riconosciuto allorché insisterà sempre di più sulla negatività delle critiche. Un programma teorico unitario, finirebbe per non essere altro che l'ennesima grande teoria, tanto impotente quanto tutte quelle che l'hanno preceduta. Ma le elaborazioni teoriche possono inscrivere nei loro rispettivi oggetti la conseguenza del loro emergere separatamente, nella misura in cui sanno riconoscerla. Il tema dell'inconscio è la sede di processi individuali che non possono essere risolti in una teoria generale della soggettività. Quando è la psicoanalisi stessa ad allontanarsi da una teoria così generale, di certo essa tradisce il suo proprio progetto. Piuttosto, la psicoanalisi si sforza di concettualizzare processi che non sono immediatamente percepiti dalla coscienza, e che non possono essere percepiti al di fuori di un dispositivo di transfert molto particolare. Il vero oggetto della teoria di Freud, è il divario che esiste tra ciò che la coscienza sa o crede di sapere di sé stessa e i processi istintivi inconsci. Una vera teoria critica deve fare propria la considerazione di un tale divario, senza cercare di fornirle una soluzione teorica ad hoc, ma anche senza rifugiarsi in una celebrazione irrazionale dell'interiorità o dell'impossibile. Una psicoanalisi critica non deve, inoltre, sottrarsi alla storicizzazione della propria emersione, e quindi alla conoscenza delle proprie condizioni sociali, perché così facendo rischia di trasformarsi in un nuovo discorso sulla natura umana, possibilmente mascherato da teoria trascendentale. Pertanto la critica non è mai un'impresa al di sopra della mischia. Ma è sempre irrimediabilmente "situata" e dinamica; reca in sé il segno indelebile di quello che è il suo punto di partenza storico-sociale, soggettivo e teorico. Essa non può che assumere e riflettere su questo stato di cose in modo immanente, fino ad avvicinarsi negativamente ai limiti del proprio oggetto. Non trascende le proprie condizioni iniziali, ma può acuire la negatività nei loro confronti e praticare così una correzione permanente dell'isolamento epistemologico impostole dalla sua condizione iniziale, frammentata. È in tal modo che può partecipare all'orientamento di una teoria critica radicale della modernità, nella direzione di una negazione comune delle relazioni esistenti, senza cedere a una logica di identità o di derivazione. L'esperienza dimostra, ahimè, che il pensiero critico rischia sempre, da un momento all'altro, di stancarsi di aggiungere mediazioni su mediazioni – il compito è immenso – per poi di cercare di "adagiarsi" su una formulazione unitaria e intangibile che però è così tornata ad essere affermativa.

- Sandrine Aumercier e Frank Grohmann, agosto 2024 – fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

NOTE:

[1] Robert Kurz, "Das Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft", Francoforte, Eichborn, 1999.

[2] Ivi, p. 783 e p. 791.

[3] Robert Kurz, "Abstrakte Arbeit und Sozialismus. Zur Marxschen Werttheorie und ihrer Geschichte", Marxistische Kritik, n°4, dicembre 1987.

[4] Robert Kurz, Auf der Suche nach dem verlorenen sozialistischen Ziel. Manifest für die Erneuerung revolutionärer Theorie, Verlag Marxistische Kritik, 1988.

[5] Robert Kurz, "Die verlorene Ehre der Arbeit", Krisis, n°10, 1989.

[6] Robert Kurz, "Dominazione senza soggetto", in Bloody Reason, Albi, Crise & Critique, 2021 [1993], p. 244.

[7] Ivi, p. 274.

[8] Ivi, p. 275 e p. 289.

[9] Ivi., pp. 276-277, corsivo aggiunto.

[10] Robert Kurz, Roswitha Scholz, "Quando la democrazia divora i suoi figli", Albi, Crise & Critique, 2024 [1993, 2019].

[11] Robert Kurz, "Das Ende der Politik", Krisis, n°10, 1994.

[12] Robert Kurz, "La fine della politica", op. cit., p. 98.

[13] Robert Kurz, "Null-Identität", Exit!, n°15, 2018 [1994].

[14] Robert Kurz, Ernst Lohoff, "Was ist Wertkritik?", Intervista con la rivista Marburg-Virus, 1998, online a: https://www.krisis.org/1998/was-ist-wertkritik/

[15] Robert Kurz, "Das Subjekt ist der Wert", in Die antideutsche Ideologie, Münster, Unrast, 2003, p. 159.

[16] Ivi, p. 166.

[17] Robert Kurz, "Der Knall der Moderne", Jungle World, 09/01/2002.

[18] Robert Kurz, "Venti tesi contro i cosiddetti Aufklärung e i 'valori occidentali'", in Bloody Reason, op. cit., p. 30.

[19] Robert Kurz, "Ontologia negativa", in Bloody Reason, op. cit., p. 87.

[20] Robert Kurz, "Tabula rasa", in Ragion di sangue, op. cit., p. 203.

[21] Ivi, p. 218.

[22] Robert Kurz, "Die psychoanalytische Dimension in der Warenformkritik", "Exkurs II", in "Geschlechtsfetischismus. Anmerkungen zur Logik von Weiblichkeit und Männlichkeit", Krisis, 12, 1992.

[23] Sigmund Freud, "Consigli ai medici sul trattamento analitico", La technique psychanalytique, Parigi, PUF, 1953 [1912], p. 68:  «Ma nelle relazioni psicoanalitiche, le cose non accadono secondo le previsioni della psicologia del cosciente [...]»; Sigmund Freud, "L'inconscio", Métapsychologie, Paris, Gallimard, 1968 [1915], p. 77: «Ammettendo questi (due o tre) sistemi psichici, la psicoanalisi ha fatto un passo ulteriore nella direzione che la allontana dalla psicologia della coscienza descrittiva, e si è data un nuovo modo di porre problemi e un nuovo contenuto.»; Sigmund Freud, "'Psicoanalisi' e 'Teoria della libido'", Risultati, Idee, Problemi II, 1921-1938, Parigi, PUF, 1985 [1922], p. 71: «[...] La psicoanalisi si trasformò nella psicologia degli abissi e, come tale, fu in grado di applicarsi alle scienze della mente, e fu in grado di risolvere un gran numero di questioni davanti alle quali la psicologia scolastica della coscienza aveva dovuto fermarsi perplessa. »

[24] Sigmund Freud, Études sur l'hystérie, Paris, PUF, 1956 [1895], pp. 243-244, traduzione modificata.

[25] Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, Parigi, PUF, 2010 [1900], p. 666 e p. 671.

[26] Sigmund Freud, "Pulsions et destins des pulsions", in Métapsychologie, Paris, Gallimard, 1968 [1915], p. 23; Sigmund Freud, "Rimozione", [1915], in Metapsicologia, op. cit., p. 60.

[27] Sigmund Freud, "L'inconscio", [1915], in Metapsicologia, op. cit., p. 65.

[28] Ivi, pp. 71-72.

[29] Ivi, pp. 73-74.

[30] Ivi, p. 105.

[31] Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Parigi, Gallimard, 1976 [1916-1917], p. 269.

[32] Sigmund Freud, "Psicoanalisi", in Risultati, idee, problemi, II, Parigi, PUF, 1985 [1927], p. 156.

[33] Sigmund Freud, Nouvelles conférences d'introduction à la psychoanalyse, Paris, Gallimard, 1984 [1932-33], p. 104, corsivo aggiunto.

[34] Sigmund Freud, "La scissione dell'Io nel processo di difesa", in Risultati, Idee, Problemi, II, op. cit. ; Sigmund Freud, Abrégé de psychoanalyse, op. cit.

[35] Sigmund Freud, Malaise dans la civilisation, op. cit., p. 46. p. 77, p. 99.

[36] Sigmund Freud, Mosè e il monoteismo, Parigi, Gallimard, 1948 [1938], pp. 99 e 177.

[37] Sigmund Freud, "Atti ossessivi ed esercizi religiosi", in L'avenir d'une illusion, Parigi, PUF, 1971 [1907]; Sigmund Freud, Totem et tabou, Paris, Payot, 1967, [1913], p. 185.

[38] Sigmund Freud, "Il sé e l'Es", in Essais de psychanalyse, Parigi, Payot, 1981 [1923], pp. 249-252; Sigmund Freud, Mosè e il monoteismo, op. cit., pp. 134-136.

[39] Sigmund Freud, Malaise dans la civilisation, Parigi, PUF, 1971, [1929], p. 100. ; Sigmund Freud, "Un breve riassunto della psicoanalisi", in Risultati, idee, problemi, II, op. cit., p. 113.

[40] Sigmund Freud, Malaise dans la civilisation, op. cit., pp. 102-104.

[41] Theodor W. Adorno, "Soggetto e oggetto", in Modèles critiques, Parigi, Payot, 1984, p. 262.

[42] Ivi, p. 265.

[43] Ivi, p. 266.

[44] Ivi, p. 273.

[45] Ivi, p. 266.

[46] Ivi, p. 267 e p. 274.

[47] Ivi, p. 268.

[48] Ivi, pp. 272-273

[49] Ivi, p. 273.

[50] Ivi, p. 270.

[51] Ivi, p. 269.

[52] Theodor W. Adorno, "À propos du rapport entre sociologie et psychologie", in Society: Integration, Disintegration, Paris, Payot, 2011 [1955], p. 329.

[53] Theodor W. Adorno, "Poscritto", in Società: integrazione, disintegrazione, op. cit., p. 376.

[54] Robert Kurz, "Tabula rasa. Fino a che punto può e deve spingersi la critica dell'Illuminismo? ", Ragion di sangue, Albi, Crisi e critica, 2021 [2004].

[55] Theodor W. Adorno, "Soggetto e oggetto", op. cit., p. 271.

[56] Robert Kurz, "Dominazione senza soggetto", in Ragion di sangue, op. cit. op. cit., pp. 266-272 e pp. 306-311.

[57] Ivi, p. 314.

[58] Ivi, p. 283. Vedi anche p. 286.

domenica 17 novembre 2024

Libri da tradurre !!

Célia Izoard, rappresenta senza dubbio ciò che può essere visto come un'alternativa critica alle visioni neo-leniniste, stataliste, e a favore della produzione delle presunte "energie rinnovabili" di un Andreas Malm, così come al programma alter-capitalista di “pianificazione ecologica” di un Mélenchon. Nel suo " ́ ̀ ̀: ̂ ́ ̀ '̀ "(Ed. du Seuil), l'autrice ci offre una pungente analisi del volto nascosto della cosiddetta “transizione ecologica”: è cominciata una nuova corsa all'estrazione mineraria su una scala senza precedenti. Nel giro di vent'anni, in nome della lotta al riscaldamento globale, si produrrà tanto metallo quanto finora ne è stato estratto in tutta l'intera storia dell'umanità. Dalla corsa al rame in Andalusia, all'estrazione di cobalto in Marocco, alla guerra per le risorse in Ucraina, questa indagine sui siti minerari di tutto il mondo fa vedere quale e quanto sia l'immobilismo e l'ipocrisia relativa a questa cosiddetta “transizione” estrattiva.  Analizzando la nuova geopolitica mineraria, Celia Izoard ci fa vedere anche un'altra sfida: soddisfare il colossale consumo, e bisogno, di metalli da parte dell'industria digitale, aerospaziale e degli armamenti; e tutto questo in un mondo in cui le industrie occidentali sono in competizione con quelle superpotenze delle risorse che sono diventate la Cina e la Russia. All'insegna della bandiera della “civilizzazione” e dello “sviluppo”, l'industria mineraria ha svolto quello che è stato un ruolo strutturante nell'espansione del capitalismo. Pertanto, la domanda è: Oggi, nell'era della “transizione”, come possiamo superare questo regime minerario al quale le élite hanno sospeso il nostro destino?

Celia Izoard è una giornalista e filosofa specializzata in nuove tecnologie e nel loro impatto sociale ed ecologico. È autrice e di "Merci de changer de métier. Lettre aux humains qui robotisent le monde" (Éditions de la Dernière lettre, 2020) e traduttrice e prefattrice di "La machine est ton seigneur et ton maître "(Agone, 2015). Ha ritradotto,  con una sua postfazione, "1984" di George Orwell (Agone, 2021).

fonte: @Palim Psao

sabato 16 novembre 2024

«Un senso di uguaglianza che farebbe rabbrividire Proudhon»…

Il matriarcato e le origini della disuguaglianza nella prima Scuola di Francoforte
- di Salima Naït Ahmed -

«La prima opposizione di classe, che si manifesta nella storia, coincide con lo sviluppo dell'antagonismo tra uomo e donna nel contesto del matrimonio coniugale; e la prima oppressione di classe, con quella patita del sesso femminile da parte del sesso maschile.» (Friedrich Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato).

Il marxismo - che oggi viene descritto come "ortodosso", e la cui diffusione viene attribuita in particolar modo al movimento operaio dalla Seconda Internazionale in poi - viene regolarmente assimilato a una vulgata economista del tutto cieca alle questioni di genere. La critica femminista radicale degli anni '70 aveva messo in luce i punti ciechi di questa concezione economicista, la quale ignorava il ruolo della riproduzione, ossia all'interno dell'economia capitalistica (Federici, 1975; Barrett e McIntosh, 1979; Mies e Federici, 2014); ovvero, all'interno di un modo di produzione patriarcale supposto come più antico del capitalismo stesso (Delphy, 1982, 2013). Tuttavia - e come mostra la citazione di Engels - c'è stato un tempo in cui il marxismo considerava il rapporto di genere come un rapporto di classe gerarchico; e più precisamente come il primo rapporto di oppressione di classe. Prima che il marxismo si pietrificasse in una sorta di compendio economicista, l'idea di "ortodossia" era stata persino associata a una critica genuinamente materialista delle relazioni di genere, che era l'antitesi di certe posizioni socialiste considerate come "idealistiche" o "darwiniste", e fortemente criticate da Marx ed Engels, per la loro partecipazione alla naturalizzazione della dominazione maschile.

Questo contributo si propone proprio di riallacciare il rapporto primario esistente tra marxismo e critica anti-patriarcale, facendolo da un punto di vista singolare, che passa per i testi della Scuola di Francoforte che riprendono le tesi etnologiche di Marx, nella loro forma evolutiva rese popolari da Engels ne "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato". Così facendo, metteremo in luce il modo in cui questa scuola di pensiero, nata a Francoforte alla fine degli anni Venti, abbia trasmesso le tesi dell'esistenza di un "matriarcato originario", inteso come una forma politica primitiva segnata dalla preminenza della donna, e da legami sociali orizzontali. Al fine di evitare qualsiasi ambiguità lessicale, va notato fin dall'inizio che il termine "matriarcato" costituisce la traduzione più comune, dal 1903 in poi, del concetto tedesco di Mutterrecht, coniato da Johann Jacob Bachofen (1975) e che letteralmente significa "diritto materno". Negli scritti di Bachofen, la parola non si riferisce strettamente a un vero e proprio soggetto giuridico, quanto piuttosto alle fonti mitiche del diritto, che nelle prime società sarebbero state associate a un principio "femminile-materno". Secondo Bachofen, questo principio si manifesta attraverso alcune credenze religiose che determinano l'organizzazione familiare primitiva attorno a una figura materna, e l'organizzazione sociale matrilineare e matrilocale. Engels e Marx riprendono il termine Mutterrecht, pur ammettendone l'imperfezione, in quanto esso suggerisce anacronisticamente l'esistenza di un diritto nelle società che ne sono prive. Mentre, la scelta di Walter Benjamin di utilizzare lui stesso il termine "matriarcato" nei suoi Scritti francesi per tradurre il tedesco Mutterrecht testimonia un certo cambiamento di significato, che è di fatto già presente nella lingua tedesca. Infatti, se i posteri di Bachofen diffondono l'uso del neologismo Mutterrecht in tedesco, si nota che esso viene spesso inteso come sinonimo della parola Matriarchat (matriarcato), la cui specificità sarebbe l'etimologia greco-latina. In questo articolo viene mantenuto il termine francese "matriarchat", per designare la nozione tedesca di Mutterrecht, così come è stato usato nel corpus di testi di autori della Scuola di Francoforte, a volte in modo intercambiabile con Matriarchat, per designare l'esistenza di un principio di organizzazione sociale orizzontale che precede l'apparizione della proprietà privata associata alla patrilinearità. La "scoperta" di questa forma di organizzazione primitiva, dotata, nelle parole di Marx, di un «senso di uguaglianza che farebbe rabbrividire Proudhon» [Lettera di Marx a Engels del 25 marzo 1868], rivelerebbe allo stesso tempo tanto la storicità quanto la contingenza del patriarcato; in contrasto con le concezioni «di una scienza storica ancora totalmente sotto l'influenza del Pentateuco». Per Marx ed Engels, l'esistenza di un "matriarcato" originale rappresenta un rombo di tuono che potrebbe servire a mettere in discussione tutte le narrazioni dominanti sulla naturalezza del patriarcato. Una vera e propria vessazione inflitta all'androcentrismo, che potrebbe far cadere l'umanità maschile dal suo piedistallo. Nel contesto della ricezione degli scritti etnologici di Marx, questa "scoperta" venne recepita dalla Scuola di Francoforte fin dai suoi primi anni, e lasciò un segno duraturo sulla sua prima generazione. La netta rottura tra la teoria critica e le tesi evoluzioniste, a partire dagli anni '30, non sembra aver messo in discussione l'ipotesi del matriarcato originario, sebbene si basasse su una concezione evoluzionistica dello sviluppo storico. Il tema del matriarcato, d'altra parte, sembra aver acquisito importanza nella Scuola di Francoforte in modo inversamente proporzionale al declino che sperimentato dal lavoro etnologico nella prima metà del XX secolo.

Ci proponiamo qui, di interrogarci sulle ragioni di una tale persistenza tra la metà degli anni '20 e la fine degli anni '30. L'obiettivo è quello di far luce sulle condizioni epistemiche di questo mantenimento, nonché sulle sue determinanti storiche e politiche, soffermandosi in particolare sui ruoli di Carl Grünberg ed Erich Fromm, due figure chiave dell'Institute for Social Research, l'istituzione ufficiale associata alla Scuola di Francoforte. Sono stati così individuati due periodi essenziali. Il primo periodo, dal 1923 al 1931, durante il quale l'Istituto per la Ricerca Sociale sotto la direzione di Carl Grünberg, è segnato dalla trasmissione dell'ipotesi matriarcale di Karl Marx. Una forma di evoluzionismo meccanicistico ereditata da Engels, che ha poi inquadrato la concezione socialista della storia e delle relazioni di genere. In un secondo periodo, breve ma intenso, dal 1931 al 1938, l'Istituto per la Ricerca Sociale produsse per diversi anni fiorenti pubblicazioni sul tema del matriarcato. Sotto l'egida di Erich Fromm, vediamo un'inflessione "culturalista" caratterizzare le pubblicazioni sul genere, che va di pari passo con il tentativo di "liberare" l'ipotesi matriarcale da una comprensione evoluzionistica letterale.

- Salima Naït Ahmed - L'articolo, per intero si può leggere, in francese, su Traces 45/2024  -