martedì 28 ottobre 2025

La Propaganda attraverso i Fatti ?!!???

L'Epica delle Piccole Moltitudini
- di Primo Jonas -

Che cosa hanno in comune la flottiglia "Global Sumud", che di recente ha navigato verso Gaza bloccata dalle forze israeliane, e l'invasione degli edifici governativi a Brasilia e a Washington da parte di manifestanti di estrema destra? Nei tempi di Internet, una simile provocazione ha un enorme potenziale nel riuscire a generare indignazione da parte di entrambi i lati dello spettro politico e, pertanto, a trarre un enorme profitto da degli impegni, malgrado la loro scarsissima profondità. Ciò che conta, è l'impatto dell'indignazione, che, prendendo posizione, ridicolizzando gli avversari, dando la sensazione di avere l'ultima parola; per poi, ignorare completamente qualsiasi altro sviluppo del tema. La truffa deve perciò essere veloce, come in uno schema "rug pull" di crypto-asset, è necessario generare un brusco interesse per l'argomento, per poi sparire insieme agli allori raccolti. Il dibattito serio e sostenuto, invece, non genera coinvolgimento e non mobilizza. È solo una perdita di tempo.
Torniamo quindi al parallelo che abbiamo fatto tra i due eventi all'inizio del testo. In ciascuno, possiamo identificare dei grandi gruppi di persone, in gran parte sconosciute tra loro ma unite da uno scopo comune, una sorta di piccola folla mobilitata da un obiettivo politico. Quali somiglianze possiamo vedere nella struttura di ciascuno di questi scopi politici? Sono lotte che riproducono il passo biblico che vede Davide contro Golia, in cui l'ostinazione e la nobiltà dell'atto ispirano simpatia per coloro che sembrano avere meno possibilità di vincere. Aggiornato ai giorni nostri, si tratta di un piccolo gruppo umano che lotta contro le potenti istituzioni dello status quo. Però, di solito, la cosa più importante si nasconde dietro ciò che appare come più evidente. La forza di questi eventi risiede nella loro trasmissione. Dopotutto, cosa avrebbero ottenuto simili eventi se fossero stati comunicati al mondo solo poche settimane dopo che si fossero verificati? Possiamo dire che si tratta di atti performativi di giustizia, proprio perché sono solo atti, capaci di imporre al mondo concreto dei precetti etici e morali agli occhi tanto di chi li compie quanto di chi li sostiene a distanza. Si tratta di ottimi esempi di ciò che chiamiamo "azione diretta". Nella tradizione della lotta politica radicale, possiamo riferirci - a titolo di paragone -  alla proposta della cosiddetta "propaganda attraverso l'azione". Essa ha cercato, nella Storia, di promuovere ideali e pratiche politiche, facendolo attraverso l'esempio di azioni di individui, o di piccoli gruppi, azioni che contengono in sé come una sorta di radicalismo di rottura. Azioni inaudite senza alcuna possibilità di tornare indietro, atti di impegno e di piena dedizione da parte dei singoli individui ai propri ideali. Ma c'è qualcosa, che separa gli anarchici di fine Ottocento, o gli islamisti di qualche decennio fa e, ancora oggi, da queste piccole folle che stiamo cercando di capire. Il forte appello ideologico che induce all'impegno e alla dedizione totale, prescinde dal bisogno che ci siano degli spettatori.; la giustizia, per l'individuo che la realizza, è qui e ora. Così, nel caso delle nostre piccole folle, vediamo come le azioni siano state riprodotte in tempo reale, per il mondo intero, e non solo al fine di testimoniarle, ma piuttosto proprio per trasmettere a quel mondo intero il significato, le intenzioni e i dettagli di tutto ciò che veniva fatto.
Nostalgia di un tempo più autentico? Di una politica senza spettacolo?
Ma no, per questo non è necessario scrivere testi. Questo è proprio il mondo in cui viviamo, noi che siamo vivi qui e adesso. L'autogestione, che nella storia del Novecento è stata forse l'atto principale della giustizia performativa - l'azione diretta che trasforma e crea un mondo nuovo -  ora vediamo che essa è stata invece circoscritta entro i limiti umani di questo qui e ora. Entro i limiti di una piccola folla, isolabile dal resto dell'umanità. Le assemblee di fabbrica, e i consigli operai, non esprimono più l'avanguardia dell'intelligenza collettiva umana, vale a dire, il potenziale creativo e trasformativo di una nuova società. Oggi, il qui e ora sono ben diversi! I social network stanno forgiando una logica nella quale il significato e la direzione delle azioni politiche vengono incessantemente messi in discussione. Ogni piccola folla costituisce una creazione di contenuti, e questo indipendentemente da tutto ciò che altro essa sia, vale a dire che rappresenta una creazione di contenuti che "sembra" proporre ai propri spettatori di partecipare a un qualcosa di più grande. Ma cosa propongono? Riprodurre in modo "molecolare" quelle stesse azioni che nel corso di quei contenuti si svolgono? Incoraggiare l'impegno individuale di azioni più piccole che vengano adattate a ciascuna realtà? Entrambe le cose possono essere vere, così come anche tante altre. Con tutte queste rivolte e insurrezioni, che continuano a spuntare in tutto il mondo, nelle quali si alternano gli stessi titoli ("Generazione Z"), gli stessi personaggi (Guy Fawkes, Joker) e le stesse...bandiere (la più recente è la bandiera dei pirati del cartone animato "One Piece"), finisce per essere assai difficile rappresentare un risultato chiaro di quella che è la violenza di massa nelle strade. Ora sembrano essere una componente comune delle dinamiche di potere dei più diversi paesi, piuttosto che un presagio di profonde trasformazioni sociali, come invece pensava la sinistra nel XX secolo. È riprovevole l'invito all'azione di queste "piccole moltitudini"? Certo che no. Ma ciò che risalta è il modo in cui questa dinamica delle reti sociali abbia finito per sostituire le istanze di dibattito e la deliberazione collettiva, sovrapponendo a esse un'eterna urgenza (catastrofica, umanitaria, militante, moralistica) di azione e, pertanto, trascinando così da una parte all'altra tante piccole folle.
Perché essere testardi e rifiutare completamente questo stato di cose? Ci sono sempre stati, e sempre ci saranno, dei  leader, degli esseri umani le cui caratteristiche individuali e le circostanze storiche finiscono per forgiarli come catalizzatori di processi collettivi. Ma da dove vengono? Con quale meccanismo essi sono controllati da altri? Sotto questo aspetto, le reti sociali sono assai meno trasparenti, e molto più manipolabili, di un sindacato, di una direzione comunitaria, viste come figure di precedenti cicli di lotta. Oggi vediamo molti settori dell'estrema sinistra che si rivolgono a una politica sui social media, cercando di creare i propri influencer. E il processo è così vertiginoso che ci sono persino dei casi in cui gli influencer dimostrano di essere più potenti della parte di cui affermano essere parte, invertendo così l'equazione. Per l'estrema sinistra, la disgiunzione che si trova ancora sul tavolo  è quella tra il contestare le reti, o il continuare ad abitare l'irrilevanza, come se le metriche dei social network esprimessero il potere di un'agenda. Il problema di fondo è però di natura morale, perché abitare l'irrilevanza politica è un compito arduo e inglorioso, di cui è difficile essere entusiasti, e per il quale è difficile convocare persone nuove. Tutto ciò spiega anche la seduzione - in mezzo a noi - esercitata dai discorsi militaristi e, in ultima analisi, nazionalisti, visti quale grido di disperazione contro l'irrilevanza sul piano delle idee. L'alternativa più moderata è quella di consumare contenuti di individui eroici che possono, loro sì, compiere atti epici che redimono il resto di noi, nella nostra impotenza quotidiana. Nella strategia di queste azioni eroico-spettacolari, appare centrale la risposta che viene data dalle potenti istituzioni dello status quo: un passo falso, un errore di calcolo può causare l'entrata in gioco di nuove piccole folle, e la loro trasformazione in folle incontrollabili. Ipotizzo pertanto che stiamo assistendo solo a quelle che sono le prime prove di questo tipo di strategia, e i suoi effetti, a destra e a sinistra, sono assai difficili da prevedere.

- Primo Jonas - Pubblicato il 28/10/2025 su Passa Palavra

 

sabato 25 ottobre 2025

Il “Pericolo Biologico”, e quello “Intellettuale” !!

Frantz Fanon, Sionista
- di Norman Levine -

Il finire degli anni '60, è stato un periodo quando la parola "rivoluzione" si trovava sulla bocca di tutti. Allora, si era all'apice delle proteste contro il Vietnam, l'apice delle proteste studentesche, l'apice delle proteste nere, l'apice del movimento di guerriglia palestinese, e si avevano ancora vividi ricordi dell'eroismo e del fervore delle rivoluzioni cinese, algerina e cubana. In questo periodo, negli Stati Uniti, Frantz Fanon veniva ritenuto come il portavoce più eloquente di quella che era allora la frustrazione e la furia degli oppressi di tutto il mondo. Fanon, nato in Martinica nel 1925, aveva studiato medicina in Francia, specializzandosi in psichiatria. Quando la rivoluzione algerina si stava sviluppando, venne mandato in un ospedale in Algeria, dove la sua simpatia si rivolse ai ribelli. Nel 1952 divenne redattore di El Moudjahid, il giornale clandestino ufficiale del Fronte di Liberazione Nazionale algerino, e fu  forza attiva nella decolonizzazione algerina. Mantenne questa posizione fino al 1961, allorché si ammalò, per poi morire di cancro nel dicembre di quell'anno, negli Stati Uniti. Dopo la sua morte, i libri di Fanon divennero la bibbia dei dissidenti radicali. In "Pelle nera, maschere bianche”, "Anno V della rivoluzione algerina" e "Per una rivoluzione africana",  egli descrisse qual era lo stato psicologico dell'algerino, o dell'africano, sotto un sistema coloniale. Le sue parole ebbero pertanto una grande rilevanza. Tuttavia, la sua opera principale è stata "I dannati della terra", un libro letto e citato da Eldridge Cleaver, Bobby Seale, Angela Davis, George Habash e Amir Arafat. In quelle pagine, Fanon si è affermato come il principale diagnosticatore della mentalità colonizzata, e come un profeta della violenza; una violenza purificatrice, una violenza che poi è risorta come violenza decolonizzatrice e che ha riconquistato la dignità dell'uomo nero. Fanon, era il Marx del panafricanismo, un esempio in quella che è stata l'evoluzione della coscienza nera. Ma quello che non è mai diventato noto, tuttavia, è il fatto che Fanon abbia scritto per gli ebrei, e degli ebrei, quasi quanto abbia fatto per gli africani.  Dal momento che egli - pur considerando unica l'esperienza coloniale nera - non la considerava tuttavia come se fosse quella l'unica esperienza coloniale. C'era un parallelo tra ebrei e neri. Entrambi erano popoli colonizzati. Il razzismo era stata la loro situazione comune, il loro destino comune. Fanon vedeva il sionismo come se fosse essenzialmente un movimento del Terzo Mondo; vale a dire, come una rivoluzione nazionale vittoriosa, grazie alla quale è stata decolonizzata una nazione, e attraverso la quale è stata potuta rivendicare la propria identità culturale, all'interno di una struttura territoriale sovrana. L'apprezzamento di Fanon per la decolonizzazione ebraica verrà qui discusso secondo quattro categorie: 1) l'ontologia del colonialismo; 2) il razzismo differenziale; 3) Al Fatah; e 4) la testimonianza del silenzio.

L'ontologia del colonialismo
La tradizione filosofica francese - in particolare quella che i rifà a Sartre -  ha contribuito a plasmare Fanon. È stato l'esistenzialismo francese, a dare a questo rivoluzionario algerino la base filosofica per le sue idee. Nelle sue "Riflessioni sul razzismo", in "San Genet", e in "L'essere e il nulla", Sartre esplora la condizione dell'esistenza umana quando viene totalmente dominata dall'altro. Fanon, avrebbe preso in prestito il paradigma sartriano, ma poi vi avrebbe aggiunto un contenuto razziale bianco-nero. Il fatto che questo nazionalista algerino, che vedeva la violenza come se fosse l'unico mezzo per liberare l'Algeria dal colonialismo francese, abbia un grande debito con il pensiero francese, dimostra chiaramente come Fanon non si sia però mai completamente separato dalla sua eredità culturale occidentale. Egli voleva liberare l'Africa, ma non isolarla completamente dalle idee occidentali! Il mondo dell'antisemitismo era - per Sartre - un mondo manicheo, diviso tra il bene e il male. In altre parole, era un mondo di polarizzazione assoluta. Da una parte c'era il mondo esterno, l'antisemita. Dall'altra parte c'era l'ebreo. E quindi l'ebreo era un uomo dominato: «L'ebreo è colui che gli altri uomini considerano ebreo: è questa la semplice verità da cui dobbiamo partire. In questo senso, il democratico ha ragione contro l'antisemita, perché è l'antisemita che fa l'ebreo.» [*1]. In un universo manicheo, l'ebreo era totalmente dominato da una società ostile. Divenne così l'oggetto della società. L'immagine dell'ebreo che il mondo esterno ha creato per sé stesso, è stata invece imposta all'ebreo come una sua immagine di sé. Quando l'ebreo incarnava l'immagine che la società aveva di lui, come se fosse la sua propria personalità, l'esterno diventava interno. Era esattamente questo, il meccanismo psicologico che Fanon descrisse in seguito come la base del colonialismo bianco-nero. Il mondo manicheo di Sartre, era inflessibile e impenitente; era definitivo. «Non c'era reciprocità, non c'era scambio tra il mondo esterno e l'Io. Il mondo antisemita esterno si è confrontato con l'Io, e l'Io è stato superato. Non c'era via d'uscita.» [*2]. Il modello di colonialismo razzista di Fanon è stato preso in prestito a partire dal modello di oppressione di Sartre. [*3] Ma dal momento che questo modello di oppressione veniva applicato all'ebreo, Fanon, nell'accettarlo, doveva accettare anche il fatto che l'ebreo era stato vittima del colonialismo bianco e cristiano. Riconobbe così che gli ebrei erano stati un popolo colonizzato, in Europa. Accettò anche il fatto che il colonialismo antisemita e il colonialismo bianco-nero erano analoghi nella forma, sebbene i loro contenuti avevano dovuto essere differenziati. Nel suo libro, "Pelle nera, maschere bianche", Fanon ci ha offerto la sua migliore analisi della psicologia del colonialismo. Piuttosto sartriano, Fanon ha aggiunto, appena, la modalità della pigmentazione della pelle: «L'uomo nero non ha alcuna resistenza ontologica, agli occhi dell'uomo bianco. Da un giorno all'altro, all'uomo di colore sono stati assegnati due quadri di riferimento all'interno dei quali doveva situarsi. La sua metafisica, o meno pretenziosamente, i suoi costumi e le fonti su cui essi si basano, vennero allora cancellati, poiché erano in conflitto con una civiltà che lui non conosceva, e che gli si imponeva.» [*4] Il mondo coloniale bianco-nero era manicheo, proprio come lo era per l'ebreo. A causa della dominazione assolutista della società bianca, i neri sono stati derazzializzati e inferiorizzati. Sono perciò diventati l'oggetto del bianco, ossia, lo stereotipo bianco del nero venne incorporato dall'uomo nero e visto come costituente del proprio ego. L'essere neri, per i bianchi, è sempre stato sinonimo di sessualità e, perciò, i neri si sono vissuti come dei giganti sessuali. Questo è stato un processo di de-ontologizzazione. Fanon ripeteva questo tema nelle sue opere: «Non mi viene data alcuna possibilità. Sono troppo determinato dall'esterno. Sono schiavo non della "idea" che gli altri hanno di me, ma del mio stesso aspetto». [*5] Era questa l'essenza del colonialismo: la dominazione totalitaria dall'esterno. Il nero non aveva un ego: era l'esterno che funzionava in lui come un ego.

Razzismo differenziale
Fanon, pensava all'ebreo come si pensa a un "fratello". Africani ed ebrei erano la stessa cosa, dal momento che entrambi avevano sperimentato la medesima oppressione razzista e coloniale. Ampie prove di una tale fratellanza, di una identica esperienza nazionale, emergono dai suoi scritti. In "Pelle nera, maschere bianche", dice: «Il razzismo coloniale non è diverso da qualsiasi altro razzismo. L'antisemitismo mi colpisce frontalmente: sono infuriato, sto morendo dissanguato in una terribile battaglia, vengo privato della possibilità di essere un uomo. Non riesco a dissociarmi dal futuro che viene proposto al mio fratello. Ogni mio atto mi impegna in quanto uomo. Ogni mio silenzio, ogni mia vigliaccheria, mi rivela come uomo.» [*6]. E poche pagine dopo, nella stessa opera, aggiunge: «Un oltraggio! L'ebreo e io: dal momento che non ero contento di essere razzializzato, allora sono stato umanizzato. Mi sono unito all'ebreo, mio fratello nella miseria... Poi, più tardi, mi resi conto che invece intendeva semplicemente dire che un antisemita è inevitabilmente anti-nero.» [*7] Gli ebrei non erano solo un popolo colonizzato, ma anche le vittime di un sistema coloniale che equivaleva alla barbarie del Sudafrica e dell'Algeria. In difesa della rivoluzione africana, Fanon era d'accordo con il suo amico, Aimé Césaire: «Quello che lui (l'umanista borghese del XX secolo) non perdona a Hitler, non è il crimine in sé, il crimine contro l'uomo bianco,  ma è l'imposizione agli europei di procedure colonialiste europee che fino ad allora erano state riservate agli arabi d'Algeria, ai coolies dell'India e ai neri dell'Africa.» [*8] Fanon ha ribadito lo stesso tema – il nazismo come colonizzazione intra-europea – in "Pelle nera, maschere bianche": «Mi sembra di sentire ancora Césaire: "Quando accendo la radio, quando sento che i neri sono stati linciati in America, dico che siamo stati ingannati: Hitler non è morto; quando accendo la radio, quando sento che gli ebrei sono stati insultati, maltrattati, perseguitati, dico che siamo stati ingannati: Hitler non è morto; quando infine accendo la radio e sento che in Africa il lavoro forzato è stato inaugurato e legalizzato, dico che siamo stati certamente ingannati: Hitler non è morto.» [*9] Nel mentre che era vero che sia i neri che gli ebrei erano stati dominati da una società ostile, il contenuto del controllo esterno non era lo stesso. Il mondo esterno totalitario non aveva cercato di imprimere una medesima immagine all'autocoscienza nera ed ebraica. Fanon scoprì che c'era invece un razzismo differenziale. «Il nero simboleggiava il pericolo biologico; l'ebreo, il pericolo intellettuale». [*10] Essenzialmente, la società esterna ritraeva l'uomo nero come un gigante sessuale. La negrofobia, ha avuto origine da una base istintiva e biologica. Il mondo esterno aveva trasformato l'essere nero in un male perché, in una società puritana e istintivamente repressiva, quella società aveva una reazione fobica contro tutto ciò che vedeva come primitivismo biologico. In una società razionalizzata, burocratica, distintamente non libidica, l'ambiente ostile temeva di essere superato dal biologico. Così, una società deve segregare e poi escludere totalmente la fonte della minaccia libidica. La negrità, cioè la potenza sessuale sfrenata, deve essere imprigionata. L'antisemitismo, invece, ha un contenuto diverso. L'ebreo era visto come un sovversivo religioso e culturale, e l'ebraismo veniva visto dall'Occidente cristiano come l'eterna negazione, poiché l'ebreo serviva a ricordare loro che forse il messia cristiano non era altro che una farsa. Lo stereotipo ebraico, si è evoluto nel Medioevo: l'ebreo era satanico, uno stregone, posseduto da strani poteri al fine di sovvertire la fede e la purezza cristiana. Attraverso le diverse epoche culturali dell'Occidente, l'immagine dell'ebreo in quanto infiltrato è rimasta costante. Infine, nell'era del capitalismo, l'ebreo è stato ritratto come il mago della finanza, come colui che controllava surrettiziamente i meccanismi economici dell'Occidente. Il mondo esterno ha poi costruito un'immagine dell'ebreo dipinto come un cospiratore e così facendo, a causa della sua impotenza coloniale, l'ebreo è stato spinto a incarnare questa immagine di sé stesso. Paranoico, il mondo esterno sognava di sterminare queste minacce immaginarie. Ma, proprio come c'era il razzismo differenziato, c'era tuttavia anche il genocidio differenziato. L'uomo nero è stato castrato poiché la società lo vedeva come una potenza sessuale sfrenata. La corporeità nera è stata violata, perché era - in quanto personalità concreta - il seduttore delle donne bianche; il che era una minaccia. L'ebreo invece fu ucciso. Poiché il popolo ebraico era una minaccia, poiché la sovversione ebraica era collettiva, la punizione doveva essere generale e generica. Ciò che dev'essere sradicato nell'ebreo, non è tanto la sua personalità quanto la sua esistenza: «Nessun antisemita, per esempio, avrebbe mai concepito l'idea di castrare l'ebreo. Egli viene ucciso, o viene sterilizzato. Ma i neri sono castrati! Il pene, simbolo di mascolinità, viene annientato, cioè negato. La differenza tra i due atteggiamenti è evidente. L'ebreo viene attaccato nella sua identità religiosa, nella sua storia, nella sua razza, nelle sue relazioni con i propri antenati, e con la sua posterità. Quando si sterilizza un ebreo, quella che se ne taglia è la fonte; ogni volta che un ebreo viene perseguitato, a esserlo è l'intera razza, che viene perseguitata nella sua persona. Ma è nella sua corporeità che il nero viene attaccato. È in quanto personalità concreta che egli viene linciato. È come essere reale, che lui è una minaccia. La minaccia ebraica è stata sostituita dalla paura della potenza sessuale dei neri.» [*11] In questa situazione, per Fanon, la resistenza non era tanto un diritto naturale intrinseco, quanto piuttosto l'unico mezzo per riconquistare la sanità mentale, la dignità e l'attività. Per un colonialista, la resistenza equivaleva all'autoconservazione. «E questa cancrena dialettica viene esacerbata dalla consapevolezza e dalla determinazione di milioni di neri ed ebrei a combattere contro questo razzismo di cui sono vittime». [*12]

Contro Al Fatah
Nel Patto Nazionale Palestinese (1968), l'articolo 20 afferma: «La Dichiarazione Balfour, il Documento di Mandato, e tutto ciò che si basa su di essi sono considerati nulli. La pretesa di un legame storico o spirituale tra gli ebrei e la Palestina non corrisponde alle realtà storiche, o ai costituenti della statualità nel suo vero senso. L'ebraismo, nel suo carattere di religione della rivelazione, non è una nazionalità con un'esistenza indipendente. Allo stesso modo, gli ebrei non sono un popolo con personalità indipendenti. Piuttosto, sono cittadini degli Stati a cui appartengono.» [*13] In breve, Al Fatah negava che gli ebrei formassero un unico popolo, una nazione. Fanon, il filosofo dei movimenti di liberazione nazionale, si trovava così in assoluta contrapposizione con quella che era la posizione di Al Fatah. Per Fanon, gli ebrei erano, di fatto, un popolo: «Diciamo che le concessioni che abbiamo fatto sono fittizie. Filosoficamente e politicamente, non esiste un popolo africano. C'è un mondo africano. E anche un mondo delle Indie Occidentali. D'altra parte, si può invece dire che esiste un popolo ebraico; ma non una razza ebraica.» [*14] Fanon riconobbe la nazionalità degli ebrei perché essi la condividevano un'esperienza storica comune, una religione e una cultura comuni. Sebbene sparsi in diverse regioni della civiltà occidentale, gli ebrei condividevano un'esperienza comune all'interno della società cristiana. Erano un popolo colonizzato, un'oppressione basata sull'esclusività religiosa. La loro religione li univa, e la loro cultura e i loro costumi, derivati dalla loro religione, li univano. Pertanto, agli occhi di Fanon, gli ebrei possedevano tutti gli elementi di un movimento di liberazione nazionale. Erano una nazione. Erano stati un popolo colonizzato. Come ogni popolo oppresso dalle colonie, per coloro che erano dominati dall'Altro era necessario resistere, fare la guerra, e questo perché era solo attraverso la violenza che si poteva riconquistare la dignità degli schiavi. La violenza era necessaria e giustificata, ha detto Fanon agli algerini, perché era solo in questo modo che si poteva riconquistare la propria identità culturale. La guerra del 1948 in Palestina è stata una guerra ebraica di autodeterminazione nazionale. Fanon disse allora agli ebrei che, come risultato della conquista della Palestina, essi avrebbero sperimentato una rinascita personale e nazionale: «C'è da supporre, a titolo di esempio, che gli ebrei che si stabilirono in Israele produrranno in meno di cento anni un inconscio collettivo diverso da quello che avevano prima del 1945 nei paesi che furono costretti a lasciare.» [*15]

La testimonianza del silenzio
Il pro-sionismo di Fanon appare chiaro e lampante. Ma manca qualcosa. Ciò che manca è una dichiarazione categorica a sostegno di Israele. Ciò che invece abbiamo è la prova schiacciante del silenzio. Quando Fanon morì, nel 1961, egli era già stato testimone della Guerra d'Indipendenza del 1948, della Guerra di Suez del 1956, della difficile situazione dei rifugiati palestinesi nei campi e dell'emergere dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Egli non ha mai condannato la creazione originale di Israele, né tantomeno ha condannato Israele per aver attaccato l'Egitto nel 1956, in alleanza con i francesi e con gli inglesi, sebbene si fosse capito che l'attacco francese all'Egitto era stato fatto in parte come una punizione, e come la prevenzione di ulteriore assistenza agli algerini, i quali erano in una situazione di ribellione contro la Francia. Fanon non ha mai sostenuto che l'esistenza dei rifugiati palestinesi, o il massacro di Dir Yasin, fossero esempi del genocidio israeliano. Fanon aveva definito gli Stati Uniti come una società razzista nei confronti degli arabi. Egli ha deplorato il colonialismo sovietico, così come ha fatto con il colonialismo americano e occidentale, ma non si è mai riferito a Israele come a una potenza colonizzatrice nel Vicino Oriente. Inoltre, Fanon non ha mai affermato che l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina fosse un movimento di liberazione nazionale! La voce della decolonizzazione algerina, non ha mai abbracciato il movimento palestinese vedendolo come una ribellione decolonizzatrice. Fanon era un uomo che si coinvolgeva, si impegnava. Era un convinto sostenitore di Lumumba. Nel 1958, partecipò a un Congresso africano ad Accra, promuovendo la creazione degli Stati Uniti d'Africa, in accordo con Nkrumali, e fu grato a Nkrumah per aver riconosciuto il governo provvisorio dell'Algeria. Nel 1960 tornò ad Accra, questa volta stabilendo le basi per un accordo attraverso cui i rifornimenti avrebbero potuto fluire verso l'Algeria insurrezionale. Pertanto, il suo silenzio su Israele non è stato accidentale, o negligente, ma è stato premeditato. Il fatto che in tempi così orrendi, egli non abbia parlato del Vicino Oriente durante un periodo di umiliazione e di sconfitta araba, dimostra solo che non voleva condannare Israele, poiché riconosceva in Israele il risultato legittimo dell'autodeterminazione nazionale ebraica. Il pan-africanismo costituiva il nucleo dell'ideologia di Fanon. Tuttavia, il suo pan-africanismo era politico, piuttosto che culturale. Voleva che l'Africa si unisse, ma non come se fosse un monolite culturale, bensì come un'entità politica, guidata da un'unica politica: liberare il continente nero dalla dominazione coloniale. Consapevole che la cultura africana era intrinsecamente nazionale, Fanon ridicolizzò tutti i tentativi di renderla continentale o trans-continentale. [*16] La lotta algerina, sarebbe stata l'avanguardia della rivoluzione pan-africana. L'insurrezione algerina sarebbe stata il modello per tutte le ribellioni decolonizzatrici africane. Nei termini di questa weltpolitik, l'esistenza di Israele non veniva vista come un ostacolo. Il sionismo, visto nel contesto del suo pan-africanismo, non era un nemico strategico dell'indipendenza africana; e Fanon non aveva motivo di temere il sionismo. Inoltre, egli era consapevole del fatto che anche il mondo musulmano, così come quello africano, stava vivendo una rinascita politica e culturale. Ma, proprio così come non poteva esserci una cultura dell'essere neri, non poteva esserci nemmeno una cultura dell'arabismo. Il mondo musulmano non era sovranazionale, e piuttosto avrebbe assunto una cristallizzazione culturale all'interno di quelle che erano entità nazionali. Non essendo mai stato una vittima di contrapposizioni razziste, Fanon non nutriva alcun odio per i bianchi che fosse basato sul mito dell'unità razziale delle persone non bianche. Era consapevole del fatto che, nella storia passata, gli arabi erano arrivati in Africa in quanto colonizzatori: «I libanesi, nelle cui mani si trova la maggior parte delle piccole imprese commerciali della costa occidentale, sono destinati all'obbrobrio nazionale. I missionari ritengono opportuno ricordare alle masse che, assai prima dell'avvento del colonialismo europeo, i grandi imperi africani vennero dilaniati dall'invasione araba. Non c'è alcuna esitazione nell'affermare che è stata l'occupazione araba a spianare la strada al colonialismo europeo; si parla comunemente di imperialismo arabo e si condanna l'imperialismo culturale dell'islamismo. I musulmani sono di solito tenuti fuori dalle posizioni più importanti. In altre regioni, avviene il contrario, e sono i cristiani nativi a essere considerati nemici consapevoli e obiettivi dell'indipendenza nazionale.» [*17] Non c'era alcuna parentela istintiva e biologica tra africani e arabi. Fanon non credeva che le persone di pelle nera, cioè quelle che non avevano la pelle bianca, formassero degli alleati naturali e intuitivi. «Allo stesso tempo, in certi giovani Stati dell'Africa nera, i parlamentari, o anche i ministri, sostengono senza alcuna ironia che il pericolo non è affatto una rioccupazione del loro paese da parte del colonialismo, quanto piutttosto una possibile invasione da parte di "quei vandali degli arabi che provengono dal Nord"». [*18]
Per Fanon, il Terzo Mondo non significava che le persone dalla pelle nera fossero intrinsecamente armoniose e non faziose. "Terzo Mondo" era solo un termine per designare le persone che condividevano lo sforzo politico comune volto a espellere il nemico comune. Il Terzo Mondo era costituito da coloro che volevano liberarsi politicamente dalla schiavitù europea; oltre tutto, esistevano solo organismi culturali nazionali. Sebbene Fanon fosse innanzitutto un panafricano, pur riconoscendo le divisioni nazionali nel mondo musulmano, pur comprendendo che gli arabi dalla pelle scura e gli africani neri non formavano alleati razziali intrinseci, egli tuttavia applaudì il movimento arabo per l'autodeterminazione. I movimenti nazionalisti del Vicino Oriente, furono per lui ulteriori esempi della de-europeizzazione. Ma anche ne"I dannati della terra", scritto nel 1961 dopo le guerre del 1948 e del 1956, in cui sostenne il movimento arabo, non condannò mai Israele come un ostacolo all'indipendenza musulmana.[*19]  In nessun modo suggerì mai che l'esistenza di Israele fosse un ostacolo alle legittime richieste del nazionalismo arabo. In breve, Fanon non ha mai sostenuto che ci fosse un conflitto inevitabile, o necessario, tra le aspirazioni nazionali arabe e quelle ebraiche. Infine, è abbastanza chiaro che Fanon non nutrisse alcun risentimento relativo a nessuno dei rami della nazione ebraica, sia a quelli che si trovavano in Algeria, in Israele o in qualsiasi altro luogo. Nel suo libro sul"L'Anno V della rivoluzione algerina", respinse l'accusa che gli ebrei algerini fossero stati sleali durante l'insurrezione. Riconobbe che c'era stata una piccola percentuale di loro, che era diventata filo-francese a causa del timore che le loro attività e proprietà venissero rilevate dagli algerini. Un piccolo gruppo si identificava con l'establishment coloniale, poiché il loro status sociale e la loro dignità personale erano intrecciati con la dominazione francese. [*20] Tuttavia, la maggior parte degli ebrei algerini sostenne la guerra d'indipendenza algerina. I francesi, cercando di dividere gli algerini dagli ebrei, perseguirono una politica di sfruttamento delle paure degli ebrei, e questo nella speranza di mettere gli ebrei contro gli algerini. [*21] Nonostante questa doppiezza, gli ebrei contribuirono sostenendo con il denaro i ribelli, e i funzionari pubblici ebrei protessero le forze di guerriglia algerine. Gli ebrei erano legalisti, e Fanon sperava che avrebbero aiutato a costruire uno stato multinazionale. Infatti, egli cita una dichiarazione fatta dall'Esercito di Liberazione Nazionale nell'autunno del 1956 agli ebrei d'Algeria:«Il popolo algerino, sente oggi il dovere di rivolgersi direttamente alla comunità ebraica per chiederle solennemente di affermare la sua intenzione di appartenere alla nazione algerina. Questa scelta, chiaramente dichiarata, dissiperà ogni malinteso e sradicherà i semi dell'odio piantati dal colonialismo francese.» [*22] Nel 1956, l'anno della guerra di Suez, e in seguito, Fanon non nutrì mai alcun risentimento contro gli ebrei o contro lo Stato ebraico. A proposito della crisi di Suez, scrisse: «Alla Francia rimaneva solo una terza e ultima operazione a cui fare ricorso. La spedizione di Suez mirava infatti a colpire la rivoluzione algerina quando era al suo apice. L'Egitto, accusato di dirigere la lotta del popolo algerino, è stato bombardato in maniera criminale». [*23] Sebbene Israele, nel 1956, si fosse alleata con la Francia, il vero nemico era la Francia. Per il Vicino Oriente, la vera fonte del problema  è sempre stata a Washington, a Parigi o a Londra. [*24] Pertanto, Israele non rappresentava una minaccia per l'indipendenza algerina o africana. E quindi, Israele non rappresentava una minaccia per il nazionalismo arabo. Le prove sono conclusive. Fanon riconobbe gli ebrei in quanto nazione. Così come era stato per gli algerini, anche gli ebrei erano una nazione colonizzata. Secondo la logica di Fanon, tutte le nazioni dominate avevano bisogno di uno Stato, e avevano bisogno di una ribellione per poter acquisire l'autonomia territoriale e, di conseguenza, il ringiovanimento culturale. Fanon non ha mai condannato lo Stato sionista, né durante la sua creazione, né tantomeno nel corso della sua storia futura, finché la sua vita ha abbracciato quella storia. I suoi scritti hanno legittimato il sionismo in quanto movimento di liberazione nazionale. Egli non ha mai ritirato il proprio impegno per il sionismo, visto come autentica espressione della decolonizzazione e del rinnovamento ebraico.

- Norman Levine -   Articolo del 1972 per il periodico Judaism -
- fonte: História e Desamparo -

NOTE:

[1] Jean-Paul Sartre, Antisemita ed ebreo, tradotto da George J. Becker (New York: Schocken Books, 1969), p. 69.

[2] Jean-Paul Sartre, Saint Genet, traduzione di Bernard Frechtman (New York: New American Library, 1963), p. 34. Sul punto di vista di Sartre sul conflitto arabo-israeliano, vedi ACID, 21 novembre 1969, pp. 4A-5 A.

[3] Frantz, Fanon, Pelle nera, maschere bianche, traduzione di Charles Lam Markman (New York: Grove Press, 1967), p. 220.

[4] Ivi, p. 110.

[5] Ivi, p. 116.

[6] Ivi, pp. 88-89.

[7] Ivi, p. 122.

[8] Frantz Fanon, Verso la rivoluzione africana, traduzione di Haakon Chevalier (New York: Grove Press, 1967), p. 166.

[9] Fanon, Pelle nera, maschere bianche, p. 90.

[10] Ivi, p. 165.

[11] Ivi, pp. 162-163.

[12] Fanon, Verso la rivoluzione africana, p. 36.

[13] Y. Harkabi, "La posizione dei palestinesi nel conflitto arabo-israeliano e il loro patto nazionale (1968)", New York University Journal of International Law and Politics, III (primavera 1970), p. 239.

[14] Fanon, Verso la rivoluzione africana, p. 18.

[15] Fanon, Pelle nera, maschere bianche, p. 188.

[16] Frantz Fanon, I dannati della terra, traduzione di Constance Farrington (New York: Grove Press, 1966), p. 173. Sul punto di vista di Fanon sulla mancanza di un'unità culturale panafricana, si veda David Caute, Frantz Fanon (New York: Viking Press, 1970).

[17] Fanon, I dannati della terra, p. 130.

[18] Ivi, p. 132.

[19] Ivi, pp. 172-173.

[20] Frantz Fanon, A Dying Colonialism, traduzione di Haakon Chevalier (New York: Grove Press, 1965), pp. 153-154. Per maggiori dettagli sulla vita personale di Fanon, vedi Simone de Beauvoir, The Force of Circumstances (New York: G. P. Putnam, 1964).

[21] Fanon, Verso la rivoluzione africana, p. 59.

[22] Fanon, Un colonialismo morente, p. 156.

[23] Fanon, Verso la rivoluzione africana, p. 61.

[24] Ivi, pp. 147-148.

martedì 21 ottobre 2025

Fuori dai Cardini !!

Il momento attuale e lo spettro di Marx
- di Alain Lecomte - Pubblicato il 14 ottobre 2025 -

   Sulle labbra e sulla bocca, la stampa e i media audiovisivi hanno una sola frase: «stiamo vivendo in un punto di svolta.» Infatti, se ci guardiamo intorno, vediamo che ci sono sempre più imperi che assumono il controllo di ciò, di questo pianeta, è rimasto da devastare di questo pianeta. Negli Stati Uniti, dopo la sequenza dell' "assassinio di Kirk", i discorsi hanno assunto le dimensioni apocalittiche di una predicazione religiosa totalmente folle, come se cominciasse a divampare una vera e propria follia. Si tratta di un fenomeno improvviso? Non c'era prima alcun segnale di allarme? Gli Stati Uniti, in fondo, non sono forse sempre stati questo? Una follia devastante che mescola politica e religione, e che trova la sua espressione in un fascismo virtuale fatto di violenza esasperata, uccisioni di massa e pena di morte. Viene pubblicato un libro (era ora) che racconta le tendenze filonaziste degli anni Trenta dei padroni americani di allora, i quali hanno mancato di poco l'eliminazione di Roosevelt (il libro di Thomas Snegaroff, "La Conspiration"). Ma fino a pochi anni fa, questa tendenza profonda era stata tenuta a bada, in un certo senso repressa, dal momento che gli analisti politici negli Stati Uniti non credevano, neanche per un momento, a causa delle tendenze demografiche e dell'importanza dell'immigrazione, che i repubblicani potessero tornare al potere. Pessima analisi. Tornarono, e sotto una luce ancora più oscura e fascista. Il punto di svolta venne segnato dal tentato assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Nessuna democrazia occidentale ha mai sperimentato questo: un leader che non esita a lanciare i suoi sostenitori all'attacco delle istituzioni, anche a costo di provocare morti. Il secondo mandato di Trump, è stato anche peggiore del primo: un'organizzazione metodica ha preso il posto di quella che allora era solo un'improvvisazione. Non tutti i sostenitori del trumpismo sono d'accordo tra di loro sulla sostanza, ma lo sono sulla forma: la democrazia, se si rendesse necessario a causa degli ostacoli giuridici che potrebbe opporre ai progetti di oligarchi e predatori, deve essere abolita. E di fronte a questo, sentiamo che ci rode come un sentimento di impotenza. Abbiamo creduto in una forma di razionalità, ci siamo rassegnati ad affrontare i problemi socio-economici sotto una luce quasi scientifica, e ora vediamo che le esplosioni di passione stanno prevalendo tutto intorno a noi, e soprattutto negli Stati Uniti. La ragione ci aveva insegnato che la guerra non sarebbe tornata in Europa, poiché eravamo persone ragionevoli, e tutto poteva essere negoziato. Nel 2022, Putin non ha esitato a lanciare le sue forze armate, per quanto impreparate, nelle campagne e nelle città ucraine, e questo sta continuando ogni giorno. Gli "occidentali" avevano creduto di poter affrontare saggiamente i problemi del Medio Oriente, Obama aveva lavorato con delicatezza in modo da portare i leader israeliani a posizioni concilianti nei confronti della Palestina, consigliando loro, tra l'altro, di fermare gli insediamenti in Cisgiordania, ma ora ci viene detto che questo è stato un errore, dato che avrebbe dato vane speranze ad Hamas, che poi avrebbe così finito per commettere l'insensato crimine del 7 ottobre. Siamo pertanto disarmati, impotenti. Sembra che non ci sia razionalità nel mondo. O se c'è, il nostro cervello non sa proprio come abbracciarlo nella sua complessità. Ecco che poi arriva l'intelligenza artificiale. L'ultimo miraggio apocalittico di avere un'intelligenza che, almeno, sarebbe in grado di trovare le risposte alle nostre domande. Questa intelligenza ha come caratteristica principale quella di essere non umana.. e questo proprio nel momento in cui abbiamo come la sensazione di star morendo proprio a causa della mancanza di umanità. Tutto questo, è sicuramente, agghiacciante. Eppure ci sono ancora alcuni di noi che si aggrappano al potere delle idee progettate da e per gli esseri umani... Resisteremo a lungo? La lettura di Marx e/o di Freud ci sembra naturalmente rimanere all'ordine del giorno, ed è ancora necessario rendere giustizia a coloro che stanno ancora cercando di far emergere ciò che più probabilmente ci dà spunti di riflessione sul nostro presente. I filosofi che hanno cercato, alla fine del XX secolo e all'inizio del XXI secolo, di avanzare le idee di emancipazione sono tuttora leggibili. Non lasceremo che essi vengano bruciati e calpestati dai censori d'oltreoceano, e dai loro emulatori da questa parte dell'oceano. Possono ancora essere utili. Fino a quando forse un'intelligenza artificiale non troverà i mezzi per convincerci del contrario... Per il momento, non so come potrebbe fare...

   Le recenti letture mi hanno messo sulla strada di una possibile e persino necessaria (ri)lettura di Jacques Derrida. Quella che incarna il diavolo agli occhi di molti americani (che a quanto pare hanno sofferto per troppo tempo della "arroganza della teoria francese") e di alcune persone che qui non hanno capito nulla del concetto di decostruzione (aiutati in questo un po' da alcuni attivisti troppo entusiasti della causa "decostruzionista") e che vorrebbero abbandonarla al rogo. Derrida ha scritto "Gli spettri di Marx". Voglio tornare proprio su questo punto. Questo libro è analizzato e criticato in modo costruttivo – e quindi non... decostruttivo! – da Moishe Postone, in un suo articolo pubblicato su "La société comme moulin de discipline", edito da questa sempre valorosa casa editrice con sede ad Albi, e che è diretto da Clément Homs: "Crise & Critique". Postone è uno di quei pensatori critici relativamente sconosciuti nel nostro paese (era canadese e insegnava all'Università di Chicago) che sono stati oscurati dal pensiero acritico che regna nei circoli accademici e mediatici, anche quando possono sembrare ben intenzionati (ma non è mai con buone intenzioni che si raggiunge la correttezza del pensiero). Postone cita Derrida, gli è grato per aver detto cose su Marx, che in fondo sono molto vicine a quelle che ha detto lui stesso, mentre rimprovera al filosofo della decostruzione di non essersi spinto abbastanza lontano, ed essere rimasto inchiodato a un'interpretazione di Marx un po' troppo vicina a quella di Althusser; cosa che ovviamente lo porta a fraintendere il Marx del I Libro del Capitale, o dei Grundrisse. Gli rimprovera, ad esempio, di «riprendere l'idea secondo cui la categoria del valore d'uso sia stato il punto di vista della critica di Marx nel Capitale e che, quindi, la sua critica sia fatta dal punto di vista ontologico della materialità, della presenza», cosa che invece Postone contesta, vedendo nel valore d'uso e nel valore di scambio semplicemente quelli che sono sempre due momenti del movimento del Capitale, non essendo il valore d'uso un polo ontologico contrapposto a una categoria astratta. Naturalmente, è del tutto fuori questione affermare che Derrida sia stato un "marxista", non più di quanto lo sia stato Postone: come accennato in precedenza, il marxismo è un'ideologia, in gran parte obsoleta, a cui dobbiamo molte sofferenze, massacri e fallimenti. Ma, come ha detto Derrida, dato il crollo del comunismo europeo e la dissoluzione degli apparati ideologici marxisti, appropriarsi di un Fantasma di Marx, forse ci viene reso più facile. Marx è morto, il comunismo è crollato; cosa c'è di più allettante che far parlare i fantasmi?

  Qui, potremmo seguire Derrida, opponendo gli spettri all'Intelligenza Artificiale. Affidarsi all'IA per pensare il mondo, incontrerà sempre un grosso ostacolo: essa considererà l'intero equilibrio di potere sul pianeta, come se fosse un vasto gioco, come una sorta di generalizzazione su larga scala del gioco degli scacchi (laddove sappiamo che l'IA ha già dato prova di sé), ma probabilmente non è pronta a integrare ciò che non entra in gioco, e che non vi entrerà mai, ossia ciò che rimane improgrammabile e non sussunto da delle regole: in primo luogo, l'azione dei popoli, i movimenti di massa. Chi avrebbe previsto le attuali rivolte della cosiddetta "Generazione Z", avvenuta in molti paesi contemporaneamente (Nepal, Marocco, Madagascar...) per esempio? Possiamo prevedere le odissee nello spazio, basandoci sulla tecnica e sui giochi astratti, ma non possiamo mai prevedere le grandi reazioni che possono verificarsi inaspettatamente, da parte di popolazioni che improvvisamente (e talvolta violentemente), si oppongono l'una all'altra. E in secondo luogo, l'inquietante, a volte inaspettato, incontrollabile ricordo del passato: questo è ciò che esprime la nozione di Spettro. E Derrida ci rimanda alla figura che, tra tutte, la simboleggia al meglio: quella di Amleto. Ah, l'amore di Marx per Shakespeare! Questo è risaputo. Quindi, l'intelligenza artificiale alla fine rimuoverà questi fattori di disturbo (o almeno consiglierà di farlo)? Il peggio, ahimè, non è mai impossibile (ma nemmeno certo). Ammettiamo che un mondo senza esseri umani e senza spettri sarebbe comunque più facile da governare. Il tempo è andato fuori sesto. In "Spettri di Marx", Derrida commenta a lungo questa affermazione di Amleto. Che cosa intende? Egli elenca diverse traduzioni in francese, che sono state date nel corso del tempo. L'ultimo, di Yves Bonnefoy, naturalmente è l'ultimo: "Le temps est hors de ses hinges", ma anche quelli che lo hanno preceduto: "Le temps est détraqué" (Jean Malaplate), "le temps est à l'envers" (Jules Derocquigny), e tra cui quello stupefacente di Gide: "Cette époque est déshonorée". Egli dice che quello di Bonnefoy sembra il più sicuro: «mantiene aperto e sospeso, come nell'epokhè di questo medesimo tempo, la più grande potenzialità economica della formula». Ma tuttavia quello di Gide ha il suo merito, quello di dare un significato più etico. o politico. a questa espressione. «Si passa», dice, «dall'inadeguato all'ingiusto». Ma come continua questa proposizione in Amleto? Con queste parole: «Oh cursed spight, that ever I was borne to get it right». In altre parole, Bonnefoy traduce di nuovo: «O maledetto destino che vuoi che io sia nato per riunirmi a lui!» Il che significa che Amleto non piange tanto per l'orrore di questo tempo, quanto per questo disastroso destino per cui gli  gli tocca rimettere il tempo sui suoi cardini. Certo, la parola vale per il nostro tempo, forse più che mai, ma allora chi è che viene a ricoprire questo ruolo che era stato assegnato ad Amleto? Ed è qui, naturalmente, che Derrida invoca lo spettro di Marx. Di nuovo lui! dirà qualcuno. Non è stato forse poco fa che avremo finito di invocarlo, lui, il grande uomo barbuto sul quale si sarebbe già basato tutto un passato di morti e di privazioni della libertà? Senza dubbio, ciò è perché non abbiamo compreso nulla di Marx. Ci sarebbe un «vero Marx», schiacciato sotto tonnellate di spazzatura, di slogan, di associazioni partigiane che avrebbero creduto di trovare in lui quanto basta loro per provvedere a tutta quella massa di rancore e di spirito di vendetta accumulatisi nella storia? «Se il diritto dipende dalla vendetta, come sembra lamentarsene Amleto - prima di Nietzsche, prima di Heidegger, prima di Benjamin - non si può poi sperare che un giorno, un giorno che non apparterrebbe più alla storia, un giorno quasi messianico, una giustizia sarebbe infine sottratta alla fatalità della vendetta?»

  Un giorno che non apparterrà più alla storia... Questo è qualcosa su cui riflettere. Infatti, se il tempo è andato fuori dai cardini, ciò che si dice del tempo può essere detto anche della storia. E che cosa deve fare Amleto, se non reintrodurre un cardine in questa discordanza? Senza dubbio, Derrida pensa che questo sia il caso di Marx. Ed è qui che entra in gioco il messianico del pensiero marxiano, già citato in autori come Benjamin. Io, che sono uno sciocco, ho sempre avuto la tendenza a confondere il messianico con il messianismo, formandomi un'immagine terrificante, e necessariamente negativa, di quest'ultimo, mentre invece la prima parola ci porta solo a pensare che un giorno forse (forse al di fuori della storia) sorgerà finalmente uno status del mondo, un modo di porsi in cui regnerà la giustizia. Tutto il primo capitolo del libro di Derrida ruota attorno a questa questione della giustizia a cui aspiriamo e che non potrà mai risiedere in una forma storica stabilita, strutturata, con le sue regole, le sue leggi, la sua ingiunzione di sottomettersi. È questo su cui si sbagliarono i successori di Marx, i "marxisti", i quali credevano fosse possibile costruire un impero governato dalle "leggi del marxismo" mentre di certo essi non potevano fare altro che riprodurre e ripetere ancora peggio la forma degli imperi e degli imperialismi che avevano allora davanti agli occhi; in altre parole, una riproduzione mimetica del capitalismo, con l'unica correzione per cui stavolta si sarebbe trattato di un "capitalismo di Stato". Gli schiavi di color marrone, nel momento in cui fuggirono dalla costa dell'isola di Reunion per rifugiarsi negli isolotti, questi siti che si trovavano nei luoghi vertiginosi al centro dell'isola, si riorganizzarono tra loro in una società in modo da  poter vivere insieme, e così facendo, non riprodussero niente di meglio che l'immagine della società da cui erano fuggiti (sono io che lo dico, naturalmente, a seguito di un viaggio che ho fatto una volta sull'isola di Reunion; non è stato Derrida a farlo). Ora, il messianico è invece «la venuta dell'altro, la singolarità assoluta e inattingibile di ciò che viene come giustizia. Un tale messianico resta, crediamo, un marchio incancellabile - che non si può né si deve cancellare - dell'eredità di Marx, e senza dubbio dell'ereditare, dell'esperienza dell'eredità in generale. Ne verrebbe altrimenti ridotta l’eventualità dell'evento, la singolarità e l'alterità dell'altro. Altrimenti la giustizia rischia ancora di ridursi a regole, norme o rappresentazioni giuridico-morali, in un inevitabile orizzonte totalizzante». In altre parole, – traduco – il totalitarismo.

  Il marxismo e il discorso "di sinistra" si logorano perché rimangono centrati sulle categorie di un altro secolo: le classi sociali in situazione di lotta fin dall'inizio dei tempi, la categoria del lavoro contrapposta a quella del capitale, le fratture sociali percepite dal punto di vista delle disuguaglianze dovute al «potere d'acquisto», il dominio ridotto allo sfruttamento di una classe umana da parte di un'altra, L'aspirazione a un futuro ridotto a "più mezzi", "più risorse", "più ricchezza", "più di tutto"... in altre parole, categorie che incarnano una visione statica legata a un mondo la cui storia avanzerebbe come se fosse una linea quantitativamente orientata: tutto il contrario della storia vista invece come un tempo disgiunto, «fuori dai suoi cardini»; tempo che potrebbe anche permettere, in quanto tale, di lasciar entrare, in qualsiasi dei suoi momenti, una delle figure spettrali invocate da Derrida, come per esempio l'apparenza della giustizia. Un mondo senza storicità, quindi, perché senza evento. Dove il futuro sarebbe solo la continuazione del presente. Però, "di più" o "meglio", anche se siamo consapevoli che i vincoli strutturali specifici del capitalismo impediscono tale progresso (basti pensare a quello che è successo quando abbiamo avuto dei governi di sinistra, e alla delusione che ne è seguita a causa della loro incapacità di onorare le proprie promesse, date queste costrizioni a cui non potevano sottrarsi). [*1] Visto che, inoltre, i limiti stessi del mondo in cui viviamo annientano le nostre (sebbene legittime) preoccupazioni di miglioramento e di espansione. Usiamo categorie che ci sembrano immutabili, scolpite nella pietra dalla doxa marxista, quando invece dovremmo sapere – ed è lo stesso Marx a dirlo – che esse dipendono dalla storia, e che non possiamo concepirle come se fossero "trans-storiche". Ad esempio, il lavoro non è un'attività indipendente dalla storia, che sarebbe rimasta immutata da tutta l'eternità, la mera descrizione di una relazione tra l'uomo e la natura. Al contrario, esso cambia le sue caratteristiche con i tempi, ed è, sotto il capitalismo, un rapporto sociale specifico. Tuttavia, il Marx maturo non voleva fare altro che limitarsi allo studio delle relazioni sociali specifiche del capitalismo. Le categorie utilizzate: merce, valore, lavoro, sono quindi tutte storiche. La nozione di storia - e anche quella di tempo (astratto) - sono esse stesse storiche. Ciò richiede uno sforzo costante di adattamento, di teorizzazione adeguata a un determinato periodo. Tanto più che ogni teoria coerente che fa parte di questa prospettiva immanente dell'analisi, deve poter essere in grado di venire applicata a sé stessa, in quanto è essa stessa dipendente dalla storia che pretende di descrivere. «Ma come possiamo essere in ritardo sulla fine della storia?» -  Derrida risponde: «Questione seria, perché obbliga a riflettere ancora, come si fa da Hegel in poi, su ciò che accade, e merita il nome di evento, dopo la storia; e a chiedersi se la fine della storia non sia solo la fine di un certo concetto della storia». Oppure, oserei dire: di un certo periodo della storia, dopo il quale qualcosa ne sarebbe derivato. Cosa? Non lo sappiamo ancora. Siamo ancora nel capitalismo, o quantomeno nel capitalismo come percepito da Marx? In altre parole, il lavoro è sempre lo stesso? Le nostre categorie sono adatte al mondo di oggi? Domande che non dovrebbero essere prese alla leggera. Alcuni hanno sostenuto che siamo già nel post-capitalismo. Altri hanno notato come la nostra attuale formazione sociale abbia, in alcuni dei suoi aspetti, caratteristiche dei periodi pre-capitalistici, come quello ecclesio-medievale. Quest'estate, a Montferrier, nell'ambito di un seminario di "WertKritik", un giovane sociologo, Christophe Magis, analizzando l'economia delle piattaforme (Amazon, Netflix, Facebook, Tweeter/X, ecc.) ha menzionato la teoria secondo cui stiamo assistendo a una rinascita del feudalesimo, un «capitalismo tecno-feudale» basato su un rapporto di proprietà diretto e non più mediato da una classe sociale, e su un tipo di prelievo di valore quasi "signorile", che apre la strada a una nuova schiavitù e all'assenza di libertà di lavoro. Secondo lui, questo significava dimenticare che ci sono e ci sono sempre state sacche di pre-capitalismo, le quali aiutano il capitalismo a  esistere (il lavoro delle donne, ecc.). Secondo lui, ci troviamo infatti in un "capitalismo delle piattaforme", definito attorno ad attori giganti, intermediari sul mercato multi-verso (tra venditore e acquirente) e basato sull'effetto rete. Le modalità di acquisizione del valore cambiano semplicemente forma, a seconda della fase del capitale e sarebbe vano credere che le cose stiano "migliorando". Ragion per cui ci troveremmo ancora sotto il sigillo del capitalismo, qualunque forma assuma questo giogo, e saremmo sempre soggetti a tale movimento di automatismo, il quale cerca di creare e catturare valore, anche se tale valore risiede in noi, in quanto pubblico prigioniero dei canali di notizie continue, o in quanto agenti nostro malgrado delle transazioni che avvengono sui social network.

Alain Lecomte - Pubblicato il 14 ottobre 2025  su Rumeur d'espace -

NOTA: [*1] Questa impossibilità dà origine a due atteggiamenti: l'effimera credenza in qualche miracolo economico causato da una presunta padronanza dell'economia da parte di certi attori politici (ad esempio il macronismo), oppure il rifugiarsi in avventure populiste che fanno rivivere quei feticci su cui poggerebbero le "vere" responsabilità di tale impedimento: da un lato, la presenza degli "stranieri" e il rifiuto degli "altri", e dall'altro lato, un ritorno al classismo e alla magia della lotta di classe.

 

lunedì 20 ottobre 2025

Il Futuro della Fine…

Consumare il Futuro
- di Robert Kurz -

La crisi - che sia ancora contenuta o che si trovi già in un ulteriore aggravamento -  è essenzialmente una crisi del debito. Ma che cosa significa questo?
In tal modo, il capitale produttivo viene ottenuto grazie al denaro del sistema bancario. Pertanto, di conseguenza, occorre che esso condivida i propri profitti con quel Capitale che gli addebita gli interessi, pagando così il prezzo di quel denaro che ha preso in prestito. Però, se il il capitale produttivo non ottiene i profitti sufficienti, ecco che si verifica una crisi, sia per il debitore che per il creditore. Il «pregiudizio popolare» (Marx), ama incolpare di tutto questo, proprio quel Capitale finanziario, ritenuto "avido" a causa del fatto che vuole arricchirsi in maniera improduttiva. Ma a questo punto la domanda diventa perché il capitale produttivo ha bisogno di prendere in prestito quel denaro che gli viene prestato in modo da poter così pagare i mezzi di produzione?!?? Ed è qui che risiede il problema, e non certo nel  presunto "male" del capitale finanziario.
La concorrenza, in quanto tale obbliga a che ci sia un aumento incessante della produttività, e questo avviene a partire dal fatto che ciò viene reso possibile solo grazie all'utilizzo di un aggregato scientifico e tecnico, il quale, a sua volta, è dev'essere anch'esso in continua crescita. Marx ha dimostrato il fatto che in questo modo aumenta sempre più quella parte di capitale reale morto, il quale non crea alcun nuovo valore relativamente a quella parte di forza lavoro che continua a essere l'unica in grado di poter produrre valore aggiunto. Anche le statistiche borghesi ci dicono la stessa cosa, nel momento in cui si rendono conto che, con l'aumentare dell'intensità del Capitale, anche il costo di ogni posto di lavoro aumenta incessantemente. In altre parole, quelli che sono i "pre-costi" morti, necessari alla produzione di capitale, non possono più essere finanziati a partire dagli attuali profitti. Da qui, il ricorso al credito, in modo da poter così pagare il capitale reale, sempre più crescente. Nel XX° secolo, il problema del debito si è esteso, partendo dal capitale produttivo fino ad arrivare a investire i bilanci dello Stato, e alla fine anche quelli dei privati. Perfino la spesa pubblica per le infrastrutture e per i consumi privati, ha cessato di essere finanziabile solo per mezzo delle entrate correnti effettive, e ora può essere finanziata soltanto a credito.
Comunque sia, il mega-indebitamento a tutti i livelli non rappresenta altro che l'anticipazione di quelli che saranno i profitti a venire, in modo da poter così pagare salari e tasse sugli effettivi processi produttivi. Questo «consumo di futuro» arriva a diventare una crisi generale allorché essa viene a essere spinta troppo in là, arrivando così a rompere le catene del credito. E la cosa, riguarda e investe tutti gli Attori, ivi compreso lo Stato, che ora fa il pianto greco sui «peccatori del deficit» e su quelli che sarebbero dei «discutibili comportamenti finanziari». Ci vengono a dire che non si dovrebbe vivere a spese delle future generazioni, che ci sarebbe bisogno di una nuova «morale del padre di famiglia», il quale dovrebbe avere la ferrea volontà di risparmiare. Ma in realtà non vengono consumati beni alimentari, vestiti, alloggi e attrezzature per il futuro, quanto piuttosto crescenti e sempre più illusori redditi futuri, allo scopo di poter continuare a utilizzare oggi le risorse materiali disponibili in abbondanza. Questa assurdità mette in evidenza il fatto che il capitalismo è un fine in sé, volto solo ad aumentare astrattamente il denaro, e che non ha nulla a che vedere con un efficiente soddisfacimento dei bisogni, come i suoi apologeti pretendono che sarebbe. Il denaro non è una vera e propria risorsa, bensì la forma feticista di quelle che sono le risorse reali. E la crisi globale del debito non è altro che il risultato di un disperato tentativo che - attraverso un «consumo di futuro», gonfiato per mezzo di guadagni in denaro che non ci saranno mai - si riesca così a mantenere quelle che sono le forze produttive entro i limiti del fine in sé capitalistico, sebbene queste siano già cresciute, arrivando ormai fino a raggiungere e superare, da molto tempo, tali limiti. Si pretende che ora si debba vivere peggio, e che si debbano disattivare delle risorse intatte, tra cui l'assistenza sanitaria, proprio perché il capitalismo ha già consumato il suo futuro. La soglia del dolore è già stata raggiunta, e non solo in Grecia. Ma la coscienza sociale non ha ancora imparato a usare le risorse "inutilizzate" a partire da una logica diversa.

- Robert Kurz -  Pubblicato su Neues Deutschland il10 gennaio 2011 -

fonte: http://www.exit-online.org/

sabato 18 ottobre 2025

JAGGERNAUT

 

Il capitalismo, da una metafora all'altra: Marx, il vampiro e il carro processionale Jaggernaut
- di Collettivo di Crisi e Critica -

Perché Marx parla del capitalismo come di un "Jaggernaut"? In origine, era questo il nome del carro processionale della dea indù Vishnu. «Il culto dello Jaggernaut» – scrive Marx – «comprendeva un rituale assai pomposo, e fu esso che diede origine a un'esplosione di fanatismo che si manifestò in suicidi e in mutilazioni volontarie. In occasione di queste grandi feste religiose, i fedeli si gettavano sotto le ruote del carro che trasportava la statua di Visnù-Jaggernaut». Una metafora questa, che Marx userà in diverse occasioni, anche ne "Il Capitale", al fine di sottolineare la dimensione sacrificale del capitalismo; ma anche per mostrare il suo funzionamento in quanto astrazione reale – un feticismo, che no è ideale, bensì astratto-reale – descrivendo in tal modo il capitalismo in quanto... metafisico-reale: «Dimenticano che oggi, al posto che un uomo solo, a essere gettati sotto le ruote dello Jaggernaut capitalistico, sono il capofamiglia, insieme a sua moglie e a forse 3 o 4 figli» . Certo, la frase di Marx profuma del tempo in cui il padre era il "capofamiglia", e anche il corteo dello Jaggernaut potrebbe essere, almeno in parte, una proiezione fatta dagli occidentali, o perfino un errore. Simile a quello in cui gli esploratori del XVI secolo credevano di scoprire nei nuovi mondi, quelli erano i luoghi reali delle immagini delle loro mitologie, e le incarnazioni delle loro stesse paure; così oggi la figura occidentale dello Jaggernaut diventa l'idea della barbarie vista come fantasia moderna, come proiezione di un qualcosa della società moderna che alla fine ci insegna assai più su di essa di quanto faccia sulla società antica. Tuttavia, ciò non toglie nulla al potere della metafora. Dopotutto, quando parliamo della "Torre di Babele", non ci interessa certo di cosa sia realmente accaduto in Mesopotamia, 5000 anni fa...
Per la critica dell'economia politica, questa metafora vuol significare il passaggio, dal paradigma incentrato sullo sfruttamento, al paradigma del feticismo e dell'astrazione reale. In particolare, esso implica una rottura con la problematica metafora del vampiro, usata fin dall'Ottocento per descrivere il capitalismo, e che oggi si riferisce alla finanza, la quale vampirizza la cosiddetta "economia reale". Il vampiro, che rappresenta il denaro e i proprietari del denaro (i capitalisti), verrebbe a succhiare, visto come esteriorità, il lavoro vivo considerato come quel cemento naturalizzato che a sua volta si identifica con il lavoro, con le forze produttive, con l'industria, con il valore, con il sangue, o con la comunità culturale (la nazione). Una simile metafora - caratteristica di ogni anticapitalismo tronco -  vuole solo insistere sulla presunta innocenza della vittima, e sul lato extra-naturale del carnefice. Finisce così per mettere al centro della sua rappresentazione tronca del capitalismo le classi sociali, categoria che in realtà deriva dal rapporto di feticcio, ma che invece, nel marxismo tradizionale e nell'anticapitalismo tronco, vengono erroneamente scambiate per essere dei soggetti non aprioristici. Pertanto, così facendo, tutte le categorie riproduttive del capitale vengono sussunte sotto la ragione ultima di una presunta soggettività sociologica, che vampirizza la ricchezza capitalistica astratta (valore) e la sua produzione (lavoro, industria). Questa metafora continua a essere ancora immediatamente ambigua, e questo perché può essere applicata a qualsiasi contenuto. Può, ad esempio, essere usata per designare le "nazioni bianche" che vampirizzano le "nazioni nere", oppure per gli immigrati che vampirizzano la società ospitante. In teoria, in tal modo ci concentriamo sull'idea secondo cui il capitalismo sarebbe un semplice sistema per la distribuzione della ricchezza sociale, le cui condizioni di produzione non vengono quindi mai messe in discussione. Così, nel nome del polo naturalizzato (lavoro, "economia reale", nazione, ecc.), che produce questa ricchezza, i rapporti ineguali di distribuzione diventano l'oggetto esclusivo di una critica sociale che si degrada rapidamente finendo così in una critica morale basata sulla denuncia della "avidità" di pochi. Finendo così per mancare il punto, dando molto spazio a delle rivendicazioni che alla fine si limitano solo alla sfera del consumo, ai problemi della giustizia, o del riconoscimento distributivo.
Al contrario, lo Jaggernaut simboleggia il "soggetto automatico" (Marx) del valore che schiaccia tutto in quello che è il suo cammino; metafora questa, della "vera inversione" della vita sociale, la quale costituisce il cuore dell'oscurità della vita sotto il capitalismo. È la metafora di un modo di costituzione dell'alienazione moderna, in cui ogni attività sociale prende realmente la forma del suo opposto, il valore, la forma di quello che è il fine astratto in sé della moltiplicazione del denaro, e pertanto è contaminata da una vera e propria "falsità ontologica". In questa inversione, una cosa sensibile, il corpo di una merce – il valore d'uso – finisce per rappresentare qualcosa di soprannaturale, di "soprasensibile" , un'astrazione puramente sociale: il valore; mentre il lato concreto del lavoro svolto, diventa «la forma fenomenica del suo opposto, ossia, del lavoro umano astratto» (Marx, Il Capitale, I, p. 67); La dimensione individuale dell'attività costituisce la forma fenomenica del lavoro sociale, e diventa indifferenziata e intercambiabile.
Jaggernaut, è questo il "mondo capovolto" dove le relazioni oggettivate, che costituiscono il processo di valorizzazione, comandano (sotto forma di merci, di denaro e di capitale) gli individui, e si ergono di fronte a loro, quasi fossero delle divinità barbare che esigono nuovi sacrifici umani. Jaggernaut è questa strutturazione delirante e alienata delle relazioni sociali, nella quale la logica oggettivata della merce, del denaro e del capitale costituisce, per gli individui, una forma di dominio moderno specifico, impersonale, astratto, interclassista (un «dominio senza soggetto», dice Kurz!) che conficca le punte acuminate delle sue ingiunzioni feticistiche fin nel vivo e nel profondo della loro carne. Jaggernaut, è questo regno metafisico-reale, dove «è il processo di produzione che domina gli uomini, e non il contrario» (Marx, Il Capitale, I, p. 93). Una realtà sociale rovesciata, nella quale il soggetto reale della produzione capitalistica non è costituito né dalle "classi dominanti" né dal proletariato, bensì dall'astrazione reale del valore stesso, il quale riduce gli attori umani a degli esecutori, le cosiddette «maschere di carattere» (Marx), e le classi di quella che è la loro funzione. Come i fanatici che trainavano il carro processionale di Vishnu, il quale doveva crudelmente schiacciarli sotto le proprie ruote, a loro volta, gli individui sotto il capitalismo vengono sussunti sotto quei rapporti economici che essi stessi costituiscono, al fine di non essere altro che delle personificazioni transitorie, nella forma delle diverse  "maschere di carattere", le quali poi diverranno solo un altro nome da dare alle loro vite mutilate. Individui che, in quanto suoi "agenti", in quanto  sue "guardie", suoi "ufficiali e sottufficiali", i suoi "funzionari" e i suoi "fanatici", come li chiamava Marx, trainano lo "Jaggernaut capitalistico" fino a che lui gli schiacci. «Non lo sanno, ma lo fanno». Si tratta di una relazione tra individui, di un legame sociale alienato, di un modo che abbiamo di relazionarci con gli altri senza saperlo. Bisogna riconoscere una simile verità: siamo noi, questa relazione. «E continueremo a esserlo fino a ché non saremo più nient'altro, o fino a ché non avremo creato quelle istituzioni che stabiliranno una vera comunità e una vera società umana» (Gustav Landauer). Jaggernaut, è la relazione sociale feticistica che deve essere abbattuta, e che sarà distrutta solo quando entreremo in altre relazioni sociali.

- da "Make Critical Theory great again" (Editorial Jaggernaut n°1) – Editions Crise & Critique  -

fonte: @Palim Psao

venerdì 17 ottobre 2025

Provocazioni?: Zizek gioca alla guerra con Jameson !!

Per una militarizzazione contro Trump
- di Slavoj Žižek - Pubblicato il 16/10/2025 -

  Martedì 30 settembre 2025, a Quantico, il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha pronunciato un lungo e strano discorso, rivolto a tutti i vertici dell'esercito americano arrivati da tutti gli angoli del mondo. Ha presentato la sua visione di come dovrebbero essere i militari, e di come essi dovrebbero agire, offrendo poi una conclusione  piuttosto drastica: chi non è d'accordo, si dimetta! 
«Le giuste politiche, secondo Hegseth, che fanno parte di quella che deve essere una più ampia campagna contro tutti i precedenti sforzi volti a promuovere quella diversità, o flessibilità, nelle truppe, che lui considerava "woke", sono state ufficialmente specificate nelle dieci direttive che sono state inviate al comando militare mentre egli parlava: nelle sale del Pentagono non ci dovrebbero stare né "truppe grasse" né "generali e ammiragli grassi", ha specificato Hegseth. Le truppe devono essere adeguatamente rasate, e le Forze Armate faranno assai poche - preferibilmente nessuna - eccezioni dovute a motivi religiosi o medici.  Per le posizioni di combattimento, verranno stabiliti soltanto degli standard fisici maschili, e se questo implicherà l'assenza di donne in queste funzioni, "sarà così"!» [*1]
Come molti ufficiali presenti hanno in segreto notato, una tale immagine del soldato è molto più teatrale di quanto lo sia invece una fedele rappresentazione della vita militare "così com'è". Il desiderio di Hegseth di avere dei "veri soldati", fa risorgere quella che era una vecchia immagine di soldato la quale però non ha più alcun posto nella guerra odierna, condotta da droni e missili, e per lo più controllata da dei nerd che stanno dietro uno schermo; né tantomeno, nel mondo di oggi, dove abbiamo appena sentito parlare della prima star che è stata generata dall'intelligenza artificiale, "Tilly Norwood", e che è già la protagonista di una serie di sketch creati dall'intelligenza artificiale di "AI Commissioner", oltre che di vari contenuti pubblicitari e relativi ai social media. Paradossalmente, l'immagine del soldato di Hegseth, costituisce una versione maschile di Tilly Norwood, una sorta di farsa immaginaria che potremmo chiamare  col nome di "Till Norwood". Ma in questa fantasia, a ancora  più importante è la descrizione che Hegseth fa delle azioni che questi nuovi soldati dovrebbero compiere:
«Abbiamo scatenato una schiacciante violenza punitiva contro il nemico. Né, tantomeno, combattiamo seguendo delle stupide regole di ingaggio. Le mani dei nostri combattenti sono libere di intimidire, demoralizzare, dare la caccia e uccidere i nemici del nostro paese. Basta, con queste regole di ingaggio politicamente corrette e autoritarie! Questa amministrazione ha lavorato duramente, sin dal primo giorno, per potersi sbarazzare della giustizia sociale, della correttezza politica e dei rifiuti tossici ideologici che hanno infettato il nostro dipartimento, in modo così da poter eliminare la politica, senza più avere alcun calendario identitario, o gli uffici per la diversità, per l'equità e per l'inclusione, con gli alti papaveri in costume. Niente più adorazione del cambiamento climatico, niente più divisioni, distrazioni o deliri di genere. Niente più macerie». [*1]  Potrebbe anche essere solo una coincidenza, ma è comunque importante notare come questo evento sia avvenuto solo pochi giorni dopo che Vladimir Putin ha firmato la legge che ritira la Russia dalla Convenzione Europea per la Prevenzione dalla Tortura e dalle Pene, o dai trattamenti inumani e degradanti. La decisione così formalizzata, costituisce un altro passo verso il completo disimpegno della Russia da quelli che erano i suoi impegni internazionali, e dimostra chiaramente il disprezzo che la Russia ha per la protezione dei diritti umani: ha vietato persino le visite ispettive nei centri di detenzione. Le principali vittime della decisione sono già, e lo saranno sempre di più, i cittadini russi. Secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nella Federazione Russa, «la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti vengono usati con l'approvazione dello Stato, e vengono visti come strumenti per l'oppressione sistemica in tutta la Federazione Russa» e, naturalmente, anche in Ucraina. Legittimazione della tortura : è questa la versione russa di ciò che accade quando «i nostri combattenti vengono lasciati con le mani libere di intimidire, demoralizzare, dare la caccia e uccidere i nemici del nostro paese»...
   E chi sono questi nemici? Dopo Hegseth, è stato lo stesso Trump a salire sul palco e, chiacchierando ancora più a lungo, ha proposto di utilizzare le città americane come se fossero dei campi di addestramento per le Forze Armate. La sua affermazione centrale riguardava la necessità, per gli Stati Uniti, di usare la propria potenza militare al fine di contrastare quella che lui chiama "invasione interna", proprio come aveva fatto Steve Bannon per giustificare l'uso dei marines statunitensi contro i manifestanti a Los Angeles: «Dovremmo usare alcune di queste città pericolose come dei campi di addestramento per le nostre forze armate. Siamo sotto un'invasione interna. Non è diverso dal [combattere] un nemico straniero, ma per molti versi è anche più difficile, perché essi non sono in uniforme». Lo sappiamo da mesi: Trump prevede di usare l'esercito per "disciplinare" le grandi città controllate dal Partito Democratico (non solo Los Angeles, ma anche Chicago, New York, New Orleans...). Di questo piano, fa anche parte il processare e imprigionare dei nomi importanti del Partito Democratico, come Barack Obama e Gavin Newson; in breve, il piano è quello di criminalizzare gli oppositori politici, trasformare la lotta politica in diretta oppressione legale e militare. Nella sfera legale, Trump effettua delle vere e proprie purghe che farebbero sorridere Stalin: facendo emergere dei problemi nelle forze armate. Mentre la solita vecchia strategia del populismo di destra è quella di rischiare una guerra esterna in modo da poter imporre così l'unità patriottica in patria; quello che Trump invece sta facendo è quasi l'esatto opposto. Per quanto riguarda la politica globale, egli si presenta come se fosse un grande pacificatore (si vanta di aver fermato addirittura sette guerre, cercando di imporre la pace in Ucraina e in Medio Oriente), anche se la sua pacificazione solitamente viene sostenuta da dei brutali interventi militari locali o, quanto meno, da minacce militari (promette di rendere Gaza "un inferno" se il suo piano di pace non verrà accettato), oltre agli atti militari (Iran, minacce contro Gaza). Però, all'interno degli Stati Uniti, tuttavia, la percezione della situazione è quella di una guerra mortale, che richiede l'uso dell'esercito americano. Il paradosso non è necessariamente catastrofico: nella follia del mondo di oggi, potrebbe anche funzionare, almeno per un po'. È altrove che risiede il problema. Finora, sembrava che le unità speciali della Guardia Nazionale, sotto il controllo diretto di Trump, avrebbero portato a termine il lavoro, funzionando come un esercito privato che il presidente poteva usare quando e dove voleva, libero da qualsiasi controllo politico. Ora, Trump ha fatto un passo avanti cruciale: la Guardia Nazionale non è più sufficiente per affrontare il nemico interno, quindi è necessario politicizzare anche lo stesso esercito regolare. Se ascoltiamo i discorsi di Hegseth e di Trump, la prima cosa che salta all'occhio (o meglio, alle nostre orecchie) è il silenzio dei generali e degli ammiragli riuniti: nessun applauso che interrompa gli oratori, nessuna evidente reazione...

   E' facile capire questo silenzio: sebbene sia chiaramente uno strumento della sua politica globale, l'esercito americano - in particolare i suoi generali più importanti - desidera ardentemente salvaguardare un'immagine di neutralità politica, evitando perciò di immischiarsi in delle controversie politiche, rispettando la costituzione e obbedendo solo agli ordini legali. Ecco perché, nel 2019, quando Trump perse la rielezione, e affermò più volte che Biden non era un presidente legittimo, lanciando (non sempre) velati appelli ai suoi sostenitori a ribellarsi apertamente al potere statale, la leadership militare dichiarò invece pubblicamente di essere pronta a intervenire al fine di prevenire il disordine pubblico, vale a dire, in caso ci fosse qualsiasi tentativo di riportare Trump al potere con mezzi incostituzionali. Se seguiamo questa linea di ragionamento fino in fondo, bisogna considerare anche la possibilità che se Trump realizza il piano di usare l'esercito per combattere il nemico interno, l'esercito americano potrebbe sentirsi obbligato a intervenire direttamente e abbatterlo. È una prospettiva mozzafiato: un colpo di stato militare ci salverà dalla dittatura di Trump? Ma c'è molto di più da dire sul ruolo dell'esercito nella vita pubblica. Si sente spesso dire che la sinistra manca di una visione positiva per quella che dovrebbe essere una valida alternativa al populismo trumpista: bloccata nella ripetizione di vecchi modelli, in particolare quello dello Stato sociale socialdemocratico, la sinistra ha più volte fallito in tal senso. Che ne dite, allora, di fare un passo indietro rispetto alla paura della militarizzazione; la quale paura è una caratteristica costante di tutte le utopie di sinistra? E immaginassimo l'utopia della completa militarizzazione della società, vedendola come l'unica visione realistica di emancipazione? Prima di liquidare questa idea come se fosse un paradosso postmoderno della "quinta internazionale", ricordate che è esattamente questo ciò che ha fatto Fredric Jameson nella sua "Utopia americana". L'idea gli venne quando pensò alle elezioni presidenziali americane del 1952, quando il democratico Adlai Stevenson sostenne l'assistenza sanitaria gratuita e universale, e Dwight Eisenhower rispose: «Se qualcuno vuole l'assistenza sanitaria gratuita, che si arruoli nell'esercito!» La reazione di Jameson fu allora: «beh, perché non proporre allora l'esercito, come modello di società universale?» Jameson, non solo respinge le due principali forme di socialismo di Stato del XX secolo (lo Stato sociale socialdemocratico e la dittatura del partito stalinista), ma, per misurarne il suo fallimento,respinge anche il parametro utilizzato dalla sinistra radicale: la visione libertaria del comunismo come libera associazione di moltitudini sociali organizzate in consigli, vale a dire, come democrazia diretta non rappresentativa e sulla base dell'impegno permanente dei cittadini. Secondo questa regola, la militarizzazione globale sarebbe ovviamente inaccettabile per il nostro comune senso democratico; non sorprende che - nel dibattito su Jameson alla City University di New York - Stanley Aronowitz abbia cercato disperatamente di ridurre l'idea utopica di Jameson, riguardo la coscrizione universale, a una democrazia diretta non rappresentativa, nella quale le persone (i soldati) si organizzano in consigli, così come avviene negli eserciti popolari ribelli. Questa democrazia diretta rappresenta l'apice della politicizzazione dell'intera società, e questo nel mentre che Jameson sottolinea ripetutamente come la sua idea di coscrizione universale miri proprio alla scomparsa della dimensione politica in quanto tale: tutto ciò che rimane, nella società utopica di Jameson, è un'economia organizzata militarmente (vale a dire, non politicamente), senza che ci sia la necessità di un impegno permanente della popolazione, insieme all'immenso dominio dei piaceri culturali, altrettanto non politici, dal sesso all'arte.
    Come sottolinea Jameson, ciò che rende attraente questo modello è proprio l'impenetrabile aspetto passivo-burocratico della vita militare: in essa non ci sono elezioni pubbliche democratiche; non è mai molto chiaro il modo in cui qualcuno, e non chiunque altro, diventi un generale di alto rango... All'utopia di Jameson è stata spesso opposta una contro-argomentazione piuttosto stupida: ma l'esercito non presuppone che quantomeno ci sia la minaccia della guerra? La risposta è chiara: ma non è forse la nostra stessa sopravvivenza a essere minacciata dalla crisi ecologica e dall'espansione del dominio dell'Intelligenza Artificiale, per non parlare dello scoppio effettivo di una guerra globale? Per ognuna di queste situazioni (e soprattutto contro una combinazione di tutte esse), sarà necessario un forte potere centralizzato, un potere pronto ad agire, libero da lunghe e complesse procedure democratiche. In una situazione del genere, non solo ci sarà bisogno di una struttura simile a quella di un esercito, ma anche di un forte capo al comando: perché?  Ciò che caratterizza un vero leader è - tra le altre cose - la capacità di prendere decisioni difficili, nelò momento in cui non è possibile evitarle: quale gruppo di soldati sacrificare sul campo di battaglia, quale paziente salvare quando non ci sono abbastanza risorse, ecc.; o, come dice il vecchio dottore nella serie TV "New Amsterdam": «I leader prendono decisioni che impediscono loro di dormire la notte. Se dormi tranquillamente, non sei uno di loro». Paradossalmente, quegli eccessi che i meccanismi della rappresentanza politica elettorale non sono in grado di catturare, non possono che trovare la loro adeguata espressione in un leader, o in un organo di governo che sia in grado di imporre un progetto sociale ed economico a lungo termine, e che non sia limitato dal breve periodo tra due elezioni... Suona come una militarizzazione universale? Sì, il comunismo del futuro sarà un comunismo di guerra, o non sarà!

- Slavoj Žižek - Pubblicato il 16/10/2025 - fonte: https://blogdaboitempo.com.br/

Note:

1 - Gli estratti citati provengono dall'articolo della CNN "Hegseth spinge per rifare l'esercito a sua immagine preferita".
2 - Si veda Fredric Jameson, "American Utopia", Londra: Verso Books 2016.

 

giovedì 16 ottobre 2025

Un Pericolo che sta crescendo sempre più

   Come spiegare il fatto che - solo appena tre quarti di secolo dopo la Shoah - l'antisemitismo stia riemergendo con rinnovato vigore? Lungi dall'essere un fenomeno del passato, resta profondamente radicato nelle società moderne. E questo ritorno non si limita solo all'Europa e all'America: si estende anche al mondo arabo e a molti paesi dell'Asia, dove talvolta l'antisemitismo raggiunge livelli particolarmente elevati. Vediamo come questa rinascita viene accompagnata da una polarizzazione del discorso pubblico: a sinistra, una frangia tende a minimizzarla, denunciandone solo la strumentalizzazione; a destra, invece, si promuove la tesi del "nuovo antisemitismo", il quale però viene attribuito esclusivamente alle popolazioni musulmane, e alla sinistra. Queste due posizioni, entrambe ugualmente caricaturali, rivelano quella che appare come un'unica e sola cecità: l'incapacità di comprendere l'antisemitismo in quanto fenomeno strutturale delle moderne società capitalistiche.

   In questa antologia, in lingua francese, dedicata alla teoria critica dell'antisemitismo, gli autori e le autrici evidenziano quale sia il legame fondamentale -  così tanto a lungo nascosto - tra l'antisemitismo moderno e il capitalismo. Mostrandoci così, in questa relazione, come l'antisemitismo arriva a cristallizzarsi in quella che è una coscienza feticizzata: vale a dire che ciò che, nel capitalismo, appare "astratto" e sfuggente viene personificato nella figura dell' "ebreo". A partire da questo, l'antisemitismo ci propone una sua visione pseudo-emancipatrice, tramite le quale pretende di svelarci quale sarebbe il funzionamento delle società capitaliste; una visione, questa, che in tempi di crisi si diffonde a velocità abbagliante, quasi fosse una folgorazione, e che finisce per degenerare in una conflagrazione omicida.

   L'antologia, si divide in tre parti: 1) -  "L'antisemitismo moderno, una visione feticizzata del sistema-mondo capitalista"; 2) - "La Shoah, una fabbrica per per distruggere l'astrazione";  e 3) - "Le costellazioni contemporanee dell'ideologia di crisi antisemita". Questa struttura, ci  permette di riuscire ad affrontare il fenomeno da diverse angolazioni e prospettive: storica, teorica e contemporanea. Attraverso un approccio multidisciplinare, che si inscrive in una rinnovata critica marxiana del capitalismo, il libro raccoglie dei saggi fondamentali, per mezzo dei quali viene chiarito il modo in cui, nel capitalismo, si forma la coscienza antisemita; esplorandone le molteplici risonanze e offrendo una riflessione approfondita sulle questioni sociali e ideologiche all'origine di questo pericolo sempre più crescente pericolo.

In uscita il 14 novembre 2025 per Editions Crise & Critique:
"Le Péril antisémite - Antisémitisme structurel dans la modernité capitaliste"
- Prima antologia in lingua francese sulla teoria critica dell'antisemitismo -
di Moishe Postone - Robert Kurz - Clément Homs - Sender Vizel - Detlev Claussen - Ernst Lohoff - Jordi Maiso - Karin Stögner - Lars Rensmann - Samuel Salzborn - Daniel Feldmann - José A. Zamora

Collezione Palim Psao - Edizioni Crisi e Critica - 544 pagine
  - http://editions-crise-et-critique.fr/  -