giovedì 7 agosto 2025

La “Merce Universale” e l’”Altro universale” !!

Denaro e antisemitismo: follia strutturale nella modernità produttrice di merci
- di Robert Kurz -

1. Il feticismo del denaro
Il denaro costituisce il fluido onnipresente della modernità, il lubrificante generale della società, la forma onnicomprensiva della riproduzione: «Il denaro fa girare il mondo».
Il denaro è anche la forma universale della ricchezza, poiché con il denaro si può (presumibilmente) comprare tutto; esso apre un accesso apparentemente illimitato, per coloro che hanno la capacità di pagare, alle possibilità del mondo, e pertanto rappresenta anche l'oggetto universale del desiderio. Per  tutte queste ragioni, il denaro viene elogiato dagli ideologi dell'economia moderna, in quanto sarebbe l'invenzione più intelligente e più benefica per l'umanità. Ma, allo stesso tempo, il denaro è anche la forma di quello che viene vissuto come un terrore universale ed è così, in quanto il contrario della ricchezza, anche la formula di una mostruosa povertà mostruosa, la quale così non nasce più dalle condizioni naturali, ma viene artificialmente prodotta dalla società. Il denaro appare quindi come se fosse un potere sinistro,dal momento che esso è una "cosa astratta", indifferente a tutti i contenuti sensibili, rispetto all'essere umano e alla natura, ai sentimenti e ai legami personali. Il denaro può rappresentare tutto e niente, visto che esso comprende tutte le cose del mondo, eppure è completamente vuoto, come se fosse una sorta di nirvana economico. In questa astrazione sociale del denaro, non appena esso si impone realmente contro il mondo sensibile, si nasconde un enorme potenziale distruttivo: «Far valere le astrazioni sulla realtà significa distruggere la realtà» (Hegel). Nel denaro, in forma paradossale, le relazioni sociali e materiali vengono simultaneamente invertite: in quella che è la loro relazione sociale reciproca, gli esseri umani non rappresentano sé stessi,quanto piuttosto una quantità di pseudo-materia sociale astratta (oro, monete, banconote, impulsi contabili). Marx ha definito questa assurda relazione come "feticismo" della produzione di merci. Il denaro viene prodotto solo grazie a una divisione sociale delle funzioni, nella quale l'attività finalizzata alla riproduzione della vita grazie al  «processo di metabolismo con la natura» (Marx), non viene consapevolmente organizzata in comune, ma si verifica come produzione privata separata finalizzata a dei mercati anonimi. La produzione diventa sociale solo più tardi, attraverso gli atti di scambio, il cui cieco mezzo è il denaro (la "merce universale"). Il denaro rappresenta i beni comuni astratti di quelli che sono dei prodotti qualitativamente diversi: il loro cosiddetto valore, il quale a sua volta non rappresenta altro che il dispendio della quantità di energia umana socialmente necessaria alla loro produzione. Socialmente, è necessario astrarre dalla forma concreta di questa spesa, perché essa può riferirsi solo all'equivalenza astratta delle merci. Orientato fin dall'inizio a questa generalità astratta del valore, e alla sua forma di manifestazione, il denaro, vediamo che il lato astratto dell'attività si determina a partire dal cosiddetto "lavoro" (semplice dispendio di energia umana), ivi compresa anche quella che è una "indifferenza universale", da parte dei produttori, relativamente al contenuto della loro produzione. L'importante è "fare soldi". Naturalmente, il lato distruttivo del denaro e la sua "astrazione reale" (Sohn-Rethel) non rimangono nascosti alla società, e ai suoi individui. Fin dalla più tenera età, questa contraddizione ha dato origine al tentativo di distinguere, ideologicamente, tra denaro "buono" e denaro "cattivo". Il momento distruttivo e astratto doveva essere separato, e proiettato su un potere esterno, negativo, come è avvenuto nei confronti delle comunità ebraiche, che sono state così definite, fin dal tardo Medioevo (sulla scia del risentimento religioso contro gli "uccisori di Cristo"). L'antisemitismo cerca pertanto di mantenere la forma del denaro, e tuttavia di definire la sua strana e irrazionale mancanza di contenuto, come se questa fosse una presunta "caratteristica ebraica", e facendo così degli "ebrei" dei capri espiatori. È la reazione irrazionale immanente all'irrazionalità del feticismo della merce e del denaro.

2. La miseria della concorrenza
Tuttavia, questo feticismo diventa una relazione generale e comprensiva solo attraverso la moderna trasformazione del denaro in capitale produttivo: il denaro viene riaccoppiato a sé stesso per "valorizzarsi" (per fare due di uno); e diventare così il "soggetto automatico" (Marx) di un nuovo modo di produzione. «Il mezzo è il messaggio» (McLuhan); il mezzo di scambio si trasforma in un fine in sé, che si impossessa gradualmente di tutta la riproduzione. Nell'interdipendenza tra "il lavoro astratto" e la "valorizzazione del valore", sorge un nuovo tipo di "socializzazione negativa", nella quale l'attività sociale viene individualizzata, e resa assolutamente dipendente dalle leggi autonome del movimento della "cosa astratta", a cui tutti i membri della società devono sottomettersi in quanto "individui isolati". In tal modo, le persone entrano in un rapporto reciproco di concorrenza totale, dove le forze produttive si sviluppano secondo una dinamica mai vista prima, in modo compulsivo, paradossale e distruttivo, che si scarica in delle crisi e delle catastrofi. Ed è logico che questo paradosso sociale dinamico - la cui struttura non è molto diversa dalla follia clinica (sebbene in una forma sociale oggettivata) - produca una miscela esplosiva di paura e di desiderio. La liberazione da questa illusione strutturale potrebbe consistere solo nel sostituire il feticismo del "lavoro", del valore e del denaro con una nuova struttura di autocomprensione sociale cosciente, alla quale tutti gli esseri umani partecipino (ad esempio, sotto forma di un sistema di consigli o di comitati) e decidano insieme l'uso sensato delle loro risorse e delle loro forze produttive. Tuttavia,  al di là della modernità produttrice di merci, l'umanità non è ancora riuscita ad arrivare a questa prassi della ragione sociale e materiale-sensibile Le leggi coercitive del "lavoro" e del denaro, sono state interiorizzate in un processo di diversi secoli di oppressione, violenza, "educazione" e "diligenza" astratta (industrializzazione) e, in un certo senso, trasformate in tabù: chiunque critichi direttamente la struttura fondamentale feticista e voglia abolirla è considerato pazzo. Nella storia dell'imposizione di questo sistema di produzione di merci, sono perciò emerse varie idee e forme di reazione immanenti, presumibilmente per porre fine alle contraddizioni e alle crisi del feticismo moderno, però sul suo stesso terreno (senza una vera trasformazione). Contro la razionalità del liberalismo, che propaga (ancora oggi) la corsa cieca della competizione - e, così facendo, accetta l'esclusione di masse sempre più crescenti di persone - la razionalità del socialismo di Stato è stata posizionata, da Bismarck a Lenin, da Keynes a Castro, al fine di superare gli effetti critici della concorrenza in quelli che sono dei diversi sistemi di regolamentazione statale, più o meno estesi (spesa in deficit, Lo Stato sociale, lo Stato come imprenditore generale, ecc.), senza tuttavia mai abolire la produzione di merci, il mercato e la forma monetaria. Ma tutti questi tentativi di socialismo di Stato, nelle loro diverse varianti, hanno dovuto fallire ripetutamente (e oggi, definitivamente), perché lo Stato è sempre e solo l'altro polo della generalità astratta feticistica, e alla fine rimane sempre dipendente dalle leggi cieche della moneta capitalizzata. Sotto il mantello della regolamentazione statale, la concorrenza continua a fermentare, ed esplode con ancora più violenza (sia nell'economia interna che nelle relazioni esterne). Dal momento che il socialismo di Stato, basato sul sistema di produzione di merci che non è stato abolito, è troppo debole per riuscire a essere in grado di superare l'irrazionalità della struttura feticistica, e del sistema di concorrenza ad essa associato, ecco che a partire dal XIX secolo abbiamo visto sorgere, contemporaneamente, diverse correnti socio-politiche di quella che era un irrazionale "proseguimento della concorrenza con altri mezzi", al cui centro ideologico si è posto l'antisemitismo: La proiezione sugli "ebrei", delle caratteristiche astratte e distruttive della forma monetaria, continua definendo l'ebreo in quanto alieno "esterno" della concorrenza. Nella "guerra di tutti contro tutti" (Hobbes), la paura esterna genera il desiderio di un "noi" più chiaro, che malgrado la competizione si ponga al di fuori della competizione, e venga immaginato sotto forma di meta-soggetto contro tutti "gli altri", come se si fosse in un sistema di inclusioni ed esclusioni sociali, dove "l'ebreo" figura come se fosse "l'Altro universale", lo Straniero, che riunisce in sé tutte le qualità negative del denaro e della concorrenza. L'antisemitismo ha pertanto ripetutamente assorbito degli elementi, sia del liberalismo che del socialismo di Stato, in modo da formarsi così socialmente (e storicamente, nella forma del fascismo e del nazionalsocialismo). Ciò rivela sia tanto le differenze quanto le affinità e le sovrapposizioni tra il liberalismo, il socialismo di Stato e l'antisemitismo, che esprimono tutti, in modi diversi, la medesima irrazionalità razionale, ovvero lo stesso irrazionalismo, sul terreno comune del moderno sistema feticistico.

3. La naturalizzazione del sociale
L'auto-movimento cieco e sciolto della "cosa astratta", resa totalmente sociale sotto forma di capitale, ha portato gli ideologhi di questo sistema, fin dall'inizio, non solo a equiparare la "seconda natura" della socializzazione feticistica (priva, nella sua determinazione della forma, della volontà umana ) alla "prima natura"; ma a identificarla direttamente. Del resto, i classici del liberalismo e della "economia politica" consideravano le leggi cieche del denaro e del mercato come leggi naturali. La "macchina del mondo" fisica, dell'universo meccanico di Newton, trovò il suo equivalente nell'altrettanto meccanica "macchina del mondo" economica, ovvero, nella «bella macchina» (Adam Smith) del capitale. La metafisica del denaro è diventata così la fisica del mercato universale. Mentre, nel contesto della sua critica del feticismo, Marx considera ancora negativa questa pseudo-fisica delle categorie di un sistema produttore di merci, e formula la sua presentazione come una critica radicale, il socialismo di Stato (anche nella sua variante "marxista"), è ricaduto invece nel positivismo delle "leggi" feticistiche, le quali - "indipendenti dalla volontà umana" - sembrano essere presupposte come quasi naturali. Ma questa naturalizzazione pseudo-fisica del sociale continuò, poco dopo, in una biologizzazione dello sviluppo sociale e delle caratteristiche sociali. L'epocale scoperta di Darwin dell'evoluzione biologica, venne immediatamente cortocircuitata socialmente (anche da Darwin stesso) e trasferita sulla storia umana, come se si trattasse di un "processo di selezione" pseudo-biologico e come "sopravvivenza del più adatto". Questo "darwinismo sociale", era diretto contro le persone con delle disabilità e contro le cosiddette "vite senza valore", che dovevano essere soffocate alla fonte grazie a una rigorosa "igiene razziale" (controllo statale dell'ereditarietà, ecc.). In tal senso, il darwinismo sociale penetrò in profondità anche nel movimento operaio marxista, e venne difeso apertamente dai suoi principali ideologhi (ad esempio, da Karl Kautsky). Lo stesso socio-biologismo - con il suo slogan della "lotta per la vita" - ha segnato anche l'interpretazione della concorrenza generalizzata, e del conseguente sistema di inclusione ed esclusione sociale. Nel mentre che il liberalismo sosteneva un processo di selezione individuale socio-darwiniana, secondo dei criteri capitalistici, contemporaneamente si sviluppò anche un razzismo biologico onnicomprensivo, che trasformò ideologicamente la sindrome della competizione segnata dalla paura in una lotta tra razze "superiori" e razze "inferiori"; e inventò il mito della "razza ariana" (Graf Gobineau). L'antisemitismo, è stato rapidamente integrato in questa visione biologica e razzista del mondo. Mentre i cosiddetti popoli di colore (Africani, Asiatici, ecc.) erano definiti come razze "inferiori" o "sub-umane", invece "gli Ebrei" figuravano, al contrario, come la "razza superiore del male" e come il grande avversario spettrale degli "Ariani". Proprio allo stesso modo in cui l'antisemitismo aveva già proiettato  su un essere "ebreo" la negatività strutturale del "dominio del denaro" e della competizione, gli "ebrei" erano ora diventati semplicemente gli "altri" biologici per natura; ai quali è inerente il male della socializzazione negativa e astratta, non solo storicamente o culturalmente, ma anche direttamente proprio nella loro esistenza fisica, biologica e "di sangue". L'antisemitismo completava così la naturalizzazione del sociale, presente in tutta l'ideologia affermativa del moderno sistema di produzione di merci, portandolo fino alle sue estreme conseguenze.

4. L'obbligo di lavorare e l'ossessione per la prestazione
La base, e in un certo senso il fuoco interiore, la forza motrice dell'incessante "valorizzazione del valore", rimane il "lavoro" astratto, vale a dire, quello che è l'altrettanto instancabile dispendio di energia umana, indifferente non solo al contenuto concreto di tale dispendio (in linea di principio, al capitale e ai suoi produttori non importa se producono torte di cioccolato o mine anticarro), ma anche alle conseguenze, ai "rischi" e agli effetti collaterali della razionalità (economica) a esso associata. I fini umani coscienti, non si traducono in attività ugualmente coscienti e organizzate in comunità, ma piuttosto, al contrario, i fini umani dipendono dal fine in sé del processo di valore e di "lavoro", in quanto come sua forma astratta di movimento. Nonostante una simile assurdità, fin dall'inizio dell'era moderna, il concetto astratto di "lavoro" è stato visto come un nobile obiettivo etico. Mentre in tutti i modi di produzione premoderni il fatto di sussumere delle persone all'astrazione di un'attività determinata da altri, veniva considerata negativa e inferiore, nell'"etica protestante", invece, il "lavoro" è asceso al traguardo, paradossalmente positivo, di quella che viene vista come un'autorealizzazione umana sotto lo sguardo di Dio.Tutto ciò, annunciava la secolarizzazione della religione, sotto forma di sottomissione alla "macchina mondiale" capitalistica. Sia il liberalismo che il socialismo di Stato (marxista), hanno dimostrato di essere gli eredi di questa "etica protestante". Con lo sviluppo progressivo del sistema produttore di merci, il "lavoro" astratto, e le altrettanto astratte "virtù secondarie" a esso associate (diligenza, disciplina, puntualità, ecc.), si sono propagate secondo quello che era il fine in sé della "cosa astratta", e pertanto la definizione di "benessere" è stata fatta dipendere da esse, senza tuttavia tener alcun conto del significato sociale, e del benessere reale degli individui. L'obbligo di lavorare, e l'ossessione per la prestazione, finalizzati a delle "costruzioni piramidali" sempre più assurde, fatte in nome del denaro -  il quale è diventato fine a sé stesso - hanno determinato che le possibilità positive di sviluppo delle forze produttive siano state ripetutamente sperperate. Invece di attaccare questa relazione feticistica, e il suo concetto astratto di attività, il movimento operaio storico è riuscito ad arrivare solamente a quella che è rimasta una critica immanente del sistema, e ha fatto proprio il punto di vista del "lavoro". Benché,  fosse esso stesso un'astrazione e, come tale, era realmente determinato solo dal fine, astratto in sé, del denaro, il "lavoro" (in particolare l'attività produttiva immediata) appariva piuttosto come "concreto" e significativo, in opposizione al mondo astratto della forma monetaria. "Capitale" e "lavoro" non erano, pertanto, intesi come se fossero le due facce della stessa medaglia, ma erano invece visti come se fossero esternamente in opposizione. Anziché una critica della forma feticistica della società, quella che è sorta, è stata la critica del "non lavoro", oppure quella del "lavoro improduttivo", del "reddito senza lavoro", del "parassitismo", dei "fannulloni", dei "profittatori", ecc. Ironia della sorte, il liberalismo ha sviluppato dei criteri assi simili, sebbene usando altri attori (in questo caso, i lavoratori salariati ribelli, che lottavano per la riduzione della giornata lavorativa, venivano visti come un "gruppo pigro"). Sebbene August Bebel definisse l'ideologia antisemita come "l'anticapitalismo degli imbecilli", l'antisemitismo riuscì a collegarsi sia alla "etica protestante" di base, e all'ossessione liberale per la performance, che alla critica riduttiva al capitalismo, da parte del movimento operaio. Non a caso, sul cancello di Auschwitz c'era scritto «Il lavoro rende liberi». Alla positivizzazione del "lavoro" e alla stigmatizzazione del "non lavoro", dell'"ozio", ecc. - per adattarsi alla visione antisemita del mondo - mancava solo di ricevere, insieme ai rispettivi attributi, anche una connotazione biologica. In tal modo, veniva ripetuta l'attribuzione naturalizzante del negativo: gli africani, gli slavi, ecc., venivano tutti definiti come gli «inferiori avversi al lavoro», mentre gli "ebrei" erano invece definiti come i «superiori negativi, avversi al lavoro»,  e come i veri antagonisti del principio "ariano" del "lavoro onesto". E in quanto presunti puntelli al "malvagio" denaro, e alla reale astrazione sociale in generale, "gli ebrei" venivano identificati, non solo con l'immagine nemica che corrispondeva alla sofisticata "oziosità parassitaria", ma anche con le astrazioni della ragione riflessiva. Non a caso Marx definiva la logica chiamandola il «denaro dello spirito». E così come non si può parlare di corda nella casa dell'impiccato, anche nella società produttrice di merci, basata sulle astrazioni reali, non si può - a partire dalla riflessione - chiamare inavvertitamente la forma feticista astratta con il suo proprio nome. Anche se è proprio il banale senso comune delle persone "che guadagnano denaro" a pensare astrattamente - fino alla stupidità, come ha già dimostrato Hegel - che il "pensatore astratto", nella sua forma riflessiva e quindi un po' pericolosa, viene disapprovato proprio perché, a causa dell'imposizione crescente di "fare soldi", la coscienza sociale è diventata sempre più positivista . Sia il pragmatismo liberale che il marxismo volgare del movimento operaio, svilupparono così entrambi - insieme al sentimento contro le rispettive definizioni di "non lavoro" e di "improduttività" - un corrispondente grado di ostilità verso l'intellettuale, che l'antisemitismo a suo modo avrebbe assorbito: l'"improduttivo" e ozioso "flâneur ebreo", o l'elegante bon vivant "Ebreo" è diventato così quasi sinonimo della figura dell'"intellettuale ebreo sovversivo", nel quale la forza negativa dell'astrazione si rivolge, di riflesso, contro il principio "buono" del "lavoro".

5. Capitale "creativo" e capitale "stupratore"
L'affermazione del "denaro buono" contro il "denaro cattivo", l'elogio del "concreto" (che, in realtà, non è altro che l'incarnazione della medesima socializzazione moderna realmente astratta) contro "l'astratto", e l'apoteosi del "lavoro" contro l'ozio e contro il "parassitismo"  nel sistema dell'economia politica possono portare a una sola cosa: a una critica tronca del capitale fruttifero. identificato con la negatività dell'intero modo di produzione. Sebbene il capitale finanziario sia logicamente solo una forma derivata di capitale produttivo, e l'interesse sia solo una componente della creazione industriale di plusvalore, in questa comprensione superficiale vediamo che è solo l'interesse, il quale dev'essere pagato sul denaro preso in prestito o sul capitale monetario, ad apparire come "estorsione di plusvalore", e come "reddito senza lavoro" moralmente ingiustificato. Da un punto di vista economico,  sono considerati "capitalisti" solo i proprietari del capitale monetario, banchieri, ecc., mentre gli imprenditori industriali vengono visti come se fossero una sorta di "lavoratori leader", con un salario imprenditoriale leggermente più alto, ovvero, con un "premio di rischio". Gli stessi imprenditori industriali, così come le piccole imprese familiari e artigiane, i quali dipendono dai prestiti bancari, e possono in qualsiasi momento cadere nella "trappola del debito", visti dal punto di vista dei loro interessi immanenti, tendono facilmente a essere oggetto di questa visione. In tal senso, diventa concepibile persino una critica liberale del capitalismo finanziario; e nel movimento operaio fu perciò l'ala quasi liberale, nella sua forma di una parte degli anarchici, che, da una posizione più incline alla piccola impresa, o nel senso di cooperative di produzione di merci, esigeva la «rottura della servitù dell'interesse» (Proudhon). Il marxismo del movimento operaio ha respinto tale posizione in quanto piccolo-borghese; ma la sua ideologia socialista di Stato, che non mirava all'abolizione del rapporto feticistico e del lavoro salariato in esso incluso -  ma solo alla nazionalizzazione e alla regolamentazione burocratica del capitale produttivo privato - non era poi così tanto lontana da essa. Nella pratica dell'agitazione marxista di massa - specialmente sotto il segno di una "politica di alleanze" con i vari "piccoli produttori di merci" che lavorano - il capitalismo finanziario è passato come se fosse stato, esso da solo, al centro della critica, essendo gonfiato nella sua immagine di cattivo, in generale. L'antisemitismo potrebbe facilmente trarre vantaggio dalla critica tronca del capitale fruttifero, dal momento che già dalla fine del Medioevo "gli ebrei" venivano considerati usurai (ad esempio, in modo aggressivo e quasi fomentatore del pogrom, da Martin Lutero). Questa classificazione era dovuta al fatto che, secondo la Bibbia, ai cristiani era stato ufficialmente proibito addebitare interessi, mentre nel commercio c'era bisogno di credito. In molte città, alle comunità ebraiche, per motivi di concorrenza, veniva proibito di impegnarsi in attività commerciali. Così, alcuni cittadini ebrei furono costretti a impegnarsi nel commercio e nel prestito di denaro (sebbene l'Antico Testamento proibisse anche l'addebito di interessi). Lo straccione e il rottamatore ebreo, divennero così proverbiali, mentre l'esistenza storicamente consolidata di alcune famiglie di banchieri ebrei (tra cui i famosi Rothschild) potrebbe invece essere collegata a un odioso mito del "capitale finanziario ebraico". Il fatto che la stragrande maggioranza degli ebrei fosse tutt'altro che finanziariamente potente, be' questo non dava fastidio a nessuno. Così, a partire dai tempi di Lutero, e fino al XX secolo, la critica errata all'essenza del moderno feticismo della "schiavitù dell'interesse" si è mescolata con i toni antisemiti. A partire da questo, la regola generale è quella secondo cui non tutti i critici del capitale fruttifero sono (apertamente) antisemiti, ma tutti gli antisemiti sono critici del capitale fruttifero. Si tratta, in un certo senso, di una "economia politica dell'antisemitismo", la quale si presenta come se allo stesso tempo fosse anche una visione irrazionale del mondo. Questa ideologia si diffuse ampiamente, a partire da Proudhon, e si ritrova anche negli antroposofi di Rudolf Steiner così come nei seguaci del ciarlatano economico Silvio Gesell (e in tutti i movimenti settari del periodo pre e post guerra); per poi essere sintetizzata dai nazionalsocialisti e portata all'estremo. Nella contrapposizione tra capitale "creativo" e capitale "stupratore", l'ideologia nazista riassumeva tutti i momenti della sindrome antisemita. In tutto questo si trova inclusa anche l'astrusa idea della "cospirazione ebraica mondiale", che dalla fine dell'Ottocento aleggerà come un fantasma: l'anonimato e le leggi sovranazionali del mercato mondiale venivano demonizzati insieme, a partire da un'analogia tra le relazioni finanziarie transnazionali e l'esistenza "sospetta" dei ghetti ebraici sparsi per il mondo, identificati come sleali in senso nazionalista, col fine di identificare un diabolico "responsabile" che aveva tirato le fila dietro le quinte causando gli effetti incomprensibili e insoggettivi delle relazioni competitive, dei flussi di capitale e dei flussi commerciali globali (in un certo senso, la mania per la "cospirazione ebraica mondiale" è una caricatura della filosofia illuminista, che si riferisce anche alla storia vista come fatta da dei soggetti che agiscono consapevolmente, senza sospettare affatto delle strutture feticistiche). Allo stesso modo, l'irrazionale "economia politica dell'antisemitismo" spiega anche le crisi capitaliste. Il vero limite interno dell'accumulazione è da ricercare nel capitale produttivo stesso: quando, per una data struttura industriale, la capacità di espansione dei mercati si esaurisce e la razionalizzazione consuma più posti di lavoro di quanti ne vengano creati, i profitti realizzati nei precedenti periodi di produzione non possono più essere investiti in modo sufficientemente redditizio in investimenti produttivi aggiuntivi. Questa situazione di "sovraccumulazione" (Marx) del capitale porta, da un lato, a una spirale negativa di crisi, licenziamenti, contrazione dei mercati, ecc. D'altra parte, il capitale monetario che non può più essere reinvestito in modo redditizio fluisce nei mercati finanziari e, sotto la pressione delle valutazioni, genera una bolla speculativa (la creazione di valori fittizi), il cui scoppio alimenta ulteriormente la crisi. La teoria irrazionale della crisi, che si fissa unilateralmente solo sul capitale finanziario, in questo dispiegarsi della crisi non fa altro che invertire la causa e l'effetto: la speculazione, che è sorta dalla crisi del capitale produttivo stesso, appare inversamente come se ne fosse la sua causa, e gli "speculatori" vengono pertanto dichiarati essere i soggetti maligni della crisi. E poiché il capitale finanziario è già stato definito come "ebraico", ecco che vediamo che non ci vuole troppa deduzione per posizionare correttamente quale ruolo specifico giochi nella crisi, lo "speculatore". Questo è il modo in cui i nazisti interpretarono con notevole successo propagandistico  la crisi economica mondiale del 1929-33 .

6. Auschwitz – la rivoluzione tedesca
La sindrome antisemita ha accompagnato il capitalismo fin dall'inizio, ed è sempre rimasta presente in tutti i paesi del moderno sistema di produzione di merci, anche laddove non ci sono ebrei. Ed è proprio "l'antisemitismo senza ebrei" a dimostrare il carattere di questa ideologia aggressiva, in quanto visione irrazionale del mondo che non è nata da dei conflitti empirici. Tuttavia, tutto questo non spiega il perché della presenza universale dell'antisemitismo nel mondo moderno, e perché solo in Germania sia stata in grado di intensificarsi fino a quel crimine contro l'umanità che è stato l'Olocausto. Auschwitz, probabilmente manterrà per sempre un momento di inspiegabilità che non è accessibile alla ragione riflessiva. Tuttavia, è possibile indicare le ragioni per cui il Reich tedesco divenne l'organizzatore di questo orrore universale. Innanzitutto, va detto che nel XIX secolo, tra i grandi paesi capitalistici, la Germania era il ritardatario storico, la "nazione arretrata". Mentre in Inghilterra, in Francia e negli Stati Uniti la modernizzazione veniva a essere ancora associata a un'enfasi borghese rivoluzionaria, e alle speranze repubblicane, in Germania essa iniziò invece solo a metà del secolo, insieme alla grande crisi della trasformazione dell'industrializzazione. Ideologicamente, in Germania, la formazione del moderno stato-nazione capitalista era pertanto meno legata al pensiero superficialmente razionalista dell'Illuminismo, ed era invece più legata al contro-movimento romantico irrazionale, il quale si manifestava in una sorta di miscela contraddittoria tra quello che erano i diversi elementi modernizzanti, da una parte, e una critica reazionaria e fantasmatica della"economia monetaria astratta", dall'altra. Una conseguenza di tutto questo fu che la nazione tedesca, in contrasto con il concetto occidentale di Legge e di Stato, venne biologicamente legittimata a partire da da alcune teorie "etniciste" e razziali della discendenza (fino ad oggi, tuttora la cittadinanza della Repubblica Federale di Germania viene definita come «per linea di sangue»!). Questa base ideologica, e persino giuridica, dello Stato nazionale tedesco ha favorito in particolare una teoria sociale e di crisi irrazionale, biologica e, più precisamente, antisemita. Le élite tedesche ne furono quasi tutte contaminate, ivi comprese persone che oggi non sarebbero sospettate (ad esempio, Thomas Mann). In secondo luogo, la Germania era nota per essere l'unico dei grandi paesi capitalistici a non aver subito una rivoluzione borghese (si può dimenticare il ridicolo e fallito episodio del 1848). La modernizzazione e la formazione dello Stato nazionale furono effettuate "dall'alto", dal vecchio apparato assolutista guidato dalla Prussia, particolarmente autoritario e militarista. La storia della modernizzazione tedesca non è stata perciò segnata da rivolte e rivoluzioni, ma piuttosto da una "cieca obbedienza", in quanto fenomeno di massa interiorizzato nella famiglia, nella scuola, nella fabbrica e nell'esercito. Va detto anche che il movimento operaio socialista era il più imbevuto dello spirito di questa disciplina prussiana, rispetto a quello degli altri paesi. A partire dall'incontro tra l'autolegittimazione irrazionale della "nazione tedesca" "etnicista" e la tradizione autoritaria prussiana, è sorto, sotto forma di nazionalsocialismo, un tentativo di "liberare" il mondo capitalistico dal "lavoro" dalla violenza dell'astrazione reale, assumendo l'antisemitismo come dottrina di Stato; ma non attraverso la resistenza sociale, le rivolte o la rivoluzione, bensì attraverso l'annientamento fisico dei presunti portatori biologici del male "astratto", del "non-lavoro" parassitario, dell'"intellettualismo sovversivo", del capitale finanziario "rapace" e della "speculazione", la quale causa crisi, ecc. In una parola: il "capitalismo tedesco" (e il capitalismo in generale) avrebbe dovuto essere trasformato, attraverso la morte degli ebrei nelle camere a gas, in una società totalmente "concreta", nella quale il "lavoro" sarebbe così diventato una generalità biologicamente pura, senza la legge coercitiva della valorizzazione astratta. Il teorico nord-americano Moishe Postone ha formulato accuratamente questa mostruosa assurdità del nazionalsocialismo: «Auschwitz era una fabbrica di distruzione del valore». Lì non veniva prodotto nulla, ma si eliminava in serie l'astrazione reale sociale della modernità, senza però superarla in maniera emancipatrice. Non è stato solo il numero di milioni di vittime, ad aver reso l'Olocausto una singolarità storica, quanto invece la completa assenza di un punto di vista che possa essere definito a partire da degli interessi, come lo si trova, in un modo o nell'altro, dietro tutti gli altri genocidi e omicidi di massa avvenuti nella storia della modernizzazione. L'Olocausto, ha rappresentato un fine in sé che è stato eseguito con fanatismo (a esso, sono state sacrificate persino delle risorse che erano importanti per la guerra), e tutto questo per sbarazzarsi del fine in sé del capitale. Il capitalismo, che non è stato sostituito, doveva essere trasformato, con l'aiuto delle camere a gas, in una forma che non sarebbe stata, in sé, capitalista. In tal senso, Auschwitz ha costituito la "rivoluzione tedesca";  l'unica che sia mai stata "realizzata" in questo paese. I tedeschi, obbedienti fino alla morte, difesero strenuamente questa "rivoluzione", e la portarono avanti con la precisione di un orologio, disciplinati com'erano in tutte le loro virtù secondarie. Solo in questo paese, e con questa storia specifica, la sindrome antisemita avrebbe potuto intensificarsi in quanto pseudo-rivoluzione "dall'alto", fino all'ultima barbarie immaginabile.

7. Crisi del lavoro e capitalismo da casinò
Nella storia tedesca del dopoguerra, la vera essenza di Auschwitz non è mai stata né discussa né rivista, poiché ciò avrebbe immediatamente portato alla luce la questione fondamentale relativa al sistema della modernità. Non solo le élite capitaliste della RFT (che si presentava come lo Stato successore, ufficiale, del "Terzo Reich") non avevano alcun interesse a farlo, ma per le potenze occidentali, con gli Stati Uniti in testa, una rivelazione sulle radici della sindrome antisemita sarebbe stata solo una seccatura in quella che allora era la nuova era di integrazione capitalistica del mercato mondiale. Ma anche nella DDR - che coltivava le infelici tradizioni prussiane, non solo esteriormente attraverso la marcia militare del suo "Esercito Nazionale del Popolo" -  la revisione dell'antisemitismo rimase estremamente superficiale, e senza alcuna convinzione, e ben presto venne sostituita dalla propaganda "antisionista", guidata dalla politica di alleanza dell'Unione Sovietica con gli Stati arabi. Naturalmente, l'antisemitismo non poteva essere identificato come il nucleo dell'ideologia nazista, perché la critica tronca del capitalismo, fatta dal marxismo del movimento operaio, non affrontava la problematica dell'astrazione reale feticista, che veniva tematizzata in maniera irrazionale e omicida dall'ideologia antisemita. I partiti socialisti e comunisti (così come le correnti anarchiche) non sono mai stati i principali portatori della sindrome antisemita, ma però hanno sempre avuto dei punti di contatto, e dei rapporti poco chiari con essa (e questo costituisce la storia segreta del socialismo tradizionale). La visione del mondo, e l'interpretazione antisemita della crisi sono pertanto rimaste invariate, dal momento che all'epoca della "ricostruzione" e del "miracolo economico" hanno continuato a essere "dormienti" nel subconscio sociale. A partire dagli anni '80, il capitalismo mondiale, sotto il segno della rivoluzione microelettronica, è entrato di nuovo in un'epoca di crisi, caratterizzata da una qualità storicamente nuova dell'automazione, della razionalizzazione e della globalizzazione del capitale. Per la prima volta, "l'esercito industriale di riserva" (Marx) non ha potuto più essere riassorbito ciclicamente; lo sviluppo ciclico si è trasformato in sovraccumulazione strutturale di capitale, accompagnata da una massiccia disoccupazione strutturale, e in costante crescita in tutto il mondo. Sebbene la "crisi della società del lavoro" fosse stata proclamata, mettendo così in discussione una categoria fondamentale della modernità e della sua socializzazione veramente astratta, negli anni '80 si riteneva ancora che tuttavia sarebbe stato possibile uscire facilmente da questa situazione. La critica pseudo-edonistica del "lavoro", rimase superficiale e si nutrì degli echi del "miracolo economico"; la speranza di un'espansione del "tempo libero" capitalistico, con alti redditi e alti standard di consumo, mostrava solo come la relazione tra "lavoro" e forma monetaria non fosse stata compresa. Negli anni '90, arriva la grande sbornia. Dopo il crollo del socialismo di Stato, che fu solo un momento della nuova crisi mondiale, tutte le critiche fondamentali al sistema competitivo si zittirono, mentre simultaneamente veniva alla ribalta il rapporto represso esistente tra le diverse categorie capitalistiche: la critica superficiale e consumistica del "lavoro", venne sostituita dal clamore per i "posti di lavoro", e da un dibattito frenetico sulla "localizzazione degli investimenti". Contro la globalizzazione, è ora proprio la sinistra a volersi rifugiare nel keynesismo ormai da tempo obsoleto e legato alla regolamentazione nazionale. Questa nostalgia keynesiana, che spazia dalla socialdemocrazia di destra fino ai residui del radicalismo di sinistra, non vuole ammettere il carattere fondamentale della crisi. La speranza che «ci saranno abbastanza soldi», è una richiesta irrealistica allo Stato che tenta di riportare alla comunità nazionale i mercati finanziari in libera uscita. Contro il capitalismo da casinò di quella che è una sovrastruttura speculativa senza precedenti nella storia, e che è sorta dalla sovraccumulazione strutturale del capitale, ora si invocano in maniera impotente "investimenti produttivi". Al congresso della SPD, all'inizio del dicembre 1997, il presidente Lafontaine chiede un'azione «contro gli speculatori». In tutta Europa (e in tutto il mondo), i sindacati, i Verdi, i socialisti, i comunisti, ecc. suonano la stessa canzone. Certamente, non sono (ancora) antisemiti, ma mobilitano tutti, ma proprio tutti, i motivi della "economia politica dell'antisemitismo"; anziché abbandonare il paradigma debole e obsoleto del socialismo di Stato, e passare a una critica abolizionista emancipatrice dell'astrazione reale feticista. Così, la nostalgia keynesiana della sinistra diventa il motore inconsapevole di una nuova ondata antisemita di interpretazione fantasmatica della crisi, che nella sua forma rimane ancora poco chiara. All'estrema destra del conservatorismo e nello spettro della destra radicale, delle bande di skinhead, dell'esercito tedesco, ecc., stanno già fiorendo apertamente gli slogan antisemiti e si verificano gli "incidenti". Mai negli ultimi 50 anni è apparso così chiaro come oggi che l'antisemitismo ormai potrà scomparire solo insieme al capitalismo. Nella crisi, quella che viene evocata è proprio questa verità elementare: il "dormiente" si risveglia e i demoni ritornano.

- Robert Kurz - Pubblicato il 29/6/2025 - Fonte: História e Desamparo

martedì 5 agosto 2025

Lo Spensierato Antisionismo della Sinistra !!

L'anti -imperialismo e l'ideologia di crisi antisemitica
- di Robert Kurz -

Visto che i regimi petroliferi clericali, completamente anacronistici, così come i regimi petroliferi capitalisti finanziari, sono sempre stati un sostegno troppo precario, nella regione del petrolio centrale c'era bisogno di un'ulteriore potenza di sicurezza; e non era certo un segreto che lo Stato di Israele svolgesse in gran parte - per quanto non senza contraddizioni - questa funzione di stampella per "l'imperialismo collettivo ideale" occidentale, contro gli incerti "cantonisti" dei regimi arabi, minacciati nei loro paesi dal risentimento anti-occidentale, che devono pagare come prezzo amaro per la loro esistenza. È questa la sola ragione per cui Israele è stato protetto dagli Stati Uniti, e abbondantemente equipaggiato con gli ultimi sistemi di armi ad alta tecnologia, e massicciamente foraggiato dagli stati occidentali. Solo con i suoi propri mezzi, non sarebbe di certo economicamente sostenibili, quanto meno non al suo attuale livello di vita, che per i suoi standard Western High-Deploded  si distingue nettamente dai paesi arabi circostanti (secondo quello che, a dire il vero, lo stesso scarto crescente tra ricchezza e povertà in Occidente). Questi fatti economici e politico-militari sono stati - e continuano sempre a essere - ripetutamente invocati contro Israele, con aggressività furiosa, da posizioni "anti-imperialiste" tradizionalmente di sinistra. Queta designazione del nemico trova la sua origine nel contesto di un paradigma della "liberazione nazionale" che viene da lungo tempo evocata come forma della modernizzazione ritardata per la periferia Sud del mercato globale. Fino a oggi, Israele è stata considerata, nel contesto del Terzo Mondo, come uno sbirro imperialista e  come uno "stato poliziotto" che non dovrebbe nemmeno esistere. Il nazionalismo e l'espansionismo israeliano - svolto attraverso il movimento della colonizzazione e della conquista militare -   sono percepiti esclusivamente come l'incarnazione stessa del nazionalismo, mentre l'autodefinizione etno-religiosa dello Stato israeliano (che comprende la discriminazione ufficiale e giuridica dei cittadini non ebrei) viene intrepretata come l'incarnazione stessa del razzismo. La contro-potenza sovietica dei ritardatari storici, alla periferia del mercato mondiale, con la sua ideologia di legittimazione “marxista”, aveva sempre cercato di stringere un'alleanza con i regimi laici arabi modernizzatori e, sotto la rappresentazione del concetto di "sionismo", aveva costruito un'immagine nemica anti-israeliana che rispecchiava l'alleanza di Israele con il capitalismo e con l'imperialismo occidentali - «Durante la Guerra Fredda, Israele era un prezioso alleato militare (degli Stati Uniti), il suo esercito testava sistemi d'armamento, i suoi servizi segreti erano disponibili per quelle operazioni che la CIA non poteva eseguire» (Birnbaum 2002). Durante la Guerra Fredda, la più parte della sinistra politica, in tutto il mondo, ha fatto propria questa immagine nemica sotto il titolo di “antisionismo”. Israele è stato così del tutto assorbito nella costellazione dei conflitti che era allora dominante nei movimenti “nazional-rivoluzionari” anti-imperialisti del Terzo Mondo contro l'impero occidentale della Pax Americana. Il prezzo che Israele doveva pagare all'imperialismo, per la sua esistenza, è stato così trasformato in un argomento “antimperialista” contro questa esistenza stessa. Ciò ha tuttavia comportato l'occultamento di un aspetto del tutto diverso - e di una dimensione molto più significativa dello sviluppo capitalistico mondiale - che l'antimperialismo tradizionale non poteva e non voleva percepire a partire dalla propria prospettiva riduttiva. Questa visione, infatti, trascurava il ruolo decisivo svolto dall'antisemitismo nella formazione dell'ideologia borghese, e pertanto anche quello che costituiva un livello centrale di contraddizione dell'imperialismo stesso. Sebbene la sinistra avesse sempre stigmatizzato Auschwitz e l'Olocausto, come un grande crimine dei nazisti, essa aveva comunque minimizzato il ruolo dell'antisemitismo e - in ogni caso - non aveva voluto considerarlo essenziale, o costitutivo del nazionalsocialismo in particolare, e del capitalismo in generale. In ultima analisi, questa specifica mancanza di concetti può essere spiegata a partire dal deficit generale che ha fatto sì che la sinistra marxista, operaia e antimperialista - sia al centro che alla periferia - rimanesse limitata alle categorie sociali del rapporto capitalistico (del moderno sistema di produzione di merci): vale a dire, proprio a quell'opzione di uguaglianza giuridico-politica dei cittadini, partecipazione e cogestione della “classe operaia” e delle sue istituzioni, da un lato; e all'opzione di una modernizzazione di recupero e di una partecipazione autonoma al mercato mondiale come soggetto economico nazionale e statale, dall'altro. Da questa prospettiva, in cui (sia per i socialdemocratici che per i leninisti), tanto un limite oggettivo quanto una crisi delle categorie sociali capitalistiche apparivano impensabili, ecco che allora l'attenzione doveva concentrarsi sul contenuto e sull'orizzonte degli interessi socio-economici e politici (apparentemente razionali) delle ideologie. In altre parole: l'ideologia veniva attribuita al contesto degli interessi dei soggetti del sistema di produzione delle merci: “classe operaia” contro “classe capitalista”, “liberazione nazionale” contro “imperialismo”. Pertanto, nella migliore delle ipotesi l'antisemitismo moderno poteva quindi essere inteso come una sorta di manovra ideologica secondaria da parte della “classe dominante”, oppure come una specifica ideologia della "piccola borghesia", dovuta a interessi concorrenti, con la quale si voleva distrarre la “classe operaia”, o i “popoli oppressi”, dai loro reali interessi (teoria della manipolazione). Ancora una volta, veniva completamente ignorata la dimensione ideologica di quello che è il comune contesto sociale, trasversale alle classi e alle nazioni, e storicamente oggettivato e costituito da lavoro astratto, dal valore, dalla forma merce, dal denaro, dalla produzione aziendale, dal mercato (mondiale) e dallo Stato. Questo contesto appariva invece, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, come il fondamento ontologico insuperabile della socialità in generale.

   Quello che è rimasto così incompreso, è stato perciò il fatto che il moderno sistema di produzione di merci non solo riveste e maschera ideologicamente, all'interno di questa forma, degli “interessi” apparentemente e superficialmente divergenti; ma anche che dalle contraddizioni e dalle crisi della costituzione moderna che abbraccia tutte le categorie sociali nascono anche delle ideologie comuni e trasversali alle classi, le quali sono molto più significative e pericolose di quanto lo sia la legittimazione trasparente e superficiale degli “interessi” capitalistici nelle diverse classi, strati sociali e funzionari. In tal modo, tutti gli aspetti di quella che è la “visione del mondo”, così come i modelli esplicativi e le idee che guidano l'azione e che non sembravano derivabili dalla sociologia di classe, sono stati invece fraintesi in quella che è la loro portata, e sono stati liquidati in quanto semplici manovre diversive. La sinistra operaia e marxista, così come anche e soprattutto la sinistra radicale (e non da meno la sinistra anarchica), non si era nemmeno resa conto di aver accolto positivamente - in quanto “eredità” dell'ideologia protestante e illuminista, e della storia del pensiero che aveva portato alla formazione del sistema di produzione delle merci - degli elementi essenziali dell'ideologia borghese. Ciò includeva, in particolare, la santificazione del "lavoro" astratto, il quale, nel suo carattere di repressivo fine in sé stesso, si era direttamente trasferito, passando dalle idee del protestantesimo e del cosiddetto Illuminismo del XVIII secolo, nell'ideologia del movimento operaio. Proprio sostenendo il “lavoro” in quanto punto di riferimento centrale apparentemente opposto al capitale, la sinistra non stava facendo altro che contrapporre uno dei due stati del capitale all'altro. In tal modo, il “lavoro” non appariva per quello che è - ovvero la forma di attività specificamente capitalistica (“lavoro astratto” secondo Marx), vale a dire, un concetto che appartiene interamente al capitale, e che corrisponde a una relazione - ma come categoria ontologica dell'umanità. Da questa centralità ideologica condivisa con il capitale - a sua volta definito in modo puramente esteriore e sociologicamente riduttivo in quanto avversario - dovevano inevitabilmente derivare, da un lato, degli ulteriori punti in comune non ammessi, e, dall'altro, una totale sottovalutazione delle ideologie di crisi e di distruzione, trasversali alle classi sociali, rappresentate dal razzismo e dall'antisemitismo. Poiché il movimento operaio occidentale, i regimi orientali in fase di modernizzazione e i “movimenti di liberazione nazionale” del sud del mondo agivano solo ed esclusivamente nell’ambito delle forme sociali comuni al capitale, e affermavano per mezzo del “lavoro” la forma di attività capitalistica, essi potevano formulare solo una critica riduttiva della relazione capitalistica, la quale rimaneva ben al di sotto della concezione marxiana del capitale visto come rapporto feticistico irrazionale. Da un lato si lamentava solo ed esclusivamente la mancanza di capacità di regolamentazione statale del sistema di produzione delle merci, da parte della sua rappresentanza borghese, mentre dall'altro si criticava la subordinazione del “lavoro produttivo” al “capitale finanziario”, senza tuttavia riconoscere il nesso interno mediato (e, oltretutto, su una scala crescente di crisi) tra “lavoro produttivo” e “capitale finanziario” (capitale monetario fruttifero e speculativo). Questa critica al capitalismo, notoriamente riduttiva, ha sempre avuto dei punti di contatto con l'ideologia antisemita. L'antisemitismo, è riuscito ad affermarsi come potente ideologia di crisi della modernità, proprio perché ha esternalizzato e naturalizzato in termini socio-biologici quelle che erano le contraddizioni interne della società capitalistica, e di tutti i suoi soggetti: “Gli ebrei” vennero dichiarati essere rappresentanza negativa del capitalismo finanziario “improduttivo”, e vennero visti come l'incarnazione di tutti i fenomeni distruttivi della società moderna produttrice di merci, riprendendo delle attribuzioni pertinenti che erano già presenti fin dal Medioevo e dall'inizio dell'età moderna. Al contrario, il “lavoro onesto” e il “capitale produttivo” dovevano invece venire considerati come se fossero l'antitesi positiva; com'è noto, i nazisti contrapponevano ideologicamente il capitale “accumulatore” (“ebraico”) al capitale “creativo” (‘tedesco’ o “nazionale”). In tal modo, al posto di una critica delle forme reali, e trasversali alle classi, del sistema di produzione delle merci, subentrò l'attribuzione maligna, riferita a un gruppo particolare di soggetti definiti “razzialmente” e secondo la parola d'ordine: "Lavoro":  Valore, Merce, Denaro e forma del Capitale sarebbero stati meravigliosi e benefici, se solo non ci fossero gli Ebrei! Era questa l'attribuzione che pretendeva di “spiegare” il contesto di per sé irrazionale del sistema, a partire da una dimensione aggiuntiva di irrazionalità secondaria, e che diventava la spiegazione ideologica per eccellenza dell'omicidio.

   L'ideologia del movimento operaio e quella del “movimento di liberazione nazionale” anticolonialista, si sono sempre distinte dalle correnti apertamente antisemite, basandosi non sulla fantomatica “contrapposizione razziale”, ma sulla contrapposizione di classe sociale e  sulla contrapposizione degli interessi nazionali, tra economie coloniali o postcoloniali, tra Stati nazionali e imperialismo occidentale. Ma, come prima cosa, anche questa “ideologia di liberazione” sociale, apparentemente più razionale, rimase però, analogamente all'antisemitismo, sul piano soggettivo dei rapporti di volontà e di potere, senza toccare il piano della costituzione di questi soggetti (cioè, la loro formazione attraverso le categorie del sistema di produzione delle merci). A essere oggetto di critica, non era la negatività del contesto formale comune, e quindi anche la propria forma soggettiva, ma soltanto il “potere” negativo dei “contro-soggetti”: allo stesso modo in cui - nel caso degli antisemiti - si trattava solamente del potere soggettivo e della malvagità che venivano attribuiti alla “contro-razza ebraica”; nel caso del movimento operaio, c'era il potere soggettivo e il presunto “potere di disposizione” della “contro-classe sociale”; infine, nel caso dei “movimenti di liberazione nazionale”, avevamo invece il potere soggettivo e il potere di intervento globale delle potenze imperiali centrali. Dal momento che, come per l'antisemitismo, rimanevano tutti sullo stesso piano logico della soggettività di una volontà che veniva semplicemente “imposta”, e non derivata dal contesto sociale, ma risultante piuttosto da una critica del capitalismo che era altrettanto (sebbene non identica) riduttiva; anche il movimento operaio, il “movimento di liberazione nazionale” e la sinistra radicale non potevano rendersi conto di quali fossero i loro impliciti punti di contatto con l'antisemitismo.  La riduzione dell'orizzonte sociologico di classe, alla forma di interesse costituita dal capitalismo e all'ontologia sovrastorica del “lavoro”, hanno dato origine all'illusione secondo cui la “classe operaia” e i “popoli oppressi” fossero già “di per sé” delle forze trascendenti, indipendentemente dalla loro reale coscienza, il cui potere apparentemente “oggettivo” di superare il sistema doveva solamente essere richiamato attraverso le “lotte” sociali. La forma di concorrenza inerente alla loro forma soggettiva costituita, sembrava che fosse solo un comportamento meramente esteriore, imposto dal “contropotere” soggettivo, “non autentico” e fondamentalmente estraneo; quindi anche l'antisemitismo sarebbe stato perciò un'ideologia “estranea alla classe”, imposta solo per errore o per manipolazione. A questo modo di pensare, doveva sfuggire completamente il fatto che l'emancipazione sociale dal rapporto di capitale, è sì possibile in linea di principio, ma non lo è affatto “di per sé”, e già insita nella posizione “oggettiva” di determinate classi, o di altri soggetti moderni presenti nella struttura del sistema di produzione delle merci; un'illusione oggettivista, questa, così come quella formulata anche da Marx, in contrasto con la sua stessa teoria critica della modernità, vista invece come rapporto sociale feticistico. Piuttosto, bisogna dire che tutti i soggetti di questo sistema, senza eccezioni, e quindi anche la “classe operaia”, i “popoli oppressi” ecc., sono tutti ugualmente lontani dal transitare verso l'emancipazione da questa forma sociale negativa, solo in virtù di quella che è la loro forma (forma di riproduzione e forma soggettiva) costituita a partire dal sistema stesso. Contro questa forma, è possibile lo sviluppo di una coscienza critica radicale (una coscienza che la sinistra radicale non ha ancora raggiunto, per non parlare dei movimenti sociali); ma lo è solo attraverso l'elaborazione negativa delle esperienze di sofferenza e di soppressione che avvengono sotto questa forma, e non per una ragione ontologica positiva. Non esiste alcuna determinazione ontologica, che sia situata “al di fuori” o “al di sotto” del sistema (ad esempio nella forma del lavoro), e che possa pertanto essere utilizzata come se fosse una leva oggettiva per riuscire a rovesciare il rapporto sociale repressivo e distruttivo. Ragion per cui, le “lotte” sociali, e quelle di altro tipo, non sono di per sé emancipatorie, e non lo sono nemmeno le "lotte" della classe operaia, o quelle dei gruppi oppressi, e delle minoranze, ecc.

   Piuttosto, la "lotta" che avviene sotto la forma della concorrenza, è la forma di movimento generale del sistema capitalistico stesso. Ciò vale anche per le varie forme di "prosecuzione della concorrenza con altri mezzi", in particolare la violenza diretta. Superare la forma della concorrenza, cioè anche la propria forma soggettiva, richiede, come disse una volta Marx, una “coscienza enorme”, la quale non viene affatto suggerita dalle circostanze stesse. Quella che invece si sviluppa spontaneamente, è la concorrenza all'ultimo sangue all'interno della forma soggettiva comune costituita. La concorrenza tra lavoratori salariati e rappresentanti del capitale (management, associazioni imprenditoriali, ecc.) costituisce solo un livello all'interno delle molteplici forme di concorrenza. Ciò include naturalmente la concorrenza tra i singoli capitali stessi, tra i diversi settori, tra le fazioni e i gruppi di lavoratori salariati, tra le economie nazionali/gli Stati nazionali, ecc.; ma anche la connotazione “etnica” e razzista dei rapporti di concorrenza e, infine (come reazione estrema), la loro apparente trascendenza antisemita. Ma è proprio questo intreccio di una complessa rete di molteplici linee di concorrenza, a non essere affatto soggettivo-manipolatorio, quanto piuttosto oggettivamente fondato sulla forma soggettiva generale del sistema di produzione delle merci attraverso il lavoro, il denaro e lo Stato, mentre invece la fuga emancipatoria dalla «gabbia di ferro» di questa forma, non può affatto essere oggettivamente fondata nel senso di una determinazione del comportamento. Presupponendo il sistema di produzione delle merci e la sua forma di attività astratta e irrazionale come una determinazione ontologica insuperabile, potrebbe benissimo essere nell'interesse “oggettivo” dei lavoratori salariati caratterizzare la loro concorrenza in maniera nazionalista, razzista, ecc., oppure cercare di sfuggirle in modo fantasmatico attraverso l'ideologia antisemita. Di certo, nella storia del movimento operaio c'è stato anche qualcosa di simile a un desiderio trascendente di liberarsi dal giogo della concorrenza, il desiderio di una società solidale, al di là del sistema moderno. Questi momenti di eccessiva esuberanza, sono però rimasti tutti insoddisfatti, proprio perché i movimenti sociali della modernità non sono riusciti a concepire una tale trascendenza, e pertanto non sono stati in grado di agire di conseguenza. La critica riduttiva del capitalismo, svolto all'interno delle forme stesse del capitale, è rimasta necessariamente bloccata, anche nelle sue forme di concorrenza. Pertanto, il reciproco massacro dei lavoratori salariati nelle guerre mondiali, non è stato un tradimento, né un comportamento contrario alla loro natura ontologica, quanto piuttosto la conseguenza della loro forma soggettiva, affermatasi anziché criticata. Né i partiti politici dei lavoratori, né i sindacati (già questa divisione in una rappresentanza politica e una sociale, rimanda alla costituzione borghese del movimento operaio) sono mai stati in grado di riuscire a sviluppare una forza solidale che andasse al di là dei rapporti di concorrenza. L'abolizione della concorrenza, rimase parziale e limitata al tema dell'uguaglianza borghese, mentre l'integrazione nei rapporti di concorrenza in quanto tali è rimasta universale. Come già nella lotta quotidiana per gli interessi, regolata istituzionalmente, i movimenti sociali erano permeati dalla logica della concorrenza, così come lo erano anche nell'esplosione di violenza delle guerre mondiali tra le potenze imperialistiche nazionali. In questo contesto, il rischio sociale della concorrenza universale si manifestò direttamente come rischio di morte, rendendo così visibile qual era l'ultima conseguenza della moderna forma soggettiva generale. Lo stesso possiamo dire del potere dell'antisemitismo, e della sconfitta del movimento operaio europeo di fronte al fascismo e al nazionalsocialismo. Anche questa catastrofe è stata una conseguenza dell'essersi coinvolti nel sistema della concorrenza universale. Esiste addirittura un nesso diretto tra il proseguimento della concorrenza attraverso le guerre mondiali e l'emergere dell'antisemitismo in tutte le classi e strati sociali.

   I sindacati, i partiti marxisti e persino la sinistra radicale sono stati creati solo per risolvere il presunto conflitto “razionale” di quelli che sono degli interessi nella forma del sistema di produzione delle merci. Anche l'escalation militante della lotta, non ha mai abbandonato questo spazio di razionalità borghese. La sinistra ha ignorato il carattere intrinsecamente irrazionale del sistema, ed è avvenuto sempre per questo motivo, anche durante le crisi, che essa è stata regolarmente travolta dalla potente esplosione di questa irrazionalità. Mentre la sinistra, anche nelle crisi più gravi, voleva mantenere l'interesse “razionale” nella forma borghese, e nonostante il temporaneo crollo oggettivo di questa forma, l'antisemitismo faceva invece valere l'irrazionalità dell'interesse stesso, in quanto volontà di emarginazione e distruzione, e proprio per questo otteneva un potente effetto sociale. L'antisemitismo (a differenza del razzismo comune) non è una forma di concorrenza tra le altre, ma è l'ultima ratio della concorrenza, in una situazione nella quale lo svolgimento immanente e apparentemente razionale della concorrenza diventa senza alcuna via d'uscita. In una situazione del genere, la forma soggettiva borghese generale rischia di crollare. L'antisemitismo, promette una via d'uscita senza mettere in discussione quella forma soggettiva comune del sistema, e lo fa esternalizzando il problema in modo irrazionale e omicida. Così, nonostante, e anzi proprio a causa del  suo primitivismo intellettuale, può esercitare un'attrazione, trasversale alle classi, su quella che è una grande massa di individui costituiti capitalisticamente; dai disoccupati ai manager, dai contadini senza terra del Terzo Mondo ai principi del petrolio, dai meccanici agli investitori bancari, dalle madri single alle modelle, dagli studenti speciali agli intellettuali con formazione accademica. In altre parole: la sindrome antisemita costituisce l'ultima ed estrema "riserva ideologica di crisi del moderno sistema di produzione di merci". L'antisemitismo, si annida nella forma soggettiva borghese generale stessa; esso viene regolarmente richiamato nei momenti di crisi, e tanto più massicciamente quanto più violenta è la crisi. Così, l'epoca delle guerre mondiali e della grande crisi economica globale è stata accompagnata da un'ondata senza precedenti di antisemitismo. La Germania, che, nella sua specifica storia di formazione della nazione capitalistica, aveva incubato una versione particolarmente aggressiva ed eliminatoria della sindrome antisemita, con un particolare profondo impatto sociale, questa ondata aveva travolto le stesse istituzioni statali: qui, nella sua situazione di crisi economica mondiale, l'antisemitismo non venne utilizzato solo come valvola di sfogo per l'aggressività sociale repressa dei rapporti di concorrenza, ma venne elevato a dottrina di Stato, e fu realizzato come crimine contro l'umanità, nell'Olocausto. Non è affatto un caso che il nazionalsocialismo tedesco abbia contemporaneamente costituito una formazione sociale, in cui la pulsione di morte si manifestò in misura senza precedenti a partire dalla forma vuota della soggettività capitalistica. La logica dell'antisemitismo, e l'intrinseca pulsione di morte e distruzione della soggettività capitalistica, sono infatti strettamente correlate; il latente impulso irrazionale alla distruzione del mondo, nel vuoto metafisico del valore e del suo movimento di valorizzazione fine a sé stesso, si esprime nella sua forma più estrema sotto forma di desiderio di sterminio degli ebrei e, allo stesso tempo, come desiderio di autodistruzione, come desiderio di distruzione dell'esistenza fisica in generale. Dal punto di vista puramente esteriore, militare e politico-militare, i nazisti hanno perso la seconda guerra mondiale; ma in quella che finora è stata la realizzazione più ampia del desiderio di distruzione del mondo, che si annida nel profondo del capitale, essi hanno avuto un enorme successo nell'essere identificati con lo sterminio industriale degli ebrei e con l'autodistruzione organizzata. La sinistra - imprigionata in una razionalità borghese superficiale, incapace di criticare le forme capitalistiche di base, e quindi anche di criticare e liberarsi dalla propria forma soggettiva costituita dal capitalismo - non poteva che trascurare il vuoto di questa forma, la potenza demoniaca della pura irrazionalità in essa insita, e le sue conseguenze distruttive, e quindi anche l'essenza dell'antisemitismo moderno. Il rovescio della medaglia di questo deficit catastrofico, dopo la seconda guerra mondiale, è stato l'altrettanto deficitario e spensierato antisionismo della sinistra, la quale non voleva riconoscere lo Stato ebraico - nella sua dimensione storica mondiale e capitalista mondiale,  come conseguenza dell'antisemitismo moderno - ma ha sottomesso Israele al paradigma antimperialista dei movimenti rivoluzionari nazionali del Terzo Mondo, la cui critica al capitalismo era ancora più riduttiva di quella svolta dal movimento operaio occidentale.

- Robert Kurz - da «Der Antiimperialismus und die antisemitische Krisenideologie», in  "WELTORDNUNGSKRIEG. Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus im Zeitalter der Globalisierung" - © 2003 Horlemann -

La forza delle Parole !!

«Conosco la forza delle parole
conosco delle parole il suono a martello
Non sono di quelle a cui plaudono i palchi
Sono parole per cui le bare  si slanciano
a camminare sui loro quattro piedini di quercia
Succede che le buttino via senza stamparle senza pubblicarle
Ma la parola galoppa con le cinghie tese
fa risonare i secoli e i treni strisciano
a leccare le mani callose della poesia
Conosco la forza delle parole. Sembra un niente
Un petalo caduto sotto i tacchi della danza
Ma l’uomo con l’anima le labbra le ossa....»

- Vladimir Majakovskij, Frammenti, 14 aprile 1930 -

Genocidio, un grido di propaganda politica
- Perché descrivere ciò che succede a Gaza con criteri moralistici non risolverà il conflitto. Anzi -
di Andrea Graziosi

Il 23 luglio Omer Bartov, uno storico di valore, ha scritto sul New York Times un articolo subito citatissimo in cui ha dichiarato di poter affermare, da studioso dei genocidi, che a Gaza Israele ne sta commettendo uno. Anna Foa si è schierata con lui sabato scorso sulla Repubblica e dichiarazioni dello stesso tipo si moltiplicano, generando sorpresa e angoscia. Avviare una discussione è difficile, e anche deprimente e forse inutile. Si tratta infatti di prese di posizione politiche tese soprattutto a influire sulla politica interna israeliana, che si inseriscono però in una situazione internazionale tesa e priva di luci.

   Avendo studiato a lungo le violenze categoriali di massa (dirette cioè contro gruppi specifici) e avendo dato un contributo agli studi sul genocidio, mi sembra tuttavia di poter offrire degli elementi per riflettere. Penso infatti che queste posizioni, sostenute anche da persone a me diversamente care, siano fondamentalmente sbagliate, soprattutto da un punto di vista scientifico, che è quello a me più vicino, ma anche, e tragicamente, da quello politico. Dal punto di vista scientifico esse rispecchiano la svolta, cominciata negli anni Novanta e oggi dominante nel campo degli studi sui genocidi, che ha portato a definire “genocidi” eventi, sia pure terribili, che non lo sarebbero nemmeno alla luce della sorprendentemente larga definizione che di genocidio hanno dato le Nazioni Unite nel 1948, una definizione che è, ricordiamolo, giuridica e non un concetto intellettuale di interpretazione della realtà. Questa svolta, che è anche il portato di logiche accademiche di espansione dei confini del campo, è testimoniata con chiarezza dalla recente Cambridge World History of Genocide, espressione di un fallimento scientifico causato dall’adozione di criteri moralistici e politici, che hanno a loro volta generato un fallimento che è paradossalmente morale oltre che scientifico.
    Come altro definire il sostenere – seguendo giuristi che fanno un altro mestiere – che sia un “genocidio” la pur tremenda esecuzione di migliaia di maschi bosniaci adulti a Srebrenica? O che lo siano processi storici durati centinaia di anni, con centinaia di attori o ideologie diverse, come quelli, certo disumani, accaduti nelle colonie europee, e non solo in esse? O che sia tale quanto è successo finora a Gaza, dove i morti provocati dalla guerra sono tanti (secondo Hamas 60.000 fino a oggi, di cui 40.000 nei primi 10 mesi seguiti all’invasione), ma dove la stragrande maggioranza dei palestinesi per fortuna vive, sia pure tra sofferenze acutissime, mentre due milioni di israeliani di origine araba vivono, certo magari con angoscia e timore, lavorano e votano nello stato “genocida”? Se questi sono esempi di genocidio, allora qualunque guerra o eccidio di massa lo è. Ma come qualificare allora gli orrori straordinari per cui il termine fu creato? Se Srebrenica e Gaza sono genocidi, cosa sono i quasi sei milioni di ebrei uccisi sistematicamente, ovunque fossero? Come definire i 3,5 milioni di ucraini fatti morire di fame in soli quattro mesi nel 1933; il milione e mezzo di armeni massacrati nella Prima guerra mondiale; i tre milioni di prigionieri di guerra sovietici lasciati morire di fame nel 1941-42 o i dodici milioni di tedeschi deportati e i 300-400.000 linciati del 1945-1946, tutti eventi che hanno evidentemente una natura diversa? E perché non sono genocidi il massacro e l’evacuazione di greci e armeni da Smirne nel 1922 o le tante violenze categoriali di massa, ciascuna con migliaia e anche decine di migliaia di vittime, che hanno punteggiato la storia mondiale degli ultimi secoli? Se tutto è uguale, se si può comparare l’evidentemente incomparabile, si perde ogni capacità di comprensione e discernimento, e l’interpretazione (e quindi la qualifica) dipenderanno solo dai rapporti di forza politico-ideologici, dalle passioni morali e dagli interessi, cosa forse inevitabile ma che conduce una disciplina scientifica appunto alla disfatta intellettuale. La categoria stessa di genocidio è diventata infatti inutile per capire, che vuol dire anche distinguere, tramutandosi in un potente strumento di lotta politica. E, cosa ancor più grave, la sua sacralizzazione si sta trasformando, per esempio in Ruanda (dove pure un genocidio c’è stato), in uno strumento di potere nelle mani della minoranza dominante.
    Prima di discuterne specificamente, ma non solo, di Gaza, va detto che qui è in corso una catastrofe umana che potrebbe avere esiti terribili, e che è anche una catastrofe politica, intellettuale e discorsiva. Le radici (e le colpe) storiche sono chiare e ne faccio un breve sunto, scusandomi per la sua lunghezza necessaria: uno stato palestinese non costituito per la contrarietà dei paesi arabi; paesi arabi che non hanno accolto i profughi palestinesi, al contrario di Israele che accolse invece gli ebrei cacciati da quegli stessi paesi, di numero circa equivalente; l’atteggiamento moralistico e irresponsabile del diritto internazionale dopo il 1948 e poi e soprattutto a partire dagli anni Ottanta; la propaganda sovietica e il comportamento del mondo comunista, che già dagli anni Sessanta gridava quello che ascoltiamo oggi su imperialismo, coloni, lotta di liberazione ecc. (si può leggere a proposito il saggio su Tablet di Izabella Tabarovsky, Zombie Anti-Zionism); le Nazioni Unite, che hanno nutrito e finanziato il problema dei rifugiati, senza fare nulla per risolverlo, anche per convenienze burocratiche oltre che per motivi politici; la destra e l’estrema destra israeliana, che hanno giocato un ruolo crescente e sempre più velenoso a partire dagli anni Settanta; la cecità dell’Olp che rifiutò gli accordi di Oslo del 1993 (definiti una Versailles da intellettuali irresponsabili ma acclamati come Said) e poi le proposte di Clinton nel 2000; Hamas, che è la principale responsabile della tragedia in corso, e Sharon che le consegnò Gaza anche per indebolire l’Olp; l’asse creato da Teheran; gli interessi, gli errori e i crimini di Netanyahu e le ideologie e le pratiche crudeli e perverse di una parte dei coloni, alcuni dei quali si potrebbero definire “aspiranti genocidi”; l’irrealismo di Trump e naturalmente la povertà intellettuale della sinistra moralista che legge la situazione in termini di opposizione binaria, palestinesi=Gaza contro israeliani=estremisti e coloni, ignorando Hamas (di cui sono paesi arabi e Olp a chiedere una resa che porrebbe fine alla fase acuta del dramma), i conflitti interni al mondo palestinese e a quello israeliano, e la posizione dei paesi arabi che sono oggi di fatto i principali alleati di Israele, anche se continuano a non volerne sapere dei palestinesi. Questo cocktail mortale ha condotto all’errore dell’invasione militare di Gaza, errore tuttavia forse inevitabile, dato che il massacro del 7 ottobre – che gridava “se possiamo vi ammazziamo tutti” – aveva chiaramente manifestato la volontà di Hamas di mettere fine allo stato di Israele (come oggi sappiamo, nei mesi precedenti i capi di Hamas tenesse riunioni su cosa fare degli ebrei nella Palestina liberata). Un problema spinosissimo e fonte di continue tensioni e sofferenze, che ha in Hamas il suo nocciolo e che era forse almeno in parte gestibile, si è così trasformato, per il coinvolgimento inevitabile di una popolazione civile che in parte collude con Hamas e in parte la subisce, in un problema dagli esiti potenzialmente catastrofici. Si tratta di una questione che fino al 1948 sarebbe stata probabilmente gestita con un esodo organizzato di massa, come successe nel Caucaso meridionale occupato dai russi nell’Ottocento, a Smirne, nei Sudeti o in Slesia, e in piccolo e in modo diverso anche in Istria, e che oggi rischia di degenerare in sofferenze inaudite a causa del combinato di interessi politici, retoriche nazionalistiche e moralismo irrealistico. Se ci si interroga sulle radici di quest’ultimo, è evidente che esse affondano nel moto di repulsione europea di fronte alla terribile natura delle guerre accese dal nostro continente nella prima parte del secolo scorso, un moto di repulsione diventato “occidentale” con la nascita, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, di un nuovo Occidente guidato da Stati Uniti allora ancora sostanzialmente europei, alle cui convulsioni terminali stiamo assistendo da circa quindici anni.
   Questa spinta iniziale però non basta a comprendere la forza e la pervasività di un fenomeno rivalitalizzato negli anni Ottanta dal collasso del socialismo. Nell’Italia di Berlinguer, come nell’Urss di Gorbachev, la vecchia ideologia fu sostituito da un nuovo insieme che trovava proprio nel moralismo (cioè in un elenco di buone intenzioni prive di teoria e quindi di operatività pratica) il collante che sostituiva il marxismo. Vale la pena di andare a leggere il discorso tenuto dall’allora ministro degli Esteri sovietico Shevardnadze all’Unesco a fine 1988, coi suoi appelli all’unità del mondo, alla scelta libera, al pluralismo politico e culturale, al dialogo e al diritto come sostituti della forza, alla pace attraverso la saggezza, alla forza della politica contro la politica della forza e alla supremazia del diritto internazionale negli affari internazionali. La “moralizzazione” della sinistra, e quindi di buona parte della intelligentsia occidentale derivano quindi dal fallimento ideologico delle sue teorie precedenti. E sarebbe bene ricordare che la benevolente ideologia globalista, che ha trovato nei diritti il suo nutrimento principale, è il frutto della catastrofe intellettuale della sinistra oltre che delle illusioni “neoliberali”. E’ in questo clima che il genocidio, un termine fino agli anni Ottanta riservato solo alla Shoah (era allora difficile persino far accettare che lo si potesse usare per il grande massacro armeno o per la carestia ucraina), cominciò la sua corsa verso una illimitata estensione. Era una corsa alimentata appunto dal moralismo, specie della sinistra; dalla possibilità di scaricare sull’Occidente colpe prima imputate al capitalismo; ma anche dalla pressione delle vittime di comportamenti crudeli che vedevano nel riconoscimento che sì, anche il loro era stato un genocidio, un risarcimento delle loro sofferenze e una potente arma di lotta politica, trasformando così paradossalmente il genocidio quasi in un segno di onore e privilegio.
   In questo quadro, un’Israele in larga parte convinta di essere l’unica vittima di una vero genocidio (in fondo il termine stesso era stato inventato da un giurista ebreo per parlare della Shoah) spicca per la sua quasi totale incomprensione dell’importanza dei discorsi nella politica, e specie in quella internazionale, dove almeno in quel che resta dell’Occidente l’opinione pubblica ha un ruolo di grande importanza. Netanyahu e i suoi alleati al governo, in particolare, hanno commesso un errore dopo l’altro, senza prestare alcuna attenzione ai bisogni della popolazione di Gaza (come è nella natura della loro ripugnante ideologia) ma anche agendo come se un problema discorsivo – vala dire la necessità di spiegare e legittimare le proprie scelte – non esistesse, un errore politico catastrofico che Israele pagherà a lungo. La sottovalutazione del problema ha però radici più profonde, legate alla Shoah e non solo: l’impressione è infatti che dietro vi sia talvolta un comprensibile ma sbagliatissimo atteggiamento che si potrebbe riassumere così: tanto lo sappiamo che ce l’avete tutti con noi (cosa del resto abbastanza vera) quindi che ci importa di voi… Questo atteggiamento, questo disprezzo della necessità di spiegare al mondo e farsi capire da esso porta alla rovina. Ad esso dà purtroppo oggi un contributo importante una sinistra ebraica che, presa dalla sua crisi di coscienza e dal desiderio di abbattere il male rappresentato dall’odiato Netanyahu, usa anch’essa il genocidio come arma politica, senza accorgersi di compiere così una scelta irresponsabile. Dato l’innegabile, fortissimo antiebraismo (un termine che sarebbe ora di sostituire a antisemitismo, per fare chiarezza, visto che semiti sono anche i palestinesi e gli arabi in generale) presente nel mondo, accusare gli israeliani di star commettendo un genocidio – cosa peraltro finora non vera se usiamo il termine in modo rigoroso, come è indispensabile, e non come arma politica – avrà probabilmente conseguenze catastrofiche. Si nutre infatti così un odio che già c’è, e si complica, non si facilita, la soluzione del terribile problema di Gaza.
   Israele rischia così una sconfitta che sarebbe prima di tutto politica e ideologica. E come sta perdendo il sostegno di parte delle élite e delle popolazioni europee potrebbe perdere quello degli Stati Uniti o del Canada. Già oggi, per esempio, nord-americani di origine ucraina cominciano, benché ancora sommessamente, a chiedersi se per ottenere che anche quello russo sia dichiarato un genocidio (cosa che non è grazie appunto alla resistenza ucraina, che ha trasformato un probabile genocidio culturale accompagnato da liquidazioni preventive di gruppi dell’élite ucraina in una sia pur terribile guerra), non convenga sostenere la tesi che ve ne sia uno in corso anche a Gaza. Ritorniamo così alla trasformazione del genocidio da strumento di analisi e interpretazione intellettuale a arma di propaganda politica. Contribuire a una soluzione la più umana possibile della crisi umanitaria di Gaza, impedendo che esso degeneri ulteriormente, richiederebbe quindi abbandonare il moralismo e il falso binarismo Israele-Palestinesi (ridotti a Gaza); vedere Hamas e le sue enormi responsabilità e fare pressioni per la sua resa; premere su Israele perché nutra la popolazione di Gaza e la tratti con dignità; e immaginare soluzioni politiche realistiche che non possono che passare da un accordo coi paesi arabi e dalla realizzazione da parte di Israele che nessuno può agire senza spiegare, se non a suo danno, che vuol dire anche fare i conti coi limiti che la morale – non il moralismo – ci impone.

- Andrea Graziosi - Pubblicato il 4/8/2025 su Il Foglio -

lunedì 4 agosto 2025

O Gassati o Nazisti !!!

"Sadici dal cuore puro. Sull'antisionismo contemporaneo", di Gérard Bensussan

«L'antisemita è un sadico che ha un cuore puro», scrisse Sartre.   
In questo libro, vengono esplorate le varie e diverse ambivalenze derivanti da questa proposizione. Si presenta come una riflessione sulla politica contemporanea, impegnata com'è a meditare sui significati del 7 ottobre 2023, e sugli sconvolgimenti politici, affettivi e ideologici che ne sono conseguiti. Esso intreccia più piani e livelli diversi: a partire dalle idee e dalle visioni storiche e teoriche - resesi necessarie a partire dalle innumerevoli falsificazioni relative alle nozioni di sionismo e di antisionismo, inframmezzate e mescolate alle diverse descrizioni dell'ingiusta solitudine inflitta dopo il massacro, così come dell'abbandono che affrontano oggi gli ebrei -  convoca, a sostegno di tutte queste analisi, anche concetti e nozioni quali la Sostituzione, il Paradigma, la Comparazione, la Biopolitica, la Tragedia, la Colpa, l'Innocenza.    
Il linguaggio filosofico, qui mobilitato, cerca di esprimere la specificità di un evento - gli omicidi di massa e i rapimenti del 7 ottobre – e di ascoltare e comprendere le risonanze di quella che è una Ripetizione eternamente nuova, eternamente inattesa ed eternamente ricominciata; vale a dire, la Ricomparsa e la Ripetizione - in quello che è l'antisionismo contemporaneo -  dell'Antisemitismo, che è in grado di immaginarsi gli ebrei soltanto secondo l'alternativa: o gassati o nazisti!

https://www.editions-hermann.fr/livre/des-sadiques-au-coeur-pur-gerard-bensussan

Fuori dal Lavoro ?!!???

Tempo astratto, lotta concreta
- di Christophe Magis* -

«È l'orologio, e non il motore a vapore, la macchina chiave dell'era industriale moderna.» [*1] Chi non è ancora convinto di questa affermazione, fatta a metà degli anni '30 dallo storico americano della tecnologia Lewis Mumford, probabilmente non ne dubiterà più, dopo aver visto l'ultimo film di Cyril Schäublin, "Unrueh" ("Unrest"). Esplorando la vita quotidiana di Saint-Imier - città a orologiera del Giura svizzero nel 1877 - la sceneggiatura è l'occasione per raccontare i movimenti operai della fine del XIX° secolo, in parallelo con le trasformazioni sociali e tecnologiche che hanno segnato gli inizi del capitalismo industriale. E se il film ci permette di vedere quale sia stata l'importanza progressiva assunta dalla ferrovia, dal telegrafo, dalla stampa, dalla fotografia o dalla pubblicità in tutte queste trasformazioni, è, naturalmente, l'orologio quello che si rivela come lo strumento decisivo, in una mise en abyme particolarmente eloquente. Prendendo come eroina Joséphine, una giovane operaia della fabbrica di orologi del villaggio, Schäublin ci mostra la condizione degli operai impiegati per produrre i meccanismi con cui i loro superiori poi valutano le loro prestazioni... vale a dire, per mezzo della produzione di questi stessi meccanismi. «Dobbiamo lavorare più in fretta!»: è questa la richiesta del caposquadra – prima di dettagliare quale fosse il modo migliore per afferrare le parti meccaniche di un orologio in modo da poter così risparmiare qualche secondo prezioso; cosa che potrebbe riassumere qual è l'ingiunzione generale della modernità industriale.

   Ogni secondo va reso efficace in un tempo che diventa esso stesso una matematica astratta per poter giudicare a cosa serve il tempo impiegato. Ma mentre si sviluppa una simile meticolosa disciplina del tempo, si costituisce simultaneamente e parallelamente un'organizzazione concreta della lotta contro questo dominio progressivo delle categorie astratte sulla vita sociale. Così, nelle officine, gli operai cercano di non essere troppo veloci nello svolgere i loro compiti, in modo da riuscire così a mantenere le ingiunzioni alla produttività, entro un perimetro di intensità sopportabile. Ogni pausa sigaretta, ogni scambio, è un'occasione per mantenere una socialità costruita intorno alle relazioni vissute in un tempo che così riacquista così la sua dimensione qualitativa. Esternamente, i loro movimenti sono organizzati a livello locale, così come fanno parte anche di alleanze internazionali di lavoratori e anarchici. Gli orologiai formarono cori, e misero in scena spettacoli per celebrare la Comune di Parigi, spietatamente repressa circa sei anni prima; si scambiano idee direttamente sulle schede elettorali per le elezioni cantonali; si organizzano lotterie a beneficio degli scioperanti impegnati in varie lotte in tutto il mondo. E tutto ciò che può continuare a essere parte di un'organizzazione tradizionale della società: serve come risorsa contro la svolta della razionalizzazione industriale e la reificazione che l'accompagna.

   Inoltre, tra i personaggi del film, vediamo il teorico anarchico Pyotr Kropotkin, geografo di professione, che esplora la regione per redigere una mappa e che non si accontenta certo della pianificazione territoriale imposta dai direttori della manifattura orologiera. Quando questa pianificazione vorrebbe attraversare l'intero luogo, come se esso fosse un gigantesco magazzino, assegnando a ogni appezzamento di terreno una lettera seguita da un numero, Kropotkin allora cerca di ritrovare, tra gli abitanti, quali invece erano i nomi tradizionali, utili a conservare la testimonianza di significati e di usi concreti. Sappiamo quanto la questione della misura astratta e eguale dello spazio, e soprattutto, del tempo, sia al centro del dispiegamento del capitalismo. La generalizzazione del sistema metrico, basato su uno standard del tutto estraneo alla vita sociale concreta — e che inizialmente corrispondeva a un decimilionesimo della metà del meridiano terrestre [*2] — ha finito per spodestare le antiche unità, che erano molto più legate all'esperienza, in quanto si riferivano in particolare al corpo umano (piede, pollice, cubito, ecc.), ma le cui definizioni - che potevano variare a seconda delle particolarità regionali - le avevano rese inadatte per essere inserite in un sistema di scambio generalizzato. La stessa cosa vale anche per l'imposizione di un tempo lineare astratto e regolare, il quale è arrivato a soppiantare le concezioni premoderne, le quali invece parlavano di un tempo variabile, a seconda dell'oggetto a cui esso si applica.

   Documentando in che modo la classe operaia emergente del XVIII° secolo abbia resistito a lungo all'imposizione delle nuove convenzioni temporali, lo storico britannico Edward P. Thompson ci ha mostrato fino a che punto la definizione del tempo e la sua organizzazione strutturino anche le dinamiche storiche della lotta di classe. In Europa, è stato l'uso progressivo del lavoro a costituire il passaggio da un tempo "orientato dal compito" in cui, per il lavoratore, «non c'era quasi nessun conflitto tra il lavoro e il passare del tempo della "giornata"» [3*] e il tempo "dell'orologio", indifferente all'esperienza concreta, caratteristico della disciplina industriale che causa il divorzio del lavoro dalle altre sfere della vita. Tutta questa transizione, punteggiata da conflitti, avvenne molto gradualmente – dalla fabbrica tessile del tardo Medioevo, che richiedeva molto manodopera; insieme al rafforzamento della perfezione della meccanica a orologiera, della morale puritana, delle teorie dell'economia politica e degli apparati urbani di repressione. Inoltre, nella Saint-Imier descritta da Unrueh, oltre al fatto che non meno di quattro misurazioni sono in competizione tra loro (l'ora della chiesa, del municipio, della fabbrica o del telegrafo), anche la polizia è onnipresente, nella persona di due gendarmi, la cui simpatica bonomia rende più diffusa, ma comunque patente, l'autorità pubblica di cui sono i custodi. Oltre alle operazioni di controllo e di repressione della popolazione, essi hanno anche il compito di impostare gli orologi della città.

   L'autorità sa anche essere più astratta. E per far sì che il tempo dell'orologio si imponga su larga scala, alla vigilia del Novecento, era necessaria anche la costituzione di una grande burocrazia amministrativa, di cui il film fornisce uno scorcio. In un'enorme sala, alcuni impiegati raccolgono, archiviano e documentano le prestazioni individuali dei lavoratori, progettando quelli che dovranno essere gli indicatori della loro produttività media, in base ai quali viene poi calcolata direttamente la retribuzione. Alcuni di questi dirigenti amministrativi, che misuravano al secondo i propri spostamenti attraverso la città, abbozzarono quella che poi sarebbe stata la figura di Frederick W. Taylor, il quale avrebbe spinto questa idea della razionalizzazione totale del tempo fino al parossismo, nella sua "organizzazione scientifica del lavoro"; e che, già in gioventù, contava ossessivamente perfino i suoi propri stessi passi [*4]. È stato così che la modernità industriale ha perfezionato le sue risposte alle esigenze economiche di prevedibilità del ciclo di rotazione del capitale, accompagnando la standardizzazione del tempo con una centralizzazione burocratica e una regolamentazione della sua distribuzione. E, al loro livello, anche le organizzazioni operaie hanno dovuto partecipare al movimento! Un passaggio del film - che ci mostra gli stessi dirigenti sindacali alla ricerca di nuovi mercati "orologieri" in cui investire (ad esempio, la nascente sveglia) al fine di mantenere la redditività per i datori di lavoro e, di conseguenza, per salvaguardare diversi posti di lavoro, altrimenti minacciati - illustra questa dialettica con finezza. Come ha mostrato Marx nelle prime pagine del Capitale, la produzione di merci, di cui il capitalismo costituisce la generalizzazione universale, induce una logica sociale specifica nella quale le particolari relazioni tra tempo e valore vengono  intessute attraverso la mediatizzazione del lavoro.

   Introducendo la nozione di "tempo astratto", Moishe Postone ha esposto molto chiaramente queste relazioni. Infatti, dal momento che il valore di una merce viene a essere determinato direttamente dal tempo di lavoro socialmente necessario, nella  media per la sua produzione, ecco che allora «il dispendio di tempo di lavoro si trasforma in una norma temporale che non solo è astratta, ma si oppone e determina l'azione individuale» [5].. Tanto più che ogni secondo risparmiato su questo tempo di lavoro medio necessario, è suscettibile di generare importanti guadagni aggiuntivi, aumentando il plusvalore prodotto dal lavoro – e questo, indipendentemente dall'oggetto concreto per la cui produzione il tempo è effettivamente impiegato. Nel capitalismo, svincolato dalle attività e dal loro scopo concreto, il tempo ha cambiato la sua natura, diventando «una variabile indipendente, misurata in unità convenzionali intercambiabili, misurabili, continue, costanti [...] che funge da misura assoluta del movimento».

   Il tempo che l'individuo sperimenta è ora un tempo svuotato di ogni qualità, che gli si oppone permanentemente, ordinandogli semplicemente di rendere proficuo ogni secondo. Probabilmente, questo si materializza in modo più evidente in ciò che la modernità ha chiamato "tempo libero". Organizzando la vita quotidiana intorno al lavoro, senza tener conto del suo scopo - un semplice dispendio di energia misurato dal ticchettio dell'orologio - il capitalismo ha creato un "tempo libero" che dovrebbe essere l'opposto: un tempo nel corso del quale l'attività cessa di essere regolata in questo modo. Ma, a parte il fatto che questo tempo è stato esso stesso catturato dalla forma merce, diventando così a sua volta un luogo di investimento e un'industria del tempo libero - e quindi impegnato nei propri processi di valorizzazione - ecco che la sua semplice definizione in relazione al tempo di lavoro non gli concede più alcuna autonomia. Le attività svolte in un tale contesto faticano quindi a restituire la qualità del tempo, rappresentando così un vero e proprio "fuori dal lavoro"; finendo per essere piuttosto una semplice estensione di quest'ultimo: devono essere pianificati, devono assicurare di massimizzarne l'utilità, insomma bisogna renderli redditizi. Rimangono così sotto il dominio del tempo astratto, che continua a misurarle. Perciò, nel capitalismo, bisogna passare il proprio tempo a usarlo correttamente! Preferibilmente al lavoro. Fatta eccezione per quelle attività  propedeutiche, che sono comunque sempre e solo un'estensione di esso. Il neoliberismo di oggi e i suoi sottoufficiali, tecnocrati e politici, sanno come far obbedire le persone a questo ordine, e sono sempre più ferventi nelle loro azioni volte a standardizzare sempre di più il tempo, svuotandolo delle sue qualità e rubandolo ai lavoratori grazie all'imperativo della sua maggiore valorizzazione!

   L'aumento della durata legale della settimana, da un lato, o dall'altro la "riforma delle pensioni" e la sua retorica permanente sull'urgenza di aumentare sempre l'età pensionabile insieme al numero di anni di contribuzione – qualunque essi siano, tra l'altro – sono esempi tipici con i quali, di passaggio, le classi dominanti finiscono per condannare sé stesse! Perché dietro l'ingiunzione a "lavorare di più" - indipendentemente dall'uso effettivo dell'orario di lavoro, e al di là dell'evidente trucco che mira - per la questione delle pensioni - ad abbassare le pensioni moltiplicando le carriere "incomplete" - troviamo una concezione astratta del tempo che, in pratica, continua a essere sempre più radicata nella società. E questo tempo astratto, egualitario, senza qualità, nella misura in cui ogni attività, anche se ricreativa, è costretta a essere una mera variazione del lavoro, si applica a tutte le categorie della popolazione – compresi i dominanti – nel momento in cui si stabilisce, come norma sociale, che: «Le forme sociali temporali hanno una vita propria e sono coercitive per tutti i membri della società capitalistica – anche se in un modo che beneficia materialmente la classe dominante.» [*6] Roger Ekirch, ad esempio, ha mostrato l'impatto del mondo industriale sulla definizione moderna del sonno e dei suoi cicli [*7].

   Quando ha preso piede la norma di una notte di otto ore, sostituendo così quello che era il modello antropologicamente più radicato delle due fasi del sonno separate dal risveglio, l'intera società ha finito per esserne colpita. … E così l'intera società è stata colpita anche dai disagi che ne derivano: insonnia e stanchezza tipiche della vita moderna. Lo stesso vale per il rapporto con il tempo. Anche se, ovviamente, a seconda della propria collocazione nella scala sociale, gli effetti non si fanno sentire così duramente: l'esperienza di un tempo senza qualità, che si è condannati a perdere, finisce per condizionare la società nel suo complesso. Tuttavia, su questo tema come su altri, non possiamo aspettarci che le classi dirigenti, mentre partecipano al deterioramento delle condizioni di vita di tutti, prendano coscienza di ciò in cui vanno incontro coinvolgendo gli altri. La protesta può venire solo da quegli "altri" per i quali il cambiamento è reso molto più urgente dalla violenza diretta e intollerabile che viene loro imposta. E in particolare, parallelamente a rivendicazioni più chiare e immediate (settimana di 30 ore?; pensionamento a 60 anni?), si dovrà affrontare, a più lungo termine, la ridefinizione dei modi di abitare il tempo. Invitandoci a considerarlo alla luce delle attività concrete che vi si svolgono, piuttosto che farne il giudice di queste attività, alcuni movimenti sociali negli ultimi anni (ZAD e Gilet Gialli in particolare) hanno delineato una direzione in tal senso. Certo, non si tratta in alcun modo di feticizzare questo o quel residuo fantasticato della società tradizionale, ergendola a dogma, come stanno facendo attualmente le correnti reazionarie, sognando forme premoderne di capitalismo "del buon padre". Ma è sempre più certo che una critica del capitalismo – ben al di là dei suoi soli eccessi neoliberisti – mancherà il suo punto finché non attaccherà questa specifica categoria di tempo che induce e che determina gli individui e il quadro delle loro azioni.

- Christophe Magis *- Pubblicato il 30/5/2025 su  "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme" -

NOTE:
 
*Docente di Scienze dell'Informazione e della Comunicazione, Università di Parigi 8.

[1] Lewis Mumford, Tecniche e civiltà, Routledge & Kegan Paul, Londra, 1934, p. 10.

[2] Va notato che le prime definizioni si riferiscono alla "decimilionesima parte di un quadrante del meridiano terrestre", in un'epoca in cui un meridiano era considerato intorno alla Terra. Cfr. Suzanne Débarbat & Antonio E. Ten (a cura di), Metro e sistema metrico, Observatoire de Paris/Université de Valence, Parigi e Valence, 1993.

[3] Edward P. Thompson, Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, La Fabrique, Parigi, 2004 [1a ed.: 1993], p. 37.

[4] Cfr. Evelyne Jardin, "Il padre dell'organizzazione scientifica del lavoro", Scienze sociali, n° 120, 2001, p. 30.

[5] Moishe Postone, Tempo, lavoro e dominazione sociale, Mille e una notte, Parigi, 2009 [1a ed.: 1993], p. 318.

[6] Ivi, p. 319.

[7] Cfr. Roger Ekirch, La grande trasformazione del sonno, Amsterdam, Parigi, 2021.