mercoledì 6 novembre 2024

I problemi del prefisso “post”, e del prefisso “de”!!

Nell'ottobre 2023, le Edizioni Crise & Critique hanno pubblicato il libro del saggista tedesco JustIn Monday, “La doppia natura del razzismo”. L'autore, che vive ad Amburgo ed è impegnato soprattutto nella teoria marxista eterodossa, ed è particolarmente interessato alla critica dell'ideologia, oltre che alla critica della soggettività e dell'identità, basata su una teoria della storia del capitalismo, e soprattutto del lavoro, della forma-valore e della sua crisi. L'autore mostra come i concetti di razzismo postcoloniale e de-coloniale abbiano i loro limiti al momento di comprendere i cambiamenti del razzismo che non corrispondono al razzismo coloniale. Il disciplinamento del lavoro, la coercizione omogeneizzante dello Stato-nazione e l'auto-razzializzazione associata alla produttività non possono essere utilizzati anche per spiegare l'emergere del razzismo; come ad esempio, quando esso si manifesta contro le popolazioni minoritarie nelle regioni al di fuori dell'Occidente, o contro le popolazioni al di fuori delle metropoli che non sono mai state colonizzate, o i cui antenati non lo sono mai stati. La profonda originalità dell'approccio di JustIn Monday consiste nell'invito a riprendere le questioni irrisolte all'interno della teoria antirazzista del razzismo, ripensando le articolazioni della duplice natura del razzismo: oltre alle immagini stereotipate dello straniero, esso include anche quelle del sé in quanto razza (un'auto-razzializzazione), in cui vengono fatte affermazioni sul modo in cui è, o dovrebbe essere, costituito il legame tra gli individui e la società moderna. L’”idea di razza” non è quindi né un piano né uno “strumento di dominio”, ma un mito che entra in gioco quando si deve difendere il proprio ordine sociale in crisi. Qui di seguito la prefazione inedita dell'autore alla traduzione francese del suo libro.

 


Dopo il post-colonialismo e prima della decolonizzazione: a proposito di un concetto tronco di razzismo; prefazione inedita di JustIn Monday al libro "La Double nature du racisme".

Nell'ottobre 2010, "L’Allemagne disparaît"[*1] di Thilo Sarrazin, pubblicato nell'agosto dello stesso anno, era già il saggio politico di un autore tedesco più venduto dal 2000 a oggi. Il successo del libro si inserisce nel contesto degli ingenti sforzi per consentire al capitale globale di continuare a scorrere contro la sua stessa tendenza al collasso. In Francia, il successo che nel 2014 aveva avuto il libro del polemista e politico di estrema destra, Éric Zemmour, "Le Suicide français", è stato in un certo senso la controparte di questo libro che indica delle tendenze fondamentali all'interno delle rappresentazioni collettive. La questione centrale del legame esistente tra razzismo e crisi della società capitalista, è pertanto all'ordine del giorno, soprattutto dopo la crisi globale del 2008. Ora, questo saggio tenta di rispondere a tale domanda, sviluppando in sostanza la tesi che il razzismo - così come esiste oggi - è composto da due tendenze contraddittorie. Oltre alle immagini stereotipate dello straniero, il razzismo veicola anche un'immagine di sé che comunica ricette sulle relazioni che gli individui devono intrattenere con la società moderna. Queste due tendenze differiscono notevolmente sia per quanto riguarda l' apparizione storica delle rappresentazioni razziste, sia per il loro significato per i soggetti razzisti. Ecco perché il saggio cerca, alla luce di questa distinzione, di mostrare chiaramente in che modo questi due poli si relazionino allo sviluppo storico, segnato da una tendenza alla crisi della socializzazione capitalistica attraverso il valore. Ciò perché sebbene i razzisti rivendichino il loro diritto all'arbitrarietà, essi non sono nella posizione di poter comporre in maniera arbitraria i propri pensieri.

La storicità della crisi, influenza non solo il contenuto del razzismo, ma anche il rapporto tra esso e la forma delle relazioni sociali nella modernità capitalistica. Questa trasformazione è testimoniata sia dall'analisi delle principali immagini e teorie razziste, sia dai problemi causati dalle diverse varianti di quelle che sono le reazioni antirazziste. Anziché affrontare le questioni sollevate dal successo del libro di Thilo Sarrazin, il movimento antirazzista in Germania, le ha in gran parte eluse. Se si vuole valutare in modo pertinente lo stato attuale del movimento antirazzista tedesco, basta guardare al modo in cui viene presentata pubblicamente la campagna nazionale "Seebrücke"[*2]. Questa campagna, oggetto di un consenso all'interno di un ampio spettro della sinistra, organizza manifestazioni e altre azioni urgenti e necessarie per sostenere i rifugiati e gli esuli. A caratterizzarla è il fatto che, nel suo principale testo di presentazione, non compare la parola "razzismo". Mentre il testo delinea i propri obiettivi di quello che dovrebbe essere «un mondo senza recinzioni, campi e sfratti», esso tuttavia non spiega chi è che sta isolando, espellendo e costruendo campi, o il perché. Invece, viene denunciata la mancanza di aiuti: dal momento che «non ci si aspetta più soluzioni dall'Unione Europea», o dagli Stati nazionali, e tutti coloro che «non vogliono rimanere inattivi di fronte a dei disastri umanitari come quello della morte nel Mediterraneo» devono ora trovare delle soluzioni provenienti dalla società civile e dalla base [*3]. Naturalmente, la maggior parte delle persone coinvolte nel Seebrücke sa che, di fronte ai "disastri umanitari", l'Unione Europea e gli Stati nazionali non stanno a guardare, e che, ad esempio, l'esistenza e la missione di Frontex non solo «non sono una soluzione», ma fanno piuttosto parte proprio del problema chiamato "razzismo" Tuttavia, questa consapevolezza non viene affatto messa realmente in evidenza nella campagna. Tuttavia, il Seebrücke non è una di quelle organizzazioni della società civile che - per principio, per convinzione o per non spaventare determinati gruppi di riferimento - non pronuncia la parola "razzismo". Se leggete non solo il suo testo di presentazione, ma anche i vari consigli pratici per gli attivisti, vi imbatterete comunque in quel termine. Alla voce "Do's & Dont's" [*4], leggiamo di un "gruppo di disintegrazione" (Desintegrations-AG) che esorta i membri, in una lunga dichiarazione, a non compiere azioni utilizzando immagini razziste. Si va dall'invito a «non focalizzarsi sul nero» a quello a non mettere in scena il "white savior" e si arriva fino al consiglio di evitare mostre fotografiche in cui si oggettifichi la sofferenza dei rifugiati. La diagnosi esplicita che si tratti di pratiche razziste non può essere contestata. Tuttavia, il contrasto che qui appare - tra, da un lato, la riluttanza a qualificare come razziste le pratiche e le strutture delle istituzioni statali e, dall'altro, il desiderio simultaneo di rimproverare ai propri sostenitori un potenziale razzismo - è del tutto sorprendente. Da questo punto di vista, il razzismo sembrerebbe manifestarsi soprattutto nel tentativo di mitigarne le conseguenze. Ecco perché l'enfasi sul progetto espresso alla fine della dichiarazione, non di una società senza razzismo, quanto piuttosto di una "società antirazzista, dignitosa e unita" è probabilmente più di una semplice negligenza linguistica. In un certo senso, si dimentica di fare la banale considerazione secondo cui l'antirazzismo è necessario solo finché sono le forme sociali a essere razziste. Il modo in cui si sviluppa il razzismo, che anche una società antirazzista deve comunque combattere, rimane poco chiaro, e la genesi del razzismo attuale sembra sfuggire a quella che è la riflessione svolta nei contesti antirazzisti di oggi. La necessità di una teoria sul razzismo, è enormemente regredita, mentre il resto è stato affidato alla pedagogia. Pertanto, la pratica antirazzista si basa principalmente sull'idea che il razzismo esista a causa di una mancanza di educazione al riguardo, o dell'assenza del desiderio di "disimpararlo". Di per sé, tutto ciò sarebbe solo un ricordo del passato, ma che però è «ancora profondamente radicato in ciascuno di noi». La teoria postcoloniale, che pone al centro della propria riflessione l'epoca coloniale - un periodo effettivamente passato della società capitalistica globale - appare perciò come il supporto accademico appropriato per questo tipo di antirazzismo e, infatti, le tesi sul razzismo che sono nate in tale contesto dominano quasi interamente i dibattiti attuali. A prima vista, ci sono due cose che in un contesto simile, già ci dovrebbero subito irritare. Da un lato, il fatto di relegare nel passato ogni condizione per la comparsa del razzismo si accompagna a un ottimismo del tutto fuori luogo. Per quanto drammatica possa sembrare la situazione attuale, viene comunque spesso vista come se fosse un progresso, o quanto meno come un promettente inizio. Poi, si afferma che i vecchi modelli e comportamenti razzisti hanno finalmente iniziato a essere messi in discussione, cosicché ora potranno essere spezzati. Come si può parlare di "progresso", quando esso può essere concepito solo dal punto di vista della totalità, e questo in relazione a una situazione sociale dove l'opposizione razzista ai flussi di profughi sta ormai assumendo delle forme sempre più radicali, essendo stimolata dai successi elettorali dei partiti populisti di destra? Questo è un mistero difficile da discutere. Anche perché, questa posizione, si riflette a sua volta nella separazione operata tra «il razzismo finalmente messo in discussione» e la forma razzista delle aspirazioni sovraniste, populiste e autoritarie, che viene così resa neutra. Nel fare ciò – ed è difficile non vederlo – vediamo che questi desideri non si riferiscono al passato, ma dovrebbero invece rappresentare delle opzioni per agire nell'attuale crisi sociale, perpetuandola così grazie a delle fantasie su un passato che non è mai esistito. Ed ecco che quando si tratta di catturare gli sviluppi del razzismo che non corrispondono al razzismo coloniale, il concetto di razzismo post-coloniale e de-coloniale mostra tutti i suoi limiti. E lo fa sorprendentemente proprio rispetto a quell'area precisa su cui invece il prefisso "post" dovrebbe attirare l'attenzione. Questi limiti diventano ancora più facili da capire allorché ci concentriamo sulla seconda cosa che dovrebbe irritarci, e che riguarda questioni più generali di teoria sociale, le quali saranno tuttavia discusse in seguito, soprattutto per quel che riguarda la teoria del razzismo. Ciò che è irritante, è che l'evoluzione dei dibattiti post-coloniali ha causato a una singolare de-realizzazione della storia e dei risultati della decolonizzazione, che si manifesta nel fatto che questioni postcoloniali di vecchia data vengono ora riformulate sotto lo slogan ontologico della “de-colonialità”. C'è da dire che negli ultimi dibattiti, quasi nessuno sta facendo una diagnosi "postcoloniale", nel senso letterale del termine, il che ha portato coloro che sono preoccupati per la continuità della ricerca e della mobilitazione politica a una riqualificazione difensiva di questa auto-designazione. «Il Post-colonialismo» - leggiamo, ad esempio, nel libro del 2015, "La théorie postcoloniale. Une introduction critique" - «non può essere semplicemente pensata come qualcosa che sia accaduto "dopo" il colonialismo, ma deve essere vista come una forma di resistenza alla dominazione coloniale e alle sue conseguenze» [*5].

L'eurocentrismo del capitale
Non è sempre stato così. Gayatri Chakravorty Spivak, per esempio, una delle autrici centrali dei primi dibattiti postcoloniali, e ben nota per il suo stile di scrittura che sfugge all'univocità, nel 1993 nel 1993 ha descritto con estrema chiarezza e disinvolta ovvietà il «momento in cui iniziano i problemi della post-colonialità» vista come «indipendenza negoziata».[*6]. L'attuale inversione, assurda dal punto di vista linguistico, merita quindi di essere spiegata, e a ben guardare si rivela essere un'ampia elusione della questione, se si considera che, in questi dibattiti, troppi dei fenomeni criticati non sono stati attribuiti quasi esclusivamente al colonialismo, ma piuttosto a delle circostanze sociali che non sono state abolite, né messe in discussione dalla decolonizzazione. Il tema del razzismo, considerato una parte centrale e legittimante del "discorso coloniale" o della "colonialità", si trova al centro di questo problema. Questa ristrettezza di vedute rende impossibile rispondere affermativamente alla seguente domanda: il razzismo non andrebbe criticato più direttamente, nel contesto di una critica della disciplina che mira all'assoggettamento della natura interiore ed esteriore, necessaria alla formazione di soggetti borghesi adatti al lavoro? Allo stesso modo, la questione della coercizione omologante - in base alla quale gli abitanti degli Stati-nazione vengono sottoposti a maltrattamenti al fine di unirsi come Nazione - non viene quasi mai vista e affrontata come possibile fonte di razzismo. Anche gli effetti auto-razzializzanti di un'identificazione dei soggetti all'interno delle manifestazioni feticistiche della produttività del capitale nazionale - che non partono da un'opposizione tra spirito e natura formulata dal punto di vista dello spirito - sono ancora meno tematizzabili se visti in una prospettiva postcoloniale. Disciplinarizzazione legata al lavoro, omogeneizzazione della coercizione nel quadro dello Stato-nazione, auto-razzializzazione relativamente alla produttività: questi tre processi, si riferiscono a quelle che sono le proprietà più generali della totalità capitalistica [*7], e quindi si prestano anche a spiegazioni di quello che è l'emergere del razzismo; ad esempio quando esso si manifesta contro delle popolazioni minoritarie che si trovano in quelle regioni che, nel mondo, sono situate al di fuori dell'Occidente; o contro delle popolazioni, situate al di fuori delle metropoli, che non sono mai state colonizzate, o i cui antenati non sono mai stati colonizzati. O ancora, ad esempio, per il razzismo contro i neri in Svezia, che difficilmente può essere attribuito al possesso della "Costa d'Oro svedese", che c'è stato solo tra il 1650 e il 1657. Questi tre elementi si sono certamente sviluppati, in modo diverso, in momenti diversi della storia, ma si sono tutti manifestati fin dalle origini del capitalismo, e si può dire senza alcun problema che continuano a svilupparsi. E, nel farlo, condividono questa traiettoria con il razzismo, la cui forma storica sta cambiando. Tuttavia, possiamo sostenere che il colonialismo esiste tuttora solo se consideriamo come secondarie due sue caratteristiche che sono centrali nel definirlo, al punto che le “strutture coloniali” e le “conseguenze coloniali” appaiono concepibili anche senza la loro presenza: ovvero, la colonizzazione di territori extraeuropei da parte degli europei, da un lato, e la gestione politica dei territori colonizzati in qualità di annessioni sottomesse a degli stati chiamati “metropoli”, dall'altro. La prima viene chiamata “colonia di popolamento”, la seconda “colonia di dominazione”, sebbene un territorio possa essere entrambe le cose. A ciò va aggiunto il fatto che la pratica dell'insediamento e quella della dominazione - in modo che così la nozione sia sufficientemente circoscritta - devono essere parte anche  di uno specifico contesto storico-filosofico: quello dell'universalismo dell'Illuminismo. Questo perché il loro universalismo è dovuto alla generalizzazione della ricchezza astratta, la quale appare come un'accumulazione di merci prodotte dal modo di produzione capitalistico, e la nozione di "colonialismo" in tal modo definita si deve limitare a quella pratica di insediamento e di dominio che ha permesso al valore - in quanto forma di relazioni sociali - di imporsi anche al di fuori dei paesi dell'Europa centrale. Senza una tale limitazione - in termini di specificazione e in termini di teoria sociale - il risultato di qualsiasi conquista di un gruppo dominante da parte di un altro gruppo dominante, in qualsiasi forma, dovrebbe essere designato come colonia di dominio, e qualsiasi spostamento di una gran parte della popolazione, come colonia di insediamento. La storia del mondo è pertanto composta da molteplici colonialismi, sin dalla notte dei tempi. Limitare il termine "colonialismo" alle moderne conquiste ed emigrazioni europee fa quindi parte di un eurocentrismo che non solo è accettato, ma viene anche implicitamente rivendicato dal pensiero postcoloniale. Il termine è appropriato nella misura in cui riflette il fatto che l'Europa è stata effettivamente all'origine della forma di produzione e di ricchezza sociale che oggi domina il mondo. Il vero eurocentrismo del capitale ha avuto fine solo con l'ascesa al potere egemonico degli Stati Uniti, ovvero di un gruppo di ex colonie. Questo movimento, unito alla relativa forza degli Stati colonizzati durante la Guerra Fredda, ha fornito un impulso finale agli sforzi di decolonizzazione che duravano da tempo e ha portato all'attuale sistema di Stati nazionali sovrani e interdipendenti.

L'economia cancellata ma irriducibile
Tuttavia, raramente la critica postcoloniale si è concentrata su questo vero e proprio eurocentrismo del processo di accumulazione del capitale. La sua concettualizzazione economica è poco o per nulla sviluppata, sebbene essa non sia poi così lontana dall'economia come, ad esempio, può esserlo il femminismo queer, al quale è metodologicamente vicina. Raramente, la tematizzazione delle condizioni economiche va al di là di una relativamente vaga professione di fede negli atteggiamenti antimperialisti e nella necessità, sovente espressa, di proclamare dei soggetti rivoluzionari. Quando guarda a questo eurocentrismo capitalista, la critica postcoloniale lo fa in un modo da culturalizzare la critica anti-feticista del capitale. Spivak, la cui specialità consiste nel mostrare i limiti e le aporie del corredo metodologico postmoderno, per poi perdersi ancora più profondamente, è stata anche all'origine di un tale sviluppo. Il suo saggio, "Can the subaltern speak? Reflections on the history of an idea" contiene una critica a Foucault e a Deleuze, ai quali rimprovera di aver ignorato «la violenza epistemica dell'imperialismo e la divisione internazionale del lavoro»[*8], poiché in ultima analisi avrebbero aderito a una concezione del soggetto rimasta legata all'antimperialismo della Nuova Sinistra, veicolando alcune idee specifiche dell'Europa sulle condizioni di emancipazione dei subalterni del Terzo Mondo. Così facendo, Spivak dà l'idea di una lettura di Marx che dovrebbe andare oltre, dove Marx «non lavora per la creazione di un soggetto indiviso in cui il desiderio e l'interesse coincidano». [*9] Si può senza dubbio essere d'accordo con questo, così come con la sua osservazione secondo cui si trattava di «de-feticizzazione del concreto»[*10]. Lo stesso vale anche per la sua insistenza sul fatto che Marx definisse la borghesia come «il vettore cosciente (Träger) del movimento infinito del capitale» [*11] (citazione di Marx da parte della stessa Spivak). Tuttavia, bisogna dire che le scoperte di Spivak sono state anche contestualizzate in maniera estremamente fuorviante, dal momento che riduce in maniera postmoderna le relazioni sociali reali che generano il feticismo delle merci, del denaro e del capitale, a una forma specifica di percezione culturale. Essa attribuisce a Marx una risposta a una domanda - sula relazione esistente tra il desiderio, l'interesse e il soggetto - che egli non solo non si è posto, ma che non avrebbe nemmeno potuto formulare, dal momento che la questione del desiderio, in accordo con il capitale - o anche quella della soggettività proletaria - è sorta solo dopo che è avvenuta l'integrazione dei soggetti nello Stato popolare autoritario del XX secolo. La concezione del soggetto di Foucault e Deleuze, era una reazione a questa integrazione, la teoria critica è stata un'altra reazione. Di conseguenza, Spivak affronta tutto questo solo limitandosi alla questione di come la classe sia rappresentata dal momento in cui non costituisce un soggetto. I misfatti della coercizione economica, il cui dispiegamento logico Marx ha ricostruito nella storia, vengono quindi colti solo superficialmente, in maniera politicamente distorta; e solo dal punto di vista adottato dalle correnti della "lotta di classe" dei nazionalismi di liberazione anticoloniali: e mettersi così al passo con lo sviluppo delle condizioni di transizione al socialismo. Queste correnti avevano giustificato la loro alleanza con i feticisti borghesi dello Stato-nazione a partire dall'erroneo presupposto che il Terzo Mondo non fosse ancora maturo per la rivoluzione proletaria, perché non c'era ancora una sufficiente differenziazione di classe tra i colonizzati. Così, alla fine, anche Spivak sembra apprezzare il marxismo, visto solo come una scienza dell'organizzazione dei soggetti rivoluzionari, pur sapendo, per una buona ragione, che i "subalterni", di cui ha forgiato l'attuale vivida immagine, sono costituzionalmente incapaci di formare quei soggetti. Resta il fatto che il «soggetto innominato dell'Altro d'Europa» è abitato da un «tipo di Potere e di Desiderio» che gli «intellettuali francesi contemporanei» non riescono a cogliere, perché «tutto ciò che essi leggono, criticandolo o meno, è preso dall'interno del dibattito sulla produzione di questo Altro»[*12]. La loro «scoperta radicale» [*13] che il potere non ha un centro, ma che è distribuito in tutta la società, «dislocato», secondo la terminologia di Spivak, sottovaluta pertanto la genesi di questa distribuzione. Ma è la «situazione economica» a esigere «che gli interessi, i motivi (i desideri) e il potere (della conoscenza) siano spietatamente dislocati»[*14]. In questo modo, attribuisce la scoperta postmoderna del «dominio senza soggetto del soggetto su sé stesso», all'opera di un soggetto della conoscenza che avrebbe provocato ciò che «la situazione economica» richiedeva. Il suo ragionamento condurrebbe perciò a una interpretazione della formula di Marx sulla borghesia che viene vista come «il vettore cosciente (Träger) del movimento infinito del capitale». Laddove Marx limita la coscienza dei portatori ad aspetti superficiali e particolari del processo economico - il che impedisce loro di comprendere l'essenza dei rapporti - qui invece viene applicata una conoscenza globale, ivi compreso il potere di imporre. È questa l'unica spiegazione del fatto che Spivak continui a vedere al centro della dominazione postcoloniale, come in epoca coloniale, un «vasto progetto, eterogeneo e orchestrato a distanza, di costituire il soggetto coloniale come Altro». Ed è «l'esempio più chiaro di [...] violenza epistemica»[*15].

Il marxiano “soggetto automatico del valore” gli è quindi familiare, ma viene culturalizzato nell'epistemologia. E dato che la conoscenza è a sua volta cultura, la necessità che si esprime attraverso il vincolo economico gli è estranea. Per questo motivo i suoi sostenitori non comprendono il potere e il desiderio dei subalterni. La nozione attuale di “privilegio”, che si applica a tutti coloro che non sono ridotti alla pura miseria, probabilmente è nata qui. Ma dal momento che anche i privilegiati (termine con cui si riferisce anche a sé stessa) devono poter fare qualcosa, allora arriva a pensare che «per l'intellettuale, una possibile pratica politica potrebbe essere quella di "cancellare" l'economico, di considerare il fattore economico come irriducibile, in quanto reinscrive il testo sociale, anche quando viene cancellato, anche se imperfettamente, quando pretende di essere il determinante ultimo o il significato trascendentale».[*16] Nonostante diversi tentativi, in particolare da parte della stessa Spivak, il dibattito postcoloniale ha continuato a essere sovrastato da questa concezione dell'economia, cancellata ma irriducibile, fino alla scoperta della "de-colonialità". Da un lato, essa ha legittimato lo studio dei temi culturali in senso lato. Dall'altra, ha delegato lo studio di questo fattore apparentemente irriducibile, di cui nulla può essere decostruito, al personale specializzato dell'antimperialismo anticoloniale. Questo, a sua volta, ha sviluppato, parallelamente alla critica del neoliberismo (delle istituzioni internazionali), una prospettiva sul capitalismo che spiega i risultati insoddisfacenti della decolonizzazione con la mancanza di sovranità degli Stati che si sono formati nel suo corso. Pertanto, la concezione postcoloniale dell'eurocentrismo è il risultato di un isolamento dall'aspetto soggettivo di quest'ultimo - motivo per cui esso viene utilizzato solo come rimprovero, quasi sempre giustificato, nei confronti di un pensiero in cui le condizioni differenziate dell'ingresso storico nella produzione di valore sono state ignorate e trasfigurate in un mito razzista. A partire da questa critica, quel che viene imputato al razzismo coloniale è la sua negazione di una partecipazione dei dominati al dominio illuminato. Tale partecipazione che si concretizzata nell'imposizione del lavoro, che nel mito razzista viene desoggettivizzato e/o naturalizzato per essere visto come semplice forza fisica priva di spirito. Non è raro che questi due elementi siano contemporaneamente presenti, in maniera esacerbata nella forma della schiavitù, la quale si è distinta dalle precedenti forme storiche di economia schiavista. È stato sotto tale forma, che il lavoro forzato dello straniero è andato di pari passo con l'idea di una superiorità naturale della fisiologia "bianca". Va notato come l'antirazzismo anticoloniale abbia avuto le sue origini proprio nel rifiuto delle conseguenze culturali di un senso ampio di questa identificazione. In una delle opere più impressionanti, e probabilmente influenti in questo senso, "Pelle nera, maschere bianche", di Frantz Fanon, pubblicato nel 1952, la negazione non è nemmeno solo rifiutata, ma si trova a essere psicologicamente riflessa, in un senso assai stretto. Proprio per questo, molti attivisti postcoloniali vedono il testo di Fanon come il loro fondamento, sebbene i loro strumenti di teoria decostruttivista e discorsiva non hanno più quasi nulla in comune con la psicologia diagnosticata da Fanon. Quando entrarono nel rapporto di valore, la differenza tra l'Europa e il mondo non europeo non risiedeva tanto nella pura e semplice violenza delle conquiste, quanto piuttosto nella disumanizzazione del nemico che a esse si accompagnava. La riduzione della popolazione europea a forza lavoro, poi trasformata in proletariato, è stata altrettanto violenta, anche se, storicamente, le successive conquiste coloniali si sono sempre più distinte da quella che era stata l'accumulazione iniziale in Europa, man mano che veniva gradualmente implementata una tecnologia militare sempre più potente. Ma anche questa violenza, vedi ad esempio la prima e la seconda guerra mondiale, non era qualcosa che gli europei non avrebbero esercitato tra di loro. Questo è stato accompagnato dal razzismo, sebbene abbia assunto un'altra forma. Per contro, la specificità del colonialismo ha fatto sì che l'adattamento violento proprio dell'Europa venisse rapidamente assoggettato a una repressione collettiva, motivo per cui in Europa la creazione di una capacità lavorativa è stata trasfigurata in una morale della responsabilità individuale. Il protrarsi della sua repressione ha dato origine a fantasmagorie relative a un'altra Europa, via via razzializzate. Allo stesso tempo, emergeva la figura del cittadino-proprietario che, in virtù della sua posizione sociale, aveva il potere non tanto di comandare il lavoro altrui, quanto piuttosto di organizzarlo in maniera efficiente in base ai requisiti economici e utilizzarlo di conseguenza. In tal modo, il cittadino-proprietario formava il lato maschile delle caratteristiche sessuali; disposte in modo dicotomico relativamente alla natura. La riproduzione di quest'ultimo - oggetto centrale della fantasia razzista - si manifestava nel processo di ereditarietà attraverso la procreazione, e quindi come l'essenza delle relazioni tra i sessi non ancora biologizzate nella sessualità, e quindi anch'esse viste come ancora soggette alla morale. In un simile contesto, la disumanizzazione razzista del nemico non veniva preceduta soltanto da un'umanizzazione ideale; come quella verificatasi a partire dalla convinzione che tutti gli esseri umani sono uguali davanti a Dio. Nella concezione pre-biologica della specie, come quella formulata da Carl von Linnaeus a metà del XVIII secolo, veniva scoperta, per l'unicità umana, anche una base naturale universale. Il razzismo coloniale era perciò un prodotto dell'umanesimo, e mirava all'uguaglianza della natura umana fin dalla nascita, e si legava quindi anche all'universalismo dell'Illuminismo. Le rivendicazioni di un dominio coloniale si basavano sull'idea che tutti gli esseri umani, vale a dire tutti gli esseri capaci di riprodursi tra di loro, potessero seguire il percorso di quella che costituiva la perfezione morale, da uomo a uomo – chiamata anche civiltà – nei confronti della quale, l'Europa era semplicemente più avanzata. L'instaurazione corretta della società veniva perciò perseguita, abolendo lo stato di natura all'interno dello stato di società. Tuttavia, non solo lo stato di società, ma anche lo stato di natura - quest'ultimo superabile all'interno del primo - erano i prodotti delle incipienti condizioni borghesi, dal momento che, nella forma, derivavano le loro specificità derivavano dal concetto borghese di natura, obbediente alle leggi e derivante, per quanto riguarda il contenuto, dalle conseguenze del posizionamento rivoluzionario del mondo borghese contro il mondo feudale o cristiano. In altri termini, l'umanesimo obbligava ciò che era storicamente nuovo a legittimare in maniera sistematica il dominio secondo natura, senza tuttavia liberarci dal dominio tout court , e sistematizzando, al contrario, sia i principi in base ai quali si dominava sia quelli in base ai quali si veniva dominati. Nacquero in questo modo quei regimi di conoscenza che, seppure in forma diversa, impregnano il razzismo anche oggi. Nelle colonie, questa dinamica doveva comportare sempre l'esclusione dei colonizzati in quanto soggetti autodeterminati di questa conoscenza, dal momento che in ogni caso solamente la disciplina stabilita con la forza avrebbe potuto essere storicamente superata, nel senso del concetto di progresso. Di per sé, la disciplina non è mai stata in grado di affrancarsi dal presunto stato di natura. Piuttosto, essa si colloca dalla parte della dialettica della ragione, la quale affonda maggiormente nella decadenza della natura nel momento in cui viene messa al servizio del suo opposto dialettico, vale a dire al servizio dello spirito che applica la disciplina attraverso la libertà. D'altra parte, per i colonizzati, era impossibile soddisfare gli aspetti fondamentali della natura borghese risultanti dai conflitti sociali della borghesia con la nobiltà e il clero. In primo luogo, questa natura rimaneva sempre legata alle maschere di carattere sociale che i suoi portatori avevano man mano indossato e, in secondo luogo, era anche legata alla stessa dominazione da cui si erano emancipati. Tuttavia, nelle colonie, questa natura borghese non è mai esistita (e questa assenza di una borghesia, come classe dominante, non può essere spiegata solo a partire da un ritardo nello sviluppo). Anche quella che è l'aspettativa universalista più ben intenzionata - secondo la quale i colonizzati col tempo avrebbero utilizzato i mezzi di emancipazione sviluppati dall'Europa rivoluzionaria e umanista - era destinata a fallire. Per quelli che non conoscevano le condizioni (feudali) dalle quali si aspirava a emanciparsi, anche i mezzi di questa emancipazione dovevano sembrare senza senso e incomprensibili. Pertanto, la questione non è quella di stabilire se i colonizzati avessero o meno la capacità intellettuale di seguire il pensiero illuminista; cosa a cui si potrebbe rispondere senz'altro in modo negativo. La semplice capacità intellettuale era una cosa ben diversa dalla comprensione di una diversa posizione sociale che questo pensiero prometteva, e da cui scaturiva un movimento sociale.

Proprio per questo motivo, gli europei dovettero considerare la colonizzazione e la coercizione esterna come necessarie se non si voleva interrompere la capitalizzazione desiderata, e difficilmente si potevano dividere gli individui in quelli che condividevano la comprensione della necessità e quelli che non la condividevano. In questo contesto è necessario menzionare, in particolare, quella che era la promessa che proveniva dal principio metafisicamente più puro, e quindi più naturale, della natura borghese: la promessa di libertà attraverso la proprietà. Poiché, nella migliore delle ipotesi, i cervelli borghesi avrebbero potuto interpretare  il rifiuto dei colonizzatori di difendere la terra conquistata in nome della proprietà, come il fatto che sebbene i colonizzati potessero, in linea di principio, accedere alla ragione dalla quale questo principio scaturiva imperativamente per loro; ma sembrassero ancora ben lontani dall'acquisirla effettivamente. Anche qui la differenza con l'Europa non era poi così assoluta come si dice oggi, visto che a quel tempo i diritti civili si applicavano solo agli uomini possidenti, se si applicavano. Da questo punto di vista, l'esclusione dei colonizzati dalla cittadinanza non era una particolarità razzista, visto che, prima della colonizzazione, nessun cittadino viveva nelle colonie. Piuttosto, la differenza razzista risiedeva nel fatto che l'esclusione non era giustificata dal fatto che un individuo mancasse delle qualità necessarie per la cittadinanza. Al contrario, se si considerano i modesti risultati dei metodi di classificazione - come la misurazione del cranio - si dovuto sempre concludere che questo difetto era collettivamente specifico dei colonizzati. Pertanto, a partire da questo, si è sempre dedotto che era impossibile acquisire l'individualità. Ciò significava che la vita di queste persone – per natura – era interamente determinata dalla loro appartenenza a una "razza" (qualunque essa fosse). A differenza di coloro che appartengono solo parzialmente alla propria “razza” (bianca, non una qualsiasi razza, però numericamente piccola), in quanto possono ( sostanzialmente) autodeterminarsi grazie alla propria mente. Il sistema coloniale è stato l'istituzionalizzazione di questa assimilazione, e le conclusioni irrazionali nel quadro della dottrina della ragione umana universale hanno costituito il nucleo del razzismo coloniale, attorno al quale si è articolata l'immagine dello straniero. In questo modo, la sessualità degli altri veniva fantasmizzata come sfrenata, non essendo soggetta alla moralità associata alla mente. Allo stesso modo, la capacità lavorativa dei colonizzati, anch'essa antropologicamente attribuita all'uomo, sembrava richiedere di essere controllata. Erano entrambe fantasie che obbedivano non solo a delle proprietà metafisiche legate alla natura della soggettività, ma anche a delle dinamiche psicologiche che non potevano essere dedotte e che potevano variarle fino a capovolgerne i significati. Come sappiamo, la vicinanza con la natura poteva anche essere nostalgicamente esotizzata. In virtù di questa flessibilità delle dinamiche psicologiche, le donne europee e, un po' più tardi, il proletariato locale poterono aderirvi, dal momento che in questo modo si offrivano loro delle opzioni di valorizzazione, benché determinate in modo abbastanza simile all'interno dell'Europa e, più tardi, dello stesso gruppo di popolazione bianca, (Tuttavia, l'assimilazione del razzismo e del sessismo, da questo punto di vista, espressa nel concetto di "othering"[alterità, diversita], ha fatto sì che la genesi del tutto diversa delle due cose non possa essere facilmente determinabile). Poiché la natura dell'uomo, che all'Illuminismo appariva come una verità antropologica, conteneva, non solo una determinazione di ciò da cui "l'umano" doveva emanciparsi, ma anche una determinazione di ciò da cui la libera disposizione della natura lo emancipava: le condizioni di vita umana al di fuori dell'Europa, erano del tutto enigmatiche per gli europei. Ecco perché la conoscenza razzista, legata al desiderio di disporre, è composta da una moltitudine di sciocchezze mitologiche. Esse sono nate dal rifiuto di riconoscere che queste condizioni non corrispondevano né allo stato desiderato della società né alla natura che si supponeva precedesse qualsiasi storia. Se il primo punto ovviamente non stupiva nessuno, il secondo era il problema e la condizione della costituzione dello sguardo coloniale, che scopriva ovunque un mondo senza storia e quindi il "fardello dell'uomo bianco". Nel contesto di una critica del post-colonialismo, non è necessario sapere se le condizioni precedenti contenevano principi difendibili, perché il post-colonialismo non è alla ricerca di "origini perdute". Contro le posizioni che criticano l'isolamento del lato soggettivo del processo di capitalizzazione del mondo, e che invocano contro di esse un nuovo universalismo su basi materialistiche, va pertanto sottolineato che la critica postcoloniale dell'eurocentrismo ha reagito bene a un contenuto irrazionale, che è effettivamente presente nello stesso pensiero razionale. Questo è ciò che dobbiamo imparare da essa: ha perseguito il razzismo nelle sfere sociali in cui ha realmente luogo, e per farlo ha dovuto utilizzare procedure (che si trovano nella filosofia postmoderna) che a loro volta non postulano la ragione come assoluta. Il post-colonialismo non andrebbe rimproverato perché non ha tratto dalla sua critica una concezione universalista del lavoro, sulla cui base la critica antirazzista potrebbe essere interpretata in termini di lotta di classe. L'economia sotto accusa della Spivak è una rappresentazione rovesciata, la quale tuttavia affronta il vero problema del razzismo, che in tutte le sue forme ha sempre cercato, e si sforza ancora, di negare le sue potenziali vittime in quanto soggetti capitalistici, e quindi di tenerle lontane da ciò che considera come "economico". Per questo attacca anche - e non solo per errore - le persone razzializzate non proletarie. Tutto ciò non dovrebbe essere ignorato facendo uso dell'argomento che i proletari razzializzati sono anche sfruttati come forza lavoro. Al contrario, alla decostruzione delle fantasie si deve aggiungere anche la critica della loro realtà materiale. Altrettanto erronee sono le varianti del cosiddetto "antirazzismo materialista", le quali si scontrano principalmente con i loro stessi fondamenti filosofici, e temono che questi possano indebolire il proprio concetto di ragione scientificamente fondato, come se la ragione non vi avesse già partecipato di sua spontanea volontà. È vero, quest'ala spesso si sforza di criticare il famigerato antisionismo del post-colonialismo, ma lo tematizza in modo tale che diventa impossibile sapere se esiste un contributo specificamente postcoloniale all'antisionismo di sinistra, o perché ciò avvenga. La cosa, ancora una volta, è dovuta al fatto che questo antirazzismo materialista non rimuove la restrizione postcoloniale del concetto di razzismo, ma si limita semplicemente a tracciarne i confini in modo diverso; il che danneggia anche il concetto di antisemitismo che viene usato per criticare l'antisionismo, dal momento che anche la critica sociale non può fare a meno di una riflessione sulla dialettica della ragione. Il problema perciò non è che la critica postcoloniale dell'Illuminismo sia troppo radicale. Quanto, piuttosto, nel fatto che l'Illuminismo venga semplicemente... accusato. La critica di quest'ultimo fallisce così in modo permanente. Regolarmente, i testi in questione incominciano con delle vibranti obiezioni al «legame estremamente profondo tra i progetti imperiali dell'Europa e il culto dell'Illuminismo e della ragione, della scienza e del progresso, che hanno reso possibile una concezione del mondo visto come un insieme unificato» [*17], per poi subito dopo condannare l'Europa per il  suo «ripetuto tradimento dei principi illuministici di uguaglianza, fraternità, umanità, democrazia e giustizia»[*18] e quindi, qualche pagina più tardi, dissertare sul contenuto non realizzato di tali principi, riferendosi in particolare ai grandi spiriti europei. Nella fattispecie, Dhawan arriva, attraverso vari riferimenti a Derrida, a una presunta “Europa in divenire” che si deve assumere la responsabilità della gestione della propria “eredità coloniale”. «L'Europa» si troverebbe «oggi intrappolata tra il "non più là” e il “non ancora”. Le forze di democratizzazione che sono al lavoro sembrano essere costantemente tormentate da un brutale nazionalismo, dal razzismo e dall'esclusione. I Non-Europei rappresentano una sfida per l'Europa in quanto sono la memoria e le vestigia del colonialismo. [...]La presenza di migranti post-coloniali è diventato un test per valutare l'impegno dell'Europa verso gli ideali dell'Illuminismo, dell'umanesimo e del cosmopolitismo»[*19].

La perdita del nucleo temporale della critica
Tuttavia, la teoria postcoloniale aveva limitato alle ex colonie il confine tra il “non più là” e il “non ancora là”, poiché nell'Occidente non vedeva più alcun potenziale di sviluppo. La posizione di Dhawan, che in ultima analisi idealizzava l'Illuminismo e l'umanesimo, delinea perciò una delle possibilità per riuscire a sfuggire a questo problema. Infatti, il "post" non significava soltanto un semplice «dopo il colonialismo». Ma significava anche «più colonizzato», e quindi anche «non ancora emancipato». In una simile costellazione, i dubbi circa il significato emancipatorio del nazionalismo della Liberazione sono stati formulati in connessione con l'osservazione del fatto che la colonizzazione aveva lasciato in eredità più di quanto l'autonomia statale sarebbe stata in grado di eliminare, fin dall'inizio. Tra questo, “l'impronta culturale” della “modernità”, isolata nel suo concetto di eurocentrismo. Il ricorso alla parola “coloniale”, nell' auto-descrizione, rappresentava un'ammissione del fatto che, con la decolonizzazione, tutti i fenomeni associati al colonialismo non erano scomparsi, e che tutte le speranze erano ben lungi dall'essere realizzate. Ragion per cui, se oggi una certa critica postcoloniale applica questa figura di pensiero all'Europa - come fa Dhawan - la cosa è un chiaro segno che una tale costellazione è ormai storicamente finita. Naturalmente, Dhawan non specifica quando e come l'Europa si sarebbe allontanata dai suoi «brutali nazionalismi, razzismi ed esclusioni», fino al punto da esserne oggi perseguitata. Tuttavia, la cosa può essere interpretata come se fosse un riflesso dell'esperienza nel frattempo maturata, vale a dire, che la storia degli stati postcoloniali potrebbe essere oggi tratteggiata al contrario; quasi il passaggio da un "non ancora" (di emancipazione) a un potere che «non se ne preoccupa più». Lo si può vedere nel fatto che, anche nel "Sud del mondo", le dittature militari con una base di potere ristretta a governare sono sempre meno, e a governare vediamo piuttosto dei regimi identitari populisti e di destra; dal nazionalismo indù al fascismo tipo Bolsonaro, passando per varie forme di islamismo. Le loro fantasie di potere possono essere interpretate come reazioni alla crisi - proprio come per gli esempi occidentali e post-sovietici - che allo stesso tempo utilizzano la denuncia anticoloniale. E questo è stato fatto nel modo più chiaro proprio laddove il colonialismo storico era stato meno presente, se non assente, vale a dire nella regione centro-mediorientale dell'Impero Ottomano, la quale è scomparsa solo nel 1922. Tuttavia, però, questo pensiero non può essere sostenuto da chi, come Spivak, per reagire alla scomparsa del nucleo temporale della propria prospettiva ha sempre scelto l'altra possibilità. È stato proprio questo singolare ritorno all'anticolonialismo a compiersi sotto lo slogan della “de-colonialità”. «È stata l'esplosione del nazionalismo indù in India, nel dicembre 1992, che è sfociata nella distruzione di una moschea a Ayodya, a insegnarci il fallimento della decolonizzazione in India».[*20] Ma non ci dice perché l'autonomia statale, ottenuta sulla base di giustificazioni nazionaliste, dovrebbe essere considerata un fallimento se nello Stato che rimane autonomo si sviluppa un nazionalismo più aggressivo. In tal modo, successivamente, durante il ritorno all'anticolonialismo, la semplice denuncia dell'Illuminismo è stata esacerbata, senza che venisse rinnovato il suo potenziale critico in relazione al nazionalismo di liberazione anticoloniale. Il punto di partenza comune alle due reazioni, è l'ambivalente distanza - nel senso letterale del termine - dal nazionalismo. Lo Stato-nazione, era pertanto un prodotto della modernità per eccellenza, il quale avrebbe dovuto elevare la liberazione dalle conseguenze del colonialismo, portandolo al rango di una possibilità propria, e non determinata dall'esterno. Questa fatale contraddizione è sempre stata affrontata solo con i guanti di velluto. In apparenza, il solo fatto di rendersi conto che la liberazione dal dominio coloniale britannico in India, che costituisce il punto di riferimento centrale di Spivak, era già avvenuta una quarantina di anni fa - a metà degli anni '80 - allorché egli stava sviluppando il nucleo della sua teoria, già rivela il passare del tempo. Nel frattempo, sono passati quasi altri 40 anni, e le tipiche teorie ausiliarie - come quella secondo cui la rottura con l'era coloniale sarebbe limitata perché gran parte della società era ancora socializzata sotto il colonialismo - hanno già chiaramente perso la loro forza persuasiva, soprattutto poiché l'India non è mai stata una colonia di insediamenti. Diventa quindi del tutto logico invertire il movimento del pensiero e smettere di identificare tutto ciò che il colonialismo ha condizionato, e condiziona ancora ancora a condizionare a titolo postumo. Per contro, dovremmo invece chiederci cos'è che ha condizionato il colonialismo nella fase di costituzione del capitalismo, e che poi è proseguito incontrastato, e in quale forma storicamente modificata oggi questo vincolo esista. Ma per poter rispondere a questa domanda, bisognerebbe tornare alla soppressione del fattore economico, irriducibile, che rende necessari i teoremi ausiliari. Dall'altro lato, ciò implicherebbe anche una critica più radicale del nazionalismo.

Invece, preferiamo presentare i “processi di decolonizzazione” come se fossero qualcosa di “complicato” e ambiguo, i quali sarebbero "continui" ma allo stesso tempo "non progressivi", dal momento che il colonialismo alla fine verrebbe sempre "rivitalizzato".[*21] Proprio come se, ad esempio, il processo di "decolonizzazione" dell'India, dichiarato nel frattempo, "ambiguo" e "complicato", non fosse iniziato nel 1885 con la creazione del Congresso Nazionale Indiano, e non si fosse concluso nel 1947. Ciò mostrerebbe anche che, non solo il "capitalismo", ma anche il "razzismo", sono concetti più generali del "colonialismo". A questo proposito, le conseguenze dovute all'ambivalente distanza dal nazionalismo sono ben illustrate dal fatto che l'antirazzismo post-coloniale è sempre stato posto sul terreno di quell'autolimitazione che l'ONU si è imposta nel 1965 nella famosa "Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale". "La presente Convenzione", si afferma direttamente nell'articolo 1, paragrafo 3, «non deve essere interpretata nel senso di pregiudicare in alcun modo le disposizioni legislative degli Stati Parti della Convenzione concernenti la nazionalità, la cittadinanza o la naturalizzazione, purché tali disposizioni non discriminino una particolare nazionalità»[*22]. In altre parole, il fatto che un'efficace «eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale» avrebbe dovuto non solo influenzare, ma anche sfidare la legislazione sulla cittadinanza, poiché la legislazione sulla cittadinanza è un importante punto focale per i processi di identificazione sociale che precedono la discriminazione, era una specie di segreto di Pulcinella. Ma a quanto pare questo non andava bene a nessuna delle parti, e il che ha reso possibile la quadratura del cerchio. Per cui, da ciò, si può tracciare una linea che collega questo fatto con l'attuale opposizione ai rifugiati e la riluttanza da parte di Seebrücke a definirla razzista, poiché è del tutto possibile sostenere che gli Stati dell'UE stanno solo affermando la propria legislazione «sulla nazionalità, la cittadinanza o la naturalizzazione», la quale non è rivolta solo ai soggetti "di una particolare nazionalità". Sebbene la prima teoria postcoloniale - in accordo con la critica postmoderna dell'identità su cui si basa metodologicamente - avesse buone ragioni per diffidare quanto meno della formazione dell'identità nazionale, il concetto di razzismo in essa contenuto è invece sempre rimasto legato a questa autolimitazione dell'ONU; e una sua violazione avrebbe dovuto anche portare a una rottura con l'atteggiamento ambivalente di Libération nei confronti del nazionalismo. Dal punto di vista delle odierne lotte antirazziste contro la repressione e la gestione dei movimenti migratori, tuttavia, questo sarebbe uno spunto di riflessione, perché l'attuale intensità di questa repressione suggerisce che i movimenti anticoloniali avrebbero incontrato una resistenza incomparabilmente maggiore se il loro obiettivo fosse stato quello di rendere i colonizzati cittadini uguali degli Stati coloniali, con tutti i diritti che ciò comporta. Naturalmente, questo avrebbe anche ridotto il problema. Non è stato possibile bandire dalle democrazie occidentali il processo di valorizzazione del valore, che non è certo de-costruibile ma nemmeno irriducibile, e che ha garantito la continuità del dominio oltre il colonialismo e ha mantenuto le appropriazioni coloniali nell'era post-coloniale. Non favorisce tanto i membri di certe nazioni in possesso di certe forme di conoscenza, quanto il capitale (non i capitalisti) che, come processo astratto di autovalorizzazione, sembra essere sempre esistito. In altre parole, il capitale europeo e i suoi discendenti negli Stati Uniti. Ciò implica la svalorizzazione, non principalmente territoriale ma logica, del capitale periferico, motivo per cui i tentativi post-coloniali di nazionalizzarlo e poi svilupparlo secondo il modello statale socialdemocratico o socialista non sono stati un rimedio alla ricorrente svalorizzazione del lavoro incatenato al capitale periferico. Una maggioranza indiana nel Parlamento di Londra, che siede a Calcutta, non sarebbe servita a nulla contro questo, e ancor meno contro la crisi attuale. Ma anche questa è una costruzione antistorica, poiché la decolonizzazione è stata resa possibile dai socialismi di Stato dell'Europa dell'Est, che pensavano di indebolire i loro principali avversari nella Guerra Fredda privandoli di parte della loro pretesa di proprietà. Tuttavia, questa costruzione astorica evidenzia fino a che punto la speranza di una possibile indipendenza di popoli statali omogenei, capaci di gestire autonomamente la loro produttività, partecipa della medesima miseria. Lungi dal criticare il fallimento della decolonizzazione da una tale prospettiva, il discorso postcoloniale ha piuttosto cercato di nascondere la propria ambivalenza, e ha incorporato il nazionalismo: «Le lotte nazionaliste anticoloniali rappresentano l'inizio di una progressiva decolonizzazione che continua ancora oggi»[*23] dicono in coro Castro, Varela e Dhawan. È stato in quel momento che è arrivato il momento della rielaborazione "de-coloniale" del problema [*24], che ha aggravato la miseria e ha portato all'adozione di una terminologia secondo la quale la decolonizzazione non sembra nemmeno essere iniziata. «Affinché la decolonizzazione abbia inizio» - prevede Walter Mignolo, membro del gruppo Modernità/Colonialità, per esempio - «vanno concepite delle alternative alla modernità e alla civiltà neoliberale» [*25]. Si tratta di una formulazione, secondo la quale il "colonialismo" - così come la "civiltà neoliberale" - che secondo il consesso della sinistra è emerso dagli anni '80 in poi, sarebbe nato anche dopo il colonialismo, in una sua nuova variante.

Tutto ciò non è più compatibile con un'implementazione della filosofia post-moderna della storia, la quale parte dalla fine della storia e conosce solo rotture permanenti e cambiamenti di dispositivi nel tempo, motivo per cui il paradigma anti-ontologico post-moderno si sta così ancora una volta ribaltando nell'ontologia. Il linguaggio già lo tradisce! Ma anche coloro che discutono ancora di post-colonialismo non sembrano più attribuire molta importanza a questa eredità, la quale era diretta contro l'ontologia del materialismo storico. Piuttosto, accolgono con favore il fatto che quelli che sono dei «termini concorrenti o complementari» - come il "de-coloniale" di Mignolo - «mirano, nelle loro ipotesi di base, a dei fenomeni e dei problemi simili» [*26]. Gli attacchi che la parte de-coloniale porta al post-colonialismo vengono presentati da Castro, Varela e Dhawan come se fossero degli atteggiamenti inappropriati, assunti in vista di quelle che invece sarebbero delle presunte ampie convergenze [*27]. Ciò non sorprende, visto che le teorie sviluppate nell'ambiente del gruppo Modernità/Colonialità sono molto probabilmente in grado di far dimenticare alla corrente postcoloniale la perdita del suo nucleo temporale; e ciò sebbene - come emerge ad esempio dalla seguente formulazione di Mignolo - queste teorie sono piene di astoriche ipostasi dello spirito: «La grammatica della de-colonialità (la decolonizzazione dell'essere e della conoscenza così come quella delle teorie politiche ed economiche)», il cui sviluppo ne costituisce il programma, «inizia nel momento in cui gli attori che abitano linguaggi e soggettività razzializzate private della loro umanità, prendono coscienza degli effetti della colonialità dell'essere e della conoscenza» [*28]. D'altra parte, Mignolo non si pone il compito di decolonizzare le forme di Stato e di diritto che veicolano il dominio. Ma questo non perché questa decolonizzazione, come la critica postcoloniale dovrebbe sapere, sia già avvenuta storicamente. Per Mignolo, le forme sociali che sono apparse e sono passate, o che si sono stabilite e abolite nel tempo storico, manifestamente sono solo delle disposizioni «dall'alto» dell'esistenza, senza alcuna logica propria che possa essere analizzata. Solo il colonialismo è qualcosa che può essere compreso concettualmente (fa questo complimento a Immanuel Wallerstein). Aníbal Quijano, autore della “de-colonialità”, invece, ha “sentito e concettualizzato la colonialità”. Ha così scoperto «il livello invisibile di colonizzazione che sta dietro i colonialismi moderni/imperiali dell'Europa» [*29], il quale può facilmente esistere anche se non ci sono più colonie. Esso consiste nella conoscenza del buon ordine, visto nel senso del “controllo imperiale” stesso, che si sarebbe solo reincarnato in tutto ciò che viene pensato e conosciuto storicamente, e che sarebbe sempre stato applicato direttamente per controllare l'essere. La “colonialità” sarebbe il “controllo dell'autorità”, il “controllo del genere e della sessualità”, il “controllo della soggettività”, il “controllo del sapere” e il “controllo della natura[*30], ed è quindi esterna a ciò che viene controllato. Lungi dall'essere irriducibile e al di là del soggettivo isolato, la “matrice coloniale del potere” ingloberebbe il capitale come una delle sue sfere, “vale a dire la sfera del controllo dell'economia[*31], mentre le rotture nella storia interna del capitalismo - di cui la filosofia postmoderna sa troppo, piuttosto che troppo poco - non hanno presumibilmente nemmeno avuto luogo. Anche il «passaggio dal feudalesimo al capitalismo» si rivela come un'illusione «dal punto di vista della storia (trans-moderna e de-coloniale)» [*32]. Qui il “fattore economico” non è certo più cancellato, ma risulta ancora più irriducibile, poiché si suppone che da Colombo in poi tutto sia rimasto sostanzialmente invariato. Inoltre, l'ontologia di Mignolo rende tangibile il contributo specifico del post-colonialismo all'antisionismo di sinistra, poiché il livello invisibile, secondo Mignolo, che si cela dietro ogni costrizione sociale, è da un lato poco più che la presenza permanente della “dislocazione” del potere che, secondo Spivak, si è realizzata storicamente solo in un primo momento. Si tratta tuttavia di una differenza importante, dal momento che mentre la variante di Spivak può presupporre l'effettiva distribuzione del potere nella società, che ora deve solo essere “orchestrata”, Mignolo si trova a dover dare un nome a un soggetto che dispone costantemente del potere. La vicinanza tra quest'ultimo punto e l'antisemitismo è evidente, soprattutto in quello che è probabilmente il passaggio più curioso del suo libro [*33]. In esso si parla della capacità dei «soggetti imperiali e potenti dal punto di vista linguistico»  che hanno di «nascondere la loro appartenenza a una regione» [*34]. Con questo intende indicare i colonizzatori cristiani, in seguito colonizzatori illuminati.

Da nessuna parte scrive che l'ebraismo abbia avuto un ruolo nella colonizzazione. Tuttavia, egli deve aver pensato, in modo assolutamente antisemita, agli Ebrei che dissimulano il loro potere, perché diversamente non avrebbe sentito il bisogno di completare questa spiegazione con una nota a piè di pagina: «Poiché a diventare egemone non è stato l'Ebraismo, ma il Cristianesimo, questa è tutta un'altra storia; essa ha a che vedere tanto con il consolidamento di uno Stato ebraico dopo il 1948, quanto con il ruolo che gli Ebrei svolgono in complicità con l'attuale struttura di potere (come in Russia e negli Stati Uniti)». Il fatto che la colonizzazione abbia sempre avuto il potere di trasformare le vittime del passato in carnefici del presente proverebbe ulteriormente l'esistenza di un soggetto a-storico nato dall'inconscio (che non conosce il tempo). La genesi storica di Israele diventa qui una causa senza tempo. A prima vista, si tratta quindi di una delle solite fantasie antimperialiste del soggetto dietro ogni potere, che non ha nulla di specificamente "de-coloniale", e ancor meno postcoloniale. È sorprendente, tuttavia, che anche Spivak, il cui pensiero altrimenti non ha nulla a che fare con l'iper-soggetto di Mignolo, abbia preso una piega simile. Così, in un testo del 2016, non parla più nemmeno di "post-colonialismo", visto che «il colonialismo non è affatto finito». Ma della cosa non può fornire alcuna prova se non questa: «Una versione dell'imperialismo territoriale, e del terrorismo di Stato vecchio stile esiste ancora oggi in Palestina».[*35] Cosa che non poteva fare senza dichiarare che i kamikaze sono subordinati, poiché «il mio bisogno di capire cos'è che fa diventare kamikaze, generazioni di bambini, ha la stessa origine che porta al mio personale atto di omaggio alla sorella di mia nonna, e alla necessità di cambiare collettivamente la normalità. Anche il suo suicidio è stato un messaggio che non è stato recepito». [*36] Il traduttore tedesco di Mignolo - Jens Kastner -, che già si è scontrato con la nota a piè di pagina di Mignolo, in un articolo su "Graswurzelrevolution 414" ha criticato questo passaggio in quanto antisemita, sostenendo che l'esempio di Spivak è sorprendente «poiché alla fine i modelli economici e politici coloniali, sono stati mantenuti, fino ad oggi, in molti paesi africani, o dell'America Latina e dell'Asia, in varianti in continuo aggiornamento».[*37] Ma qui l'argomento dovrebbe invece essere proprio l'esatto opposto. La variante postcoloniale di questa fissazione su Israele, consiste nel rifiutare il fatto che proprio tale mantenimento sta diventando sempre più impossibile. È per questo che il sionismo è diventato una base per un'identificazione negativa. Da una parte, si presta a questo perché è uno dei nazionalismi di liberazione più precari, la cui situazione statale viene costante minacciata. Mentre, dall'altra parte, si differenzia da tutti gli altri nazionalismi di liberazione perché, a causa della differenza tra razzismo e antisemitismo, la sua nascita è stata legata all'immigrazione. Il fatto che gli immigrati ebrei in Palestina non abbiano formato insediamenti perché non volevano appartenere alla loro “madrepatria”, è qualcosa che generalmente viene riconosciuto sia dagli autori postcoloniali che da quelli de-coloniali. Certo, questo riconoscimento avviene in maniera piuttosto ambigua, dal momento che gli autori utilizzano il termine “colonizzazione interna” degli ebrei europei. Ciononostante, è proprio grazie a questa falsa sussunzione delle vittime dell'antisemitismo nella categoria dei colonizzati che si può riconoscere il momento dell'identificazione con Israele. L'identificazione con i palestinesi è solo secondaria. Si tratta piuttosto di un'identificazione non autorizzata con il potere dello Stato (in generale) attraverso Israele. Nell'antisemitismo classico, la fantasia riguardo il potere degli ebrei sulla circolazione del denaro e delle merci è legata al desiderio di esercitare tale potere in prima persona. Questo desiderio nasce di per sé dall'esperienza inaccettabile della crisi (a partire dalla crisi dei fondatori[*38]), ossia dal fatto che nessuno dispone di questo potere, ed è per questo motivo che esso è stato personificato in coloro dai quali poteva essere più facilmente preso.

Allo stesso modo, l'antisionismo postcoloniale parte dal presupposto che il successo senza riserve del nazionalismo della liberazione sia stato opera di coloro che più facilmente hanno potuto impadronirsene. Nell'antisionismo postcoloniale, Israele viene effettivamente considerato come se fosse l'unico Stato coloniale ancora esistente, riconoscendo così - attraverso una non verità che parte dal proprio punto di vista identificativo - ciò che non può essere riconosciuto nei confronti di tutti gli altri Stati postcoloniali. Per Spivak, e ancor più chiaramente per la missione atemporale di Mignolo, affinché abbia inizio la decolonizzazione, è necessaria proprio questa personificazione dell'impasse storica. Tutto questo, ci riporta all'atteggiamento ambivalente, assunto dal post-colonialismo nei confronti del nazionalismo della Liberazione, ciò perché probabilmente non è un caso che la sua attualizzazione "de-coloniale" sia nata traendo ispirazione proprio dalla situazione in America Latina, dove la sinistra si immagina da molto più tempo in conflitto con un colonialismo che sembra non voler mai finire. L'indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo, degli Stati-nazione di questi paesi, è stata raggiunta – relativamente presto su scala globale – già nel primo quarto del XIX secolo. Ma questo tuttavia non pose fine alla colonizzazione. Al contrario, all'epoca l'immigrazione venne incoraggiata proprio  dalle élite degli Stati che erano diventati indipendenti, e questo sulla base di considerazioni razziste. Così, Juan Bautista Alberdi, coautore della Costituzione liberale argentina del 1853, era dell'opinione che «governare significa popolare, e che popolare significa educare, migliorare, civilizzare, arricchire e allargare, così come avvenne negli Stati Uniti. Tuttavia, per civilizzare una popolazione per mezzo di un'altra, è necessaria una popolazione civilizzata; in modo che possa insegnare alla nostra America la libertà e l'industria, e pertanto bisogna farlo attraverso le popolazioni più avanzate d'Europa nel campo della libertà e dell'industria, come avviene negli Stati Uniti».[*39] Qui vediamo quelle intenzioni di auto-razzializzazione che sono chiaramente nate dalla gelosia nei confronti della decolonizzazione economicamente più produttiva che c'è stata in Nord America. Anziché dedurre e analizzare il contenuto razzista della formazione di uno Stato nazionale, Aníbal Quijano ha lanciato l'avventurosa affermazione secondo cui, a causa del razzismo coloniale, tale processo non avrebbe mai potuto avere luogo in America Latina. I «gruppi dominanti in tutte le altre colonie iberiche [ad eccezione di Haiti all'epoca della colonia spagnola e del Perù, "nota JustIn Monday"] sono così riusciti a evitare la decolonizzazione della società, pur lottando per l'indipendenza dei loro Stati» [*40]. «In nessun Paese latinoamericano, possiamo trovare una società completamente nazionalizzata o uno Stato nazionale in quanto tale». [*41].

Tuttavia, il concetto di Stato-nazione necessario per far questo ha un piccolo difetto: se dovessimo seguirlo, in Europa non ci sarebbe più nessuno Stato-nazione, perché «il processo di omogeneizzazione nazionale della popolazione [latinoamericana] avvenuto secondo il modello eurocentrico sarebbe stato possibile solo attraverso un processo radicale e globale di democratizzazione della società e dello Stato». [*42]. Al contrario, la rivolta degli schiavi ad Haiti sarebbe stata invece una «decolonizzazione efficace e globale del potere», dal momento che sarebbe stata «una rivoluzione nazionale, sociale e razziale» [*43], e non una rivoluzione antirazzista. Una simile democratizzazione, che egli assume esplicitamente come una realtà per la Francia, verrebbe tuttavia impedita dalla «struttura globale di controllo del fattore lavoro» [*44]. La funzione del razzismo sarebbe infatti quella di mantenere quest'ultima, poiché essa legittima, non solo il lavoro salariato (bianco), ma anche la servitù della gleba e la schiavitù. Sebbene i servi della gleba e gli schiavi non avessero interessi nazionalizzabili, hanno comunque convissuto a lungo con il lavoro salariato in America Latina. Il razzismo, che in questo caso si è posto il compito di “civilizzare un gruppo di persone attraverso un altro”, non ha mai inteso questa differenza, apparentemente eterna, in senso stretto, dal momento che contraddice il legame che sostanza e forma sembrano avere nel pensiero razzista. L'“idea di razza” non è mai stata né un progetto né uno “strumento di dominio”, ma sempre e solo un mito che entrava in gioco nel momento in cui diventava necessario difendere il proprio ordine; anche se l'effetto che gli si attribuiva non si sarebbe poi concretizzato nella realtà. Non è quindi una “struttura di controllo sul fattore lavoro”, bensì piuttosto un mito del lavoro; che legittima solo in seconda battuta, negando costantemente le caratteristiche di quel che viene legittimato e mitizzato. Per questo motivo non fornisce una conoscenza che possa essere poi utilizzata strumentalmente per qualsiasi tipo di dominio. E nessun discorso è in grado di compensare la mancanza di percezione della realtà che deriva da questa negazione. L'osservazione secondo cui i discorsi soggettivi sono incapaci di dire la verità è quindi assolutamente corretta. Viceversa, il mito permette ciecamente al potere che si è instaurato di esprimersi in un altro modo, e successivamente ne facilita la sua usurpazione - il che è ancora più disfunzionale. La “colonialità” è la semplice ripetizione di questo mito, e quindi il ribaltamento dell'Illuminismo postcoloniale in tale mito. Alla luce dell'attuale razzismo di crisi, non si può sopravvalutare l'importanza di questa differenza. Si tratta cioè di una reazione al fatto che l'ordine capitalista non solo sta producendo dei risultati inaspettati, ma minaccia anche di disintegrarsi a causa delle sue leggi interne. Le norme funzionaliste del de-colonialismo - che ha ancora una volta abbandonato l'ambivalente atteggiamento postcoloniale e ha preferito fissarsi, senza soluzione di continuità, sulla presunta indipendenza nazionale mai conquistata - sono pertanto l'ultima cosa di cui la critica antirazzista ha bisogno in questo momento.

- JustIn Monday - 2023 -

NOTE:

[*1] - Thilo Sarrazin, "La Germania scomparsa. Demografia, Educazione, Immigrazione: Perché il futuro è buio, Parigi, Éditions du Toucan, 2013. Sarrazin (nato il 12 febbraio 1945) è un politico, economista e banchiere tedesco. Era membro del Comitato esecutivo della Deutsche Bundesbank, carica che ha lasciato il 1°maggio 2009.

[*2] - Seebrücke è un gruppo internazionale della società civile organizzato in modo decentrato, costituito nel 2018 che si oppone alla politica migratoria europea e in particolare alla criminalizzazione del salvataggio in mare nel Mediterraneo. Gli attori sono solidali con tutti i rifugiati e chiedono ai politici di creare vie di fuga sicure. (NdT).

[*3] - « Wir bauen eine Brücke zu Sicheren Häfen », seebruecke.org, < https://www.seebruecke.org/ueber-uns >.

[*4] - «Do’s & Don’t’s», seebruecke.org, < https://seebruecke.org/material/how-to-dos-and-donts >.

[*5] - Varela Maria do Mar Castro & Nikita Dhawan, Postkoloniale Theorie. Eine kritische Einführung, Transcript, 2015, p. 16.

[*6] - Gayatri Chakravorty Spivak, Outside in the teaching machine, Routledge, 2008, p. 131.

[*7] - Il capitalismo come ontologia sociale negativa, che partecipa alla "totalità spezzata" (Roswitha Scholz) della dissociazione del valore, costituisce una forma storicamente specifica di socializzazione che determina le forme di soggettività, azione e pensiero prevalenti nella modernità, dove il valore costituisce una forma di rappresentazione astratta e morta, reificata, feticista, spogliata di ogni contenuto tangibile e concreto, del lavoro vivo speso nella produzione di prodotti, che in cambio è diventato "denaro". La "valorizzazione del valore" (Marx) descrive così il carattere strutturalmente dinamico e tautologico del capitale, come valore che si riferisce solo a se stesso (il valore diventa un "soggetto automa"). Per riprodursi ed espandersi, attraverso l'attività degli individui che sono i supporti e le "maschere del carattere" della sua metamorfosi, deve generare costantemente "più" valore dal valore già accumulato. La totale subordinazione feticistica della vita sociale e individuale alle esigenze dell'economia è dunque una caratteristica propriamente capitalistica e una delle sue caratteristiche più scandalose: il concreto, nelle sue mille forme, ciascuna obbediente a una logica particolare, è subordinato a un'unica logica astratta, alla moltiplicazione tautologica di una sostanza immaginaria che non conosce qualità. ma solo la quantità, cioè il valore prodotto dall'aspetto astratto del lavoro.

[*8] - Gayatri Chakravorty Spivak, "Les subalternes peuvent-elles parler?", Paris, Amsterdam, 2009, p. 56.

[*9] - Ivi, p. 26.

[*10] - Ivi, p. 73.

[*11] - Ivi, p. 24.

[*12] - Ivi, p. 36.

[*13] - Ivi

[*14] -  Ivi

[*15] - Ivi, p. 37.

[*16] - Ivi, p. 36.

[*17] - Nikita Dhawan, «Doch wieder! Die Selbst-Barbarisierung Europas» in María do Mar Castro Varela et Paul Mecheril (dir), "Die Dämonisierung der Anderen. Rassismuskritik der Gegenwart", Transcript, 2016, p.75.

[*18] - Ivi, p. 78.

[*19] - Ivi, p. 80.

[*20] - Gayatri Chakravorty Spivak, "A Critique of Postcolonial Reason. Toward a History of the Vanishing Present", Harvard University Press, 1999, p. 362.

[*21] - Maria do Mar Castro Varela & Nikita Dhawan, "Postkoloniale Theorie. Eine kritische Einführung", Transcript, 2015, p. 16.

[*22] - Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, 04/01/1969, ohchr.org, < https://www.ohchr.org/fr/instruments-mechanisms/instruments/international-convention-elimination-all-forms-racial >.

[*23] - Maria do Mar Castro Varela & Nikita Dhawan, "Postkoloniale Theorie", op. cit., p. 45.

[*24] - La corrente decoloniale è distinta da quella del postcolonialismo, e si riferisce al progetto o prospettiva Modernità/Colonialità (M/C), riferendosi alle riunioni di intellettuali latinoamericani (a volte che lavorano nelle università degli Stati Uniti) che si sono incontrati all'inizio del secolo e poco dopo, intorno ai concetti di colonialità, potere e modernità/colonialità. Questa corrente è molteplice e comprende molte opposizioni, gli autori che sono legati a questa corrente sono, ad esempio, Enrique Dussel, Aníbal Quijano, Walter Mignolo, Santiago Castro-Gómez, María Lugones, Nelson Maldonado-Torres, Arturo Escobar, Lissel Quiroz e Ramon Grosfoguel. Questa corrente attinge alla teoria marxista tradizionale della dipendenza o teologia e filosofia della liberazione e pretende di identificarsi con i movimenti indigeni o afro-discendenti, le lotte contro l'estrattivismo, il comunitarismo e varie forme di "femminismo decoloniale". Questa corrente ha ricevuto critiche epistemologiche, teoriche e politiche nell'opera collettiva di Gaya Makaran e Pierre Gaussens (coord.), Piel blanca, máscaras negras. Crítica de la razón decolonial, México, Bajo Tierra ediciones y Centro de investigaciones sobre América Latina y el Caribe-Universidad Nacional Autónoma de México, 2020 (estratto da pubblicare da L'Échappée); si veda anche il n°26 "Il caleidoscopio del proletariato" della rivista francese Théorie communiste, sulla critica del "Grand Récit Décolonial", 2018; così come El Hadj Souleymane Gassama, noto come Elgas, Les Bons résentments. Saggio sul malessere postcoloniale, Marsiglia, Éditions Riveneuve, 2023.

[*25] - Walter D. Mignolo, "Epistemischer Ungehorsam. Rhetorik der Moderne, Logik der Kolonialität und Grammatik der Dekolonialität", Tura + Kant, 2012, p. 190.

[*26] - Maria do Mar Castro Varela & Nikita "Dhawan, Postkoloniale Theorie", op. cit., p. 16.

[*27] - Ivi, p. 318 sqq.

[*28] - Walter D. Mignolo, "Epistemischer Ungehorsam", op. cit., p. 188.

[*29] - Ivi, p. 140.

[*30] - Ivi, p. 142 sqq.

[*31] - Ivi, p. 160.

[*32] - Ivi, p. 156.

[*33] - La vicinanza di alcuni autori "decoloniali" o "postcoloniali" a forme di appiattimento della specificità dell'antisemitismo e dell'Olocausto, o ancora più apertamente a forme di antisemitismo, è stata osservata in molte occasioni. Nella grande confusione. Come l'estrema destra vince la battaglia delle idee (Textuel, 2020, p. 411-413), il sociologo Philippe Corcuff ha sezionato i "giochi ambigui con i confini dell'antisemitismo" nell'opera di Houria Bouteldja, ex portavoce del Partito Indigeno della Repubblica nel libro Les Blancs, les Juifs et nous; Sul caso Achille Mbembe, si veda Ivan Segré, Misère de l'antisionisme (L'Éclat, 2020); vedi anche Ingo Elbe, ""... Non è sistemico". Antisemitismus im postmodernen Antirassismus" (disponibile sul sito web: < https://www.rote-ruhr-uni.com/ >) e più in generale l'opera collettiva Problème des Antirassismus: Postkoloniale Studien, Critical Whiteness und Intersektionalitätsforschung in der Kritik (Tiamat, 2022).

[*34] - Walter D. Mignolo, "Epistemischer Ungehorsam", op. cit., p. 113.

[*35] -  Gayatri Chakravorty Spivak, «Wer hört die Subalterne? Rück- und Ausblick», zeitschrift-luxemburg.de , 2016, disponible su : < https://zeitschrift-luxemburg.de/artikel/wer-hoert-die-subalterne-rueck-und-ausblick/ >.

[*36] -  Ivi

[*37] -  Jens Kaster, «Tod einer Handlungsmacht», graswurzel.net, 2016, disponible su : < https://www.graswurzel.net/gwr/2016/12/tod-einer-handlungsmacht/ >.

[*38] -   La "crisi" o "crollo dei fondatori" si riferisce al crollo del mercato azionario del 1873 e, più specificamente, al crollo dei mercati finanziari. Questo crollo del mercato azionario, che colpì l'Austria-Ungheria più della Germania, pose fine all'"era dei fondatori", nel senso di una fase di creazione di società spesso speculativa.

[*39] - Juan B. Alberdi, "Bases y punto de partida para la organización política de la República Argentina" [1852], 1915, p. 13-14.

[*40] -  Aníbal Quijano, "Kolonialität der Macht, Eurozentrismus und Lateinamerika", Vienne/Berlin, Turia + Kant, 2016, p. 97 sqq.

[*41] -  Ivi p. 104.

[*42] - Ivi

[*43] - Ivi, p. 97.

[*44] -  Ivi, p. 31.

 

Fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

lunedì 4 novembre 2024

Riflettendo sulla «Metafisica del Denaro» !!

La fine della teoria: verso una società senza riflessione
- di Robert Kurz -

Non è affatto scontato che una società rifletta "su" sé stessa. Una cosa del genere si rende possibile solo se una società è in grado di confrontarsi criticamente con altre società, tanto nella storia quanto nel presente; ma soprattutto se si vive in condizioni in cui una società, che diviene in qualche modo problematica a partire dall'interno, risolve una contraddizione con sé stessa, superandosi nella sua struttura e nel proprio sviluppo. Di certo, non è così per tutte le società premoderne. Tali società non erano ancora globali, non avevano una coscienza storica e non vedevano la storia come se fosse una sequenza di processi di sviluppo e di formazioni socio-economiche. Oltretutto, non erano in conflitto con sé stesse, vale a dire, con quella che era la propria forma. Una dinastia poteva rimpiazzarne un'altra, ma la forma sociale, in quanto tale, non poteva essere messa in discussione; per fare questo non esistevano criteri. Società del genere potevano riprodursi nel corso di periodi di tempo incredibilmente lunghi (diversi millenni, nel caso dell'antico Egitto) senza collassare di propria iniziativa dall'interno; la loro scomparsa era pertanto dovuta principalmente a delle cause esterne. In tali condizioni, la società appariva sempre come se fosse la «società e basta», e non come una forma specifica che avrebbe potuto essere qualsiasi altra cosa. E anche quando - relativamente tardi nell'antichità - si cominciò a parlare delle differenti "forme di governo" (monarchia, oligarchia, democrazia, tirannia), una simile diversificazione continuava a rimanere del tutto estranea al corpo socio-economico; essa non si presentava quindi come se fosse una storia lineare di quella che rappresentava l'evoluzione della società stessa, bensì appariva come un ciclo eterno di forme di governo meramente esteriori, eppure sempre diverse. La stessa cosa vale anche per l'idea dello "Stato ideale" (Platone), il quale non rappresentava altro che una forma idealizzata della società già esistente, concepita come insuperabile. Tuttavia, rispetto a sé stesse, queste civiltà agrarie premoderne non si auto-confondevano ciecamente, scambiandosi per il loro proprio "funzionamento"; ma producevano un riflessione che andava ben al di là della loro esistenza immediata. Questa riflessione, però, non era una "critica sociale", bensì una riflessione che veniva fatta "direttamente su Dio", vale a dire, sul mondo nel suo insieme e sulla posizione dell'uomo nel cosmo, così come sull'enigma della morte. Pertanto, si trattava necessariamente di una riflessione che veniva svolta in forma e contenuto religioso. Questa maniera di pensare "su" sé stessi - che era allo stesso tempo quasi un modo di pensare l'uomo e la sua società, non in relazione a sé stessi, bensì in relazione a Dio e al cosmo - rimaneva tuttavia integrata nella struttura socio-economica che veniva presupposta senza critiche. E ciò perché, malgrado ogni assenza di interrogazione, nella sua cieca positività, questa struttura non era "muta", ma abbastanza legittimata riflessivamente; solo che essa non costituiva un oggetto in sé, quanto piuttosto una componente secondaria dell'ordine divino. In tal modo, la riflessione religiosa, la conoscenza naturale e le condizioni socio-economiche formavano un'unità immediata che veniva rappresentata e riprodotta in delle forme ritualizzate di pensiero, attraverso attività e relazioni sociali. Ecco perché, nei tempi più antichi, l'intelligenza funzionale e quella riflessiva (o, se vogliamo, da un punto di vista sociologico, le élite funzionali e riflessive) erano direttamente identiche (Re - Dèi, Governanti - Sacerdoti). Sarà solo molto più tardi che la funzione e la riflessione verranno differenziate in sfere distinte e separate. In tal modo, vennero così gettati i semi di un conflitto, che all'inizio si espressero solo in maniera sporadica (per esempio nella  medievale "disputa delle investiture" tra l'imperatore e il papa), senza però mai andare oltre la lotta per la competenza superiore in seno a un ordine che veniva tuttavia presupposto come comune.

Nella misura in cui, in queste società, il pensiero riflessivo si distaccava dalla rigida ritualizzazione religiosa, come avveniva nella filosofia antica e medievale, ecco che esso veniva rivolto, o direttamente alla natura (infatti, la scienza naturale era originariamente parte integrante della filosofia), o all'uomo in quanto essere pressoché «naturale». Dal momento che la forma e l'ordine sociale, in quanto tali non potevano essere messi in discussione, la riflessione «su» l'uomo sociale veniva a essere, in linea di principio, limitata a due temi. In primo luogo, l'«etica», la dottrina delle «virtù» e del comportamento moralmente corretto, la quale doveva fornire agli uomini un criterio per il loro comportamento, senza però valutare in maniera critica le basi della condizione sociale. Per questa metafisica, la connessione esistente tra le sue concezioni normative e le forme socio-economiche della società rimaneva oscura; essa si rivolgeva sempre all'uomo come individuo, certamente non ancora all'individuo astratto per eccellenza, quanto piuttosto all'uomo nella sua determinazione socialmente «definita» - in buona sostanza, si trattava di una comunicazione esclusiva tra «uomini dominanti»: generalmente, il destinatario (e quindi «l'uomo») era il pater familias proprietario terriero. Secondariamente, la riflessione filosofica si era sviluppata avendo un unico destinatario, oltre all'«etica», inseguiva una dottrina della «buona vita», della «felicità» dell'uomo in seno all'indiscusso ordine presupposto. Questa filosofia della «vita buona» si occupava, per esempio, delle varie forme di piacere, del rapporto tra piacere e astinenza (Diogene!), ecc. Questo aspetto della filosofia antica, mirava a un'estetizzazione dell'esistenza, il cui legame con le condizioni socio-economiche rimaneva oscuro, come era oscuro quello con l'«etica» metafisica. Fare di sé stessi, della propria vita, in qualche modo, un'opera d'arte, senza tener conto dell'insieme della società, e simultaneamente seguire, allo stesso tempo, una dottrina normativa del comportamento. È stato solo nell'epoca moderna, che ha avuto inizio la lotta per la forma sociale in sé, ed è apparsa per la prima volta una «critica sociale», una coscienza delle formazioni socio-economiche, della crisi e della trasformazione della società. Ma questo nuovo tipo di riflessione non ha permesso alla società di arrivare ad avere un'autocoscienza critica. al suo posto, si è trattato solo della forma mentale di una dinamica cieca; liberata dai bisogni per mezzo della moderna rivoluzione economica. In questo stravolgimento, la forma astratta del denaro, che fino a quel momento era stato un fenomeno marginale e di nicchia della società, si è attorcigliato su sé stesso, in un processo cibernetico: la vita sociale è stata sottomessa al movimento di valorizzazione del denaro, diventato un astratto fine in sé. Accontentandosi di esprimere questo processo cieco, il nuovo pensiero riflessivo è rimasto prigioniero della metafisica, come lo era il pensiero precedente, ma in una metafisica ormai secolarizzata, staccata dalla religione: così, la metafisica celeste di un cosmo divino, è stata sostituita dalla metafisica terrestre del denaro scatenato. Ma la metafisica, così come il suo fondamento sociale, non è stata solo secolarizzata, ma è stata anche resa dinamica. I termini di rivoluzione, sconvolgimento, processo, movimento, ecc. indicano già quale sia la differenza decisiva di questa nuova società moderna rispetto a tutte quelle che l'hanno preceduta: non solo essa si è staccata dal vecchio ordine, ma non è stata nemmeno capace di rimanere sé stessa, non ha potuto ripiegare su sé stessa, come le vecchie civiltà agro-religiose. Essa è in contraddizione con se stessa fin dalle sue origini, perché il processo di valorizzazione del denaro è insaziabile, e si riproduce sotto delle forme sempre nuove, a un livello di sviluppo sempre più alto. La macchina cibernetica del denaro diventato «principio in movimento» trascina la società, che viene sparata come se fosse un proiettile nel tempo lineare. Di conseguenza, il nuovo pensiero «critico della società» ha inventato la storia lineare e il progresso, l'orientamento al futuro e la critica di ogni stadio che viene raggiunto, visto come se si trattasse di una semplice fase di transizione verso un nuovo e presunto stadio «superiore». È stato solo in un simile contesto che l'intelligenza funzionale e l'intelligenza riflessiva sono entrate in contrapposizione sistematica e strutturale, poiché la riflessione secolarizzata ha assunto il ruolo della critica che spinge in avanti il «funzionamento» che si ostina a rimanere in un determinato stadio dello sviluppo. Ma questa critica è sempre rimasta incatenata alla metafisica moderna del denaro, non è stata altro che l'espressione intellettuale della contraddizione interna della società moderna con sé stessa. Ad essere criticate. non erano le forme categoriali di questa società in quanto tale, ma sempre e unicamente la loro insufficienza e il loro «sottosviluppo», rispettivamente. Da un lato, per molto tempo, la critica sociale ha continuato a preoccuparsi ancora della crescente dissoluzione del vecchio ordine agrario e religioso, e dei suoi resti; dall'altro, rifletteva anche sul processo dinamico del nuovo ordine, e proclamava in tal senso gli obiettivi dello «sviluppo». Per il marxismo, questo vale ancora. È vero che Marx è stato l'unico teorico moderno ad aver sviluppato anche quelli che sono stati gli inizi di una critica categoriale della modernità, vale a dire una riflessione «sulla» metafisica del denaro. Ma questa idea non ha potuto essere rispettata. Fintanto che lo sviluppo dinamico del sistema sociale moderno continuava, si era solo desiderosi di sapere cosa sarebbe venuto dopo. Ad essere l'oggetto della discussione teorica, era lo stadio successivo dello «sviluppo», e non il principio metafisico, l'essenza o la logica di questo stesso «sviluppo». Sembra che la situazione sia fondamentalmente cambiata alla fine del XX secolo. Mentre il concetto di progresso ha perso da tempo il suo potere di attrazione, la teoria critica della società viene ormai considerata obsoleta; e non solo la teoria marxista, ma la teoria in generale. In ogni caso, il postmodernismo ha insinuato nei confronti delle cosiddette «grandi narrazioni», o «grandi teorie», il sospetto di una «pretesa totalitaria» su tutto ciò che veniva considerato come una teoria in quella che è stata la storia della modernizzazione fino a oggi. Non bisogna più guardare all'insieme della società, e si tratta pertanto di abbandonare i «grandi concetti» e accomodarsi nell'«indeterminatezza» teorica. La teoria critica deve essere sostituita da un gioco intellettuale non impegnativo.

Ma da dove proviene questa sorprendente giravolta, questo «disarmo della teoria»? Si potrebbe supporre che la riflessione teorica taccia perché le dinamiche sociali che la sottendono si stanno esaurendo. Su scala planetaria, non esiste più una società tradizionale dalla quale si possa rimanere disgustati. E sembra che, all'interno della modernità, non ci sia più nemmeno una nuova fase di sviluppo sociale «a venire», visto che il processo di valorizzazione economica comincia a esaurirsi. Il processo va avanti, ma solo come un processo negativo di crisi, su cui non può più essere fatto, positivamente, alcun investimento di speranza. Lo sviluppo tecnico diviene incompatibile con la moderna metafisica del denaro. Tuttavia, il pensiero critico moderno si sottrae a questo livello di riflessione, perché per farlo dovrebbe superare quelli che sono i suoi i propri limiti. Ed è proprio nel momento in cui il totalitarismo reale del denaro domina la realtà come non mai, che quella stessa teoria critica della società viene denunciata, nelle sue asserzioni, in quanto totalitaria. Essa ha fatto il suo dovere, ma ora bisogna che lasci in pace tutta la società nel suo insieme, e deve farlo proprio adesso, nella sua crisi. La vera contraddizione sociale, che non è più gestibile nella solita maniera, ora deve semplicemente essere bandita dal pensiero. La tetra fine dello sviluppo moderno viene pertanto assurdamente celebrata come se fosse una transizione verso un «pragmatismo senza più illusioni». In tal modo, il pensiero riflessivo cessa, e si conclude, insieme alla critica della società. L'intelligenza riflessiva sparisce. Ma tuttavia l'intelligenza funzionale non ha affatto trionfato, è semplicemente rimasta orfana. Nel momento in cui è stata esposta alla critica della riflessione teorica - ma ha pur sempre trovato in essa un orientamento, e quindi una nuova legittimità - la fine della sua antinomia strutturale diviene ora la sua propria crisi. Le élite funzionali girano a vuoto; il loro funzionamento non è più in grado di far fronte alla crisi della realtà, e così scivola nel grottesco. Ma tutto ciò non viene nemmeno notato, e ciò avviene proprio perché anche la coscienza quotidiana ormai si trova, anch'essa, in uno stato del tutto irriflessivo. La così tanto decantata capacità dell'individuo moderno di riflettere su sé stesso, di stare «accanto a sé stesso» e osservare virtualmente le proprie azioni, come lo facesse dall'esterno, non c'é più. Tale capacità sparisce proprio perché era legata a doppio filo allo sviluppo positivo della società moderna. Ed è proprio nel momento in cui arriva alla sua fine che questa società diventa identica a sé stessa in maniera fantasmatica. Le generazioni postmoderne non comprendono più i termini della riflessione, i quali in pochi anni sono diventati altrettanto estranei dell'antico culto egizio dei morti. Sono ciò che sono, e niente di più. Quanto più il loro agire quotidiano diventa impossibile, tanto più tali termini appaiono immediatamente identici a tale agire. La crisi della realtà viene rimossa dal pensiero postmoderno; il quale tenta di sostituire alla critica della società una sorta di riciclaggio simulato della coscienza premoderna: la filosofia disarmata vorrebbe tornare, in tutta innocenza, agli antichi paradigmi dell'«etica» e dell'«arte di vivere». Però dimentica che non esistono più le condizioni sociali per un simile pensiero. Il modo di pensare acritico premoderno, era possibile solo a condizione che la società fosse statica, e che il pensiero riflessivo non fosse assente, ma che si riferisse a un ordine divino. Non è possibile tornare a una simile condizione. Nella sua fase finale, il sistema moderno diventa pertanto la prima società della storia a essere totalmente priva di riflessione. Insieme alla sua capacità di auto-riflessione, perde così anche quella che è una condizione fondamentale dell'esistenza umana. Una società che si limita soltanto a funzionare, non è più umana, e in definitiva non può più nemmeno funzionare. In quello che è ormai un movimento inutile, che ha perso ogni senso superiore e ogni obiettivo, il pensiero normativo dell'«etica» deve svanire senza conseguenze, dal momento che non è più ancorato a nulla. E la filosofia della «vita realizzata», dell'uomo individuale visto come «opera d'arte» di sé stesso, diventa solo una triste farsa; dal momento che ignora la crisi della metafisica moderna. Si proclama quale pensiero «post-metafisico», mentre la metafisica sociale reale della modernità rimane insuperata: l'auto-estetizzazione postmoderna avviene nell'ambito di quella che ormai è una casa in fiamme.

Robert Kurz, 2002. Questo testo è apparso in: R. Kurz, Weltkrise und Ignoranz. Kapitalismus im Niedergang, Edition Tiamat, Berlino, 2013, S. 60-67.