giovedì 17 ottobre 2024

Il fronte culturale del capitalismo !!??

Tutto ciò che luccica: possiamo tornare all'età dell'oro?
La teorizzazione che fa la Wertkrik, del capitalismo contemporaneo, visto come spinto, da delle forze di distruzione che si dispiegano, a una danza autoritaria di morte, ci consente di interpretare in maniera più selettiva quelle che sono tutte le diverse determinanti poste per il suo sviluppo, in un momento di "poli-crisi". La crisi finanziaria e l'ascesa del populismo, insieme, sono state viste come l'inaugurazione di un capitalismo "post-neoliberista" (Davies & Gane, 2021). Mentre, la pandemia di COVID-19 veniva invece vista quasi come un rafforzamento delle tendenze esistenti che spingevano a un maggiore intervento dello Stato nell'economia. Nel frattempo, la crisi ambientale sembra che ora abbia costretto a un riequilibrio - tra Stati e mercati - in modo da poter così rimediare ai fallimenti, registrati dalle aziende, nella lotta al cambiamento climatico. Tutti questi mutamenti, sono sempre stati accolti con entusiasmo da tutto lo spettro politico. Alcuni commentatori “post-liberali” prevedono oggi che questa agenda possa rappresentare una sorta di “nuovo sviluppismo con cui aggiornare sia gli ‘stati di sviluppo’ aziendali della ‘ricostruzione nazionale’ del dopoguerra in Occidente, sia le economie ad alta tecnologia dell'Asia orientale”(Lind, 2020). Altri, sembrano convergere sulla valutazione di questo compromesso da “età dell'oro” della metà del XX secolo, visto come archetipo di un capitalismo ben funzionante (si veda Pitts e Thomas 2024). Anche le visioni più futuristiche e orientate al futuro del capitalismo e delle sue alternative portano con sé questo tipo di fardello nostalgico; che va dalla missione dell'economia dello Stato imprenditoriale promossa da Mazzucato (2013, 2021) che cita come modello gli sbarchi sulla Luna, guidati dallo shock dello Sputnik; e arriva fino ai sogni luccicanti della sinistra radicale del piacere e dello svago resi possibili dalla tecnologia, basati su un'abbondanza rossa debitrice del "socialismo reale" del XX secolo (Bastani, 2019).
Ma la Wertkritik viene a ricordarci quale sia stata la condizione per cui ci è stata negata questa "età dell'oro” della metà del XX secolo; e che tutte queste visioni cercano in qualche modo di ricreare. Come ci dice Kurz, l'età dell'oro è stata un'aberrazione che si è prodotta in quelle che erano delle condizioni altamente specifiche e contingenti, attraversate dalla minaccia del totalitarismo e dell'annichilimento, oltre che da concessioni e progressi sociali e materiali fatti sotto la costrizione di un mondo spezzato in due e separato in singole economie nazionali. Dato che ora la situazione odierna viene letta come se si trattasse di una “guerra fredda” razionalista e realista, sembra che alcuni siano colpiti dalla sensazione che staremmo ricomponendo le condizioni per raggiungere dei nuovi compromessi, a partire dal fatto che i mercati si stanno ritirando all'interno delle frontiere in modo de-globalizzante. Ma così facendo, si scambia una guerra civile mondiale, che attraversa il contesto interno e quello internazionale, per una guerra fredda tra due blocchi nettamente separati con le proprie sfere d'influenza. Quello che il concetto di “guerra civile mondiale” coglie, è il fatto che i conflitti e le competizioni geopolitiche contemporanee sono caratterizzate da un'interconnessione assai maggiore rispetto a quella della Guerra Fredda del XX secolo, con la sua politica militare e di sicurezza intrecciata molto più strettamente con quelle che sono le preoccupazioni interne, sia sociali che economiche (Leonard, 2021; Pakes & Pitts 2023).   
Sebbene non sia in atto una resurrezione dell'assetto sociale e industriale fordista-keynesiano, che poi è quello che molte forze politiche cercano, ciò che è in atto è comunque una logica geopolitica che guida lo sviluppo capitalistico in dei modi che oggi - nella maggior parte delle interpretazioni della svolta "post-neoliberista" - non vengono nemmeno presi in considerazione. La presentazione offerta dai policymaker, e l'immaginario popolare di questo modello "neo-keynesiano" di capitalismo, rivendica come motivazione il desiderio di creare una mediazione più dinamica, più inclusiva e green delle forze produttive, in modo da ottenere così una ripresa equa dalla pandemia per riuscire a combattere la crisi climatica (Merchant, 2023). Tuttavia, la verità, meno appetibile, è che l'approccio all'intervento statale e alla politica industriale rappresentato dalla Bidenomics, e da altre iniziative simili nei paesi alleati, è spinto dalla guerra civile mondiale, la quale si esprime attraverso aumenti della spesa per la difesa, e negli sforzi per (ri)localizzare le catene di approvvigionamento in risorse strategiche, minerali e materiali.
Tutto questo, viene comprensibilmente guardato attraverso il prisma di una "nuova guerra fredda", incentrata sull'intensificazione delle relazioni tra un blocco democratico liberale guidato dagli Stati Uniti, e un blocco autoritario rivale organizzato intorno alla Cina e che include la Russia (Anderson, 2023; Luce, 2023). Ma, dal punto di vista del concetto di guerra civile mondiale, sarebbe meglio pensare, non a una divergenza, ma piuttosto, a una convergenza intorno a determinate dinamiche autoritarie che, essendo in gioco sia a livello interno che internazionale, strutturano le relazioni sociali ed economiche del capitalismo contemporaneo. Basta leggere le dichiarazioni degli stessi politici per capire che le audaci strategie industriali alla base della Bideonomics hanno una motivazione geopolitica basata su un “nuovo accordo di Washington” che reagisce a un capitalismo statale di tipo diverso, sperimentato in Cina e che diffonde la propria influenza tramite organismi come i BRICS (un raggruppamento economico e geopolitico costituito da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e la Belt and Road Initiative ( ad es. Ahmed et al., 2020). Attraverso questa divergenza, assistiamo ad aspetti di convergenza, dal momento che anche i Paesi occidentali riconoscono la necessità di replicare questo fenomeno nelle proprie strategie. Il così tanto annunciato passaggio a un capitalismo post-neoliberale, nel quale lo Stato si interesserebbe attivamente alla politica industriale, non è pertanto solo una risposta razionale alle crisi politiche, ecologiche ed economiche contemporanee. Ciò che la Wertkritik mette in luce ed evidenzia, è che sia il marxismo materialista che il liberalismo idealista stanno attribuendo ai cambiamenti del capitalismo, esattamente quello che invece è solo un calcolo deterministico, o razionalistico, basato su una nozione di progresso storico e tecnologico. L'accettazione - sia da parte degli studiosi mainstream , che da quelli cosiddetti critici - di una sorta di ragione economica, o di una razionalità materiale, che guiderebbe le decisioni prese dalle organizzazioni e dalle istituzioni dello Stato, del capitale e della società civile tutte insieme, e la mancanza di capacità di confrontarsi criticamente con il ruolo dello Stato, non sembra essere in grado di riuscire a comprendere un capitalismo plasmato da una guerra revanscista e da una disputa ideologica.

Conclusione: il capitalismo e il fronte culturale
Le dinamiche discusse in questa sezione conclusiva non operano necessariamente sulla base della redditività capitalistica, o di ciò che è razionale o ragionevole, e ciò che colpisce nell'analisi presentata fin qui è in che misura l'approccio Wertkritik al rapporto che intercorre tra guerra e capitalismo sia riuscito a ritornare ai temi centrali della teoria critica, concentrandosi in ultima analisi sul fronte culturale della guerra civile mondiale. Attraverso le trasformazioni che essa ha tracciato a livello più materiale ed economico nei decenni precedenti, un elemento di stabilizzazione è stato individuato in una rivolta culturale contro la democrazia liberale, sia esterna che interna all'Occidente stesso. Ciò ha colto che quello che, durante la Guerra Fredda, veniva percepito come se fosse una competizione sistemica tra capitalismi rivali incentrati, rispettivamente, sul mercato e sullo Stato; e così traduceva l'antagonismo fondamentale in un antagonismo tra culture e civiltà. Tuttavia, la consapevolezza della decadenza e del declino dell'Occidente - che accomuna i vari attori geopolitici - non rappresenta un polo di opposizione esterno alla democrazia liberale, quanto piuttosto un antimodernismo reazionario che nasce all'interno della stessa società borghese. Come sostiene Trenkle, «questa narrazione culturalista è emersa in Europa nel 19° secolo... come reazione all'insicurezza generalizzata che era stata prodotta dalle sfrenate dinamiche capitalistiche... Come contro-immagine, le persone avevano costruito delle visioni di culture o religioni, apparentemente antiche, che erano però profondamente radicate... e che avevano bisogno di essere protette... o ravvivate». In quanto tale, l'orientamento apparentemente "anti-occidentale" e il "modello culturalista di tradizioni inventate", che oggi troviamo alla base di tutti i "fondamentalismi nazionalisti, etnicisti e religiosi", sono essi stessi il risultato di queste forze e movimenti che stanno consumando un prodotto che l'Occidente stesso ha creato (Trenkle, 2022c). Questo assalto "culturalista" alla presunta decadenza occidentale, è sotteso dalla dimensione autoritaria della "guerra civile mondiale". Il fatto che l'attacco retorico contro l'Occidente, che accomuna la Russia, la Cina e l'Iran, si rifaccia a conflitti culturali e a critiche già centrali nelle stesse società occidentali, significa che questa guerra civile mondiale non si limita solo ad aprire un solco tra Stati e blocchi sulla scena globale, ma crea divisioni anche all'interno dei singoli paesi che vi partecipano. Tra le altre conseguenze, ciò erode il muro di separazione tra politica interna e politica estera, tipico di quelle che sono state altre fasi di rivalità tra grandi potenze. Questa dinamica - suggerisce Lohoff (2023b) - può essere vista non solo nella re-invasione dell'Ucraina da parte della Russia, e nella guerra per procura dell'Iran con Israele e con gli Stati Uniti, in Medio Oriente, ma anche nella svolta autoritaria osservata all'interno delle democrazie occidentali, come conseguenza dei cambiamenti culturali, delle preferenze degli elettori e delle politiche di sicurezza contro le minacce interne ed esterne percepite.  Il carattere culturale della guerra civile mondiale implica delle risposte alquanto diverse, anche da parte della sinistra, rispetto a quanto suggerirebbe una comprensione più ristretta ed economicistica di una “seconda guerra fredda”. L'“orientamento alla realpolitik” implicito nella prospettiva di una “nuova guerra fredda”, che combina i calcoli razionali di cooperazione allo scontro, fondamentalmente scarta ogni possibilità di una qualsiasi risposta emancipatoria basata su quel poco che resta dell'universalismo negato e incompleto che viene associato ai cosiddetti “valori occidentali”. Trenkle (2022a) sostiene che è questo ciò che mette in discussione l'universalismo, visto come baluardo contro “l'offensiva geopolitica dell'autoritarismo”, soprattutto perché, nel contesto di una guerra civile mondiale, nella quale esistono ben pochi confini netti tra i blocchi, la coalizione contro i  nemici contiene al suo interno anche alleati che difficilmente possono essere considerati esemplari di democrazia, di libertà e di diritti umani. Nel frattempo, vediamo anche un analogo rifiuto di questo percorso emancipatorio da parte della stragrande maggioranza della sinistra contemporanea, la quale segue Karl Liebknecht nel vedere il nemico principale in casa propria, vale a dire, in Occidente piuttosto che in Russia, in Cina o in Iran, per esempio. Ciò è comprensibile, suggerisce Lohoff (2022), nella misura in cui la “società mondiale” capitalista, di cui i Paesi occidentali sono sinonimo, ha visto la ricchezza e il potere distribuiti in maniera altamente diseguale e ingiusta tra le classi e le regioni, quando «solo una parte relativamente piccola della popolazione mondiale può condurre una vita ragionevolmente adeguata e sicura e trovare accesso a ciò che la Carta dei diritti umani promette»(Trenkle, 2022a).
Tuttavia, queste analisi suggeriscono anche la responsabilità - per coloro che sono vistosamente impegnati nell'emancipazione - di riconoscere quanto il mondo diventi pericoloso nel vuoto causato dal ritiro dell'Occidente, rispetto al suo precedente ruolo di garante di alcune di queste forme di libertà e diritto. Lohoff (2022) sostiene che, anche se la promessa della loro realizzazione, nella "società globale" post-Guerra Fredda, è stata "miseramente imbarazzante", sarebbe un errore, per coloro che sono interessati all'emancipazione, perdere di vista la capacità di "autodeterminazione e partecipazione alla ricchezza sociale", che verrebbe scartata insieme a essa. Nel contesto di una guerra civile mondiale che attraversa i paesi che ne fanno parte, e non solo tra di loro, la visione regressiva del mondo dell'emergente "internazionale autoritaria", come la definisce Lohoff, non viene imposta alle democrazie occidentali dall'esterno, ma scaturisce dall'interno dell'ordine che esse hanno costruito, e proprio a causa della sua promessa fallita di libertà e diritti per tutti. Lohoff suggerisce (2023c), pertanto, che la guerra civile mondiale oggi richiede che una sinistra emancipatrice si impegni nella difesa e nell'ulteriore realizzazione del progetto incompleto della democrazia liberale, facendolo in un momento in cui le potenze occidentali e i loro dubbi alleati la promuovono solo a metà. In nessun modo, la sinistra dovrebbe desiderare la sconfitta della democrazia liberale per mano di un'opposizione apparentemente "antimperialista", e che in ultima analisi è di carattere autoritario; o per mano dell'autoritarismo strisciante di alcuni governi e movimenti politici all'interno dello stesso Occidente. Tuttavia, le tendenze alla convergenza non implicano equivalenza, e sia Lohoff che Trenkle sostengono che le libertà incomplete - ma comunque molto reali e accessibili a coloro che vivono nelle democrazie liberali occidentali - "se necessario", devono essere difese ed estese, come dice Trenkle, "anche con la forza" (2022a). Ma il "carattere trans-nazionale" dell'offensiva autoritaria significa che questa lotta non può essere confinata solo alle unità nazionali, tra e contro di loro, ma piuttosto deve procedere anche all'interno. Per Trenkle, ciò implica un'intensificazione delle lotte emancipatorie per la "trasformazione sociale ed ecologica" - contro gli attuali limiti associati all'organizzazione della "produzione di merci e dello Stato" - ricollegando lo sviluppo del resoconto fatto dalla Wertkritik sulla guerra e sul capitale con alcune delle preoccupazioni fondamentali originariamente introdotte nei primi lavori di Kurz – vale a dire, il cablaggio nello sviluppo capitalistico delle forze di distruzione in divenire e la necessità materiale del loro superamento. Questo ci riporta a un'intuizione fondamentale che la Wertkritik offre a coloro che cercano fonti di luce in mezzo all'oscurità (vedi Kurz, 2013c; Lohoff, 2013): la connessione tra la guerra civile mondiale e la "crisi ontologica" che porta alla realizzazione dei soggetti per mezzo della degradazione degli altri in quanto oggetti, la tendenza alla barbarie che tale "crisi ontologica" codifica nella società capitalista e l'incapacità, da parte di qualsiasi forma di "amministrazione planetaria", di evitarla veramente.

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

- 7 – FINE  -

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mercoledì 16 ottobre 2024

Le preferenze di voto dell'elettore maschio, bianco e operaio...

Dalla "nuova guerra fredda" alla "guerra civile mondiale"
- di Frederick Harry Pitts -

Oltre a differire dagli attuali approcci basati sulla teorizzazione dell’"imperialismo", la concettualizzazione di una guerra civile mondiale fornisce un'alternativa a quel consenso accademico e politico emergente che comprende il periodo attuale all'interno di un quadro realista o razionalista di quella che sarebbe una "nuova", o una "seconda", guerra fredda, la quale dovrebbe implicare il ritorno di un capitalismo organizzato intorno a dei blocchi concorrenti basati più sulle forze produttive che su quelle distruttive. Questa "nuova" o "seconda" guerra fredda, viene spesso considerata in relazione all'ascesa e alla centralità della Cina, vista come la sfida chiave che il capitalismo occidentale deve affrontare. Ciò viene caratterizzato da alcuni esponenti della sinistra - sostiene Lohoff (2023a) – come se ciò fosse parte di una resistenza mondiale contro l'egemonia imperialista occidentale, o semplicemente come l'apertura di un processo multipolare di competizione tra le vecchie e le nuove potenze imperiali: la cosiddetta "seconda guerra fredda". Un'interpretazione questa, che indica la "Belt and Road Initiative" come la principale mossa di Xi per il potere politico-economico nel Sud del mondo, e oltre. Tuttavia, la concettualizzazione della guerra civile mondiale, fatta dalla Wertkritik, getta una luce diversa su ciò che è in gioco, concentrandosi non sulla competizione economica, ma su ciò che oggi, coloro che si inscrivono in questa tradizione, vedono come una lotta culturale e di civiltà combattuta su tutta una serie di fronti, al fine di riconfigurare l'ordine globale e liquidare le libertà civili; facendolo in un modo che va oltre anche quella che è stata la doppia interferenza attuata dagli Stati Uniti sotto la cosiddetta Pax Americana.

Contro la convinzione, che hanno alcuni a sinistra, secondo cui la Cina farebbe parte di una costellazione antimperialista che si contrappone all'egemonia degli Stati Uniti, la cosa difficilmente regge, nel momento in cui è evidente che, nei mercati e nelle istituzioni globali, la Cina stessa è un attore altrettanto potente degli Stati Uniti e dell'Europa. Rispetto ad analisi più ampie, il posizionamento della politica estera cinese non viene catturato dalla categoria di "competizione sistemica", così come questa viene concettualizzata nei resoconti fatti dalla realpolitik della cosiddetta "seconda guerra fredda". Xi non sta cercando di sostituire la supremazia degli Stati Uniti ereditandone un ordine mondiale intatto - propone Lohoff - ma intende piuttosto trasformare le regole del gioco stesse, in modo da preservare il regime del Partito Comunista Cinese e, talvolta, quello dei suoi alleati e clienti, come la Russia e l'Iran.  Secondo Lohoff (2023a), la politica militare ed estera sempre più assertiva della Cina, incentrata principalmente, ma non esclusivamente, su Hong Kong e Taiwan, è strettamente intrecciata con l'approccio più repressivo che ha il suo governo per poter controllare il dissenso a livello nazionale. I tentativi di eliminare, vicino a casa, ogni spazio per le libertà civili - suggerisce Lohoff - andrebbe visto nel contesto della più ampia "controrivoluzione preventiva" della Cina contro coloro che vengono visti come movimenti per i diritti e le libertà imposte dall'Occidente; una lotta condotta nelle istituzioni internazionali e nel contesto delle relazioni economiche che condivide con gli Stati Uniti e con l'Europa. Questa combinazione di contraddizioni interne e di scontri esterni sta portando la Cina sulla strada di un conflitto diretto con gli Stati Uniti, e con l'Occidente in generale. Ma, come Lohoff argomenta altrove (2022), il pericolo di inquadrare il mondo vedendolo in termini di un calcolo realista a partire da una "nuova guerra fredda", tende a concentrare le menti su un conflitto tra grandi potenze, tra gli Stati Uniti e la Cina, e le rispettive sfere di influenza, e lascia assai poco spazio per fare i conti con quelle che sono invece condizioni e conseguenze di tutta una serie assai più complessa di rotture, tra cui, in particolare, quella che è la campagna espansionistica della Russia di dominio e di destabilizzazione in Europa.

Questa compiacenza, è stata evidenziata nel cosiddetto "Indy-Pacific Tilt" del Regno Unito, così come esso è delineato nei recenti documenti strategici, dove, sotto l'influenza dei politici realisti al governo, la posizione militare britannica è stata ripristinata in direzione di una coalizione occidentale contro la Cina, e ciò è avvenuto proprio sull'orlo del precipizio, allorché i piani della Russia per una nuova invasione dell'Ucraina erano diventati chiari. Come sottolinea Trenkle (2022b), la re-invasione dell'Ucraina da parte della Russia non è avvenuta in un contesto nel quale potrebbe plausibilmente essere presentata come se si trattasse di una reazione all'accresciuta assertività occidentale; ma ha avuto invece avuto luogo in un momento in cui - sulla scia del ritiro dall'Afghanistan e dell'abbandono delle linee rosse in Siria - l'Occidente si è venuto a trovare in un periodo di debolezza militare e diplomatica senza precedenti. Alla luce di questa assenza di direzione, la Russia ha colto l'opportunità di rubare l'iniziativa ai suoi rivali geopolitici, potendo contare sulla mancanza di una risposta sostanziale da parte delle democrazie distratte da questioni interne; e che si trovavano in una posizione inadeguata per rischiare una guerra totale. A causa di questa posizione di debolezza -  suggerisce Trenkle (2022a)-  l'Occidente non può essere ritenuto responsabile per aver guidato questo revanscismo nazionalista, né a causa della sua presunta umiliazione della Russia post-sovietica, né come reazione all'espansione della NATO verso est; piuttosto, tutto ciò è stato il risultato dell'incapacità interna della Russia a venire a patti con il crollo delle cosiddette glorie passate. Trenkle, vede tutto questo come il risultato del fallimento, da parte del capitalismo di Stato, nel tenere il passo con il capitalismo di mercato in Occidente, e il conseguente esacerbarsi del danno industriale ed economico subito dalla cleptocrazia che era seguita. "L'impoverimento e l'insicurezza" che ne sono derivati, sono stati accompagnati da ben pochi di quei diritti e di quelle libertà che avrebbero invece fatto sì che valesse la pena che ci fosse stato un tale sconvolgimento. In un simile contesto, ciò che il governo autoritario di Putin ha saputo offrire è stato solamente un senso di identificazione nazionale, la quale ha rafforzato lo status di violazione della collettività, e ha fornito così solo alcuni mezzi di stabilizzazione. La difficoltà - suggerisce Trenkle - consiste nel fatto che le "fantasie" di restaurazione nazionale sono tanto più crollate, quanto maggiori sono diventati gli antagonismi interni, e le debolezze economiche della Russia. Così facendo, il regime di Putin somiglia sempre più a una manica di "perdenti" che si trova alla fine della "competizione capitalista", la cui vulnerabilità si esprime per mezzo del peggior tipo di "energie regressive". Ed è pertanto guidato dal desiderio di restaurazione o di vendetta, indipendentemente dal rischio di distruzione interna ed esterna, nel mentre che persegue la sua guerra di risentimento contro coloro che vengono percepiti - sia all'interno che all'esterno dei suoi confini - come i rappresentanti dei diritti e delle libertà di un Occidente decadente.

A causa di molti di questi aspetti - osserva Trenkle (2022a) - a guidare il revanscismo della Russia, non è un fenomeno esterno estraneo al tessuto delle società occidentali, ma si tratta piuttosto proprio di qualcosa che invece si annida anche all'interno di esse, sia a sinistra che a destra. In ciascuna delle due parti del conflitto tra l'Occidente e il resto del mondo, ciò che vediamo sono delle società ricettive al richiamo della sirena di una "visione del mondo anti-modernista" che postula culture "organiche"... contro il "degrado" e contro la "decadenza dei valori". In particolare, vediamo la politica identitaria puntellare quelle "posizioni di potere sociale" che sono state perse da determinati gruppi – soprattutto dai "maschi" – tentando una "irrealizzabile" ri-creazione di quel mondo che in passato aveva assicurato un simile status. Trenkle associa pertanto il revanscismo di Putin a una critica del capitalismo contemporaneo che è comune sia alla destra autoritaria che alla sinistra autoritaria, e che si manifesta in "un ritorno al mondo del fordismo, o del "socialismo reale", in cui il "lavoro onesto" ancora contava, e la relazione tra i sessi era ancora chiaramente binaria, e dove "prevaleva ancora l'ordine". L'impossibilità di un qualsiasi ritorno a un mondo del genere - argomenta Trenkle - rende ancora più distruttiva la sua ricerca, facendo sì che le "forze regressive ... riducano ogni cosa in macerie". È probabile che, in qualche modo, questa dinamica stia guidando almeno una parte del cambiamento politico-economico associato tanto al Trumpismo quanto alla Bidenomics, a partire dal malcontento populista che si manifesta attraverso una prospettiva politica orientata a compiacere gli elettori maschi della classe operaia tradizionale, le cui preferenze di voto si sono dimostrate decisive in tutti i modelli elettorali dell'ultimo decennio. Tutto ciò non può essere districato per mezzo di una qualche politica interna di rimpatrio industriale, che viene ampiamente vista come espressione della "seconda guerra fredda". A partire da questo, la cornice concettuale della "guerra civile mondiale" ci permette invece di vedere il carattere del nostro confronto contemporaneo come derivante da una dinamica in qualche modo diversa dalla sola competizione economica. Il mix regressivo di "autoritarismo, maschilismo, culturalismo aggressivo e antisemitismo", che Trenkle (2022a) associa alla Russia di Putin e ad altre potenze, non è qualcosa di lontano rispetto alle società libere dell'Occidente democratico, ma piuttosto "ne costituisce la pancia oscura", il suo "irrazionalismo" esprime tutti i "punti ciechi" e tutte le "esclusioni" inerenti a una "razionalità borghese" che presume si possa calcolare il comportamento sia sul piano economico che su quello diplomatico o geopolitico, nascondendo al contempo la povertà, la violenza e il dominio soggiacenti.

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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martedì 15 ottobre 2024

Contro il sogno della libertà e di una vita migliore !!

L'imperialismo liquido e la colonialità del potere
- di Frederick Harry Pitts -

Come notato in precedenza, in un certo qual modo, l'analisi della Wertkritik relativa a uno sviluppo intrecciato del capitalismo e del conflitto che spinge verso l'attuale "guerra civile mondiale", risuona con altre analisi che si collocano all'interno di una linea marxiana, come quella della "Colonialità del potere ed eurocentrismo in America latina", da parte di Anibal Quijano (2007). Quest'ultimo concetto, è stato ampliato anche in un recente intervento del dissidente marxista siriano Yassin al-Haj Saleh (2023) che segue una linea di argomentazione che mette in discussione la rilevanza delle teorizzazioni convenzionali che vedono l'imperialismo come lo "stadio supremo" del capitalismo, e che appare quindi simile a quelle prodotte dai pensatori della Wertkritik relative ai conflitti e alle crisi del periodo contemporaneo. Saleh, traccia il modo in cui le forme passate di imperialismo siano state prima sepolte, per poi venire completamente riconfigurate nella guerra civile mondiale contemporanea; e lo fa usando la Siria come un caso di studio nelle iniziative e nelle priorità concorrenti dei diversi attori. Descrive il modo in cui gli Stati Uniti, la Russia, l'Iran, la Turchia e Israele - per non parlare dell'ISIS e dello stesso regime di Assad - portino in sé delle storie associate in qualche modo all'imperialismo o al colonialismo, che oggi modellano secondo le loro ambizioni regionali. Tutto questo produce un insieme complesso e intersecante di alleanze e rivalità, basate su storie coloniali e imperiali, che Saleh definisce «imperialismo liquido». E lo fa usando il concetto di Quijano, di "colonialità del potere", al fine di capire in che modo lo stesso regime di Assad oggi occupi una posizione coloniale in riferimento al territorio che governa, estendendola poi per mezzo dell'invito fatto alla Russia e all'Iran, a intervenire in suo nome contro gli stessi cittadini siriani. La Russia ha stabilito per la prima volta una presenza in Siria, al di là della sua tradizionale sfera di influenza, su invito del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. Nel frattempo, come suggerisce Saleh, il cosiddetto "asse della resistenza" dell'Iran in Medio Oriente (2023) dispiega la retorica "antimperialista", usandola come "cortina fumogena", volta a celare l'espansionismo della Repubblica islamica, e usando il sostegno alle dittature regionali contro la ribellione popolare e la destabilizzazione dei governi, attraverso milizie settarie come gli Houthi; nonché istituendo una rete per procura, che è stata messa al lavoro contro obiettivi civili e militari, appartenenti a Israele e all'Occidente, nel conflitto regionale recentemente scoppiato sulla scia degli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Nel frattempo, gli islamisti salafiti-jihadisti, che hanno fatto deragliare la lotta di emancipazione contro il regime di Assad, rappresentano anche una forza esterna che ha dei disegni imperiali per dominare e controllare la Siria, vista come parte di un califfato fondamentalista. Saleh, suggerisce che lo spazio - per far sì che i diversi "imperialismi liquidi" possano sbarcare in Siria - è stato aperto, non a partire da dei processi rimasti confinati solo all'autoritario "asse della resistenza", apparentemente opposto all'Occidente, proprio dalla guerra al terrore portata avanti da quest'ultimo, nella quale, a volte, abbiamo visto attori del calibro di Stati Uniti e Regno Unito coordinarsi con la Russia, al fine di combattere i crociati salafiti-jihadisti che erano entrati nella regione. Anche durante le fasi peggiori dell'assalto congiunto Assad-Putin-Soleimani al popolo siriano, l'Occidente si è impegnato in un'attenta danza di "de-conflitto", e di divisione del lavoro riguardante la distruzione dell'ISIS. La combinazione di questa calibrazione con l'inimicizia generale ha evidenziato il carattere "liquido" dei progetti imperiali in gioco. La complessità con cui si è espressa la partecipazione delle potenze occidentali e della NATO al conflitto, è evidenziata - suggerisce Saleh – proprio a partire dal modo in cui gli Stati Uniti hanno collaborato con le forze curde, in quanto alleato contro l'ISIS in Siria; e questo sebbene le forze curde mantengano anche un'intesa strategica con le forze militari di Assad. Nel frattempo, la Turchia, alleata degli Stati Uniti, nella NATO, è intervenuta in Siria per combattere il PKK curdo, esportando così la propria guerra civile, dal Kurdistan turco al Kurdistan siriano, vedendola come parte della più ampia guerra civile siriana,e  conseguenza della rivoluzione popolare contro Assad. Il ramo siriano del PKK, il PYD, era un alleato degli Stati Uniti nella lotta contro l'ISIS, ma gli Stati Uniti alla fine hanno tradito i curdi, nel contesto di un mercanteggiamento con la Turchia su altre questioni militari e diplomatiche legate alla loro vicinanza alla Russia di Putin. Pertanto, negli interessi strategici in gioco, esiste ben poca coerenza - o consistenza - rispetto a quella che veniva garantita dagli imperativi materiali, o economici, dell'imperialismo classico.

Come suggerisce Saleh, l'adesione della sinistra a quella che è stata una comprensione dell'imperialismo debitrice della concettualizzazione di Lenin riguardo la "fase suprema del capitalismo", ha causato la tendenza a limitarne la sua applicazione solamente alle democrazie liberali occidentali, facendolo per di più in base alla fantasia secondo cui la Russia e la Cina di oggi, in qualche modo, recherebbero, proveniente dal loro proprio passato, un contenuto non capitalistico, per quanto poi siano in pratica capitaliste esse stesse. Così, in tal senso, "l'imperialismo liquido" fornisce una spiegazione alternativa e coglie la complessità e l'estensione delle attuali pratiche "imperiali", come dimostrato in Siria e oltre. Le diverse potenze che si sono abbattute sul paese - nelle loro risposte, a volte contrastanti, alla rivolta popolare contro una brutale dittatura, - stanno perseguendo strategie che mancano di "solidità o coerenza", e stanno collassando o cambiando a causa dell'assenza da parte loro di qualsiasi "missione civilizzatrice", o di interessi materiali di sostegno, come quelli legati alle risorse naturali che ne avevano definito lo scopo nei passati periodi di rivalità inter-imperialista. Di fatto, Saleh suggerisce che gli Stati Uniti e l'Occidente in generale, ben lungi dallo spingere a un "cambio di regime" in Siria - come vengono spesso visti fare nelle teorie del complotto dell'immaginario "antimperialista" - hanno in realtà perseguito una politica di "conservazione del regime", in quanto mezzo di stabilizzazione. Da questo punto di vista, il concetto di "imperialismo liquido" risuona insieme a quello di "guerra civile mondiale", descrivendo uno stato di conflitto globale sempre più incoerente e complicato, nel quale l'antagonismo, o la contraddizione fondamentale, permea le azioni e gli approcci da parte di specifici Stati, piuttosto che separarli nettamente l'uno dall'altro, rappresentando così una frattura nel tessuto della stessa società mondiale, anziché l'imposizione di una logica esterna su una democrazia liberale altrimenti armoniosa. Tuttavia, mentre esistono affinità tra la narrazione dello "imperialismo liquido" - che Saleh propone vedendolo come un'estensione della "colonialità del potere" - e quella della "guerra civile mondiale" teorizzata dalla Wertkritik, si danno anche delle differenze. "L'imperialismo", sostiene Lohoff (2023b), qui non vale poiché esso presuppone che il comportamento degli Stati sia determinato da interessi economici in nome del capitale nazionale. Questa rappresentazione del potere mondiale, può aver avuto una certa plausibilità nell'era del colonialismo, oppure anche nell'epoca del confronto incentrato sui blocchi e associato alla Guerra Fredda, quando le economie nazionali erano in gran parte separate e indipendenti. Oggi, ciò non avviene a causa dell'intreccio delle economie nazionali nei mercati globali e nelle reti di produzione. I conflitti contemporanei non impongono alcuna integrazione nei processi di commercio o di saccheggio da parte di una potenza rispetto all'altra, proprio perché da tutte le parti abbiamo già un'integrazione, senza che ci sia la necessità di un intervento militare per garantirla; che si tratti di risorse russe, di materie prime cinesi o di servizi occidentali. Nell'attuale "guerra civile mondiale" - scommette Lohoff - qualsiasi dimensione imperiale apparente si riferisce unicamente a delle "fantasie imperiali" che derivano più da idee che da interessi materiali, come nel caso russo, per esempio, dove agisce una «ideologia legittimante la guerra preventiva contro il sogno della libertà e di una vita migliore».


- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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lunedì 14 ottobre 2024

Guerra Civile Mondiale

L'era post-statalista
- di  Frederick Harry Pitts -

«Nelle guerre dell'ordine mondiale dell'Occidente, per la prima volta nella storia militare, i missili sono più costosi degli obiettivi». (Ernst Lohoff, 2013)

Dal 1648 al 1989, gli stati di guerra e di pace sono sempre stati temporalmente chiari, distinti e limitati. Ma, nell'era "post-statalista" che è seguita, continueranno sempre più a confondersi. Con la supremazia degli Stati Uniti, stabilitasi alla fine della Guerra Fredda, è arrivato l'emergere di guerre post-stataliste "a bassa intensità", nelle quali un numero qualsiasi di attori ha potuto impegnarsi sul terreno militare, fermandosi in sicurezza, prima della minaccia di distruzione totale su cui si basava l'era statalista e le sue tecnologie. Mentre lo stato bellico ha visto una grande spesa per la corsa agli armamenti, al fine di garantire la capacità di distruggere i combattenti nemici, nell'era post-statalista, le cosiddette "nuove guerre" sono state invece combattute "a buon mercato", con budget bassi e mezzi modesti (Lohoff, 2013). Nello spazio apertosi, quest'era post-statalista - un'economia di guerra basata sulla riproduzione del potenziale produttivo della società nel suo complesso - è diventata, in molte parti instabili del mondo, una sorta di "economia del saccheggio", basata sulla riproduzione di specifici "attori militari"(Lohoff, 2013). Piuttosto che la distruzione dei combattenti, la guerra ha spesso preso la forma di un intervento sulla vita dei non combattenti, intervenendo sia nella circolazione delle merci sia nella vita quotidiana in senso più ampio. Mentre nell'era della guerra statalizzata, le infrastrutture e le linee di rifornimento sono sempre state prese di mira in quanto corollario della ricerca della distruzione degli eserciti nemici, nel nuovo paradigma post-statalista, gli attacchi alla vita civile e alle istituzioni sono diventati gradualmente sempre più centrali. Nel nucleo capitalista, nel frattempo, il processo di neo-liberalizzazione, pur trasformando il ruolo dello Stato in riferimento ad altri settori dell'economia e della società, non ha eliminato il monopolio statale della violenza e dei mezzi militari. In effetti, per gli Stati Uniti e per i loro alleati, la fine della Guerra Fredda li ha consolidati, non solo a livello nazionale, ma in tutto il mondo. Ciò ha messo in discussione la distinzione "westfaliana" tra violenza "statalista interna" e violenza internazionale, dal momento che l'Occidente esercitava sempre più quel tipo di "potere di polizia" che esprimeva un monopolio della violenza, così come veniva solitamente esercitato all'interno degli Stati, proiettato verso l'esterno del mondo, sotto forma di capacità di arrestare e perseguire che veniva applicata invece su tutta la scena globale (Lohoff, 2013). Il mondo post-Guerra Fredda vedeva ancora la stragrande maggioranza della spesa per la ricerca, negli Stati Uniti e altrove, incanalata in progetti e istituzioni militari. Ciò ha prodotto dei sostituti tecnologici per il lavoro distruttivo immediato che veniva svolto dalle forze di spedizione convenzionali, sferrando poi, nello stesso periodo, il colpo finale al soldato cittadino, nello stesso modo in cui le nuove tecnologie hanno eroso i posti di lavoro e le condizioni dei lavoratori. Forme di violenza sempre più astratte e automatizzate, hanno segnato il culmine del processo attraverso il quale le armi a lunga gittata - dalla prua lunga al bombardiere B-52 - avevano reso, attraverso successive fasi di meccanizzazione, il combattimento corpo a corpo un ricordo del passato. La forma di guerra a distanza, grazie ad armi che queste innovazioni offrivano, vedeva i nemici come una sorta di "biomassa" passiva, annientata da altrettanto passivi "lavoratori della distruzione". Come avveniva in altri luoghi emergenti di lavoro digitalizzato, l'astrazione del lavoro associata alla "economia politica delle armi da fuoco" ha continuato a ritmo sostenuto. In un contributo contemporaneo, Lohoff (2023c) colloca l'attuale conflitto in Israele e Palestina, all'interno di questo quadro post-statalista, il quale deve il suo carattere specifico proprio ad Hamas, in quanto progetto politico e militare. In una fase iniziale del lungo conflitto, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina aveva mantenuto un calcolo "clausewitziano" della violenza, vista come estensione delle lotte politiche con altri mezzi, nel quale queste ultime erano state esaurite. Per Hamas, tuttavia, l'eccessiva violenza antisemita non costituisce solo la forma che viene assunta dalla lotta, ma anche il suo contenuto. Si tratta di un fine in sé, che è esso stesso infinito, nella misura in cui cerca di risolvere, non la creazione di uno Stato palestinese, come ha fatto l'OLP, quanto piuttosto l'annientamento di Israele, così come la presenza del popolo ebraico in Medio Oriente più in generale. Caratterizzata dalla centralità della violenza spettacolare, questa campagna è temporalmente infinita, dal momento che, per i suoi esponenti, i suoi grandiosi obiettivi non verranno mai portati a termine in maniera soddisfacente (Lohoff, 2023c). Da questo punto di vista, più che di un progetto coerente di costruzione dello Stato, secondo Lohoff, Hamas rappresenta proprio quella (geo)politica "post-statale" teorizzata da Kurz. Nel suo dominio sul popolo di Gaza, Hamas non replica nessuna delle funzioni tradizionali di uno Stato moderno, lasciando alle organizzazioni umanitarie internazionali la mediazione della riproduzione sociale, liberando così tempo e risorse da dedicare ad attività terroristiche, all'interno contro coloro che sono sotto il suo controllo, ed esternamente contro le comunità al di là del confine, in Israele. In questo modo, sostiene Lohoff, Hamas tiene "in ostaggio" la popolazione dello Stato palestinese collassato, e lo fa al fine di promuovere gli interessi della sua ricca organizzazione criminale, insieme a quelle dei suoi alleati e benefattori, nella regione più ampia. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, Hamas fa parte della rete di alleati dell'Iran in Medio Oriente e altrove. Allo stesso modo, in Libano – un paese con cui non condivide un solo confine – l'Iran ha costruito una forza per procura, Hezbollah, che si ingrassa a partire dal caos e dalla sfortuna che si abbatte sullo Stato collassato cui si attacca come un sanguisuga mentre persegue il suo unico obiettivo di confronto con Israele, rappresentando proprio quell'archetipo "post-statalista" che viene descritto da Kurz.

«La totale razionalizzazione, e la piena economizzazione delle relazioni sociali crea una serra in cui prospera il suo opposto immanente: l'irrazionalità, sempre già carica di violenza». (Ernst Lohoff, 2013)

La crisi del 2008, sostiene Kurz (Kurz, 2013b), ha posto in rilievo alcuni degli elementi stabilizzanti e destabilizzanti della cosiddetta era "post-statista". La preoccupazione comune a tutta la Wertkritik, è che ci si sia concentrati sull'aspettativa che lo sviluppo tecnologico porterà il capitalismo a sovra-produrre merci, che pertanto così diminuiscono di valore. Molti commentatori di sinistra, hanno visto la finanziarizzazione come se essa fosse il risultato di un capitale sovra-accumulato, che, a corto di altri percorsi produttivi per gli investimenti, cerca di tornare in un'economia caratterizzata da un settore dei servizi gonfio, e da una sovraccapacità manifatturiera causata da delle potenze emergenti guidate dalle esportazioni. Ma, secondo Kurz, l'idea che la crisi fosse stata causata da una battaglia di blocchi imperialisti – che contrapponeva la Cina all'egemonia in declino degli Stati Uniti – appariva come bloccata in quella che rimaneva una mentalità assai più adatta alla storia così com'era stata prima che ci fosse la "rottura epocale" del 1989. Mentre, durante gli anni della Guerra Fredda, il mondo era realmente diviso in blocchi politici in competizione - in quelle che erano le loro guerre per procura - l'egemonia degli Stati Uniti, definitivamente stabilita nel 1989, non rappresentava più il dominio imperiale di un tipo di Capitale specificamente nazionale. Piuttosto, il Capitale statunitense ha mediato le catene globali del valore, nel loro complesso, e pertanto ha definito qual era il carattere comune del capitalismo contemporaneo, in tutto il mondo, Cina inclusa. Ciò significava che la crisi andava collocata anche al livello della "interdipendenza del capitale mondiale", anziché all'interno di quelle che sarebbero state delle dinamiche competitive tra potenze in competizione (Kurz, 2013b). Fino al 2008 - sostiene Kurz - il complesso militare-industriale degli Stati Uniti aveva sostenuto il suo ruolo egemonico, garantendo la crescita interna e l'occupazione, e proiettando all'estero il potere della "polizia" americana, agendo e intervenendo in qualsiasi parte del mondo, in nome della stabilità. Tutto ciò, è stato esemplificato in quelle "guerre di ordinamento mondiale" che l'Occidente ha intrapreso contro il terrorismo religioso, e contro gli Stati canaglia negli anni Novanta e Duemila, alla ricerca di una sorta di "gestione precaria della crisi planetaria". Questo potere ha contribuito a coniare quello che Kurz ha chiamato un "dollaro delle armi", distribuito in obbligazioni; il che significava che l'eccesso di ricchezza del mondo fluiva nelle casse degli Stati Uniti premiando il complesso militare-industriale con dei nuovi investimenti. La centralità del dollaro, ha fatto sì che nel 2008 Wall Street si trovasse nell'occhio del ciclone. Ma, con il sostegno del governo, questo ha anche permesso, ai consumi privati e alle imprese degli Stati Uniti, di evitare una crisi ancora peggiore, assorbendo una parte, se non tutta, della produzione di sovrapproduzione globale, sulla scia dell'espansione della capacità manifatturiera che aveva seguito l'ascesa della globalizzazione, e la terza rivoluzione industriale (Kurz, 2013b). La Finanza, è stata identificata come se fosse essa la colpevole della crisi - come ha fatto anche gran parte della sinistra, dopo il 2008 - criticando soltanto la distribuzione e la circolazione del valore nella società capitalistica, allo stesso tempo in cui si giustificano le condizioni in cui si crea.   
E’ stato questo - per Kurz – ad aver espresso «il disperato desiderio di fuggire tornando ai tempi della prosperità fordista e della regolamentazione keynesiana», rappresentati dall'economia della Guerra Fredda. In assenza di un "Euro delle armi", europeo, in grado di assorbire la sovrapproduzione globale, sostiene Kurz, gli elementi della sinistra post-crisi hanno riposto tutte le loro speranze in una coalizione simile a quella dell'era della Guerra Fredda, per una "riforma mondiale", che riuscisse a unire la Russia di Putin, la Cina autoritaria, il "caudillismo petrolifero" del Venezuela e il "regime islamista antisemita" dell'Iran. Rappresentando questa “riforma” come un'alternativa indesiderabile e non plausibile, Kurz ha previsto invece una guerra civile mondiale derivante dalla "crisi mondiale in maturazione", prodotta dalla sovrapproduzione causata dalla terza rivoluzione industriale (Kurz, 2013b). In definitiva, come ha sostenuto più di recente Trenkle (2022a, 2022b), questa economia capitalista fallimentare ha fornito scarse basi per qualsiasi tentativo di stabilire un ordine post-1989 di libertà democratiche e di mercato. E lo sviluppo neoliberista ha solo aggravato la devastazione della modernizzazione di recupero sotto il socialismo "reale" nel periodo della Guerra Fredda. Tra le rovine, è fiorito l'arricchimento cleptocratico delle cricche dominanti, a spese delle popolazioni su cui governano. Questo appare ovviamente superficialmente simile ai processi di privatizzazione e di neo-liberalizzazione associati all'Occidente, anche se prive di qualsiasi base per l'integrazione sociale e politica, che non sia il fondamentalismo nazionale, etnico e religioso (Lohoff, 2023c). Mentre il "socialismo reale" e il comunismo sovietico avevano fornito copertura a molti paesi che combattevano il colonialismo nel Sud del mondo durante il periodo della Guerra Fredda, il suo crollo ha lasciato un vuoto che è stato colmato da queste ideologie settarie, dirette contro una serie di nemici esterni e interni. Ciò ha generato una disgregazione sociale e politica che, quando i governi occidentali sono intervenuti militarmente per riportare l'ordine, ha finito solo per peggiorare ulteriormente il disfacimento. In risposta a tale disfacimento, suggerisce Lohoff (2022), l'Occidente ha abbandonato il "senso liberal-democratico della sua missione" espresso in quelle "guerre per i diritti umani" che hanno visto gli Stati Uniti e altri tentare di giocare negli anni Novanta e Duemila al "poliziotto mondiale". In questo contesto, per Lohoff (2023b), l'attuale confronto tra le democrazie liberali occidentali e gli Stati autoritari non si presta a una spiegazione basata sulla nozione antiquata di "imperialismo", ma costituisce piuttosto l'espressione di una "guerra civile mondiale" in cui la distinzione tra politica interna ed estera si offusca. Questa guerra, suggerisce Kurz, non sarà combattuta tra "blocchi di potere nazional-imperiali per la ridistribuzione del mondo", come nel XX secolo, ma avverrà all'interno degli interstizi dell'ordine stesso ormai in declino (Kurz, 2013b).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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domenica 13 ottobre 2024

La Guerra Totale e il Lavoro Nazionale Totale

Lo stato di guerra
- di Frederick Harry Pitts -

«Se c'è qualcosa che assomigli a un'esperienza "Ur" per "l'homo fordisticus", è l'esperienza dei fronti di battaglia della Prima Guerra Mondiale». (Ernst Lohoff, 2013)

La guerra moderna è stata caratterizzata dall'intensificazione della dipendenza da queste relazioni sociali mediate. Il loro carattere mediato e impersonale può aver ridotto l'aggressione diretta e la violenza nella vita quotidiana, ma queste relazioni sociali mediate sono state garantite e sostenute da una più ampia capacità di sterminio e distruzione totale, concentrata nelle mani dello Stato e dei suoi eserciti. Con lo sviluppo di queste condizioni sociali e politiche, la conclusione logica delle precedenti guerre assolute, basate sulla sconfitta totale e sul rovesciamento di un nemico, si trovava così nella "guerra totale" del ventesimo secolo. Dal XX secolo in poi, con la capacità produttiva della società in piena mobilitazione a sostegno dello sforzo bellico, le infrastrutture civili divennero un obiettivo militare. Ciò produsse un'economia di guerra difensiva e offensiva permanente. La modernizzazione, che si è svolta dal XIX al XX secolo, ha rappresentato una serie di modi di gestire questa economia di guerra di base, sia sotto le spoglie del liberalismo del New Deal, della socialdemocrazia, del comunismo, o dei tipi di pianificazione caratteristici del cosiddetto "Stato in via di sviluppo" (Kurz, 2011b; Kurz, 2011c). Tutto ciò si basava sulla massificazione della produzione in linea con le esigenze fondamentali dell'economia di guerra, che estendeva l'astrazione del lavoro dagli eserciti permanenti alla società nel suo complesso. In questo contesto, sostiene Kurz, il "lavoro nazionale totale" ha raggiunto un nuovo status come parte centrale dello sforzo bellico e delle forme di "modernizzazione recuperativa" e di riforma sociale che ne sono seguite (Kurz, 2016). Decisivi, per questa maggiore astrazione del lavoro, suggerisce Kurz (2013a), sono stati i progressi scientifici e tecnici costretti a partire dal conflitto e dalla competizione tra gli Stati. Il processo lavorativo è stato rimodellato e reso più produttivo dalle nuove tecnologie, dalla gestione scientifica e dal sostegno statale alla ricerca e allo sviluppo di tecnologie a duplice uso civile-militare come l'elettronica, il cui risultato è stata la catena di montaggio. Nella grande produzione diretta dallo Stato, resa necessaria dalle due guerre mondiali, queste innovazioni hanno preso, insieme, la cooperazione soggettiva, individualizzata, arbitraria e immediata presente nella produzione durante le prime fasi dello sviluppo industriale, e l'hanno sottoposta a un quadro oggettivo, de-individualizzato, sistematico e mediato che ha trasformato attivamente l'esperienza concreta della vita lavorativa. Dopo le due guerre mondiali, sostiene Kurz, lo sviluppo della produttività sul posto di lavoro è rimasto contenuto nella "logica della competizione politico-militare", vista nella forma della Guerra Fredda. Mentre non c'è stato un ritorno alla vastità della violenza a cui si era assistito nella prima metà del XX secolo, Lohoff (2013) suggerisce che la Guerra Fredda ha visto un aumento dei poteri di distruzione investiti nello Stato, con la promessa di una distruzione reciproca assicurata, e con lo sviluppo di una capacità di uccidere sempre maggiore, in Occidente e in Oriente. Così, laddove gli anni della guerra avevano incubato le "forze produttive della seconda rivoluzione industriale" sotto forma di forze di distruzione, ecco che la Guerra Fredda le ha scatenate (Kurz, 2013b). Essendo stata perfezionata l'organizzazione fordista del processo lavorativo da parte dello Stato di guerra, i rapidi aumenti di produttività che essa generò in tempo di pace minacciarono di sovra-produrre merci rispetto alla domanda, svalutando le merci stesse e creando le condizioni per la crisi economica. Ma le innovazioni degli anni della guerra avevano portato a nuovi settori di produzione che hanno soddisfatto le nuove esigenze sbloccate in un'epoca di consumo di massa; ad esempio le automobili e gli elettrodomestici. Quindi, proprio come l'economia di guerra rappresentava l'applicazione scientifica del lavoro civile al servizio della distruzione, il successivo sviluppo della produzione e del consumo di massa di merci rappresentava la "continuazione della distruzione con altri mezzi", civile (Lohoff, 2013). La stabilità del capitalismo, nel contesto di questa rapida spinta alla produttività, è stata sovrastata dal forte ruolo dello Stato nel periodo della Guerra Fredda. Questo "capitalismo organizzato", sostenuto dal comando politico esercitato dallo Stato, sembrava, ad alcuni, aver sospeso la legge del valore stessa.

Affamata di tasse e di creazione di mezzi militari, sostiene Lohoff (2013), l'economia di guerra ha di fatto subordinato la produzione al consumo statale apparentemente "improduttivo". Piuttosto che dalle forze di mercato, la terza rivoluzione industriale è il risultato di un'ampia spesa statale in ricerca e in sviluppo, fatta in nome delle esigenze militari. Avendo "dissolto" tutto in "politica", in nome della lotta tra grandi potenze, lo Stato della Guerra Fredda veniva considerato come se fosse stato colui che aveva sfidato l'economia, e rimosso qualsiasi "limite interno oggettivo" alla produzione capitalistica, come dice Kurz (2016). Caratteristico del lavoro di Kurz e della Wertkritik in generale, tuttavia, è l'attenzione proprio a quei limiti interni, e alle tendenze alla crisi che essi generano. Come è emerso, l'apertura dell'economia occidentale alle pressioni competitive e alla capacità manifatturiera generate dalle tendenze alla modernizzazione in altre parti del mondo, ha finito per indebolire la posizione economica dell'Occidente in termini di "flussi di merci e capitali". La lunga recessione che ne seguì, tuttavia, fece ben poco per ostacolare l'espansione del cosiddetto "complesso militare-industriale" che aveva prosperato nella "economia di guerra permanente" dopo il 1945. Con la "terza rivoluzione industriale", la microelettronica ha rivoluzionato e computerizzato i sistemi d'arma ad alta tecnologia. Sotto Reagan, gli Stati Uniti vinsero in modo decisivo la corsa agli armamenti contro il loro rivale sovietico, attraverso una sorta di "keynesismo armato", che accumulò debito pubblico, interamente, contro l'assalto repubblicano alla spesa sociale keynesiana in altri settori dell'economia (Kurz, 2013b). La Guerra Fredda, sostiene Lohoff, rappresentò l'apice dello stato bellico. La corsa agli armamenti ha superato tutte le forme esistenti di distruttività e le sue implicazioni scientifiche ed economiche hanno completamente rivisto il terreno della competizione capitalistica all'interno e tra gli stati nazionali. Fino a un certo punto, l'Unione Sovietica è rimasta competitiva scientificamente e tecnologicamente, ma una serie di fattori ha esaurito questo stato di cose: l'ascesa delle tecnologie dell'informazione; un'economia più globalizzata in Occidente che consenta l'accesso alla produzione ad alta intensità di lavoro per evitare la crisi; e "l'accesso privilegiato degli Stati Uniti al capitale transnazionale", che ha permesso una maggiore spesa militare. La vittoria, che questi fattori hanno reso possibile, ha stabilito un ordine mondiale unipolare storicamente senza precedenti in cui qualsiasi nozione di equilibrio di potere è stata abolita (Lohoff, 2013).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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Sangue e sporcizia da ogni poro !!

Dal «padre di tutte le cose» all'Economia Politica delle Armi da Fuoco
- di Frederick Harry Pitts -

«Dietro l'onnipresente compulsione moderna a guadagnare denaro, c'è la logica dei cannoni tonanti» (Kurz, 2011a).

Per la Wertkritik, come per Eraclito, la guerra è davvero «il padre di tutte le cose» (Lohoff, 2013). A tal proposito, come dimostra Lohoff, la Wertkritik si rifà a dei pensatori come Hobbes ed Hegel. Alla base, la soggettività umana si lega alla capacità di oggettivare gli altri: un processo che, in vari tempi e luoghi, assume una veste più o meno violenta. Così facendo, le forme di riconoscimento, diritto e libertà, consolidate nello Stato moderno si ricollegano a una comune capacità umana di violenza, e alla volontà di rischiare la propria vita in combattimento. Laddove la capacità di uccidere o di essere uccisi va continuamente rinnovata - in quanto condizione dell'autocoscienza umana - lo Stato moderno rappresenta invece la sua sospensione e sublimazione; la lotta per la vita o la morte viene dislocata su altri tipi di attività sociale, vale a dire nel lavoro. Ma in ultima analisi, l'instaurazione di una tale pace sociale non fa che mediare, in un'altra forma, il soggiacente contenuto della violenza e della distruzione; un processo che potrà invertire facilmente rotta, allorché si scatenano la decadenza e la deregolamentazione. Teorici del calibro di Lohoff (2013) prendono ispirazione anche dai pensatori militari classici, come Clausewitz, il quale vedeva notoriamente la guerra come «la continuazione della politica con altri mezzi». Ciò però non significa che la politica ponga una soluzione al conflitto, e nemmeno che il fatto di mettere i mezzi della violenza nelle mani dello Stato ne segni la razionalizzazione. La politica non è una forma di ragione che viene imposta alla guerra e alla violenza, ma essa esercita la propria irrazionalità che - piuttosto che estinguere il conflitto - ne agisce invece proprio come scintilla e acceleratore. Essendo guidata da dei fattori ideologici ed emotivi non materiali, la politica manca di limiti, creando una tendenza alla guerra che cerca di raggiungere quel carattere "assoluto" che Clausewitz temeva. Tracciando queste inevitabili connessioni con la guerra, la Wertkritik va contro il senso del pensiero borghese classico. In particolare, mette in discussione l'idea che la società capitalista sia emersa dal - o sia sinonimo di - baratto pacifico, dalla laboriosità imprenditoriale, o da un'etica del lavoro secolarizzata. Per la Wertkritik, l'idea che la guerra, la violenza e il libero mercato siano incompatibili, e che l'estensione del commercio e la sua garanzia di un mondo in pace sia un'illusione generata dal fatto che il capitalismo è stato inizialmente associato al confinamento della violenza e della guerra, viene vista come una questione di Stato. Ma le garanzie di libertà, fraternità e uguaglianza si basano in ultima analisi su quella che è solo una sospensione temporanea e parziale, e una sublimazione della violenza, portata avanti nella commercializzazione della violenza e nella sua irreggimentazione nelle mani dello stato (Lohoff, 2013). Accanto a tali omelie liberali, l'altro obiettivo primario della Wertkritik è l'approccio del marxismo alla guerra e al conflitto, e il loro ruolo nella costituzione del capitalismo. Mentre Marx, nel suo capolavoro, Il Capitale (Marx, 1990), ha enfatizzato le radici violente del capitalismo, e altre tradizioni di studiosi hanno notato la relazione esistente tra le forme di colonialismo e l'accumulazione primitiva e il capitalismo (Quijano, 2007; Mignolo, 2011), il marxismo, invece, ha spesso omesso di considerare la connessione. Come sostiene Kurz (2011a), il carattere ambiguo e incerto dello sviluppo sociale ed economico precedente all'ascesa del capitalismo, ha fatto sì che molti marxisti si siano semplicemente e supinamente allineati dietro quello che era un resoconto fondamentalmente borghese della storia. Tradizionalmente, il marxismo ha sempre sostenuto un materialismo storico che enfatizza il ruolo svolto dalle forze produttive – tecnologia, tecniche di gestione e così via – nel far avanzare la storia, dalla società agraria a quella industriale. La ragione per cui i marxisti hanno sempre trovato difficile affrontare le origini del capitalismo, che «sgocciolavano dalla testa ai piedi, e da ogni poro, sangue e sporcizia», come ha detto Marx (1990, p. 926), è ciò perché questo non si adattava bene alla visione di uno sviluppo storico, che passa senza soluzione di continuità per le diverse fasi, successive e necessarie, e che porterebbero all'emancipazione umana; una prospettiva, questa, ripresa in blocco paro pari dalle nozioni liberali di progresso. Ancora oggi, simili seducenti critiche radicali alla società capitalista, a partire da questa visione, non spiegano da dove siano sorte tutte queste forze di sviluppo. Ad esempio, non basta indicare semplicemente l'avvento dell'energia a vapore, vista come catalizzatore della rivoluzione industriale. Proprio allo stesso modo in cui Marx dispiega progressivamente gli strati di determinazione storica nel Capitale, in primo luogo bisogna scavare negli imperativi politici, sociali ed economici che hanno guidato lo sviluppo di queste forze.

Per fare questo - suggerisce Kurz - dobbiamo concentrarci non sulle forze produttive all'inizio della modernità capitalista, quanto piuttosto sulle forze della distruzione, vale a dire, sull'invenzione delle armi da fuoco. Come suggerisce Kurz (2011a, 2011b), la storia si svolge - e da questo sorge il processo lavorativo capitalistico - attraverso l'imposizione progressiva della nuova economia politica delle armi da fuoco, sulla vecchia. Le guerre pre-capitaliste erano affari limitati, rituali e sportivi, essendo in gran parte volte all'edificazione o all'avanzamento delle classi aristocratiche. Nel Medioevo, la vita quotidiana per lo più non era in gran parte influenzata dal fatto che i propri superiori sociali fossero o meno in guerra. Ma alla fine del 1400, e nel 1500, tutto questo cambiò a partire da macchine militari sempre più sofisticate che venivano messe in servizio per combattere le "guerre assolute" clausewitziane, condotte come un'estensione delle dispute politiche. Ciò ha scatenato un'esplosione delle spese militari, e le precedenti economie di saccheggio e bottino sono state sostituite da quelle della tassazione, del finanziamento degli eserciti permanenti, e della produzione di potenza di fuoco. Come spiega Kurz (2011a), le «guerre per la costruzione dello Stato» della prima età moderna, che, attraverso la produzione di "marine oceaniche", hanno visto gli Stati impegnarsi in un'espansione colonialista, hanno istituzionalizzato quelle che sono diventate strutture di potere durature, le quali hanno poi dato vita alla politica vista come una sfera di attività specifica e relativamente autonoma, che rappresentava il complemento amministrativo di un'economia sempre più dinamica. In questa rivoluzione militare, è stata decisiva quella che Kurz chiama «economia politica delle armi da fuoco» (2011b). Le armi da fuoco, neutralizzarono il potere della cavalleria feudale, e quindi rimodellarono la società a immagine di quelli che erano nuovi e più intraprendenti poteri di classe. Le esigenze di una produzione di cannoni e moschetti, richiedevano che si passasse da delle piccole officine, a maggiori economie di scala in quella che divenne ben presto una nascente industria bellica. La maggiore potenza distruttiva che essa rappresentava richiedeva nuove infrastrutture come le fortezze. La competizione tra le imprese e tra gli Stati ha spinto l'innovazione tecnologica nei mezzi di distruzione, spinta a sua volta dalla corsa agli armamenti e dalla ricerca di nuove e maggiori quote di mercato. Come sostiene Kurz (2011a), le «migliori possibilità sociali sono state sempre più "sacrificate" alla macchina militare sotto forma di personale e conoscenza». Nonostante i progressi nell'equipaggiamento militare, nel XVIII secolo, le guerre combattute dagli Stati assolutisti furono limitate nella loro capacità di cercare la distruzione totale dei nemici da parte dei mercenari, e quindi dal carattere costoso e inaffidabile degli eserciti a loro disposizione. Ma tuttavia, e sempre più, le crescenti dimensioni e complessità delle armi ben presto significarono che i soldati non erano più autosufficienti nella loro fornitura, diventando invece sempre più dipendenti dalla fornitura proveniente da depositi centralizzati sotto il controllo dei nascenti poteri statali. Kurz (2011a) descrive il modo in cui si è sviluppata una sfera militare separata - distinta dalla vita civile e dalla società civile - con un esercito permanente più o meno professionalizzato. L'ascesa del cittadino soldato di leva, spinto non da interessi mercenari, ma da una fanatica devozione allo Stato-nazione, permise a personaggi come Napoleone di rompere quelli che fino a quel momento erano stati gli schemi del comando militare, sconfiggendo in tal modo i nemici in delle battaglie decisive. Sono stati questi eserciti permanenti, suggerisce Kurz (2011a), ad aver costituito quella prima parte della società che è passata, da relazioni dirette e personali tra le persone, alle relazioni indirette e impersonali mediate dal mercato, dal denaro e dallo Stato moderno. L'universalizzazione del cittadino in uniforme, ha incorporato i gruppi precedentemente esclusi, trattandoli come soggetti uguali agli occhi della legge. Nelle società precedenti, dove i mezzi di violenza venivano distribuiti solo tra i padroni sociali - sostiene Lohoff - era il loro potere a comandare una società di «lealtà e dipendenza». C'è voluta la concentrazione dei mezzi di violenza nelle mani dello Stato, per spianare la strada a una società di diritto universale e di uguaglianza tra individui formalmente liberi.

Il monopolio della violenza posseduto dallo Stato, costituisce quindi la precondizione del «dominio politico adeguato alla società delle merci»; un'uguaglianza astratta che si é imposta all'interno dei confini della nazione in quanto «spazio geografico astratto» (Lohoff, 2013). Furono queste le condizioni che produssero soldati professionalizzati e che divennero, di fatto, i primi lavoratori salariati, i quali, per la loro riproduzione non dipendevano dalla famiglia, ma dal denaro e dal consumo di merci. Il loro lavoro prefigurava il lavoro astratto e svuotato del capitalismo industriale, e questo nella misura in cui la lotta ora non riguardava più una motivazione intrinseca legata agli ideali o alla parentela, quanto piuttosto all'ordine, proveniente dallo Stato, di uccidere in generale. Kurz sostiene (Kurz, 2011a) che lo status di cittadini-soldati, emergenti come i primi lavoratori salariati, ha innescato, nel tempo, tutte le conseguenze legate al lavoro astratto: immiserimento dei soldati e degrado del loro lavoro; la loro separazione dai mezzi indipendenti di produzione e di acquisizione delle condizioni di vita; insieme all'irrompere dell'onnipresente possibilità della disoccupazione, nella sua veste moderna. I primi soggetti della storia a essere "disoccupati", in questo modo formale, allorché scoppiò la pace tra le due guerre e i soldati si vennero a trovare ai margini, sorvegliati come se fossero un problema sociale, e in quanto popolazione in eccesso. Nel frattempo, mentre i loro incarichi diventavano l'archetipo della classe operaia, i comandanti militari diventavano a loro volta l'archetipo della classe capitalista, impadronendosi del bottino di guerra e cercando di investire e accumulare a partire da quei bottini; e infine, i loro capitani si trasformavano negli archetipi dei manager. In quanto tale - per Kurz - è stata la guerra a incubare le nuove forme di soggettività di classe caratteristiche della società capitalistica, insieme alle tecniche di gestione e ai rapporti di lavoro attraverso i quali tali forme si esprimono. La scala e la diffusione della produzione necessaria per poter armare e sostenere gli eserciti permanenti, richiedeva l'approvvigionamento di quella che era diventata un'«economia di guerra permanente», che eclissasse i modi di vita agrari della vecchia società (Kurz, 2011b). Anche l'ascesa della finanza, che serviva a colmare i buchi nelle casse dello Stato, finanziando le guerre in cambio di pagamenti, Kurz l'attribuisce alla rivoluzione militare. Tuttavia, i finanzieri di guerra non sarebbero stati sufficienti, in sé e per sé, a finanziare l'«economia politica delle armi da fuoco». Dal XV al XVIII secolo, per sbarcare il lunario, venne messo in atto un forte aumento delle tasse. Precedentemente, le tasse erano sempre state riscosse in un modo un po' "rilassato", nei confronti dei fattori naturali, come la resa agricola. Ma le tasse che dovevano sostenere l'economia politica delle armi da fuoco dovevano essere raccolte con la forza da parte dei nascenti Stati assolutisti, ed essere soggette a un rapporto completamente astratto e mediato con la produzione di ricchezza. Le guerre del XVIII e del XIX secolo videro così concentrarsi il controllo nelle mani di uno Stato sovrano, il quale comandava all'estero un apparato specializzato di violenza, sostenuto a sua volta dalle tasse dei non combattenti in patria. Le tasse erano il prezzo della non partecipazione alla guerra, e del mantenimento della stabilità nella sfera nazionale interna; ma servivano anche a collegare sempre più le fortune della produzione di merci in patria alle fortune degli eserciti all'estero. Gli Stati finanziavano le guerre attraverso sistemi di tassazione che costringevano i cittadini e le imprese a fare soldi in modo da riuscire così a pagare quanto dovuto, accumulando un vasto potere amministrativo e burocratico indispensabile a porre in atto le riscossioni. In questo modo - suggerisce Kurz (Kurz, 2011b) - la necessità che aveva lo Stato di aumentare le tasse, per finanziare le spese militari, ha liberato dai vincoli esistenti non solo lo Stato moderno, ma anche tutta un'economia basata sulla produzione e sullo scambio monetario di merci alla ricerca di un valore espanso. Come sottolinea Kurz, la società agraria aveva fornito una ben scarsa base finanziaria per riuscire a realizzare il suo ruolo di «potere governante anonimo» (Kurz, 2011a). I progressi nella produttività, hanno generato un surplus, ma la logica dell'investimento produttivo e dell'accumulazione non ha governato il modo in cui questo surplus è stato goduto, o speso. Così, la conseguenza della rivoluzione militare e dell'«economia politica delle armi da fuoco» è stata quella di "sradicare" dalla società uno «spazio funzionale separato per le imprese»; un "soggetto autonomo", anche se con le sue capacità produttive e industriali spesso coordinate dallo Stato (Kurz, 2016). La "astrazione" di questo apparato dai semplici "bisogni materiali" della società ha messo in luce il potere del denaro in quanto filo conduttore della sussistenza e dell'esistenza sociale (Kurz, 2011a).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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sabato 12 ottobre 2024

Dalla “Rivoluzione Militare” alla “Poli-Crisi”…

Nuova guerra fredda o "guerra civile mondiale"?
- Wertkritik e la teoria critica del capitalismo in un'epoca di conflitti -
di Frederick Harry Pitts

Introduzione: Il post-neoliberismo e la "policrisi"
La Wertkritik, o "Critica del Valore", è un filone del pensiero critico marxiano, emerso in Germania alla fine del XX secolo (Larsen et al., 2014; Neary, 2017; Robinson, 2018; van der Linden, 1997). Tra i suoi pensatori chiave troviamo Robert Kurz (2003, 2009;); Ernst Lohoff (Lohoff, 2013), Anselm Jappe (Jappe, 2017), Roswitha Scholz (Scholz, 2013) e Norbert Trenkle (Trenkle, 2013). I temi chiave hanno a che fare con una rigorosa teorizzazione del valore e del lavoro nella produzione e nella circolazione (vedi Pitts 2020, Cap. 2; Pitts 2022, cap. 5), una feroce critica dell'antisemitismo di sinistra, l'analisi dello Stato, in quanto parte inseparabile della società capitalista, e una teoria del crollo capitalista incentrata sulla sua ineludibile capacità di sovrapproduzione, a causa di uno sviluppo tecnologico sempre più fuori controllo. Un altro aspetto della Wertkritik, spesso meno documentato nella sua ricezione anglofona, riguarda tuttavia la sua attenzione alla guerra. Qui, è particolarmente interessante il resoconto, da parte di Kurz, delle origini del lavoro astratto così come viene tratteggiato nel suo "economia politica delle armi da fuoco", che mostra il modo in cui essa si è sviluppata, a partire dalla "rivoluzione militare", decisiva per l'ascesa del capitalismo; così come dagli scritti di Lohoff sulla "guerra civile mondiale", e dalla diagnosi culturale di Trenkle, a proposito dei conflitti che caratterizzano i nostri tempi.

La prima parte di questo testo introduce questo corpus di lavori, applicando la Wertkritik alla comprensione della storia, del presente e del futuro della relazione esistente tra la guerra e il modo in cui essi teorizzano lo sviluppo del capitalismo, contro le affermazioni dei commentatori mainstream e radicali. Dopo aver introdotto questo filone sottovalutato del pensiero marxiano moderno, la seconda metà dell'articolo esplora la luce potenziale che, in un'epoca di conflitti, la Wertkritik può gettare sul capitalismo contemporaneo. La seconda metà inizia considerando come la Wertkritik differisca da altri approcci che, nei loro resoconti della violenza e del capitalismo, mettono in primo piano l'imperialismo o il colonialismo. Secondo Lohoff e Trenkle, gli eventi recenti accrescono la sensazione di lunga data che il concetto convenzionale di imperialismo abbia ormai esaurito la propria utilità. Essi sostengono che l'attuale "ordine imperiale" - nella misura in cui esiste - non è più contrassegnato, come nelle fasi precedenti, da un'egemonia occidentale orientata alla realizzazione dei propri interessi economici. L'idea che, per esempio, l'Occidente sia coinvolto in una sorta di imperialismo per mezzo dell'espansione dell'UE o della NATO, nelle parti orientali dell'Europa, così facendo proietta sul desiderio di sicurezza degli stati baltici e nordici, una visione del mondo che sarebbe più a suo agio nel diciannovesimo secolo, piuttosto che nel ventunesimo. Inoltre, l'espansionismo militare dei paesi opposti all'Occidente - come la Russia - si basa assai meno su un evidente desiderio di impegnarsi in una corsa alle risorse legata a interessi economici razionali, piuttosto che su patologie nazionali irrazionali, o su una volontà di potenza impermeabile alla minaccia di una rovina economica per mano delle sanzioni occidentali. L'assenza di interessi economici tradizionali che spingono i conflitti contemporanei – compresi quelli in Medio Oriente di cui sono parte diverse potenze globali e regionali – mette in discussione sia l'attribuzione di termini come "imperialismo" sia l'idea stessa che il contesto attuale assomigli davvero a una "nuova" o "seconda" versione della guerra fredda, realista e razionalmente calcolatrice, testimoniata nel ventesimo secolo (Achcar, 2023; Schindler et al., 2023). Quello che invece vediamo, è un complicato terreno di conflitto attraversato dalle rivendicazioni in competizione, da parte di una gamma di poteri di dimensioni diverse, che agiscono in combinazioni a volte contraddittorie, nel contesto di un dato teatro.

Alcuni di questi poteri - suggeriscono i pensatori qui trattati - si pongono come se fossero una resistenza antimperialista contro un Occidente decadente, mentre contemporaneamente si impegnano in violenze espansionistiche all'estero, in una repressione autoritaria in patria, e tentano attivamente di far avanzare le loro economie grazie al commercio con l'Occidente sui mercati mondiali. Nel frattempo, le democrazie liberali dell'Occidente, acquisiscono esse stesse delle caratteristiche autoritarie, in quanto adattano le loro sfere interne per poter affrontare la sfida posta da questa rivalità sempre più intensa, cercando in gran parte di mantenere la stessa apertura al commercio che aveva caratterizzato il periodo della globalizzazione. La «strana forma di cooperazione e confronto», come la chiama Lohoff (2022), insita in questa convergenza, ben difficilmente rappresenta quel tipo di "nuova" o di "seconda" guerra fredda che alcuni vedono attualmente dividere il mondo in due, rappresentando invece piuttosto precisamente proprio quella «guerra civile mondiale» che Kurz teorizzava occupasse gli interstizi sfilacciati dello stesso ordine globale o imperiale; dal momento che gli attori statali e non statali cercano di rimodellarlo radicalmente a loro immagine. Proprio come accade con le nozioni obsolete di "imperialismo", ecco che inquadrare il panorama delle minacce in evoluzione disponendole intorno a una «nuova guerra fredda» in arrivo, ci porta a una visione del conflitto visto come se si trattasse di un gioco giocato da attori razionali, i quali possono allocare risorse rispetto a  particolari problemi apparenti basati su una relazione esterna tra forze in competizione. Comprendere l'attuale conflitto come una più complessa «guerra civile mondiale», e farlo secondo le linee teorizzate dai pensatori della Wertkritik, evidenzia proprio le complicate relazioni tra potenze in competizione tra di loro, e il carattere intrecciato dei fattori interni e internazionali; dal momento che i rivali si confrontano e convergono l'uno con l'altro in quella che è una scena globale frammentata. È interessante notare che i recenti commenti dei pensatori della tradizione della Wertkritik tendono verso una spiegazione, e a una risposta, fondamentalmente culturale per molte di queste tendenze; piuttosto che verso quella che, in una fase iniziale, era la spiegazione materiale-economica offerta da Kurz e altri.

Un risultato di tutto questo, è l'osservazione secondo cui un'errata «esternalizzazione dell'autoritarismo» - come afferma Trenkle (2022a, 2022b) - possa spingere a una risposta in Occidente che sta assumendo dimensioni autoritarie, nel migliore dei casi nazionalistiche o militaristiche, mentre le democrazie liberali cercano di isolarsi politicamente ed economicamente dalla minaccia aliena da essi percepita. Trenkle identifica il riarmo e l'aumento delle spese militari, vedendoli come esempi del modo in cui «le società del cosiddetto Occidente arrivino sempre più ad assomigliare al loro stesso nemico esternalizzato». È importante sottolineare che il resoconto qui presentato, mette sotto una luce diversa quella che è stata ampiamente vista come una svolta "post-neoliberista" nel capitalismo (Davies & Gane, 2021), la quale coinvolge in una politica industriale rafforzata, la maggiore invenzione statale espressa catturata nella "Bidenomics" – che è a sua volta una continuazione di alcuni aspetti del trumpismo negli Stati Uniti – che fornisce un caso di studio di alcune di queste tendenze superficialmente "neo-keynesiane" (Merchant, 2023). Questo modello di capitalismo, apparentemente post-neoliberista - e il suo impegno per l'innovazione e la politica industriale - sembrano essere evidentemente orientati verso lo sviluppo di economie più verdi, più dinamiche e più inclusive, basate sulla stimolazione delle forze produttive; in risposta a un periodo di cosiddetta "poli-crisi" caratterizzato da turbolenze finanziarie, dalla pandemia di COVID-19 e dalla catastrofe climatica. Tuttavia, a volte il concetto popolare di "poli-crisi" nasconde all'interno come un vago senso di tutto ciò che è collegato in relazione a ciò che invece fa davvero funzionare le cose. La Wertkritik richiama l'attenzione su una spiegazione alternativa, per il carattere mutevole del capitalismo, che si basa, non sulla "poli-crisi" o sullo sviluppo delle forze produttive, ma piuttosto sulle forze irrazionali e distruttive in gioco nelle forme intensificate di conflitto e confronto che emergono all'interno e tra le potenze in competizione.

Piuttosto che i cambiamenti economici o ecologici di per sé, che spingono la riconfigurazione del capitalismo nel tempo presente, o le modalità convenzionali di "competizione sistemica", ci viene suggerito che qualcosa di più oscuro e più profondo sostiene quelle trasformazioni che vengono valutate positivamente da tutta una serie trasversale di voci politiche. In questo senso, la Wertkritik aggiunge peso alle affermazioni che emergono da alcuni osservatori – sia critici che favorevoli – secondo cui la tendenza "neo-keynesiana" o "post-neoliberista" del capitalismo contemporaneo, incarnata nella Bidenomics, non rappresenti tanto una risposta economica razionale alla poli-crisi, quanto piuttosto una mossa strategica in quella che è un'epoca di conflitti sempre più in intensificazione (Anderson, 2023; Luce, 2023; Mercante, 2023). Gli impatti di quella che alcuni vedono come una nuova era dell'imperialismo, mentre altri inquadrano invece come se si trattasse di una "seconda" o "nuova" guerra fredda, hanno pertanto delle ampie conseguenze per quel che riguarda la teorizzazione del capitalismo. In alternativa agli attuali approcci, radicali e mainstream, alla comprensione del momento presente, queste dinamiche dovrebbero essere viste come parte integrante della combinazione di convergenza e scontro espressa dal concetto di guerra civile mondiale, nella quale l'assalto autoritario, nelle democrazie liberali, permea sempre più la struttura interna della società e dell'economia, come se fosse una salva nelle lotte sulla scena internazionale. In questo processo di convergenza, gli Stati stanno cercando una soluzione a un problema costruito in termini di una «nuova guerra fredda» che taglierebbe il mondo e i suoi paesi in due, piuttosto che di quella che invece potrebbe essere meglio caratterizzata come se fosse una guerra civile mondiale, che attraversa i paesi stessi e alla quale potrebbe essere necessaria una serie diversa di risposte. Dopo aver notato che, a partire dalla critica marxiana dell'economia politica che si trovava nella spiegazione data da Kurz della guerra e del capitalismo, ora l'odierna Wertkritik tenda piuttosto a mettere al primo posto una critica della cultura, più vicina nello spirito alla tradizione della teoria critica, concludiamo considerando quali sono le implicazioni dovute ai modi alternativi di prassi nell'attuale epoca del conflitto. Per i pensatori della Wertkritik - concludiamo, notando - qualsiasi risposta dev'essere incentrata su una lotta sociale emancipatrice volta a difendere e ad estendere gli imperfetti diritti e le libertà promesse ma non completamente realizzate dalle democrazie liberali, all'interno e soprattutto al di là delle società, sempre più ripiegate su sé stesse, dell'Occidente borghese.

Frederick Harry PittsPubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

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