giovedì 10 luglio 2025

Allucinati dalla Shoah !!

Il fantasma della Shoah
- di Sandrine Aumercier -

«Guardati allo specchio. Io sono te, sono il tuo passato, e uccidendo me stesso è te stesso che stai uccidendo.» R. Alareer

Contro il potere del significante, non c'è nulla che possa essere fatto! Già, il solo fatto di menzionare la parola “Gaza”, evoca le camere a gas.. Saranno in pochi, probabilmente, ad avere il coraggio di pronunciare apertamente questa sinistra omofonia, ma non lo faranno senza tuttavia lavorare inconsapevolmente su un'equazione assunta da alcuni secondo cui: «Gaza è Auschwitz» (Thierry Ardisson). Consentiremo che l'orrore di Gaza si lasci assorbire all'interno della memoria delle camere a gas? Che cosa hanno mai fatto i palestinesi al Cielo, per meritare che la loro tragedia venga sistematicamente giudaizzata? E cos'hanno fatto al Cielo i gassati di Auschwitz, perché ottant'anni dopo si continui ancora, nelle circostanze più remote, a invocare la loro memoria?

   Ma questa associazione è così talmente intima, così onnipresente -  da essere spesso suggerita dagli stessi israeliani o palestinesi, come fa il poeta palestinese citato in epigrafe e ucciso in un attacco israeliano il 6 dicembre 2023 – da essere in grado di dire qualcosa che noi non riusciamo a vedere. L'attuale situazione sta svelando quello che prima sembrava un'allucinazione antisemita: tutti gli abitanti ebrei e arabi della regione, la cerchia dei loro rispettivi sostenitori, dei loro osservatori e dei critici internazionali - tutti quanti noi, alla fine - continuiamo a essere allucinati dalla Shoah. La storia che gira intorno alla morte di Refaat Alareer, ci porta al cuore della questione: una "fake news" raccontata dal presidente di una ONG israeliana, secondo cui il 7 ottobre sarebbe stato trovato  un bambino «bruciato in un forno», ha raggiunto quindici milioni di visualizzazioni, e ha dato vita a una battuta di pessimo gusto, da parte di Alareer, su X: «Con o senza lievito in polvere?». Si racconta che a causa di questa battuta egli sia stato preso di mira dall'esercito israeliano. Questa storia rivela il vorticoso meccanismo che intrappola ognuno di noi in quelli che sono i significanti della Shoah. Refaat Alareer, ha altresì paragonato l'attacco di Hamas alla rivolta del ghetto di Varsavia. Si potrebbe pensare che le persone coinvolte nella tempesta appaiano accecate, ma noialtri, estranei alla scena, capiamo la differenza. Chi ci dice che non siamo noi che li stiamo trascinando in una spirale sterminatrice curando a loro spese quella che è la nostra cattiva coscienza? Se grattiamo la superficie dei dibattiti sul «conflitto israelo-palestinese», in primo luogo vedremo come stiano cercando tutti di mettersi al sicuro dallo spettro della Shoah.

   È come se ci fosse un odore che non va via, un soffio di mostruosità che si attacca alla nostra pelle. Non prendiamo posizione su Israele, prendiamo posizione sulla Shoah. Le traiettorie di dislocamento sono sottili, numerose e non immediatamente evidenti. Servono a organizzare l'intero discorso sul conflitto israelo-palestinese. Per ciò che è contemporaneo, risulta insopportabile venire associato al semplice ricordo di un evento storico che non smette mai di sfidare la rappresentazione, e "smascherare tutti i fondamenti etici e politici della modernità". Come ci si potrà mai liberare da un evento simile? Non che sia l'unica manifestazione del male moderno! Ma esso costituisce il nucleo incandescente di quella che costituisce la lunga lista di atrocità del XX secolo. Ha finito per assumere il significante paradigmatico del male radicale. Prima di allora, mai l'omicidio era stato organizzato su una tale scala e con una simile precisione industriale, eseguito con la complicità di tanti Stati e Istituzioni a partire dal semplice motivo di appartenere a un gruppo umano. E tuttavia, nel mondo laico, raramente Auschwitz viene collocato all'interno del sistema di relazioni che lo ha reso possibile. Il più delle volte si tratta di isolare Auschwitz, collocandola nello spazio evocativo di un evento separato che poi servirà come standard supremo della crudeltà umana. A partire da quel luogo speciale, qualsiasi male può essere misurato. Così, la sua eccezione metafisica non è affatto incompatibile con il suo abuso quotidiano. Si può solo trattare di sbiancare moralmente sé stessi, misurandosi con questo ideale negativo. "Il sistema che ha reso possibile tutto ciò", e il posto speciale che l'antisemitismo occupa in esso, possono quindi continuare entrambi a funzionare liberi dalla morale borghese. I rituali di memoria e di commemorazione, trasformati in mormorio universale, non attestano il fatto che la rimozione sia stata portata a compimento. Operano come un nuovo strumento di rimozione della relazione tra l'individuo e la colpa. Al servizio del regolare funzionamento della valorizzazione capitalistica - "la quale non conosce alcun limite etico" - la politica contraddice a ogni istante i suoi propri autoproclamati ideali egualitari e universalisti. Questa civiltà ha fatto crollare tutte le vecchie barriere simboliche in grado di contenere la diffusione della violenza. È questo è il motivo per cui la sua violenza è senza limiti. Ma per la soggettività borghese, i propri "valori" valgono in sé e per sé, senza che essi pregiudichino loro trasgressione strutturale. L'elenco delle fosse comuni e delle distruzioni di cui questa civiltà - e nessun'altra - si è resa colpevole può continuare ad allungarsi sempre più, all'ombra della sua immaginaria purezza: niente riesce a smentirla. Le citate dichiarazioni di intenti vengono ritenute sufficienti. Questa soggettività sopravvive ad ogni e qualsiasi orrore, attribuendoli tutti a una malvagità di fondo che viene poi incarnata in atti e in gruppi umani isolati dal loro contesto generale. Mai e poi mai, attribuisce queste distruzioni ai principi strutturanti quella civiltà di cui pretende di essere custode. Se lo facesse, Auschwitz cesserebbe allora di essere un oggetto metafisico banale e abusato e diventerebbe un elemento chiave del campo storico che include pienamente la democrazia liberale, e non la sua esteriorità. Lasciamo quindi la parola agli «ipocriti della civiltà» (Sigmund Freud), a coloro che non mettono mai in discussione i fondamenti della loro civiltà.

   Tuttavia, la coscienza borghese si misura con la colpa collettiva i cui effetti si stanno chiaramente accumulando intorno ad essa. Qualunque cosa essa sia, sa di essere legata al sistema che ha realizzato tutto questo - la colonizzazione di tre quarti del pianeta e la distruzione di tutte le società precedenti, lo sterminio industriale degli ebrei d'Europa, la bomba atomica, il riscaldamento globale, la distruzione di ogni base della vita, ecc. Sa di non essere così pura come insiste a proclamare. Freud aveva già rilevato ne "Il disagio nella civiltà" la crescita storica del senso di colpa, le cui conseguenze vedeva nello sviluppo di un “super-io culturale”. Essendo morto nel 1939, egli non ebbe l'opportunità di vivere in prima persona il parossismo dell'antisemitismo che sterminò il suo popolo (sebbene due sorelle di Freud siano morte nei campi di concentramento). Lo ha persino sottovalutato! Né vide quei patrimoni di rispettabilità che furono esibiti all'indomani della guerra per poter ristabilire i diritti inalienabili della coscienza borghese infranta. Ma egli aveva correttamente individuato la connessione - in ogni caso particolare - del super-io individuale a un super-io culturale che si trasmette attraverso il super-io genitoriale, "nonostante gli ideali genitoriali consapevoli". Ecco perché, mentre la famiglia borghese continua a vantarsi di trasmettere alla propria prole i valori cardinali dell'Illuminismo, "la formazione del super-io obbedisce invece a una logica di trasmissione completamente diversa". La negazione del coinvolgimento di tutti nel buon funzionamento della macchina di morte capitalista, si svolge dietro il paravento della moralità civile e della buona coscienza borghese. Ciascuno si vede costretto a gestire - "indossando la maschera della sua propria morale borghese" - la trasmissione di una colpa collettiva che viene continuamente negata da quella stessa morale borghese, dal momento che quest'ultima vuole una sola cosa, vale a dire, stare dalla parte giusta della storia. È facile capire il motivo per cui sia Auschwitz il punto dolente di tutta questa impalcatura. Dato che Auschwitz è diventato il paradigma del male radicale, ecco che allora tutto ciò che ricorda Auschwitz, rischia di far saltare la costruzione della morale borghese. Ma che cos'è che ricorda Auschwitz, se non l'esistenza reale degli ebrei, l'esistenza di Israele, l'esistenza del conflitto geo-politico a esso associato, e la figura contigua dei palestinesi? L'intero conflitto israelo-palestinese, così come tutto ciò che a esso è connesso, anche se rappresenta solo una contiguità immaginaria, è permeato dell'odore e della puzza del ricordo di Auschwitz. Subito, immediatamente, possiamo sostenere che Israele è nato realmente, e non in maniera immaginaria, sulle ceneri di Auschwitz, e che ha accolto molti dei suoi sopravvissuti. Ma non esiste tuttavia alcuna relazione causale diretta tra Israele e la Shoah. Qui, bisogna distinguere tra cause finali, cause materiali, contingenze storiche e, infine, quella che costituisce la loro dialettica. E se in questo insieme di "cause" si rimane interessati al segmento delle cause soggettive, ecco che allora si deve dire che prima della guerra la maggioranza degli ebrei non era favorevole alla "soluzione" sionista, e che il sionismo è stato, simultaneamente, tanto una risposta all'antisemitismo quanto alla moderna crisi di identità dell'ebraismo, così come attestato da quei cinquant'anni di dibattiti sionisti che precedettero la creazione di Israele.

   Materialmente, stavolta Israele deve la sua esistenza tanto al sionismo cristiano, alla morsa coloniale delle potenze europee nella regione così come al voto di spartizione dell'ONU, quanto alla determinazione del movimento sionista. Infine, è probabile che - senza alcuni eventi imponderabili come la caduta dell'Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale, o senza l'inaspettato voto dell'URSS alla decisione dell'ONU - questo piano di spartizione non avrebbe mai visto la luce. E cosa sarebbe accaduto allora? La negazione di questo groviglio di cause dirette e indirette, trasforma l'esame dei fatti storici in ideologia. Senza trascurare l'antisemitismo come una motivazione del sionismo, è impossibile ridurre la creazione di Israele solo a questo attore causale. Anche una volta riconosciuto dalla comunità internazionale, questo Stato non poteva fornire “sicurezza” agli ebrei se non con le armi, e quindi a prezzo di sacrifici patriottici. Infine, il fatto che la creazione di Israele abbia agito da calamita per i sopravvissuti alla Shoah o per le vittime di persecuzioni ed espulsioni dai Paesi arabi può essere tutt'al più un ripensamento. Le persone fuggono dove possono e se possono; la creazione di Israele non è, ad esempio, la prova a posteriori che avrebbero dovuto o potuto fuggire in Israele, se Israele fosse esistita prima, se non altro perché i ghetti e le leggi antiebraiche in tutta Europa hanno gradualmente reso impossibile tale fuga. Oppure, si deve difendere l'ideologia sionista secondo la quale l'unica patria legittima degli ebrei è ora Israele; e che fa giustamente replicare agli ebrei scettici che il popolo ebraico sarà ancora più vulnerabile se metterà tutte le uova in un solo paniere. Nel suo libro Être un peuple en diaspora (Essere un popolo in diaspora), Richard Marienstras ha sostenuto che è stata proprio la diaspora a permettere al popolo ebraico di sopravvivere storicamente. Per tutte queste ragioni, l'affermazione di un legame univoco tra Israele e la storia dell'antisemitismo merita di essere definita ideologica, in quanto non si basa sull'analisi di fatti contraddittori, ma sul discorso di legittimazione sionista. Questa osservazione non è rivolta ai sentimenti delle persone che possono giustamente sentirsi legate a Israele o che vi hanno trovato rifugio, per non parlare di tutti coloro che sono israeliani in virtù del fatto di esservi nati. Si tratta della traduzione di questo sentimento soggettivo in un discorso di legittimazione politica. Tuttavia, poiché questo discorso non si basa sulla legittimazione politica ma su quella morale, esso attira immediatamente la sua controparte palestinese: anche i palestinesi rivendicano l'infinita sofferenza della Nakba (termine scelto per rispecchiare la Shoah). All'ombra della Shoah, la contabilità dei pregiudizi suggella finalmente un gioco a somma zero. Il riconoscimento reciproco di due aspirazioni politiche che possono essere formulate nei termini del diritto internazionale del dopoguerra - se è ancora valido, ma questo è un altro livello di analisi - dovrebbe oggi costituire la base per una soluzione che abbia la massima probabilità di sfuggire a queste insidie ideologiche. Almeno dal punto di vista giuridico. Non si può quindi fare affidamento sul vantaggio morale di questo o quel pregiudizio storico soppesato rispetto ad altri pregiudizi, tutti segretamente tarati sul significante di Auschwitz. D'altra parte, anche se Israele è svincolata da un nesso causale inequivocabile con la storia dell'antisemitismo moderno, resta il fatto che Israele non cessa di concentrare su di sé tutte le associazioni immaginarie legate all'Olocausto. È la superficie di proiezione del complesso di colpa genocida. Appare nella coscienza collettiva, che non si preoccupa di esaminare i dettagli, come la logica conseguenza dello sterminio degli ebrei d'Europa. Questo potente legame è costituito da contiguità cronologiche, demografiche, ideologiche e affettive che continuano ad agire in tutti i tipi di configurazioni. In un certo senso, ci permette di immaginare che gli ebrei abbiano effettivamente ricevuto una qualche forma di riparazione per gli atti mostruosi che avevano subito; o che si siano dati i mezzi per evitare il ripetersi della stessa storia. Questa visione ignora completamente le realtà della diaspora ebraica e le realtà israeliane e palestinesi, dove gli individui si arrangiano con la loro storia come meglio possono – perché la vita va avanti – senza mai compensare l'irreparabile. Anche il “mai più” rimane un incantesimo senza garanzia. Si può quindi scegliere di avvicinarsi a Israele attraverso le associazioni mentali che sorgono dalle tragiche circostanze della sua creazione o, più sobriamente, di avvicinarsi al sionismo come a un'utopia nazionalista nata dal grande movimento dei nazionalismi del XIX secolo. Questa seconda opzione ha il merito di politicizzare la creazione di Israele, e di collocarla nel movimento generale delle aspirazioni alla sovranità dello Stato, senza pregiudizio delle sue giustificazioni morali. Una tale comprensione della politicizzazione implica la presa in considerazione dell'intero contesto di fattibilità e non del semplice desiderio soggettivo. Prendere in considerazione l'intero contesto di fattibilità porta agli approcci delle impossibilità sistemiche del mondo moderno, le cui promesse sono commisurate alle sue lacune. Questa scelta metodologica libera Israele dalla prelazione morale che la storia moderna degli ebrei sembra imporle. Libera anche gli ebrei dal loro status di vittime assolute, prendendoli al livello della loro molteplice azione politica e ideologica (il sionismo è solo una delle risposte politiche adottate dagli ebrei). Rifiuta di assegnare paternalmente al sionismo una quasi-irresponsabilità di principio. Infine, allenta l'analisi degli eventi in Medio Oriente dell'associazione automatica tra Israele e la Shoah, alla quale ora mostreremo a quali aberrazioni conduce. Il moderno complesso di colpa non vorrebbe niente di meglio che continuare a “inchiodare” Israele alle sue circostanze traumatiche, facendo di Israele il suo oggetto elettivo per procura. Non è solo la propaganda israeliana che continua a raccogliere tali benefici secondari. L'associazione affettiva della coscienza borghese giudica tutto ciò che circonda Israele con il metro del significante organizzatore, ma per lo più nascosto, della Shoah ; Lacan lo direbbe un significante maestro. E questo vale per tutto ciò che circonda Israele per contiguità metonimica: lo Stato di Israele, la storia del sionismo, la storia del popolo ebraico, la storia della colonizzazione, le guerre moderne, l'antisemitismo, la Shoah, gli ebrei, i palestinesi... Israele, appare allora come il supporto della coscienza storica. Si offre come un mezzo affettivo, per la coscienza borghese, per poter affrontare in una volta sola, spostata su un'unica costellazione oggettuale, la sua oscura relazione con tutti gli orrori moderni di cui la Shoah è diventata il significante cardinale. Dal sostegno incondizionato al rifiuto viscerale e passando per l'ossessione filo-palestinese, la sindrome del senso di colpa genocida viene declinata in un'ampia varietà di posizioni, il cui l'oggetto centrale ha talvolta subito trasformazioni irriconoscibili. E si avrebbe torto a  credere che la cosa risparmi gli ebrei, i quali, pur essendo vittime storiche della Shoah, non sono meno costretti a collocarsi al loro posto e secondo quelle che sono le loro presunte conseguenze.  Si vedrà pertanto un considerevole numero di ebrei dimostrare un odio per Israele che farebbe diventare verdi di invidia i peggiori antisemiti. La cosa importante è che queste proiezioni non sono mai interessate a distinguere la morale dalla politica. Quale trionfo morale più grande di quello che accusa di genocidio la vittima storica paradigmatica del genocidio; dell'israeliano identificato con i discendenti delle vittime della Shoah? Quale trionfo più grande che accusare di genocidio o di intento genocida - in uno di quei rovesciamenti morali per i quali la logica della colpa ha un segreto - il palestinese che sottoporrebbe così gli ebrei alla continuazione ininterrotta della loro storia di antisemitismo? Mentre le due tragedie continuano a rafforzarsi a vicenda in immagini speculari, offrono a ciascuno la scelta della superficie di proiezione più adatta alla propria fantasia. Una fantasia che è sempre il risultato di una serie di modifiche sintattiche, di cui Freud ha dato un esempio in Un enfant est battu. Chi viene picchiato? Chi lo picchia? Qual è il rapporto tra l'osservatore della scena e il bambino picchiato? Allo stesso modo, le inversioni e le trasformazioni dell'identificazione proiettiva legate al conflitto israelo-palestinese sono tutte radicate nella coscienza di colpa di cui il genocidio degli ebrei è il paradigma e la cui matrice è la civiltà di cui non smettiamo mai di celebrare il progresso. Non si tratta quindi mai di un sentimento “puro” di giustizia disprezzato dallo spettacolo dell'ingiustizia. Questo sentimento è esso stesso un prodotto storico che viene espresso con una sintassi che spesso rende l'oggetto irriconoscibile. Rimane inseparabile dal significante storico della Shoah, che da ottant'anni tiene in ostaggio il teatro delle operazioni in Medio Oriente.

   A partire dal 7 ottobre il fenomeno ha raggiunto il suo apice. Mostrerò una sequenza significativa. Il 2 novembre 2023, la rivista comunista in lingua francese Contretemps ha pubblicato la traduzione di una lettera di dimissioni, inviata ai suoi superiori il 28 ottobre 2023, da Craig Mokhiber, direttore dell'Ufficio di New York dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. L'autore della lettera ha definito Gaza “un caso da manuale di genocidio” e ha chiesto che venga preso in considerazione “uno dei genocidi più atroci del XX secolo, quello della distruzione della Palestina”, perché ingiustamente dimenticato. Un caso da manuale è un caso incontrato nella realtà che corrisponde esattamente al suo concetto. Secondo questo esperto di genocidi, il “genocidio palestinese” del 28 ottobre 2023 corrisponde pertanto esattamente al concetto di genocidio. Che cos'è il genocidio? È lo sterminio pianificato e sistematico di un popolo a causa della sua identità. Tre settimane dopo il 7 ottobre, la risposta israeliana alla dichiarazione di guerra costituita dal massacro di Hamas è stata quindi definita “genocidio”. Certo, questa risposta poteva già essere considerata sproporzionata, ma qual è stata la portata del giudizio che ha permesso di definirla “genocidio” in questa fase della guerra? La frase seguente lo spiega: i palestinesi hanno subito un genocidio per quasi ottant'anni. Non è la situazione attuale di Gaza a essere definita genocida, ma la creazione di Israele. L'elenco delle colpe imputate a Israele, nella lettera di Craig Mokhiber e altrove, è impressionante. Oltre a essere essenzialmente “genocida”, Israele è anche “razzista”, “imperialista”, “etno-coloniale”, “teocratica”, “apartheid”, e così via, e concentra su di sé tutte le critiche del mondo contemporaneo.

   È straordinario avere tanti orrori in un unico luogo. Se potessimo eliminare questo luogo tutto in una volta, il mondo sarebbe certamente un posto migliore. Non dobbiamo più interessarci agli orrori in cui siamo immersi e che partecipano pienamente alla distruzione del mondo. Perché, ad esempio, non strappiamo i nostri passaporti, la cui esistenza è responsabile di tanta sofferenza umana ai confini dell'Europa, dell'America e altrove? Sarebbe meglio incolpare Israele per sempre di un problema di rifugiati reso insolubile dal rifiuto dei Paesi arabi di concedere la cittadinanza ai discendenti dei rifugiati del 1948 (a seguito di una risoluzione della Lega Araba del 1952). No, davvero, l'elenco delle carenze israeliane sopra citate è ancora troppo lungo. In effetti, le parole stanno finendo. Rima Hassan, che non è nata apolide a causa di Israele, ma a causa dello Stato siriano - cosa che non dice mai - non ha forse descritto Israele come una “mostruosità senza nome”? Ora l'altra metà della sequenza. Due giorni dopo, il 30 ottobre 2023, il rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, si presentò a una riunione del Consiglio di Sicurezza con una stella gialla sulla giacca con la scritta Mai più. Per protestare contro l'imbarazzo del Consiglio di Sicurezza nel qualificare e denunciare gli eventi del 7 ottobre, Gilad Erdan sostenne quel giorno: “Come i miei nonni, e i nonni di milioni di ebrei, d'ora in poi io e la mia squadra indosseremo stelle gialle”. È stata una cosa talmente grossa che il presidente Yad Vashem lo ha rimproverato. Ciò che è considerato inaccettabile e antisemita in qualsiasi altro contesto, ad esempio nelle manifestazioni anti-Vax, qui viene sfacciatamente esibito. Con questo atto, Gilad Erdan ritiene che il 7 ottobre costituisca la continuazione dello sterminio hitleriano e invoca esplicitamente la memoria di tutti i discendenti degli ebrei europei. Così facendo, riprende il discorso dell'estrema destra israeliana, che paragona il 7 ottobre a una mini Shoah al fine di legittimare politicamente non solo l'annientamento di Hamas - impossibile con i soli mezzi militari, data la natura stessa della sua struttura terroristica - ma anche quello del popolo palestinese, che ostacola il completamento della Grande Israele. Poiché nessuna risposta può essere troppo forte, nell'immaginario nazionale israeliano, contro un evento come la Shoah. La continuazione della Shoah sotto la maschera di Hamas richiedeva quindi una risposta almeno equivalente: Gaza non è altro che un enorme cumulo di polvere, rovine e sangue, dove vagano milioni di persone affamate. Dal giorno successivo al 7 ottobre, il governo israeliano ha iniziato a tenere in ostaggio la memoria e l'identità di tutti gli ebrei del mondo, in nome dei quali viene portata avanti la sua politica. La posta in gioco sarebbe la sopravvivenza del popolo ebraico malgrado le azioni di Hamas, ma secondo la dottrina della “negazione della diaspora”, formalizzata con il Programma di Gerusalemme del 1951 e rafforzata nel 1968 al XXVII Congresso sionista, Israele è il custode - avendo fallito magistralmente - di tale sopravvivenza. Si potrebbe obiettare che il legame tra la Shoah e il 7 ottobre è soprattutto un effetto di alcune persone che hanno vissuto entrambi gli eventi, loro stessi o i loro genitori. Le associazioni individuali sono inevitabili: è impossibile impedire a chiunque di associare certe esperienze ad altre. Tuttavia, non costituiscono una prova di identità tra i due eventi che possa essere utilizzata come base per un discorso politico. Raffigurandosi come vittima di un pogrom in previsione di un genocidio, il governo israeliano ha potuto liberare gli ultimi argini e sterminare i gazari, se necessario, fino all'ultimo uomo, con tutte le giustificazioni di sicurezza, intensificando al contempo l'occupazione e l'oppressione dei palestinesi in Cisgiordania. Non è insignificante che Craig Mokhiber e Gilad Erdan si rivolgano entrambi agli organi dell'ONU, che ha creato il problema – o che ha ratificato il problema creato dal suo predecessore, la Società delle Nazioni – e che da allora ha continuato a voler ritrattare moltiplicando vane dichiarazioni. L'ONU si configura come un grande Altro che dovrebbe decidere nell'accusa reciproca di genocidio. Il "conflitto israelo-palestinese" intrappola così i suoi protagonisti e le loro camere di risonanza ideologiche globali in un'equazione vittimistica che blocca qualsiasi compromesso politico. In questo contesto, il riferimento cospirativo al genocidio nazista funge da paravento per gli atti genocidi israeliani, così come il termine "genocidio" è diventato l'invocazione rituale della sinistra morale, che sta solo aspettando di cogliere Israele nell'atto di genocidio per confermare ciò che ha sempre saputo. Intanto, i protagonisti del conflitto stanno risalendo la scala delle atrocità per mettersi al livello del loro referente storico, sotto gli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Le atrocità riecheggiavano negli infiniti commenti che questo conflitto provoca. Come in una sala degli specchi, il mondo moderno, alla fine della sua traiettoria di crisi, sta rispecchiando la propria mise en abyme sulle spalle di israeliani e palestinesi. La memoria dell'Olocausto è strumentalizzata; o per sussumere la causa palestinese sotto un'eredità nazista che traccia una linea retta tra Hitler, il Gran Mufti di Gerusalemme e Hamas (cosa che il popolo tedesco anti-tedesco fa senza complessi), o, al contrario, per fare di Israele stesso uno stato essenzialmente nazista fin dal suo primo minuto di esistenza. In entrambi i casi, l'avversario politico deve essere nazificato. Due modi che servono anche per negare le due aspirazioni alla sovranità statale in un mondo che tuttavia riconosce solo questa forma di "emancipazione politica" (checché se ne pensi altrove). Il conflitto viene così ridotto al suo minimo comune denominatore morale: il significante del genocidio. L'Olocausto continua a distillare il suo veleno attraverso l'interminabile sforzo di localizzarlo su nuovi colpevoli, se possibile legati al complesso israelo-palestinese preso come superficie sostitutiva. La mostruosità morale che perseguita la soggettività moderna è alla ricerca di un portatore di responsabilità per il quale il significante "Israele" è il centro di gravità.

   Che nessuna soluzione politica possa emergere da una simile spirale ideologica è ovvio. Ma è ancora più disastroso che i non israeliani e i non palestinesi che sono coinvolti in questa spirale non riescano a vedere il loro contributo criminale ad essa, quando non stanno nemmeno vivendo il conflitto in prima persona. D'ora in poi, il “conflitto israelo-palestinese”, comprese le sue dimensioni storiche, non dovrà essere affrontato sulla base di una legittimazione morale, diretta o inversa, legata al nazismo e ai suoi significati. Questo nonostante la schiacciante realtà dell'antisemitismo negli eventi del XX secolo. Il fatto che il sionismo abbia legittimato il suo progetto statale attraverso la persecuzione antisemita o che molti ebrei, alcuni dei quali non erano affatto sionisti, abbiano trovato rifugio nella Palestina mandataria, e poi in Israele, non deve più essere invocato come argomento politico a favore di Israele. Come tutti i migranti per secoli, gli ebrei andarono ovunque potessero. Alcuni non tardarono a partire nella direzione opposta. Conosciamo tutti il witz ebraico sulle due barche che si incrociavano in direzioni opposte nel porto di Giaffa durante il periodo mandatario, e i cui passeggeri giravano le dita sulla fronte, in segno di follia, rivolti alla barca di fronte... Quando si tratta di considerare politicamente le prove del caso, la realtà dell'antisemitismo non rappresenta alcun privilegio morale. Come è stato detto, questa storia non ha alcuna attinenza con l'obiezione palestinese: come potrebbero gli ideali politici sionisti (la fede in una soluzione sionista alla "questione ebraica") o la persecuzione e l'emigrazione ebraica giustificare l'espropriazione della sovranità degli abitanti della Palestina? È sufficiente che una coscienza palestinese storicamente arretrata nella competizione delle aspirazioni nazionali trascuri l'orizzonte politico di questa esistenza palestinese? Questo nesso storico è l'unico che merita di essere chiamato politico, perché tratta le due aspirazioni - e l'impossibilità originaria di risolverle nello stesso territorio - come ugualmente legittime da un punto di vista politico, indipendentemente dai loro discorsi di legittimità. Ma la legittimità non è fattibilità. Questa impossibilità si riflette nel fatto che lo Stato proclamato nel 1948 era di fatto uno Stato binazionale. La logica degli eventi non poteva che portare, e necessariamente, alla pulizia etnica per adeguare il concetto di Stato ebraico alla sua realtà demografica. Gli arabi palestinesi potevano solo essere sottoposti a una sovranità straniera, inevitabilmente percepita come coloniale, o essere espulsi. Non esisteva una terza possibilità materialmente realizzabile nel contesto di questo piano di spartizione. Affermare il contrario è ancora una volta puro pensiero borghese. Benny Morris è uno dei pochi storici che lo dice apertamente. Il costante riferimento alla storia nazista distorce pertanto la valutazione politica delle azioni di Israele, e delle azioni di Hamas o Hezbollah, così come distorce il bilancio di un secolo di conflitti regionali. L'Olocausto non può essere un argomento incriminante per i palestinesi, e un argomento di difesa per gli israeliani. E viceversa. Non costituisce una giustificazione morale per la creazione di Israele, dal momento che il sionismo è inteso come un movimento politico, giudicato a partire dalle sue condizioni di fattibilità politica e non dal metro di una franchezza morale fornita dalla tragedia degli ebrei d'Europa. Né questa tragedia ci permette di screditare moralmente il rifiuto del piano di spartizione del 1947 da parte dei paesi arabi, nonostante la collaborazione del Gran Mufti con i nazisti e nonostante tutte le ideologie antisemite panarabe e islamiste. Questo rifiuto merita la stessa considerazione politica dell'aspirazione alla sovranità dello Stato ebraico. O entrambe le posizioni vengono riconosciute come politicamente legittime all'interno della lotta per gli interessi capitalistici, o nessuna delle due, il che sarebbe molto curioso in un mondo organizzato da stati-nazione. Questa trattazione teorica renderà più evidente l'impossibilità storica di risolvere le due aspirazioni in questione sullo stesso territorio. In altre parole: era impossibile evitare un'ingiustizia. Da questa impossibilità reale non ne consegue che l'una o l'altra delle aspirazioni politiche sia inammissibile per il diritto, come gli eserciti di ideologi di ogni colore tendono a dimostrare. La sovradeterminazione ideologica offusca questa dichiarazione minima di trattamento politico. Sia che cerchi di costruire moralmente gli ebrei di oggi come vittime permanenti della Shoah, sia che cerchi di costruire i palestinesi come vittime permanenti, viste “come conseguenza” delle ex vittime del nazismo diventate cinici coloni (come se i palestinesi non fossero anche vittime dei Paesi arabi e dei movimenti islamisti che promettono loro la salvezza divina usandoli come scudi umani, e come se i palestinesi non fossero anche responsabili delle loro disastrose scelte politiche), non vuole avere nulla a che fare con una posizione politica sul problema. Si aggrappa al suo feticcio storico, il significante nazista. Ma non si può discutere - per una valutazione equa del conflitto - di concedere ad alcuni la franchezza morale che è negata ad altri, qualunque sia il “campo” in cui si pretende di individuare il grande tema dell'oppressione. I palestinesi non sono mai stati consultati sulla loro autodeterminazione. Per più di un secolo, sono stati coinvolti in una spirale di manipolazione araba e sionista. Ma non possono aspettarsi una soluzione politica dal perpetuarsi di una disputa che nega l'esistenza di Israele come Stato: Israele si è affermato nella pratica, si è consolidato nel tempo e ha sviluppato una cultura nazionale. L'ingiustizia su cui si basa non è più riparabile dell'ingiustizia di cui il sionismo si dichiara responsabile.

   Si può anche trovare l'esistenza di Israele odiosa e lontana da una reale emancipazione, come fanno molti ebrei nel mondo: questo è un altro discorso. Questa valutazione non cambia il fatto che il sionismo è un'espressione tra le altre delle aspirazioni nazionali moderne, che deve essere trattata alla luce della matrice politica che ha visto la sua nascita e non alla luce di principi di giustizia derivati da un'idealizzazione dell'ebraismo. Anche i palestinesi vedono allontanarsi l'evento fondante da cui traggono la loro identità politica. Anche in questo caso, la trasmissione del trauma non è una franchigia morale perpetua. In Portées du mot “juif” (2005), Badiou ha descritto la prelazione nazista del significante ebraico nel mondo contemporaneo. Ma si è limitato a diagnosticare la perversione del “nome ebraico” al servizio di una rendita morale derivata dal nazismo per meglio negare sia il carattere specificamente antisemita dello sterminio hitleriano sia l'esistenza di un significante “ebraico” che resiste alla definizione hitleriana degli ebrei. Proponendo di dissolvere il “nome ebraico” nell'universalismo paolino, Badiou non fa che ripetere la più antica accusa degli antisemiti, secondo cui gli ebrei coltivano una specificità ebraica inassimilabile, aperta o nascosta, decuplicata dalla loro storia di persecuzione. In breve, Badiou prescrive agli ebrei di essere buoni cristiani. Ma possiamo rifiutare l'eccezione morale legata al nome ebraico nel contesto di una discussione politica senza negare agli ebrei il diritto di gestire soggettivamente e nella pluralità delle risposte - come qualsiasi altra minoranza - le contraddizioni identitarie nate dall'incontro tra ebraismo e modernità. Badiou non è antisemita quando chiede la fine dell'eccezionalismo morale degli ebrei, ma quando sgombra il mondo europeo, e lui stesso con esso, dal complesso di colpa che sovra-determina il “nome ebraico” e “Israele” al di là del pathos ebraico e israeliano. Lo fa dissolvendo la storia dell'antisemitismo in quella delle esazioni razziali e smussando la dimensione paradigmatica del male radicale aperta da Auschwitz. Ma sottrarre il “nome ebraico” all'eccezionalismo morale non significa negare la particolarità della sua storia all'interno della storia europea. Si tratta di due linee di argomentazione diverse, una prescrittiva, l'altra descrittiva. È molto lontano dal concludere che la Shoah sia stata eccezionale (nel senso di un'estremizzazione del normale funzionamento capitalistico), ovvero assumere l'eccezionalismo morale di Israele o degli ebrei o dei palestinesi che, per inversione, sono talvolta visti come gli “ebrei” degli israeliani. Nella competizione per la memoria, tra la storia dell'antisemitismo e la storia della colonizzazione, l'intenzione non è quella di esaminare criticamente le rispettive storie, quanto piuttosto di assegnare il titolo di vittima assoluta a una delle figure identificative del conflitto israelo-palestinese. Questo conflitto diventa così automaticamente il tribunale della storia; per la gioia degli antisemiti e dei razzisti che tengono il conto. Il compito è ora quello di liberare i veri israeliani e palestinesi da questo sequestro collettivo. Questo vale per tutte le sinistre che non hanno altro progetto politico se non quello di dimostrare la propria innocenza morale, cospirando unilateralmente contro l'imperialismo “sionista”. E vale anche per i nuovi guerrafondai che sostengono che Israele e l'Occidente hanno il diritto di difendersi dagli “infami” - l'islamismo o il regime iraniano - a costo di gettare il mondo intero nell'inferno. La vittimologia sionista e il martirologio palestinese - e la loro miriade di inversioni e configurazioni identificative - devono essere identificati come componenti a sé stanti della mancata politicizzazione del conflitto. Alla fine, si risolvono in una lotta all'ultimo sangue che esegue nella realtà l'impossibilità inscritta fin dall'inizio in un atto di forza basato sul ricatto morale. Spetta a noi rompere con questo approccio, non cercando di legittimare gli attori, facendolo con i mezzi con cui essi stessi spiegano le loro azioni. In particolare, è sbagliato attribuire la sovra-rappresentazione geopolitica di questo conflitto all'antisemitismo onnipresente. Questa sovra-rappresentazione si presta a ogni tipo di aggancio antisemita, certo, ma è soprattutto radicata nel complesso di colpa occidentale. È tempo di portare Israele nel mainstream culturale. Ed è una rinuncia pesante per la coscienza ebraica. Ma è una rinuncia ancora più grande per la coscienza occidentale. Questa precauzione metodologica ripristinerebbe le condizioni per un trattamento politico del conflitto, depurandolo dalla riserva emotiva che deriva dalla memoria storica. Il fatto che la costellazione delle crisi mondiali metta in dubbio una tale soluzione politica, non deve portare a una cancellazione paternalistica della responsabilità degli attori. Né l'astratto israeliano né l'astratto palestinese, sono le vittime assolute a cui aspira la nostra fantasia di colpevolezza. Dovremo pertanto rinunciare all'idea di “dimostrare la Shoah” in ogni cosa che facciamo. Per noi che non viviamo lì, il conflitto deve prima essere liberato dalle grinfie di una coscienza di colpa che rimarrà aperta, incurabile. Non sarà lavata via dalla posizione che assumiamo - spesso con malizioso piacere - nel denunciare gli orrori perpetrati in loco gettando nel dibattito parole enormi che comprendiamo a malapena, che non ci costano nulla e che non rendono servizio a nessuno, come “il pogrom del 7 ottobre” o “il genocidio”. Abbiamo tutti notato il modo in cui qualcuno ha recentemente annunciato di aver finalmente adottato il termine genocidio con un tono di “ora è deciso”, come se dopo una lunga riflessione interna si fosse arreso all'orrore inconfutabile delle immagini. Dato il ruolo ideologico che questo termine svolge specificamente in questo conflitto, e che abbiamo appena delineato, è più opportuno resistere a questo appello. Alla parola è negato lo status di metafora. Significa solo sé stessa nella costellazione inconscia del discorso: “Gaza è Auschwitz”. Possiamo perciò lasciare questo termine agli storici e ai giuristi, i quali avranno il compito di descrivere i fatti. Gli eventi non sono meno mostruosi solo perché viene loro negato un termine che funge da diversivo morale e da divieto di pensare. Questa riserva - temporanea - non ci impedisce di vedere il livello stupefacente di distruzione e di barbarie scatenato a Gaza, come tenta di fare Jean-Pierre Filiu, per esempio, nel suo resoconto di una visita di un mese a Gaza alla fine del 2024, anche se non parla di genocidio. Ci vorrà molto tempo per trovare le parole e le analisi giuste per descrivere questo episodio storico in modo adeguato e dignitoso.

- Sandrine Aumercier- , luglio 2025 Pubblicato su GRUNDRISSE. Psicoanalisi e capitalismo -

lunedì 7 luglio 2025

Leggere in silenzio…

Nel suo libro, dedicato ai primi secoli dell'era volgare  - "Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani", Einaudi - Peter Brown riprende e commenta una serie di testi e di proposizioni risalenti ai primi vescovi della Chiesa cattolica, tra i quali Ambrogio da Milano, maestro di sant'Agostino, che impressionò quest'ultimo per la sua capacità di leggere in silenzio. Leggendo la discussione su Ambrogio, si rimane colpiti dal modo in cui Brown sottolinea la sua preoccupazione per i limiti e i confini: la mentalità di Ambrogio - sostiene Brown - era organizzata a partire da dei contrasti assai netti, i quali devono pertanto rimanere ben chiari e demarcati: santità contro peccato, verginità contro concupiscenza, Chiesa contro mondo, uomo contro donna, e così via. Vivendo a Milano - frontiera per eccellenza alla fine del IV secolo –, per Ambrogio la discussione sui limiti costituiva un modo per parlare, simultaneamente, dei corpi dei fedeli, del rapporto tra Chiesa e Stato e della posizione che i funzionari ecclesiastici assumevano all'interno della macchina imperiale. In Ambrogio, il seme è quello della difesa dei dogmi; una cosa che diventerà ancora più drammatica a seguito delle già annunciate "invasioni barbariche", e questo proprio perché a venire attaccati sono proprio i confini del mondo reale; cosa che rende necessario vigilare e proteggere i confini interni in un modo ancora più rigoroso. Non so fino a che punto Borges sia stato consapevole di questa articolazione esistente tra i confini dell'Impero e la verginità cristiana - soprattutto femminile, a causa della Vergine Maria, che Ambrogio indicò come modello per tutti, uomini e donne -  nel momento in cui egli scrive il suo racconto "La storia del guerriero e della prigioniera" (pubblicato nel 1945 nel suo libro "El Aleph"). Fatto sta che, nel racconto, i due temi si intersecano: da una parte abbiamo la donna, la prigioniera (che poi sono due: la nonna di Borges e la donna "dello Yorkshire", la quale si è "trasformata" in indiana), e dall'altra abbiamo il barbaro invasore dei confini, Droctulft, il quale si "trasforma", dal momento che egli muore difendendo Roma (come racconta Paulo, il Diacono, attraverso Benedetto Croce, che viene citato da Borges all'inizio del racconto). Degno di nota, è che Borges attraversi le storie facendolo anche dal punto di vista della lingua: il barbaro che diventa un uomo civile a difesa di Ravenna riceve, dopo la sua morte, un epitaffio in latino che probabilmente non sarebbe nemmeno in grado di comprendere; la nonna di Borges, da parte sua, a sua volta, parla in inglese con la donna diventata indiana, la quale accede alla lingua con difficoltà, a causa dei quindici anni nei quali non l'ha utilizzata (è lei la donna che chiede a un soldato di voler parlare con la nonna di Borges).

fonte: Um túnel no fim da luz

domenica 6 luglio 2025

L’ultimo Marx…

L'ultimo Marx, su colonialismo, gender e "comunismo indigeno": un'intervista con Kevin Anderson
- di Kevin B. Anderson &
Federico Fuentes Pubblicato il 6 luglio  2025 -

Federico Fuentes: Il tuo nuovo libro si concentra sugli ultimi scritti di Marx. Perché questo interesse specifico per l'ultimo Marx? Stai cercando di contrapporlo a un "primo Marx"?

Kevin. B. Anderson: Analogamente alle discussioni risalenti a decenni fa, sul "primo Marx", anche le discussioni sul "tardo Marx" sono in corso da un po' di tempo, sebbene si siano realmente cristallizzate solo negli ultimi cinque anni. Il mio libro su "Marx ai margini" è uscito circa 15 anni fa, ed esaminava alcuni degli ultimi scritti di Marx che all'epoca si erano erano resi appena disponibili. Ma negli ultimi cinque anni, tra le altre cose, abbiamo avuto il libro di Kohei Saito, su "Ecosocialismo: il Capitale, la Natura e la critica incompiuta dell'economia politica di Karl Marx", e gli "Ultimi anni di Karl Marx: una biografia intellettuale" di Marcello Musto. A mio avviso,non possiamo ignorare il tardo Marx più di quanto non lo si possa fare con il primo Marx: sono entrambi Marx, e dicono molte cose interessanti. Inoltre, non credo che si possa individuare una sorta di rottura tra il Marx “maturo” del Capitale e dei Grundrisse con nessuno di questi ultimi periodi. Quello che volevo fare con questo libro era specificare il periodo tardo di Marx in quanto periodo distinto dei suoi scritti.

F.F.: Nella tua introduzione, noti come alcuni studiosi marxisti si siano concentrati soprattutto sugli scritti di Marx riguardanti «capitale e classe, con l'esclusione di altre questioni». Quali sono le altre questioni su cui cerchi di attirare l'attenzione nel tuo libro?

K.B.A: Mentre molti altri hanno lavorato sulle idee del tardo Marx riguardo all'ecologia, io ho invece concentrato la mia attenzione sui suoi appunti riguardanti la razza, il genere e il colonialismo. Questi problemi sono presenti in tutti gli scritti di Marx, anche nelle sue prime fasi. Ma, nel tempo, alcuni aspetti diventano più marcati, sia quantitativamente che in termini di nuove posizioni che egli ha via via adottato. È questo ciò che cerco di far emergere.

F.F.: Perché queste questioni sono importanti ai fini della nostra comprensione della critica di Marx al capitalismo?

K.B.A: Se si guarda al penultimo capitolo del Libro I del Capitale, leggiamo che Marx parla delle forze produttive che diventano sempre più concentrate; il che a sua volta porta alla crescita e alla concentrazione della classe operaia in quanto forza sociale. Marx delinea il modo in cui il capitale si sviluppa nel tempo, spiegandoci che arriverà il momento della transizione rivoluzionaria, e che il capitale dovrà essere rovesciato, per superare le contraddizioni del capitalismo. Ma tuttavia non fa alcuna menzione di razza, di genere o di Stato. Quello che Marx ci presenta è un modello astratto; astratto in senso buono, dal momento che egli sta cercando di concentrarsi su quali sono le caratteristiche più salienti del capitalismo. Ma tutto ciò però significa che la sua spiegazione del capitalismo, così come viene data nel I volume del Capitale Volume, rimane a un livello assai generale, il quale può essere applicato a quasi tutte le società capitaliste industriali.Eppure, allorché egli  approfondisce il capitalismo nell'Inghilterra del 1870, confrontandolo -  diciamo - con il capitalismo negli Stati Uniti di oggi, noi possiamo immediatamente vedere che tuttavia è più complesso. E Marx, questa complessità l'ha approfondita per tutta la sua vita, anche a partire da quelli che furono i suoi primi anni. Ad esempio, Marx vedeva gli Stati Uniti e il Brasile - che erano gli unici due grandi paesi capitalistici con una moderna produzione basata sulla schiavitù -  come forme di capitalismo razzializzato. Negli anni '50 dell'Ottocento, scriveva che forse la rivoluzione non sarebbe iniziata nei paesi industrialmente più avanzati, ma nella periferia; vale a dire la Cina e l'India. Quando nel 1863 scoppiò una rivolta in Polonia, Marx scrive a Friedrich Engels dicendo che «si può sperare che stavolta la lava possa scorrere da est a ovest». Tuttavia, queste idee, all'epoca, non sono mai state molto elaborate. Sarebbe stato verso la fine della sua vita, che Marx avrebbe iniziato a concentrarsi molto di più su questi temi. Ad esempio, Marx esamina le interazioni esistenti tra i settori colonizzati e i cosiddetti paesi capitalisti centrali; come quelle che c'erano tra l'Irlanda e l'Inghilterra. Ma ha anche esaminato il rapporto esistente tra inglesi e irlandesi all'interno dell'Inghilterra; che egli considerava simile in qualche modo al rapporto razzializzato esistente tra lavoratori bianchi e neri negli Stati Uniti. Tutto questo, è molto interessante poiché entrambe le relazioni vengono collegate direttamente al colonialismo: da un lato, abbiamo il fattore coloniale irlandese e il movimento nazionale (che Marx sostiene), con il suo impatto sul capitalismo britannico. Mentre, dall'altro lato, vediamo questo proletariato di immigrati irlandesi, all'interno dell'Inghilterra, che sono stati costretti a emigrare, e in gran parte ciò è avvenuto a causa del colonialismo britannico. Quindi, Marx sta guardando a questo problema da varie angolazioni diverse. Purtroppo, ci sono oggi alcuni marxisti che considerano estranea al capitalismo una tale complessità, e ritengono che si tratti solo di questioni specifiche delle diverse società capitalistiche; quando invece in realtà tutto ciò è molto importante.

F.F.: In che modo l'evolversi delle sue opinioni ha influenzato il modo in cui egli immaginava e concepiva le rivoluzioni?

K.B.A: Inizialmente, il modello astratto di Marx lo aveva portato a credere che l'Inghilterra -  a partire dalle sue grandi industrie e dal suo proletariato - fosse l'unico paese ad avere le condizioni economiche per una rivoluzione anticapitalista. Ma alla fine degli anni '60 dell'Ottocento, il suo modo di pensare iniziò a cambiare. Marx vedeva ancora i lavoratori britannici come quelli dotati di un grande potenziale rivoluzionario, ma cominciò anche  a vedere che l'energia rivoluzionaria poteva provenire dall'esterno dei settori industriali più avanzati della classe operaia inglese. Marx invece cominciò a rendersi conto che una rivolta agraria in Irlanda avrebbe potuto essere la scintilla per scuotere la Gran Bretagna, e spingerla in una direzione rivoluzionaria. C'è qualcos'altro che emerge negli scritti di Marx, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80: egli comincia a vedere queste rivolte della periferia, non solo come politicamente importanti per intaccare la forza dei paesi capitalistici centrali, ma le considera anche come portatrici di possibilità comuniste. Si concentra davvero sulla Russia, e inizia a vederla come il nuovo centro di energia rivoluzionaria del continente. In quello che è il suo ultimo scritto – la prefazione del 1882 al "Manifesto del Partito Comunista" – Marx pone la domanda: «Può l'obshchina [ la comune contadina] russa, sebbene fortemente indebolita, e pur essendo una forma primordiale di proprietà comune della terra, passare direttamente a quella che potrebbe essere la forma superiore della proprietà comune comunista?» La sua risposta è che «se la rivoluzione russa diventa il segnale per una rivoluzione proletaria in Occidente - facendo in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda - allora l'attuale proprietà comune russa della terra potrebbe servire come punto di partenza per uno sviluppo comunista». Tutto ciò rappresenta un enorme capovolgimento rispetto al linguaggio del "Manifesto del Partito Comunista" del 1848. Allora, Marx sosteneva che i vecchi rapporti agrari andavano sradicati e distrutti. Ed era questo il motivo per cui aveva sostenuto il libero scambio; voleva che il capitalismo si diffondesse ovunque, e stravolgesse le vecchie strutture pre-capitaliste. Ora invece Marx stava dicendo che gli elementi pre-capitalisti presenti all'interno di queste strutture sociali – il cosiddetto comunismo primitivo – potevano diventare la base di un movimento rivoluzionario.

F.F: Cosa puoi dirci su come Marx vedeva il genere e il capitalismo nei suoi scritti successivi?

K.B.A: Verso la fine della sua vita, Marx guarda al genere in modo piuttosto ampio. Il libro di Engels, "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" – che rimane in qualche modo un grande libro – si basava in gran parte sugli appunti che Marx aveva preso durante gli ultimi tre anni della sua vita. Ma devo dire che la questione del genere è stata una delle parti più difficili del mio libro. Una delle difficoltà è che - mentre gli scritti di Marx sulle società indigene (soprattutto nelle Americhe) e sull'antica Grecia e su Roma sono pieni di discussioni riguardo al genere -  questo problema non viene mai direttamente collegato ai movimenti rivoluzionari, e alle sfide al sistema. I suoi scritti sull'Irlanda alla fine degli anni '60 dell'Ottocento, o quelli sulla Russia degli anni '70 dell'Ottocento, parlano parecchio di rivoluzione, ma non fanno mai specificamente menzione del genere. È solo alla fine della sua vita - nel 1881 - che egli ci torna sopra, e per esempio guarda al genere riferendo all'Irlanda della pre-colonizzazione britannica. I suoi scritti sembrano tuttavia andare un po' contro ciò che Engels avrebbe scritto in seguito. Engels sosteneva che, poiché il patriarcato e i rapporti di genere si legavano alla proprietà privata e allo Stato, prendendo di mira questi ultimi si sarebbero presi di mira anche il patriarcato e i rapporti di genere. Fu questo punto di vista che portò Engels a scrivere, adattando una frase di Hegel: «L'abbattimento del diritto materno ha rappresentato la sconfitta storica, a livello mondiale, del sesso femminile». Tuttavia, allorché Marx esaminò le relazioni di genere tra i greci e tra i romani, non le vide come se si fosse trattato di una dominazione ininterrotta. Marx ha sottolineato come, in qualche modo, le donne romane avessero più libertà delle donne ateniesi. E questo sembra indicare che  nelle relazioni di genere, piuttosto che una sconfitta storica mondiale indifferenziata, come espresso da Engels, egli vide alti e bassi. Se si pensa a una sconfitta storica e ininterrotta delle donne, allora emergono due problemi.  In primo luogo, questo tende a negare il ruolo delle donne nel corso dei millenni, come osserva Marx parlando di Roma, o come potrebbe essere menzionato in molti altri contesti. In secondo luogo, se è vero che questa sconfitta che consolida il patriarcato si è verificata più o meno contemporaneamente all'ascesa della proprietà privata e dello Stato, allora nel capitalismo moderno è possibile attaccare il patriarcato, nel modo più efficace, proprio prendendo di mira la proprietà privata capitalistica in quanto fondamento economico sia del patriarcato che dello Stato. Ne consegue che i movimenti delle donne dovrebbero allora essere ausiliari della sinistra socialista, e non autonomi e indipendenti: infatti, è stata questa la politica dei socialisti della generazione successiva a Marx ed Engels.

F.F: In che modo tutti questi punti di vista in continua evoluzione hanno influenzato le attività rivoluzionarie di Marx?

K.B.A:  Prendiamo l'Irlanda: Marx ed Engels, pur sostenendo sempre l'Irlanda contro la Gran Bretagna, inizialmente erano molto ostili ai nazionalisti borghesi irlandesi, che essi consideravano non preoccupati della classe operaia. Ma nel 1869-70, in Irlanda vediamo un movimento nazionalista progressista, la Fratellanza Feniana, che era un movimento plebeo interessato sia ad abbassare gli affitti che a cacciare l'occupante straniero. Non era un movimento socialista, quanto piuttosto un movimento cosciente di classe. Tuttavia, Marx si avvicinò in modo da rendere omaggio alla Fratellanza Feniana e al suo programma agrario. Marx concluse anche che era necessario un duro lavoro per riuscire a guadagnare la fiducia dei lavoratori irlandesi in Inghilterra, soprattutto perché le persone con cui lavorava nella sezione locale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori erano in gran parte inglesi. Sosteneva che avevano bisogno di far sapere ai lavoratori irlandesi di essere a favore dell'autodeterminazione irlandese, e anche dell'indipendenza, se era questo ciò che serviva per abbattere il muro di diffidenza, separare quei lavoratori dai nazionalisti borghesi, e reclutarli nell'Internazionale. In Russia, la situazione era molto diversa. Lì, non c'era nessun movimento nazionalista, e certamente nessuno che fosse di sinistra. Invece, c'erano tutti i diversi tipi di socialisti. La maggior parte erano intellettuali che amavano il Capitale, e volevano applicarlo in maniera assai dogmatica alla Russia. Parlavano della necessità di cacciare i contadini dalla terra, per industrializzare la Russia e creare un proletariato. Marx disse loro che non era ciò che lui intendeva. Ma c'era anche un'altra ala, i populisti, i quali mancavano di chiarezza teorica, ma che Marx ammirava dal momento che anche loro vedevano nei contadini russi un certo potenziale rivoluzionario. Ovviamente, non sappiamo che cosa ne avrebbe fatto Marx di tutti questi suoi ultimi scritti, alla fine della sua vita. Però abbiamo la prefazione al Manifesto comunista, dove parla della necessità di unire questi elementi: il comunismo agrario russo e il moderno proletariato socialista dell'Europa occidentale. Per Marx, i due elementi dovevano trovare il modo per unirsi.

F.F.: Crede che gli ultimi scritti di Marx mettano in discussione alcune idee che sono prevalenti tra i marxisti di oggi?

K.B.A: Penso che la nozione di progresso sia stata messa in discussione dagli ultimi scritti di Marx. Nei suoi primi scritti, Marx vede il passaggio dal feudalesimo al capitalismo come un progresso assai diretto. Ma nel tempo, nei suoi scritti, questo progresso gli appare sempre più come un costo da pagare. Le I Libro del Capitale,  Marx scrive che il capitalismo «trasforma ogni progresso economico in una calamità sociale», soprattutto per la classe operaia. Egli vede ancora il capitalismo, in generale, come un progresso – non ha mai abbandonato del tutto quella visione – ma nei suoi scritti successivi comincia a dire cose, sugli aspetti negativi del progresso, che prima non avrebbe detto. L'altra faccia della medaglia è che egli inizia a vedere dei potenziali elementi costitutivi del socialismo in quelle che sono alcune strutture sociali collettiviste pre-capitaliste. Ironia della sorte, se io dicessi questo in una riunione di marxisti nella Russia del 1900, verrei definito populista, e non marxista. Alcune persone hanno detto che, per la Russia, Marx avrebbe fatto un'eccezione a causa di quello che è stato il suo diverso percorso di sviluppo. Ma lo si può vedere anche nei suoi scritti sull'India e sulle società indigene in Nord Africa e in America Latina, che Marx credeva che le strutture sociali comunitarie in quelle società potessero diventare una base per la rivoluzione. Questo costituisce un cambiamento rispetto ai suoi scritti degli anni '40 e '50 dell'Ottocento, laddove anche se Marx era consapevole di queste strutture comunitarie, le vedeva tuttavia come se esse fossero la base del dispotismo orientale, e riteneva che fossero chiuse a qualsiasi forma di progresso.

F.F.: Quali implicazioni vede in questi scritti, per la sinistra di oggi, in termini di soggettività rivoluzionaria?

K.B.A: Oggi, all'interno della sinistra globale ci sono dozzine di punti di vista diversi. Ma se guardiamo a coloro che godono di un consenso più ampio, possiamo indicare le forze leggermente più riformiste, come quelle che ruotano attorno ai [socialisti democratici statunitensi] Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez nonché [il leader de La France Insoumise] Jean-Luc Mélenchon e [l'ex leader laburista britannico] Jeremy Corbyn. Essi, tendono a concentrarsi sulla classe, sul capitale, sulla disuguaglianza economica, sulla difficile situazione della classe operaia, e sulla necessità per i partiti di centro-sinistra di connettersi maggiormente con il movimento sindacale. Alcuni diranno esplicitamente che dobbiamo allontanarci dalle questioni di identità, come la razza, il genere e la sessualità; e che la sinistra parla troppo di loro, e questo allontana la classe operaia bianca, o che  non prende abbastanza di mira il capitale. Poi c'è la sinistra che è emersa dal movimento "Black Lives Matter" e da "Palestine solidarity", così come c'è gran parte della sinistra studentesca, che tende a dare priorità all'identità, e a considerare i lavoratori bianchi come dei conservatori, semplicemente perché sono bianchi e privilegiat;  anche se spesso le persone che dicono questo sono molto più privilegiate.
Marx era chiaramente consapevole della razza, del genere e del colonialismo, ma non basta dire che fosse più aggiornato di quanto pensassimo. Per Marx, queste questioni erano comunque sempre collegate al capitale e alla classe, e questo è quello che oggi spesso manca. Gli scritti di Marx possono aiutarci a capire che noi abbiamo bisogno di fondere insieme queste due sinistre. Non intendo dire che va fatto in modo populista e acritico, ma nessuna delle due parti può semplicemente limitarsi a respingere l'altra solo perché c'è molta energia radicale in entrambe. Dobbiamo trovare il modo di avere un vero dialogo e un'unità. Il movimento palestinese oggi ci offre un'opportunità per fare questo, dal momento che entrambe le sinistre sono molto d'accordo con questo movimento. C'è la possibilità di avere un qualche tipo di dialogo. Il potenziale è stato visto nella straordinaria vittoria elettorale di Zohran Mamdani a New York; un raro punto luminoso in un paese sotto la crescente minaccia del fascismo trumpista. La Francia è un altro esempio per cui, da un lato, c'è un gigantesco movimento operaio, come si è visto con gli scioperi di massa del 2023 e, dall'altro lato, ci sono le regolari esplosioni di rabbia all'interno delle banlieues [periferie povere] contro la brutalità della polizia, in quello stesso anno. Eppure le due cose hanno avuto pochissimi legami l'una con l'altra. Ciò che Marx ci stava dicendo nei suoi scritti irlandesi, è che dobbiamo trovare il modo per collegare il movimento dei lavoratori con la rivolta delle banlieue, poiché questi giovani di colore, spesso semi-disoccupati, sono tra i più oppressi della popolazione. Purtroppo, i sindacati non lo hanno fatto, per quanto il gruppo di Mélenchon abbia davvero cercato di coinvolgere questi settori nella sinistra socialista, e il che è importante. E se questo si collega alla questione del colonialismo negli scritti di Marx, essi diventano oggi ancora più importanti se si guarda a come le diverse lotte locali hanno avuto un impatto e hanno dato vita a tante altre lotte in tutto il mondo. Un ottimo esempio è il modo in cui le rivolte arabe del 2011 hanno dato vita a molti movimenti di protesta, a partire da Occupy Wall Street negli Stati Uniti nello stesso anno. Che si tratti di popoli colonizzati o semicolonizzati, o di popoli della periferia, abbiamo a che fare con persone le cui condizioni di vita e di lavoro sono peggiori, e i livelli di sfruttamento più elevati, rispetto ai lavoratori dei paesi capitalisti centrali. È da loro che provengono molte delle attuali rivolte. Credo che oggi ci sia una maggiore consapevolezza del fatto che queste lotte possono avere un impatto al di là delle diverse barriere geografiche, culturali e linguistiche.

Published 6 July, 2025 for LINKS International Journal of Socialist Renewal.

Quanto è libero, l’Arbitrio !??!!!

Un uomo preme il grilletto di una pistola. I muscoli del suo dito si sono contratti, stimolati dall’impulso emesso da un neurone, a sua volta stimolato dal neurone precedente, e così via. Ma dove ha origine quel gesto? Come nascono le nostre decisioni? Cosa ci porta ad agire in un determinato modo? Queste domande ci catapultano dentro a una delle grandi questioni con cui l’umanità si confronta: quali siano le ragioni ultime dei nostri comportamenti, e se nella catena delle cause che li determinano ci sia spazio per il libero arbitrio. Sapolsky attinge a decenni di ricerca sulle radici biologiche del comportamento per mostrare come tutta la nostra esistenza sia una lunghissima catena deterministica di cause ed effetti, in cui non c’è la più sottile crepa in cui possa inserirsi il libero arbitrio. Accettare che siamo solo l’esito dell’interazione fra i nostri geni e l’ambiente può sembrare spaventoso; eppure, ripensare in questa chiave la nostra società e alcuni dei concetti su cui si basa (la scelta, la giustizia, la morale, la convivenza civile) può rivelarsi liberatorio, sollevandoci da responsabilità e colpe che spesso non abbiamo, e restituendoci un mondo più umano.

(dal risvolto di copertina di: ROBERT SAPOLSKY, "Determinati. Biologia, comportamento e libero arbitrio". Traduzione di Massimo Simone e Raffaella Voi, ROI EDIZIONI, Pagine 623, €29,90)

Il libero arbitrio è solo un'illusione
- di Telmo Pievani -

Pensate di aver preso una decisione autonoma? Vi sbagliate: il libero arbitrio è un’illusione.
Robert Sapolsky, biologo, etologo e neuroscienziato di Stanford, abbraccia questa tesi spiacevolissima e la difende per oltre 600 pagine con argomenti stringenti e una vena brillante di ironia. Poiché nulla si origina dal nulla e ogni evento ha una causa antecedente, i nostri comportamenti sono determinati dal nostro cervello, dalle sue passate relazioni con l’ambiente e con gli altri sin dalla nascita, dalla storia evolutiva. Ne deriva che nessuno può essere considerato responsabile delle proprie azioni: niente più colpe né meriti, meno odio, meno gioia di punire e vendicarsi, più nessuna colpevolizzazione della malattia mentale. Ma l’autore giunge anche a conseguenze poco digeribili, come per esempio che non si possa scegliere di non essere assassini o pedofili. Molti filosofi pensano infatti che una visione del genere porterebbe al crollo delle nostre motivazioni e al collasso della società. Non certo Sapolsky, che collabora con i difensori d’ufficio nei processi. Gli abbiamo chiesto di raccontarci i risvolti di una tesi tanto radicale

TELMO PIEVANI: Chi sostiene l’esistenza del libero arbitrio, secondo lei, evoca un’entità magica sospesa nel nulla. Ma anche nella sua cascata di cause ed effetti cadiamo in un regresso infinito, fino al Big Bang. Perché preferire una serie senza fine di tartarughe piuttosto che un’ultima tartaruga su cui poggia il mondo?

ROBERT SAPOLSKY: «Invertirei la questione. La sfida è che noi non vogliamo tartarughe infinite. Non sembra intuitivamente accettabile alla maggior parte di noi. Ecco perché è così difficile convincere le persone a rifiutare il libero arbitrio».

T.P.: C’è un problema di limiti di conoscenza. Non sapremo mai perché Adolf Hitler e Francesco d’Assisi si comportarono in modo così diverso: troppe cause intrecciate. Lei scrive che il fatto di non conoscere quelle cause non deve indurci a pensare che esse non esistano. Ma perché il fatto di non conoscerle dovrebbe portarci a pensare, al contrario, che esse certamente esistono? Non dovremmo restare agnostici?

R.S.: «Rifiuterei l’agnosticismo per due ragioni: il processo scientifico ci ha mostrato mille volte che cose che inizialmente non sembravano avere una causa poi hanno rivelato di averne; nessuno ha mostrato finora un percorso plausibile attraverso il quale le leggi fisiche possano essere aggirate per produrre comportamenti senza cause».

T.P.: Oggi si tende a invocare la meccanica quantistica per giustificare le più bizzarre teorie. Cosa c’è di sbagliato in questa moda?

R.S.: «Le persone spesso hanno la necessità di decidere che qualcosa che è imprevedibile allora è anche indeterminato. Ciò di cui spesso hanno ancor più bisogno è decidere che ciò che è imprevedibile sia anche magico».

T.P.: Per lei gli atei non credono in un’entità soprannaturale che li controlla e non per questo diventano immorali e asociali. Non mi pare però un’analogia perfetta. Pensare che non esista un dio che ci controlla aumenta il senso di libertà. Se invece capiamo di non avere alcun potere decisionale, allora ci verrà il dubbio di essere solo degli automi.

R.S.: «Cito l’ateismo solo per stabilire un parallelo. Qualcuno guarda un ateo e pensa: “Se crede che non ci sia alcuna divinità che lo ritenga responsabile delle sue azioni, diventerà un mostro fuori controllo”. Tuttavia, numerose ricerche hanno mostrato che non è così. Anzi, gli atei sono in genere altrettanto etici quanto le persone molto religiose. Allo stesso modo, qualcuno guarda una persona che rifiuta il libero arbitrio e pensa: “Se crede di non poter essere ritenuto responsabile delle sue azioni, diventerà un mostro fuori controllo”. Anche se sono state condotte meno ricerche al riguardo, pare che le persone che rifiutano il libero arbitrio siano tanto etiche quanto le persone convinte della responsabilità personale, e per ragioni simili a quelle degli atei».

T.P.: Ho un dubbio sulle attenuanti in tribunale. Se non abbiamo alcun controllo sulle nostre fortune biologiche e ambientali, perché non portare la tesi alle estreme conseguenze? Anziché concedere attenuanti, bisognerebbe sempre assolvere tutti.

R.S.: «Esatto: attenuanti, colpe e assoluzioni non hanno alcun senso intellettuale né etico. Il massimo che possiamo fare è difendere la salute pubblica. Giurie, avvocati e giudici dovrebbero servire solo per: stabilire chi ha commesso il fatto (l’equivalente dei ricercatori che scoprono quale virus sia “responsabile”); decidere quale sia il vincolo minimo per mantenere la società al sicuro da quella persona (l’equivalente dei ricercatori della sanità pubblica); capire come diffondere al meglio la notizia di quel vincolo con valore deterrente (l’equivalente dei politici)».

T.P.: Lei scrive che sentirsi determinati da altro è angosciante e che sarebbe folle prendere sul serio tutte le implicazioni della non esistenza del libero arbitrio. Non capisco: pensa che la vita sarebbe migliore se rinunciassimo all’illusione della libertà, oppure, pur sapendo che non esiste, dobbiamo vivere «come se» il libero arbitrio esistesse?

R.S.: «No, ciò che dobbiamo fare tutti, me compreso, è combattere ogni circostanza in cui l’intuito ci dice che esiste il libero arbitrio, quei momenti in cui crediamo di essere nella posizione di giudicare moralmente chiunque altro, o di provare un senso di merito derivante da qualsiasi cosa abbiamo fatto».

T.P.: Quindi la conclusione etica del ragionamento è che l’assenza di libero arbitrio ci rende tutti uguali, senza colpe né meriti. Non è un appiattimento?

R.S.: «Proprio così. Avrei voluto dedicare più pagine della seconda metà del libro alla meritocrazia, oltre che alla giustizia penale. Come bisogna proteggere la società evitando che gli assassini corrano per le strade, così bisogna proteggerla evitando che una persona a caso venga scelta per eliminare il tumore al cervello di qualcuno. La sfida della giustizia penale è relativamente facile: bisogna contrastare il crimine senza dare giudizi morali. Quella della meritocrazia è più difficile, perché bisogna agire senza dare giudizi morali nel motivare le persone a impegnarsi molto per diventare allenate e competenti in compiti importanti. Ma ammetto che le mie idee su come farlo sono ancora abbastanza primitive».

T.P: Come la mettiamo quando il crimine, di cui non saremmo responsabili, è un omicidio, e dunque non riparabile?

R.S.: «Stabilendo il minimo necessario per proteggere la società da chi si è comportato in questo modo, riconoscendo che in alcuni casi la costrizione dovrà essere permanente. E per il resto lavorando su misure di salute pubblica, ovvero compiere tutti gli sforzi per capire come “curare” una persona del genere e, fatto ancor più importante, capire come le persone si trovano a diventare così».

T.P.: Le sottopongo un’ipotesi evoluzionistica che potrebbe aggirare alcuni dei paradossi in cui incappa una negazione assoluta del libero arbitrio. La percezione di essere liberi potrebbe essersi evoluta per selezione naturale nelle nostre menti con la funzione di tenere unito il gruppo sociale, dando senso di responsabilità ai comportamenti del singolo. Se accettiamo questa idea, non prendiamo una posizione netta, perché il libero arbitrio potrebbe benissimo non esistere e tuttavia essere necessario per la nostra vita sociale.

R.S.: «Rifiuto questa tesi. Se uno pensa che sia una buona cosa credere nel libero arbitrio, anche se non esiste, significa che è una delle persone fortunate che vengono trattate meglio della media per cose di cui non ha alcun merito. Per chi viene trattato peggio della media, la società che rifiuta il libero arbitrio è l’unica che può garantire una vera giustizia sociale».

T.P.: Quindi la motivazione di fondo è politica, più che scientifica. Infatti lei sente il bisogno di giustificare perché noi, determinati da condizioni storiche e ambientali che non dipendono da noi, dovremmo tuttavia mantenere le motivazioni per cambiare in meglio il mondo, senza cedere al fatalismo. Allora le chiedo, per coerenza: in che modo la convinzione di non possedere il libero arbitrio ha cambiato la sua vita?

R.S.: «È un lavoro continuo. Ogni volta che esprimo un giudizio su qualcuno, incluso me stesso, devo pensarci una seconda, una decima volta, per decostruirlo fino al punto in cui posso davvero accettare emotivamente che quella persona non ha avuto alcun ruolo nel diventare chi è. E poi devo cercare di rendere tale intuizione abbastanza automatica in modo che, in circostanze in cui non posso permettermi il lusso di ripensarci una seconda o una millesima volta, i miei riflessi siano prosociali piuttosto che antisociali».

- Pubblicato su La Lettura del 7/7/2024 -

sabato 5 luglio 2025

La Naja è finita: siamo tutti turisti !!

Il capitale non può auto-limitarsi! Conosce solo Crisi e Riorganizzazione. Ed è per questo che il movimento contro il cosiddetto "Over-Tourism" - soprattutto nelle cosiddette città d'arte -  diventa l'ennesima risposta palliativa alla crisi sistemica, non dissimile da altri simili precedenti abbagli. Nel riferirci con questo alla pandemia, per aver mostrato inequivocabilmente la fragilità del settore e del suo modello, in questo frangente assistiamo così a un ulteriore passo verso la fine della società del lavoro, la quale continua a produrre, in gran numero, i suoi nostalgici. E questo avviene soprattutto nel momento in cui - in una città come Firenze - si assiste alla sedicente proposta "positiva"  di una cosiddetta "fabbrica sociale". In un simile contesto, diventa ovvio, detto fuori dai denti, che - piuttosto che riorganizzarmi per fare l'operaio in una fabbrica più o meno sociale - preferisco di gran lunga fare il... turista!!

*** Nota: amo qui ricordare, come fosse costume, "secoli fa", negli ultimi giorni del servizio di leva, riferirsi a sé stessi come "turisti".

venerdì 27 giugno 2025

Entropie…

Nel 2545 una nave interstellare viene lanciata dalla Terra. Centosessanta anni e sette generazioni circa più tardi, sta iniziando la sua decelerazione nel sistema Tau Ceti per iniziare la colonizzazione della luna di un pianeta, che è stata chiamata Aurora, e capire se l’umanità possa gettare le fondamenta di un futuro migliore al di fuori del Sistema solare. Duemila centoventidue esseri umani vivono all’interno di questa ultramoderna Arca di Noè, figlia della più avanzata ingegneria, al cui interno dove sono stati ricreati artificialmente i diversi ecosistemi terrestri. Qualsiasi cosa in questo sistema chiuso, dalla particella più piccola agli spostamenti interni e la riproduzione, è controllata da un’intelligenza artificiale che sembra avere coscienza e che racconta questo incredibile viaggio attraverso gli occhi di Freya, una ragazzina nel pieno dell’adolescenza, che si trova a scontrarsi con le impellenti e preoccupanti difficoltà del lungo e complesso atterraggio e della sopravvivenza dell’equipaggio sul nuovo suolo, che tutto si rivelerà fuorché una nuova casa. Un romanzo di fantascienza per riflettere sull’unica certezza che al momento abbiamo: la c’è un solo pianeta e dobbiamo prendercene cura.

(dal risvolto di copertina di: KIM STANLEY ROBINSON, "Aurora". Traduzione di Ilaria Mazzaferro, UBILIBER Pagine 576, €25)

L'astronave saggia delle generazioni
- di Vanni Santoni -

«Freya e suo padre escono a fare un giro in barca a vela. La loro nuova casa si trova in un edificio che si affaccia su un molo della baia, all’estremità occidentale del Long Pond…». Comincia così Aurora di Kim Stanley Robinson, con la lingua piana e descrittiva che caratterizzerà l’intero romanzo, e una situazione all’apparenza del tutto ordinaria. Ciò che però ordinario non è per nulla, è il fatto che la località di Long Pond è situata nel bioma Nuova Scozia di una colossale astronave, partita per un viaggio di due secoli verso il sistema di Tau Ceti, con a bordo 2mila umani (e poi i  loro figli, e poi i loro nipoti, e avanti così) distribuiti in una variegata gamma di micro-ecosistemi. Siamo nel Ventiseiesimo secolo, le fole d’iperspazio e varchi dimensionali sono da tempo svanite (o non ci sono mai state) e l’umanità è sì in grado di raggiungere altri sistemi stellari, ma solo per mezzo di «navi multigenerazionali» che affrontano il viaggio nella piena consapevolezza del fatto che solo i discendenti di chi è partito metteranno piede su nuovi pianeti. Un concetto che non apparirà nuovo a chi mastica fantascienza: si pensi ad esempio a Orfani del cielo (in alcune edizioni intitolato Universo) di Robert A. Heinlein, che già nel 1941 lo esplorava a fondo; o a Incontro con Rama di Arthur C. Clarke (1972) che dopo tanti romanzi a imitazione di quello di Heinlein venne a ribaltare l’idea di partenza, e a far incontrare ai terrestri una nave generazionale altrui; o ancora, più recentemente, alla novella Paradisi perduti di Ursula K. Le Guin, del 2002 (in Italia edito da Delos, 2013). Se, dunque, la nave intergenerazionale risulterà un concetto nuovo solo ai lettori poco avvezzi alla fantascienza classica, è altrettanto vero che il romanzo di Robinson, autore già distintosi nella sci-fi contemporanea per la sensibilità ecologica ed etica, unita a una maniacale attenzione alla plausibilità scientifica delle sue narrazioni, finisce per distinguersi dai suoi predecessori, e fissare un nuovo punto fermo — e una nuova asticella — nel proprio filone. Per far capire come mai Aurora meriti di esser letto, sarà necessario incorrere nel peccato mortale dello spoiler, dunque chi non vuole anticipazioni può fermarsi qui, informato del fatto che, se si riesce a passar sopra a uno stile di scrittura piuttosto insipido e a guardare ai soli contenuti, si tratta di una lettura valida sotto ogni punto di vista; anzi, a tratti esaltante e in ultimo pure commovente. Il fatto è, dunque, che nella quasi totalità dei casi precedenti di romanzi a tema nave intergenerazionale, si dava per scontato — secondo un ottimismo che in fondo era proprio di ogni decennio del Novecento dagli anni Cinquanta in poi — che le cose sarebbero andate bene, quantomeno a livello di colonizzazione e terraforming. Non è il caso di Aurora, che arriva in Italia grazie alla voce di Ilaria Tagliaferro e all’impegno della casa editrice Ubiliber. In questo romanzo, tanto per cominciare, la nave, dopo due secoli di «orti conclusi», comincia a far fatica: la mancanza di ricambio biologico si sente, i biomi prendono a collassare, e pure la popolazione non se la passa troppo bene. E questo è il problema minore. Sì, perché una volta che il sistema di Tau Ceti, pur ricco di lune e pianeti, viene finalmente approcciato, comincia a risultar chiaro che nessuno di essi è adatto al terraforming — disciplina, varrà la pena ricordare, di cui Robinson è esperto, dato che il suo capolavoro, La trilogia di Marte, edita nel nostro Paese da Fanucci, è dedicata proprio alla trasformazione del pianeta rosso in un pianeta blu e verde — e che gli eroici pionieri sono probabilmente condannati. I pionieri e qualcun altro.

   La nave, anzi Nave: l’intelligenza artificiale che gestisce il titanico vascello e che funge da narratore quasi-onnisciente del romanzo. Eccoci a uno degli aspetti più interessanti di Aurora, oltre all’approccio pessimistico per lo più sconosciuto alla fantascienza «coloniale» di qualche decennio fa. Le intelligenze artificiali sono il tema di questo momento storico, e anche se Aurora è uscito originariamente quasi dieci anni or sono, nel 2015, riesce ad affrontarlo in modo originale e, a differenza di quanto faccia rispetto all’impresa umana su Tau Ceti, ottimistico. All’inizio il lettore può trovarsi un filo spiazzato (e a tratti pure annoiato) dalle riflessioni filosofiche, quando non ontologiche, di Nave, che è facile scambiare per un espediente dell’autore per propinarci le proprie riflessioni filosofiche. Non è così. Via via che si procede, da una riflessione sulla natura della coscienza a una sul concetto di rischio, nulla è buttato là per mero gusto peripatetico-speculativo: in realtà, attraverso queste riflessioni, prende forma una delle più interessanti caratterizzazioni di un’intelligenza artificiale mai viste nella fiction. E per una volta l’IA non è malvagia come un Hal9000 né, com’è capitato tante volte, neutrale fino alla scarsa considerazione per la vita umana. Nave ha un’intelligenza diversa dalla nostra ma attraverso questa pur fredda mente giunge a una coscienza, e attraverso tale coscienza anche alle emozioni. Emozioni da nave spaziale partita per una lunga missione: devozione, dovere, fedeltà all’obiettivo… ma pur sempre emozioni. E avrà modo di dimostrarlo, non solo a parole. Ma non c’è solo Nave: Aurora è anche una grandiosa riflessione sull’entropia, quasi un’allargamento in romanzo, 55 anni dopo, del racconto Entropia di Thomas Pynchon (oggi reperibile nella raccolta Un lento apprendistato, e/o, 1988, ed Einaudi Stile libero, 2007, ndr), che fissò un modo nuovo di usare le scienze dure in narrativa; nonché una meditazione — è il caso di usare la parola: meditativo è proprio il tono del libro, che spiega anche perché sia edito da Ubiliber, casa editrice dell’Unione Buddhista Italiana — sulla testardaggine degli esseri umani contrapposta alla loro tendenza a infilarsi in situazioni senza uscita… E se qualcuno pensa a un riferimento alla crisi climatica, non si sbaglia.

- Vanni Santoni - Pubblicato su La Lettura del 30/6/2024 -

Dalla Notte dei Tempi !!

Quella che è la Fede comune a tutta questa "Sinistra", presuppone che vi sia una comprensione positivista delle categorie capitalistiche di base, e della loro accettazione in quanto dato ontologico e trans-storico; vale a dire, sarebbe come se la forma di vita sociale capitalistica - il mondo dell'Economia - fosse sempre esistita, fin dalla notte dei tempi!

«Alla soggettivazione, messa in atto dalla sinistra del Capitale, intendendolo come semplice volontà di sfruttamento da parte della “classe dominante” e a partire dal suo “potere di disporre”, ha sempre corrisposto la costruzione di un controsoggetto, ontologicamente stabilito, del “lavoro” eterno, il quale sarebbe stato soggiogato dal capitale (inteso come gruppo di soggetti) solo in modo esteriore. Di conseguenza, il “lavoro” non è stato riconosciuto in quanto astrazione reale specificamente capitalistica; fraintendendo del tutto la moderna costituzione feticista. Così facendo, il paradossale “soggetto oggettivo”, che poi dovrebbe essere la classe operaia, non poteva essere altro - “in sé e per sé” - che la maschera di carattere del “capitale variabile”; in modo che così, il movimento operaio storico, con grande dispiacere di Marx, non si è mai potuto comportare diversamente. Pertanto, l'opposizione sociale tra capitale e lavoro non ha costituito una giustificazione ontologica per la critica del capitalismo, ma ha semplicemente rappresentato, come lotta di classe, nient'altro che la forma del movimento immanente del feticcio-capitale. Solo una rottura nel contesto della forma comune, avrebbe potuto essere emancipatrice; e finora tale punto non è mai stato raggiunto.
Anziché riconoscere, e respingere come del tutto falsa, la questione affermativa di un “soggetto oggettivo” ontologizzato, a partire dal 1968, la nuova sinistra ha semplicemente ribaltato e capovolto la vecchia formula. Il fatto che siano stati invocati tutti i tipi di soggetti sostitutivi - dai “popoli” della periferia ai “gruppi marginali” (Herbert Marcuse) dei centri, passando per le donne, secondo un'ontologia della “femminilità”, oppure per mezzo dei portatori di un'immaginaria economia di sussistenza - ha finito sempre per rimandare tutto al vecchio soggetto del “lavoro”, diventato obsoleto, senza però che si sia mai pensato alla problematica che ne è derivata. Ma la scomparsa di un'ontologia del “lavoro”, e il declino empirico dell'oggettivo soggetto di classe che ad esso si riferisce, sono solo l'altra faccia del limite interno assoluto della valorizzazione; limite che si è raggiunto con la terza rivoluzione industriale. L'apparente sostenibilità del paradigma della lotta di classe, si basava sulla capacità del capitale di accumulare senza limiti; vale a dire di trasformare il “lavoro” in plusvalore. Il declino del “lavoro” e della lotta di classe è pertanto identico al declino della produzione reale di plusvalore, e quindi del comune sistema feticista di riferimento.
Il post operaismo, che ha avuto una notevole influenza sui movimenti recenti, anziché rendersi conto di questo contesto, ha creato invece un'ontologia completamente vuota del controsoggetto oggettivo che viene immaginato nella figura della cosiddetta “moltitudine”, la quale significa tutto e niente. Questo punto finale, e questo punto zero concettuale, del vecchio paradigma non viene più mediato da nulla, e pertanto può essere riempito, e caricato di significato, da quasi tutti i contenuti, o le espressioni, della soggettività capitalistica in decadenza. Simultaneamente, dietro il declino del pensiero basato sulla lotta di classe all'interno dell'ontologia del lavoro, insieme a tutti i suoi sostituti immaginari e alle sue aberrazioni, troviamo nascosto l'interesse concorrenziale, immanente e ben tangibile, di quella che è una particolare situazione sociale; svelata in parte solo di recente. Il processo di socializzazione capitalistica, ha dato origine a una nuova e vasta classe media in possesso di titoli accademici, la cui esistenza economica dipende dall'assorbimento della produzione reale di plusvalore. Con la perdita della sostanza-lavoro, tale esistenza, così come tutta la riproduzione capitalista, rimane sospesa a mezz'aria; e negli ultimi 30 anni è stata prolungata solo grazie al credito di Stato e all'economia della bolla finanziaria.
Conformemente ai cambiamenti sociali derivanti dal processo di crisi strisciante, dal 1968 a oggi, la sinistra e i cosiddetti nuovi movimenti sociali hanno rappresentato essenzialmente, dal punto di vista sociologico, un movimento borghese che in un primo momento si è voluto legare intellettualmente all'ideologia obsoleta del marxismo del movimento operaio, ma che poi, in realtà, immaginando dei sostituti al vecchio “soggetto oggettivo”, ha reso sempre più ideologizzato il proprio interesse personale; lo ha reso la misura delle cose. Nella nuova crisi economica mondiale che si è aperta, e che di colpo accentua bruscamente tutte le contraddizioni, portandole all'attenzione di tutti, ecco che quel passaggio - che dalla precarizzazione porta alla caduta del capitale umano qualificato dal punto di vista accademico - ora ci appare improvvisamente come una manifesta ideologia borghese che minaccia di scatenare quella che è tutta la furia di una coscienza di crisi neo-borghese.»

- Robert Kurz - da "VIES ET MORT DU CAPITALISME. Chroniques de la crise", © Nouvelles Éditions Lignes, 2011