martedì 9 agosto 2016

Il disprezzo di Ulisse

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Il risultato del masochismo storico
- Il capitalismo ha cominciato a liberare l'uomo dal lavoro -
di Robert Kurz

Nella storia del pensiero occidentale, soprattutto in epoca moderna, il linguaggio della filosofia e della scienza si è sempre più discostato dal linguaggio dell'uomo comune ed è diventato il linguaggio segreto di una casta sacerdotale della conoscenza separata dal resto della società. Sono pochi i concetti che appartengono simultaneamente alla sfera della riflessione teorica e alla vita quotidiana. "Lavoro" è uno di questi concetti.
Da una parte, “lavoro” rappresenta una categoria filosofica, economica e sociologica; dall'altra, viene utilizzato anche nel quotidiano di tutti gli uomini con una perseveranza sconcertante. Questo carattere peculiare del significato sociale di "lavoro" indica nel mondo moderno una correlazione universale. Non c'è nessun altra parola che, a prima vista, sia più cristallina e, ad un secondo sguardo, appaia più torbida.
Nella filosofia e nella teoria sociale, è stato Karl Marx ad avvalersi del concetto di "lavoro" come base del suo pensiero. Ed è stato il marxismo ad aver adottato con fermezza il punto di vista del "lavoro", al fine di legittimare il grande movimento sociale dei lavoratori salariati nella storia moderna. In termini filosofici, per il marxismo il "lavoro" è una condizione sovra-storica dell'esistenza umana nella sua relazione con la natura. In una prospettiva economica, sotto le lenti di questa dottrina, il "lavoro" come forma di attività umana è degradato a stratagemma dello sfruttamento che avviene attraverso il dominio della proprietà capitalista.
Sotto l'aspetto sociologico, è la classe operaia che deve costituirsi politicamente come "partito del lavoro", per mettere fine alla relazione sociale di "sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo" e realizzare la "liberazione nel lavoro". Oggi, questa teoria della società e della storia, apparentemente coerente ed incrollabile, ha perso il suo contenuto di verità; oggi appare, per così dire, arcaica e polverosa. Tuttavia, il concetto di "lavoro" continua a mantenere la sua validità ed il suo carattere incontestabile. Come si spiega questa curiosa circostanza?

Il marxismo ha sempre cercato di rivendicare a sé il "lavoro" come ideale positivo, e di prendere le distanze dal presunto "non-lavoro" del mondo borghese e dei suoi rappresentanti. Nelle caricature che apparivano sulla stampa socialista del 19° secolo, i capitalisti venivano preferibilmente rappresentati come parassiti panciuti o come bellimbusti e "flaneur" che conducevano una vita piacevole e "senza lavoro", a spese della classe lavoratrice. "Allontanate gli oziosi", recita la celebre "Internazionale", l'inno del movimento operaio. Ma coloro che appaiono in questa grossolana immagine del nemico sono i vecchi signori feudali e i "rentiers" di cospicui patrimoni monetari, e non gli amministratori moderni. In realtà, i ricchi industriali sono magri, fanno il loro "jogging" quotidiano, dispongono di meno tempo libero di quanto ne abbia uno schiavo nelle piantagioni e sono costretti a sperperare i loro soldi in terapia, in quanto diventano "maniaci del lavoro".
In realtà, il "lavoro" è stato da sempre un ideale borghese e capitalista, assai prima che il socialismo scoprisse per sé questo concetto. L'elogio del "lavoro" è cantato a pieni polmoni dalla dottrina sociale cristiana. Anche il liberalismo canonizza il "lavoro" e promette, similmente a come fa il marxismo, la sua "liberazione". Oltre a queste, tutte le ideologie conservatrici e della destra radicale venerano il "lavoro" come un dio secolarizzato. "Il lavoro rende liberi", si leggeva sul cancello di Auschwitz. Come appare chiaramente, la religione del "lavoro" è il sistema di coordinate comune a tutte le teorie moderne, a tutti i sistemi politici e a tutti i gruppi sociali. Essi concorrono fra di loro per vedere chi dà prova di maggior bigottismo e chi riesce a suscitare le migliori prestazioni produttive negli uomini.
L'uomo moderno di livello medio può anche irritarsi con simili idee. Cosa si vuole, in fondo? "Si deve lavorare." Chi può negare che gli uomini hanno sempre lavorato? Diversamente, non ci sarebbe cibo, vestiti, alloggi, cultura. Niente nasce dal nulla. È per questo, come si sa, che la morale del "lavoro" pontifica: "Chi non lavora, non mangia". Gli uomini, senza dubbio, hanno sempre prodotto oggetti ed idee per vivere, godere, scoprire e divertirsi. Ma sarà davvero "il lavoro" il concetto universale corretto e sovra-storico per tutto questo? "Lavoro" è un'astrazione, un termine generico con diversi significati. Karl Marx ha sostenuto questa indeterminatezza generica e ha fatto notare che si trattava di una "astrazione razionale", conosciuta da tempo immemore. Ma sarà così?

Un'astrazione razionale sarebbe un concetto universale coerente per cose qualitativamente diverse, seppure correlate in una determinata sfera. Così, per esempio, mela, pera, pesca, arancia, ecc., vengono riunite sotto il concetto generale di "frutta". Ma, proprio in questo senso, il "lavoro", come concetto generale delle attività umane, non è un'astrazione razionale. Anche sognare, passeggiare, giocare a scacchi o leggere romanzi sono attività umane, senza che vengano generalmente considerate come "lavoro".
Molte culture contadine, pastorali o di caccia non hanno mai conosciuto il concetto astratto di "lavoro". Per queste culture sarebbe stato estremamente irrazionale ed insensato riunire sotto un unico concetto astratto attività quali cacciare e piantare, cucinare ed educare i figli, curare degli anziani e svolgere azioni rituali. Assai spesso, in queste società arcaiche (nella misura in cui sono ricostruibili o hanno lasciato vestigia) esistevano diversi concetti universali di attività per le varie sfere della vita, per uomini e donne e per differenti gruppi sociali o abilità (contadino, artista, guerriero, ecc.) - attività queste che in nessun modo corrispondevano al concetto generale moderno di "lavoro".
Allora, quando e in che contesto è nato, in termini storici, questo concetto astratto e generale di attività sociale ed economica? In molte lingue, la radice della parola "lavoro" rimanda ad un significato che caratterizza l'uomo più giovane di età, il dipendente o lo schiavo. Nella sua origine, pertanto, il "lavoro" non è un'astrazione neutra e razionale ma, piuttosto, sociale: è l'attività di coloro che hanno perso la libertà. Non importa che cosa facevano questi uomini, se svolgevano un duro lavoro in miniera o nei campi, se, come domestici, apparecchiavano la tavola o accompagnavano i bambini a scuola: si tratta sempre dell'attività di un uomo definito come servo. La condizione del servo è il contenuto dell'astrazione "lavoro".
Non sorprende, quindi, che questo concetto astratto abbia acquisito, nell'Antichità, il significato metaforico di sofferenza e sfortuna (come, ad esempio, nel latino). L'uomo, attivo soltanto nel senso negativo del termine, soffre nel "vacillare sotto un fardello". Questo fardello può essere invisibile, poiché, in realtà, si tratta del fardello sociale della mancanza di indipendenza. Ciò è già esplicito, in ultima analisi, nel Vecchio Testamento, quando il "lavoro" viene definito come una maledizione scagliata sugli uomini. L'equiparazione fra "lavoro" e sofferenza non attiene semplicemente alla fatica. Un uomo libero può affaticarsi in determinate circostanze e, anche così. trarre piacere dalla situazione.

Per questo è un errore grossolano considerare il "non-lavoro" degli uomini liberi ed indipendenti nell'Antichità come indolenza e "dolce far niente", come avviene assai spetto nella letteratura del marxismo volgare. In Omero, l'eroe  Ulisse è orgoglioso di aver costruito il suo proprio letto. Disonorevole non era l'attività in sé o il lavoro manuale, ma piuttosto la sottomissione dell'uomo ad un altro uomo o ad una "professione". Un uomo libero poteva sporadicamente costruire un letto o un armadio, ma non doveva intraprendere la professione di falegname; poteva commerciare sporadicamente, ma non doveva essere commerciante; poteva occasionalmente scrivere un poema, ma non doveva essere poeta (ancor meno come forma di guadagnarsi la vita). L'uomo formalmente libero, eppur sottomesso per tutta la vita ad un lavoro remunerato in uno dei rami della produzione, veniva considerato "minore" rispetto ad essa e riceveva un trattamento di poco superiore a quello degli schiavi. È per questo che l'attività del dilettante libero non era considerata meno, o di minor qualità, di quella dei "professionisti" senza libertà. Esercitarsi in varie arti ed acquisire conoscenze era qualcosa di perfettamente degno. Dalle fiabe provenienti dai diversi ambiti culturali, si può constatare come, nelle società antiche, i principi a volte dovevano imparare un mestiere - ma, ancora una volta, non "per essere" artefice - e, così, patire le sofferenze del "lavoro".
Il cristianesimo è stato il primo a definire positivamente il significato negativo del "lavoro" come sofferenza e disgrazia. Come la sofferenza del Cristo sulla croce redimerà l'umanità, la fede esige la "imitazione di Cristo" - e questo significa assimilare con gioia la sofferenza.
In una sorta di masochismo della fede, il cristianesimo ha innalzato la sofferenza (e, pertanto, il "lavoro") a nobile obiettivo dell'impegno umano. I monaci ed i frati nei monasteri si sottomettevano, in maniera cosciente e volontaria, all'astrazione del "lavoro", per poter, come "servi di Dio", condurre una vita analoga alle sofferenze di Cristo. Nell'orizzonte della storia delle idee, la disciplina e gli ordini monastici, la rigida divisione delle giornate e l'ascetismo monastico precorrono la posteriore disciplina di fabbrica e la contabilità temporale astratta e lineare della razionalità delle imprese. Questa missione del "lavoro", però, si riferiva solo al senso metaforico del concetto, come accettazione religiosa della sofferenza in vista di un al di là futuro, senza perseguire un obiettivo terreno positivo. Solo il protestantesimo, soprattutto nella sua forma calvinista, ha convertito il masochismo cristiano della sofferenza in assunto terreno: nella condizione del "servo di Dio", il fedele deve assimilare i dolori del "lavoro" non nell'isolamento monastico, ma deve innanzitutto usarli come mezzo di successo nel mondo terreno, al fine di dimostrarsi come eletto di Dio. Ovviamente, non era loro assolutamente permesso gustare i frutti del successo, sotto pena di sperperare la grazia divina nella loro imitazione di Cristo. Egli doveva, con un'espressione sofferta e amara sul viso, trasformare il risultato del "lavoro" in un punto di partenza per nuovo "lavoro" ed accumulare incessantemente le ricchezze astratte senza goderne.

Una simile mentalità protestante si coniugò con la sete di denaro degli Stati assolutisti premoderni e con la loro militarizzazione dell'economia. Se, alla sua origine, il calvario del "lavoro" cristiano era stato volontario, lo Stato, da parte sua, ne fece una legge sociale comune ed imperativa. Il motivo religioso della sofferenza si trasformò nell'obiettivo in sé del "lavoro", mascherato dalla "razionalità economica". In questo modo, tutti gli uomini formalmente liberi della modernità vennero sottomessi a quella forma minore di attività, considerata dagli antichi come l'essenza della servitù e, perciò, come sofferenza.
L'attività libera ed autonoma si riduceva dentro i limiti del cosiddetto "tempo libero". La sfera centrale del "lavoro", purificata come ambito funzionale del fine in sé astratto, si separava dalla sfera dell'abitazione, della cultura, dell'educazione, del divertimento e della vita in generale. "Andare al lavoro" è passato, poco a poco, a significare la stessa cosa che l'antico "andare a messa", sebbene la società moderna abbia ben presto dimenticato l'origine storica e religiosa del "lavoro". È rimasto il carattere - definito in termini positivi - di qualcosa in realtà di negativo e terribile. Gli uomini si sono abituati ad immolare le loro vite sull'altare del "lavoro" e ad assumere come felicità il sottomettersi ad una "occupazione" determinata da altri.
Il liberalismo ed il marxismo hanno ereditato dal protestantesimo e dai regimi assolutisti questa religione del "lavoro" ed hanno perfezionato la sua secolarizzazione. Nella totalità globale di un'attività incessante, la servitù è diventata libertà, e la libertà, servitù, ossia, accettazione volontaria di una sofferenza senza nessun altro senso che la sofferenza stessa. Il "lavoro" si è sostituito a Dio, ed in questo senso, oggi sono tutti "servi di Dio". Lo stesso "management" fa parte del "lavoro", e porta la croce terrena della sofferenza, per trovare in essa il suo potere masochista. Ulisse, l'eroe omerico, disprezzerebbe gli attuali dominanti come se fossero miseri servi, dal momento che si piegano sotto il giogo del "lavoro" e si prestano ad una forma sociale da minorati.
Lo scarso "tempo libero" è oggi un mero prolungamento del "lavoro" con altri mezzi, come dimostra l'industria dell'intrattenimento. In questo frattempo, la logica del "lavoro" si è impadronita delle sfere scisse e si è insinuata nella cultura, nello sport e perfino nell'intimità. Dall'altro lato, lo sviluppo delle forze produttive scientificizzate porta all'assurdo la metafisica del "lavoro" di stampo liberale o marxista. Il principio positivo della sofferenza non può più essere sostenuto, dal momento che il capitalismo ha cominciato a liberare l'uomo dal "lavoro".
In questo modo, il capitalismo non smentisce solo l'antropologia marxista, ma anche la sua stessa antropologia. In futuro, l'emancipazione sociale non si potrà più fondare su un concetto positivo di "lavoro". All'uomo non rimarrà da fare altro che invertire i risultati del capitalismo e liberarsi dal "lavoro". Questo fine storico della sofferenza non è il fine dell'attività umana nel suo scambio con la natura, ma è solo il fine di una minoranza sconsiderata. Nonostante che i servi volontari vogliono preservare incondizionatamente la forma della sofferenza, il tempo del masochismo storico è arrivato alla fine.

- Robert Kurz - 1997 -

fonte: EXIT!

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