mercoledì 21 dicembre 2011

I dadi di Mirò

miro

Era il 1920 quando Joan Miró decise di tentare la fortuna e, lasciata Barcellona si trasferì a Parigi. Lì conobbe uno scultore che aveva uno studio che utilizzava solo durante i mesi estivi, così fece un accordo con lui per usarlo durante la stagione invernale. L'accordo era perfetto, in quanto Mirò, tutte le estati, pensava di tornare a casa, in Spagna. Quindi, appoggiandosi ad alcuni galleristi, espose le sue opere, per la prima volta alla Galerie La Licorne, ed anche se la prima sera non aveva ancora venduto nulla, conseguì il risultato più prezioso per un artista: il favore della critica.
Col tempo cominciò ad essere blandito e coccolato dalla scena artistica parigina, ma continuò a rimanere profondamente legato alla sua Catalogna, dove, ogni estate, tornava nella fattoria di famiglia. Era una questione sentimentale, insomma! Infatti, uno dei suoi dipinti più famosi, dal titolo "La Masìa", meglio conosciuta come "La Granja", Juan Mirò lo inizia a dipingere nella fattoria del padre, poi lo continua quando viveva a Barcellona, e finalmente lo porta a termine a Parigi.
Quando Hemingway conobbe Miró, a Parigi nel 1921, si accorse che il catalano aveva uno stile di vita molto austero. Erano anni di privazione per tutti gli intellettuali e per tutti gli artisti, il denaro era scarso e la fame li pedinava. Fra i due, si creò una sorta di complicità, in quegli anni a Parigi, fatti di piccole stanze di albergo, di vino a buon mercato e di inverni freddi. Molto freddi, e la legna era scarsa.
Hemingway aveva notato che Mirò lavorava da nove mesi, giorno dopo giorno, a questo enorme quadro. Era tale l'ossessione del pittore per quel lavoro che, una volta terminato, non aveva nessuna intenzione di venderlo. Il quadro, praticamente, non era stato mostrato a nessuno; avevano potuto vederlo solo un gruppo selezionato di amici. Fra questi, Hemingway.
Alla fine, il bisogno ebbe il sopravvento e, nel 1925, il pittore prese il suo amato quadro e, accanto ad altri dipinti, lo espose in una grande galleria, mettendolo in vendita.
Un tale, Evan Shipman - casualmente uno degli amici di baldoria di Hemingway, un membro della cosiddetta "generazione perduta" - dopo aver visto i quadri, decise di acquistare tutte le opere del lotto. Anni dopo, Hemingway avrebbe detto "che quello fu l'unico buon affare che Evan Shipman avesse mai fatto nella sua vita." Tuttavia, dopo aver fatto un buon affare, Shipman non si sentiva molto sicuro di quel che aveva fatto e ne volle parlare con il suo amico fidato, Hemingway.
Per uno di quegli strani giri che a volte compie il destino, fu Shipman a trovare Hemingway, ed anziché commentare la sua scoperta artistica, gli disse:  "Ernest, dovresti comprarlo tu 'La Granaja'. Non mi piace per niente tutta l'attenzione che richiede quell'opera. "
Hemingway gli raccontò di essere stato testimone dell'impegno che Mirò aveva speso per quel quadro, dei nove mesi che gli ci erano voluti per completarlo. Fece delle considerazioni a proposito di quello che richiedeva il dare vita ad un libro o ad un dipinto. Che quando qualcosa ha una lunga gestazione, e l'autore non vuole rinunciare alla sua creatura, di solito il risultato è un capolavoro, come quello che è successo con "Ulisse" di James Joyce. Finendo per sottolineare come il quadro fosse un grande investimento per il futuro.

- "Quel quadro varrà molto più di, Evan. Non hai idea di quello che stai perdendo".
- "Non mi interessa", disse Evan. "Se si tratta di soldi, che decidano i dadi!".
- "Non ho nessun diritto di giocarmi quel quadro, tu lo hai trovato. L'occasione è tua", rispose Hemingway.
- "Lasciamo che siano i dadi a decidere", finì Evan Shipman. "Se perdo, lo potrai comprare tu."

Fu così che i due amici si giocarono  il quadro di Mirò, lanciarono i dadi e vinse Hemingway, che non riuscì a nascondere la sua felicità e ringraziò l'amico per avergli permesso di acquistare quell'opera di cui si era innamorato, da quando l'aveva vista ancora incompiuta.
Il giorno dopo Hemingway andò alla galleria e subito fece il primo pagamento. Accettò di pagare in tutto 5000 franchi per "La Granja", e secondo le sue parole questo "fu 4250 franchi più costoso di quanto avesse mai pagato per un dipinto in tutta la sua vita." Il dipinto, ovviamente, lo avrebbe potuto prendere solo quando avesse pagato la quarta ed ultima rata.
Man mano che si avvicinava il termine per l'ultimo pagamento, il gallerista era sempre più contento, sapendo che se i soldi non fossero arrivati quel giorno, la galleria si sarebbe tenuto il quadro.
Ernest Hemingway era quel che era stato per tutta la vita, sempre sul confine fra eccessi e povert.A quel tempo era senza soldi, e quasi rassegnato a perdere il quadro che lo aveva sempre affascinato.
Chi ha letto "Festa mobile" sa che lui aveva chiamato il suo gruppo di amici a Parigi, la "generazione perduta". La maggior parte erano scrittori senza fama, intellettuali senza salario, però molto solidali fra loro e con un elevato senso dell'amicizia. Sembra che questo genere di personaggi, oltre ad irradiare carisma, nascevano sotto una buona stella. Riuscivano sempre a trovare una soluzione, proprio sul limite. Alla fine, andava loro sempre bene.
Così, Hemingway, con l'aiuto del romanziere John Dos Passos, e dello stesso Evan Shipman, il giorno prima della scadenza cominciò a girare bar e bordelli, ristoranti e cantine frequentati dalla "generazione perduta", prendendo in prestito denaro da chiunque potesse aiutarlo, e racimolando così il necessario per poter poi festeggiare l'acquisto.
Quando arrivarono presso la galleria, al proprietario si cancellò via il sorriso dalla faccia. Gli faceva male all'anima, dare via quel quadro.I tre intellettuali americani educatamente spiegarono, come spesso si usa fare in Francia, che gli affari erano affari. Lasciarono la galleria e presero un taxi - la capotte aperta, la tela come se fosse una vela - e chiesero all'autista di andare il più lentamente possibile.
Quando finalmente raggiunsero l'appartamento di Hemingway, lo appesero ad una parete, e solo allora si misero a contemplarlo, estasiati ed in silenzio.
"Fu un momento molto speciale per tutti e tre, eravamo felici. Non lo avrei scambiato con nessun altro quadro al mondo ". Inoltre, quando Mirò andò a far visita allo scrittore, ebbe a dire "Sono molto contento che sia tu il proprietario de La Granja".
Hemingway non comprò il quadro come se facesse un investimento, e, più tardi, non cercò mai di venderlo. Quando gli chiedevano qualcosa sul dipinto, era solito dire:
"Quello che ha fatto Mirò su questa tela, e tutto ciò che si riesce a sentire della Spagna quando ci si trova lì e, allo stesso tempo, tutto quello che si sente quando se ne sta lontani e non vi si può tornare. Nessun altro è stato capace di dipingere due cose tanto opposte nello stesso quadro."
Ogni volta che doveva trasferirsi per lavoro, la prima cosa che imballava era "La Granja". Il quadro lo ha accompagnato ovunque. Da Parigi, a Chicago, a Key West, fino a L'Avana. In un gesto di condivisione, lo concesse in prestito al Museo d'arte moderna di New York, dal 1959 al 1964. Dove è rimasto, a tutt'oggi.

fonte: http://www.sentadofrentealmundo.com

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