lunedì 24 settembre 2018

Personalmente responsabili

liberale

La macchina dell’auto–responsabilità
- Una storia dell’ideologia liberale -
di Robert Kurz

Già nel suo nome il Liberalismo rivendica per sé il concetto di "libertà". L’enfasi liberale pone l’accento sull’iniziativa privata e sulla responsabilità personale dell’individuo. In prima istanza suona bene. Chi vorrebbe obbiettare a questi bei concetti? Ma naturalmente noi sappiamo, in quanto illuminate creature della modernità, che non ci si può fidare troppo delle parole. Quando George Orwell scrisse la sua utopia negativa 1984 egli, in modo assolutamente non casuale, ideò un linguaggio i cui concetti, in definitiva, affermano il contrario di ciò che ufficialmente significano. Come forma retorica di mascheramento, questo modo di esprimersi è conosciuto fin dall’antichità ed è definito come "eufemismo". Gli antichi greci si rivolgevano per puro timore alle dee infernali della vendetta, i cui capelli erano serpi guizzanti, come alle "benevole". Forse il concetto di Liberalismo è sorto in una connessione analoga.
Per fare chiarezza a proposito di un fenomeno della vita sociale è sempre raccomandabile procedere a ritroso sino alle sue origini. Il Liberalismo nacque come opposizione nei confronti degli Stati militari all’inizio della modernità, delle monarchie e dei principati assolutistici nel 17° e 18° secolo. Ma in quello stesso periodo esisteva anche un’altra opposizione ancora più importante, quella delle masse popolari, che non aveva nulla a che vedere con il Liberalismo. E’ molto istruttivo paragonare questi due tipi di opposizione.
A quell’epoca l’assolutismo aveva sviluppato al primo grado il moderno sistema di produzione capitalistico scatenando l’economia monetaria di mercato per le necessità dei suoi giganteschi apparati militari e delle sue burocrazie. Questo sviluppo venne avvertito dalla grande maggioranza della popolazione come una repressione colossale ed oscena. Il vecchio "semplice" feudalesimo aveva assoggettato i produttori artigiani e contadini dell’economia naturale agraria solo "esternamente": essi dovevano consegnare una piccola parte del loro prodotto ai signori feudali o sbrigare per loro determinate mansioni. Per il resto il feudalesimo li lasciava ampiamente in pace. Nei loro campi e nelle loro botteghe potevano agire a propria discrezione ed inoltre mantenevano le proprie istituzioni e l’autogoverno locale.
Ma l’assolutismo liquidò anche questa seppur limitata autonomia e volle sottomettere gli uomini alla sua burocrazia centralistica, per succhiare loro anche il sangue e trasformarli nel "materiale umano" di un "lavoro" totale, eteronomo, astratto, soggetto alle leggi del denaro. I contadini e gli artigiani europei si difesero accanitamente contro questa pretesa per più di trecento anni, fino alla metà del 19° secolo; e quando nel corso delle loro innumerevoli rivolte essi seguivano la bandiera della "libertà", essi intendevano con questo termine la propria autonomia sociale contro l’invasione della burocrazia assolutistica e contro le costrizioni del nuovo, anonimo mercato.

Non volevano essere oppressi da un principio estraneo, ma conservare il controllo sulle loro condizioni di vita immediate. Il Liberalismo di contro era l’ideologia dell’"agente" economico sul terreno del mercato anonimo generato dall’assolutismo e dell’economia monetaria. Erano i nuovi capitalisti finanziari apparsi durante l’epoca assolutista, i grandi commercianti d’oltremare e gli speculatori coloniali, i conduttori delle case di lavoro e delle manifatture carcerarie incaricati dallo Stato così come i possessori o gli amministratori dei latifondi per il sorgente mercato agrario mondiale che si rifacevano alle idee liberali originarie. Con il concetto di libertà sociale dei contadini e degli artigiani in rivolta essi non avevano alcuna relazione. Al contrario convenivano in tutto e per tutto con l’assolutismo nell’interesse di trasformare la massa dei produttori in "materiale umano" del mercato mondiale, di escluderli dal controllo dei mezzi di produzione e degradarli a meri "prestatori d’opera" sotto il dettato del capitale di investimento.
Perciò i primi liberali non desiderarono mai neanche per sogno che il "materiale umano" dell’economia di mercato si arrogasse un qualche diritto alla "libertà". Tra di loro c’erano proprietari di schiavi e grandi proprietari terrieri che scacciavano i contadini con la forza dalle loro terre per trasformarle in pascoli. Quando essi parlavano di libertà, intendevano con questa parola sempre e solo la libertà economica di movimento in quanto "investitori" e "imprenditori", che percepivano come limitata a causa dell’influenza burocratico–statale degli apparati assolutistici. La loro opposizione contro l’assolutismo aveva così tutt’altro carattere rispetto alla resistenza dei produttori. Pertanto facevano sempre causa comune con l’assolutismo contro le rivolte sociali "dal basso". Il conflitto della sorgente ideologia liberale e della sua clientela con la "grazia divina" degli Stati assolutistici della prima modernità fu sempre e solo un dissidio di famiglia inter-capitalistico circa lo sviluppo successivo dei fondamenti sociali comuni.
Già nelle prime critiche fondate sulla libertà borghese formulate dai signori–individui del capitalismo e rivolte al controllo sociale dell’autoritario signor–Stato si manifesta d’altronde un capovolgimento singolare dei punti di vista che rimanda al carattere irrazionale di entrambi i lati del conflitto. Ogni forma di assolutismo statale, dai primordi della modernità attraverso i regimi monarchici, sino ai più tardi regimi socialisti e fascisti, da una parte vuole sottomettere l’attività economica degli individui ad un completo controllo statale; dall’altra avanza la pretesa che la soggettività umana, la volontà umana (nella forma dei monarchi, dei governi, dei führer o dei comitati centrali) debba essere in una certa misura "superiore" rispetto al sistema di mercato e Stato. Al contrario il Liberalismo sosteneva l’iniziativa personale dell’individuo nei confronti dello Stato; ma abbandonava completamente ogni pretesa di superiorità della volontà umana nei confronti del sistema del mercato e del denaro. Tale sistema quindi si autonomizza e si riduce alle cieche leggi del commercio e l’uomo diviene la palla da gioco delle "strutture economiche" e della loro dinamica priva di scopo.

Adam Smith, fondatore della moderna teoria economica su basi liberali, esaltava il sistema dell’economia di mercato totale come una specie di "macchina divina", diretta dal meccanismo cieco ed "autoregolativo" dei prezzi. Analogamente alla rappresentazione del mondo fisica e meccanicistica di Isaac Newton, che aveva interpretato la natura alla stregua di una grande macchina universale, Smith interpretò l’economia come una macchina universale automatica della società, ai cui ingranaggi gli uomini dovevano sottomettersi. Nel frattempo nelle scienze fisiche l’immagine del mondo meccanicistica è tramontata ormai da tempo, ma in campo economico l’umanità è rimasta ancora alla visione meccanicistica del 18° secolo, che si è "oggettivata" nelle forme della riproduzione sociale. Il Liberalismo così si segnala per questa colossale contraddizione: la "libertà" sociale dell’individuo coincide perfettamente con la totale ed incondizionata capitolazione di tutti gli individui davanti ad una cieca, indiscutibile macchina–sociale, al Baal secolarizzato del capitale. In altre parole: a causa delle sue smisurate pretese sulla società l’assolutismo ha scatenato un mostro senza soggetto nella forma di un automatismo economico resosi indipendente, che esso non poteva più dominare essendosi sottratto alla sua sovranità. Il Liberalismo, che pretendeva a gran voce la "libertà" dell’individuo, ha in realtà solo portato a termine l’autonomizzazione di questa "macchina". I liberali non sono nient’altro che i sacerdoti di un idolo automatico che determina per il "processo di ricambio dell’uomo con la natura" (Marx) un irrazionale decorso verso una regolarità meccanicistica.
Il contrasto tra il Liberalismo e l’assolutismo di Stato non è in alcun modo emancipatorio; riflette sempre e solo il paradosso sociale del moderno sistema produttore di merci: la "sovranità" umana opposta alla macchina del mercato deve prendere le forme di un controllo autoritario dello Stato sugli individui oppure la libertà degli individui si riduce ad una sottomissione spontanea della volontà umana al cieco corso della macchina del mercato. Per la maggioranza dell’umanità il conflitto tra assolutismo e liberalismo è irrilevante: per essi vale esattamente la stessa cosa essere vessati ed umiliati da una burocrazia di Stato o dal meccanismo senza soggetto del mercato. Gli uomini dell’Europa Orientale hanno già fatto questa esperienza negli ultimi anni: sono caduti dalla padella della dittatura del socialismo di Stato alla brace della degradazione sociale ad opera del "libero" mercato. Nel 18° secolo e nei primi anni del 19° il Liberalismo non aveva solo il problema di liquidare le pretese dell’assolutismo ma anche quelle delle masse popolari nei riguardi della propria autonomia sociale. Fu ben presto chiaro che era impossibile costringere gli uomini a trasformarsi in materiale del "mercato del lavoro" sottomettendo così l’astratta forza–lavoro alle leggi della domanda e dell’offerta, solo attraverso repressione, polizia, esercito, patibolo e galere. Perciò il Liberalismo iniziò ad accompagnare la repressione con la "pedagogia" popolare e industriale. Se i primi liberali avevano applicato il concetto di " responsabilità personale " a sé stessi nella veste di "agenti" di un capitalismo individuale in seguito questo concetto fu esteso al "materiale umano". Fu un operazione di colossale cinismo: uomini espropriati integralmente di ogni controllo sulle loro condizioni di vita, sia materiali che sociali, dovevano dimostrarsi "personalmente responsabili" proprio convertendosi spontaneamente in "bestie da lavoro" del mercato, agognando senza dignità "posti di lavoro", anche sotto condizioni miserabili.

Uno dei più grandi ideologi di questa pedagogia liberale nazionale fu Jeremy Bentham (1748–1832), fondatore della "filosofia utilitaristica". L’"anelito dell’uomo verso la felicità" si doveva tradurre nell’impulso ad integrare tutte le espressioni della vita nello scopo della valorizzazione del capitale. Per indurre gli uomini a vedere in ciò la propria "felicità" e quindi a rendersi "utili" per il mulino capitalistico Bentham progettò una particolare casa di disciplina, il cosiddetto Panoptikon.
Che cos’è il Panoptikon? Lo stesso Bentham sostiene che si tratta di un paradigma valido per le prigioni, come per le fabbriche, gli uffici, i sanatori, le scuole, le caserme, gli istituti educativi e via dicendo. Il Panoptikon dal punto di vista architettonico consiste di un complesso circolare di edifici al cui centro si trovano le nicchie degli "ispettori" (munite di cortine) e alla periferia le celle dei prigionieri e degli allievi separate tra loro. Molte prigioni e "case di lavoro" del 19° secolo furono costruite secondo questo modello. Tale disposizione aveva lo scopo raffinato di poter osservare permanentemente i prigionieri e tenerli quindi sotto controllo senza che essi si rendessero conto se la nicchia dell’ispettore fosse realmente occupata. Gli occupanti dovevano comportarsi automaticamente e in ogni momento come se fossero spiati, anche quando non lo erano realmente.
Il Panoptikon che per Bentham era un modello ideale della società dell’economia di mercato altro non era che una "macchina della responsabilità personale" liberale, per condizionare gli individui ad un comportamento conforme al mercato. I meccanismi della sottomissione e dell’auto–rinnegamento dovevano diventare un "contrassegno interiore del comportamento" degli uomini. Questa dittatura formativa liberale si obbiettivò in strutture architettoniche ed organizzative in segni e meccanismi psichici. Gli imperativi capitalistici, così scrisse il filosofo Michel Foucault nel suo libro Sorvegliare e punire (1976) sul Panopticon, appaiono "in una concertata disposizione di corpi, superfici, luci, sguardi,…in una apparecchiatura, i cui meccanismi interni stabiliscono una relazione in cui gli individui sono imprigionati". Bentham inseguì ininterrottamente il perfezionamento del suo apparato sociale di addestramento degli uomini. E’ l’inventore della detenzione in isolamento, delle carte di identità, delle targhette di riconoscimento, dei giganteschi uffici. Nel 1804 propose di tatuare tutti gli inglesi con un numero.
Contemporaneamente Bentham era un fervente democratico. Dal domestico al ministro dovevano tutti allo stesso modo concorrere al "pubblico autocontrollo", cioè osservare sé stessi e gli altri, per caricare quotidianamente, collettivamente l’orologio dell’auto repressione. Kant, il maggior filosofo dell’Illuminismo, aveva affermato che l’uomo doveva "uscire dalla minorità causata da sé stesso e servirsi del suo intelletto senza la guida di nessuno". Grazie a Bentham diviene palese il significato recondito di questo imperativo: che ognuno sia poliziotto, educatore, secondino e imprenditore nei confronti di sé stesso! L’autoregolativa macchina universale del mercato utilizza in modo autoregolativo e cibernetico gli individui che vi si sono adattati.
Bentham ha preconizzato l’incubo orwelliano di 1984 circa 200 anni prima, ma come progetto reale. Ironicamente oggi il mondo liberal–democratico interpreta 1984 come un ammonimento contro il totalitarismo (statale), senza rendersi conto che esso stesso da lungo tempo è il prodotto di un lavaggio del cervello totalitario e liberale.
Oggi tutti noi ci comportiamo "auto-regolativamente" come robot della responsabilità personale dell’economia di mercato. Quell’antico concetto di "libertà" cui mirava l’autonomia sociale appare oggi primitivo e preindustriale. Naturalmente noi non possiamo e non vogliamo ritornare ad un angusto modo di vivere agrario, da contadini ed artigiani. Ma il prezzo del progresso deve consistere nella degradazione sociale dell’uomo a "cane di Pavlov" della macchina del mercato? Davvero l’umanità è incapace di regolare le moderne forze produttive attraverso l’autodeterminazione e il cosciente accordo, invece di consegnarsi ad un cieco automatismo economico? L’assolutismo di mercato non rappresenta un’alternativa all’assolutismo di Stato. Il nostro compito per il 21° secolo è quello di reinventare l’antico concetto di "libertà sociale" contro la "libertà orwelliana" del liberalismo.

- di Robert Kurz - Pubblicato nel 1997 su "Folha de Sao Paulo"

fonte: EXIT!

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